Jobs act e processo
Il cd. Jobs Act ha ridefinito i confini delle tutele nei confronti dei licenziamenti illegittimi, collocandosi nel solco tracciato dalla l. n. 92/2012 e assottigliando ulteriormente gli spazi della tutela reintegratoria, anche con interventi sull’onere della prova. Con riguardo alle norme processuali, si segnala l’abbandono del rito specifico accelerato per l’impugnativa dei licenziamenti, che continuerà ad applicarsi a tutte le controversie pendenti, nonché a quelle originate da contratti non soggetti alla disciplina delle cd. tutele crescenti. Una nuova disciplina per la definizione conciliativa delle controversie sui licenziamenti, basata su un sistema di incentivi fiscali, rafforza l’intento deflattivo perseguito dal legislatore.
Una delle deleghe contenute nella l. 10.12.2014, n. 183, con cui il Parlamento chiamava il Governo ad adottare misure in materia di riforma degli ammortizzatori sociali, dei servizi per il lavoro e delle politiche attive, nonché in materia di riordino della disciplina dei rapporti di lavoro e dell’attività ispettiva e di tutela e conciliazione delle esigenze di cura, di vita e di lavoro – cd. Jobs Act – è stata attuata dal d.lgs. 4.3.2015, n. 23, il cui centro nevralgico è costituito dall’introduzione della disciplina del nuovo contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti1, e che contiene alcune significative novità in tema di processo e di strumenti di deflazione del contenzioso.
La prima, nel senso di principale per importanza applicativa e rilievo sistematico, contenuta nell’art. 11 d.lgs. n. 23/2015, consiste nell’esclusione dell’applicazione del rito specifico accelerato (cd. rito Fornero) per le azioni di impugnativa del licenziamento intimato a lavoratori assunti con la nuova forma di contratto a tutele crescenti (cioè dopo il 7 marzo 2015), ovvero i cui contratti (a tempo determinato o di apprendistato) siano stati convertiti in contratto a tutele crescenti, ovvero ancora assunti prima del 7 marzo 2015, ma il cui datore di lavoro abbia raggiunto, a seguito di nuove assunzioni soggette alla nuova disciplina, il requisito dimensionale di cui all’art. 18, co. 8 e 9, st. lav.
Tra le nuove chiavi di accesso alla angusta porta della tutela in forma specifica del rapporto di lavoro, si segnala la previsione, contenuta nell’art. 3, co. 2, d.lgs. n. 23/2015, e riferita alle azioni di impugnativa del licenziamento disciplinare illegittimo, secondo cui «esclusivamente nelle ipotesi di licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, rispetto alla quale resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento, il giudice annulla il licenziamento e condanna il datore di lavoro alla reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro e al pagamento di un’indennità risarcitoria».
Quanto agli strumenti di deflazione del contenzioso, accanto alla previsione dell’art. 3, co. 3, d.lgs. n. 23/2015, a norma del quale ai licenziamenti di cui all’art. 1 non si applica la procedura di conciliazione preventiva e necessaria prevista dall’art. 7 l. 15.7.1966, n. 604, come riformulato dall’art. 1, co. 4, l. 28.6.2012, n. 92, viene in rilievo l’art. 6, che reca la nuova disciplina dell’offerta di conciliazione in caso di licenziamento di lavoratori assoggettati alla disciplina delle tutele crescenti.
Il legislatore, forse sollecitato dai pessimi risultati in termini di certezza delle regole e “tenuta” del sistema2, ha scelto di ridurre l’operatività del rito specifico accelerato che, ai sensi dell’art. 11 d.lgs. n. 23/2015, non si applicherà alle impugnative dei licenziamenti intimati a lavoratori soggetti alle nuove norme del cd. Jobs Act, per i quali varranno le regole ordinarie del rito del lavoro di cui agli art. 414 ss. c.p.c.
Considerando che la riforma avviata con la l. delega n. 183/2014 non ha inciso sull’art. 18 st. lav., che continua a regolare i regimi di tutela da recesso di contratti di lavoro stipulati sino al 6 marzo 20153, il rito cd. Fornero continuerà a trovare potenziale applicazione fino a che non sarà stato posto in quiescenza l’ultimo lavoratore ad aver concluso un contratto di lavoro a tempo indeterminato4 non soggetto al regime delle tutele crescenti.
