Vigo, Jean (propr. De Vigo, Jean)
Regista cinematografico francese, nato a Parigi il 26 aprile 1905 e morto ivi il 5 ottobre 1934. Con pochissimi film, questo poeta delle immagini, quasi consumatosi e immolatosi all'urgenza e alla fatica di una creatività prorompente, ha lasciato una lezione di cinema che non ha perso con il tempo la sua forza trasgressiva. Ariosità lirica, febbre anarchica, tenerezza disperata percorrono i suoi film, poetici, densi di gioia come di dolore e di un senso della bellezza presaga di caducità, eppure vitali nella loro tensione limpida e pura. La vita breve, la salute malferma, la lotta per difendere una concezione del cinema come luogo della libertà visionaria hanno amplificato il sentimento tragico racchiuso in un'opera divenuta leggenda dopo la sua prematura fine.
Suo padre Eugène, un anarchico di origine basca noto come Miguel Almereyda, nell'agosto 1917, in una fase della Prima guerra mondiale molto critica per la Francia, fu incriminato per alto tradimento e imprigionato, e pochi giorni dopo venne trovato morto nella sua cella. L'infanzia di V. fu segnata da questa tragedia, mai chiarita, che lo destinò a una vocazione di ribelle, fin dagli anni del collegio di Millau (1918-1922), la cui soffocante atmosfera sarebbe stata in seguito da lui evocata in Zéro de conduite (1933; Zero in condotta), contrapponendole la furia libertaria della rivolta infantile. Tra il 1923 e il 1925 studiò al liceo Saint-Marceau di Chartres, dove cominciò a coltivare un vivo interesse per lo sport, nonostante il suo fragile stato di salute. Infatti era già minato ai polmoni, e nel 1926 si ricoverò in un sanatorio sui Pirenei, a Font-Romeu, dove conobbe la polacca Elisabeth Lozinska, detta Lydu, che sposò nel 1929, e con cui condivise la passione per il cinema che lo invase fin da quegli anni. Trasferitosi a Nizza, scelta per il suo clima salubre, girò il cortometraggio à propos de Nice (1929). Cristallino esempio di lucida visionarietà applicata al montaggio, il film è un atto di odio-amore per il pulsare della vita nizzarda, e rende allucinatori i ritmi fatui e decomposti della borghesia cittadina facendoli precipitare in un febbrile intreccio di immagini, e spingendo l'attitudine documentaristica verso una forma analoga a quella delle opere di Dziga Vertov; non a caso il fratello di quest'ultimo, l'operatore Boris A. Kaufman, di V. fu strettissimo collaboratore artistico. V. fondò poi un cineclub, Les amis du cinéma, e accettò da parte della Gaumont-Franco-Film-Aubert la commissione di un breve documentario, Taris ou la natation (1931), noto anche con altri titoli (Taris, roi de l'eau; Taris, champion de natation; La natation, par Jean Taris, champion de France). Sullo spunto didattico (illustrare le te-cniche di un campione di nuoto) egli elabora una dinamica ritmica e visuale in cui lo slancio del corpo, il dipanarsi del tempo (accelerato o rallentato), le 'figure' natatorie, la scelta dei piani, delle simmetrie e delle angolazioni, l'energia fluida dell'elemento acquatico e del movimento fisico, contengono in nuce le suggestioni visive che sarebbero state poi riversate in L'Atalante (1934). V. progettò anche Tennis, mai realizzato, che avrebbe dovuto mettere in contrappunto i giochi di un gruppo di bambini con i colpi della racchetta del campione Henri Cochet.Il contrasto tra lo slancio fantastico e il senso di libertà e di onnipotenza magica propri del mondo infantile, e l'ottusità autoritaria, l'implacabile segregazione e le regole inculcate proprie del mondo degli adulti, costituiscono la materia poetica del mediometraggio Zéro de conduite, un inno libertario allo scardinamento visionario dei sensi, rappresentato dal potere immaginario del cinema in forma lirica e tragica, giocosa e dolorosa a un tempo. Di fronte a questo capolavoro di grazia e di furia visiva, non si può prescindere dalla biografia di V., dalla sua tormentata infanzia, dalla sua sete di vita e insieme dalla sua ansia di bruciare le energie psicologiche e fisiche, riversandole nell'enfasi delle immagini. L'insurrezione dei collegiali contro i maestri, i notabili e il direttore (interpretato da un nano) costituisce un vero e proprio 'assalto al cielo', simboleggiato nel finale, che vede i ragazzini asserragliati sui tetti: la rivolta diventa metafora pregnante della libertà creativa, della sua forza crudele e felice, feroce e innocente. Tutto ciò viene espresso con una tale carica di verità e di fisicità (si pensi alla sequenza della 'battaglia dei cuscini') da segnare il destino esemplare di questo film irriverente e libero: accusato dal governo di essere 'antifrancese' e sottoposto a censura, poté uscire nei normali circuiti solo nel 1945, ma divenne un'opera di culto per i cineasti della Nouvelle vague, e un esempio imprescindibile per tutti gli innovatori del cinema.
Di nuovo ammalato, V. girò poi L'Atalante, il suo unico lungometraggio e il suo 'canto del cigno'. Capolavoro 'maledetto' e di fatto incompiuto (il regista non poté terminare il montaggio), subì tagli dai distributori e uscì rimaneggiato con il titolo Le chaland qui passe (dal titolo francese della canzone Parlami d'amore Mariù di Cesare Andrea Bixio, inserita contro il parere di V. tra le musiche del film, composte da Maurice Jaubert); fu un fallimento commerciale, e restò invisibile per lungo tempo nella sua forma integrale. Nel 1940 e nel 1950 ne furono approntate due ricostruzioni, integrate da alcune delle scene tagliate, rispettivamente da Henri Beauvais e Henri Langlois, e fu quindi restaurato con perizia filologica nel 1990. Nel film tutta la convulsa bellezza dell'amour fou vagheggiato dai surrealisti si diffonde in un sentimento delle cose, della natura fisica, dei corpi e dei gesti amorosi, del delirio seduttivo e dell'impeto degli elementi, in una assoluta purezza espressiva, esente da ogni sentimentalismo o psicologismo, affidata solo alla folgorante luminosità della cifra visiva. A bordo della chiatta che scivola sul fiume governata da un vecchio marinaio (Michel Simon), e nel labirinto della città, si dipana la storia di passione, perdita e ritrovamento tra due giovani sposi, immersa in un clima di dolcezza e insieme di furia, pervasa da immaginazione poetica e percorsa da accensioni surreali. Indimenticabili restano le sequenze subacquee con l'apparizione della sposa fluttuante nel suo abito bianco, il delirio dello sposo che vagabonda per le vie di Le Havre, la danza grottesca e inquietante del marinaio, che si infila una sigaretta accesa nell'ombelico.
I testi cinematografici di V. (sceneggiature, soggetti non realizzati, articoli) sono stati raccolti nel 1985 in Œuvre de cinéma. Su di lui Jacques Rozier ha girato il documentario Jean Vigo (1964).
P.E. Sales Gomes, Jean Vigo, Paris 1957 (trad. it. 1979).
J.M. Smith, Jean Vigo, London 1972.
M. Grande, Jean Vigo, Firenze 1979.
W.G. Simon, The films of Jean Vigo, Ann Arbor (MI) 1981.
P. Lherminier, Jean Vigo, Paris 1984.