La duplicità del regime processuale di impugnativa dei licenziamenti è stata da più parti segnalata come del tutto irragionevole, vuoi sotto il profilo della sovrapponibilità (parziale) delle forme di tutela apprestate dall’art. 18 st. lav. e dal d.lgs. n. 23/2015, vuoi sotto quello dei possibili problemi che si porranno in caso di simultaneus processus tra più azioni di impugnativa soggette a riti diversi, il che non pare affatto un’ipotesi remota, considerando l’applicabilità del rito cd. rito Fornero ai licenziamenti collettivi5.
Per un verso, la previsione che esclude expressis verbis l’operatività del rito specifico rispetto alle impugnative dei licenziamenti di lavoratori assoggettati alla disciplina del Jobs Act potrebbe apparire superflua, considerando che il rito cd. Fornero si applica alle impugnative regolate dall’art. 18 st. lav. e che la riforma del 2015 reca una disciplina nuova ed autonoma per la tutela nei confronti del licenziamento illegittimo; per l’altro, l’espressa esclusione, dettata dalla esigenza di evitare letture estensive delle norme di cui all’art. 1, co. 47 ss., l. n. 92/2012, potrebbe suscitare dubbi di legittimità costituzionale per mancanza di delega sul punto, ex art. 76 Cost.
La scelta di escludere, per i nuovi contratti a tutele crescenti, l’applicazione del tentativo obbligatorio di conciliazione previsto dall’art. 7 l. 15.7.1966, n. 604 per i licenziamenti intimati per giustificato motivo oggettivo da datori di lavoro dotati del requisito dimensionale di cui all’art. 18, co. 8, st. lav., appare altresì irragionevole, giacché la finalità della norma era (e continua ad essere, per i lavoratori assoggettati al regime diverso da quello delle tutele crescenti) quella di incentivare la conciliazione quando il licenziamento per giustificato motivo oggettivo è annunciato, ma non ancora intimato, facendo leva sul fatto che il lavoratore sa che, anche in sede giudiziale, non potrà ottenere altro che una somma di denaro; pur prendendo atto dell’idea del legislatore di promuovere il passaggio della composizione non contenziosa attraverso l’offerta conciliativa dell’art. 6 d.lgs. n. 23/2015, la cui applicazione ha certamente una portata più ampia e che è dotata di una forza incentivante – fondata su agevolazioni fiscali – certamente maggiore, una forma avrebbe potuto concorrere senza troppe complicazioni con l’altra.
L’intervento sulla distribuzione dell’onere della prova, in realtà, cela in sé un’ipotesi residuale di tutela reale in caso di licenziamento disciplinare (per giusta causa o per giustificato motivo soggettivo), subordinata al fatto che il lavoratore sia in grado di fornire in giudizio la prova dell’inesistenza del fatto materiale contestato dal datore di lavoro nel provvedimento espulsivo: l’uso della locuzione «direttamente dimostrata» pone non pochi problemi interpretativi6.
Le perplessità manifestate nei confronti della tecnica legislativa non appaiono di poco conto, soprattutto se si considera che esse riguardano il rischio di una lesione del principio di effettività della tutela giurisdizionale, nonché l’eccesso di delega per contrasto con l’art. 76 Cost., ma appare certo che il legislatore abbia voluto collocarsi nel solco tracciato, per mano della l. n. 92/2012, dall’art. 18, co. 4, st. lav., con Cass. 6.,11.2014, n. 236697 a fare da trait d’union.
Anzi, sembrerebbe che la volontà del legislatore sia stata quella di eliminare le ambiguità che hanno caratterizzato il testo dell’art. 18, co. 4, st. lav., chiarendo che ad essere determinante è «il fatto materiale», esclusa «ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento».
L’intervento sul processo da parte del legislatore del Jobs Act appare frastagliato e pone non secondari profili problematici.
Sul piano generale balza all’occhio il difetto di delega, giacché la l. n. 183/2014 demandava al Governo, al fine di «rafforzare le opportunità di ingresso nel mondo del lavoro da parte di coloro che sono in cerca di un’occupazione» (art. 1, co. 7), l’introduzione, per i nuovi assunti, di un «contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti in relazione all’anzianità di servizio», senza manifestare alcun riferimento a riforme processuali.
Con riferimento alla progressiva erosione degli spazi applicativi del rito specifico accelerato, non è certo la prima volta che il legislatore opta per un repentino dietrofront rispetto all’introduzione di un nuovo modello di processo, sempre ispirato dall’esigenza di velocizzare e semplificare l’iter che conduce all’accertamento giudiziale e puntualmente in grado di deludere amaramente le aspettative degli operatori del diritto8.
Tuttavia, nel caso del rito per l’impugnativa dei licenziamenti, che ha sinora dato una pessima prova di sé, la coabitazione di un doppio regime processuale è destinata ad incrementare le complicazioni che già affannano coloro i quali, dal luglio 2012, sono stati chiamati ad applicarlo.
Con riferimento alla disciplina dell’onere della prova nelle controversie aventi ad oggetto azioni di impugnativa di licenziamento, la scelta del legislatore del 2015 segna ormai una decisa inversione di rotta rispetto all’art. 5 l. n. 604/1966, che assegna l’onere di provare l’esistenza della giusta causa o del giustificato motivo del recesso al datore di lavoro; la previsione deroga al principio generale secondo cui chi agisce in giudizio deve provare i fatti posti a fondamento della propria domanda, ma, come evincibile dai lavori preparatori, intendeva ed intende realizzare una forma di tutela del lavoratore nel processo, tale da compensare – almeno sotto questo profilo – la disparità economicosociale esistente tra le parti in causa9.
È chiaro però che, rispetto al quadro esistente sino al 2012 – id est sino alla riforma dell’art. 18 st. lav. –, ulteriormente mutato nel 2015 con il sistema delle tutele crescenti, qualunque valutazione in ordine alla ripartizione dell’onere della prova della giusta causa e del giustificato motivo di recesso deve fare i conti con le forme di tutela conseguibili dal lavoratore, giacché, oggi, il licenziamento, tranne che per ipotesi residuali, è sempre in grado di sciogliere il rapporto di lavoro, salva la possibilità per il lavoratore di ottenere, in caso di sua illegittimità, un equivalente monetario di varia entità. La relegazione della tutela in forma specifica ad un’ipotesi rara (pur nella consapevolezza che, anche nel regime della originaria formulazione dell’art 18 st. lav., la maggioranza dei lavoratori aventi diritto alla reintegra optava comunque per il rimedio pecuniario) sembra giustificare, quanto meno sul piano ideologico, le scelte del legislatore, che pure, sul piano della tecnica processuale, pongono una serie di problemi interpretativi.
Da ultimo, con riferimento all’offerta conciliativa, si tratta di uno strumento di deflazione del contenzioso originato da recessi valutati come illegittimi, destinato ad aver successo per almeno due ordini di ragioni: se è vero che a fronte della prospettiva di reintegra, la somma di denaro non è dotata di particolare attrattività per il lavoratore, è anche vero che l’esiguità dei casi in cui la reintegra è conseguibile renderà particolarmente appetibile l’offerta; inoltre, pur dovendo aver luogo, per essere inoppugnabile, in una delle sedi di cui all’art. 2113, co. 4, c.c. o all’art. 76 d.lgs. 10.9.2003, n. 276, la conciliazione è sostenuta, oltre che da una esenzione contributiva, anche da una forte esenzione fiscale che si estende sino alle diciotto mensilità e che, comunque, non sembra precludere offerte maggiori.
Peraltro, l’applicazione dell’offerta conciliativa riguarda lavoratori che, in caso di impugnativa giudiziale, non possono servirsi del rito specifico accelerato (che, pur tra mille peripezie, ha consentito nella prassi una decisione, pur sommaria, in tempi rapidi): la spinta verso l’utilizzazione dell’offerta conciliativa deve essere accompagnata dalla disincentivazione del processo e quindi diventa ancor più conveniente se questo si svolgerà in tempi non brevi.
L’esclusione dell’applicazione del nuovo rito specifico accelerato per l’impugnativa dei licenziamenti intimati nei confronti di lavoratori assoggettati al regime delle tutele crescenti lascia intatto il legame tra rito cd. Fornero e art. 18 st. lav., entrambi destinati a sopravvivere e a trascinarsi fino a quando i lavoratori (operai, impiegati e quadri) assunti con contratto ex art. 1, d.lgs. n. 23/2015 non avranno soppiantato integralmente quelli inquadrati con la precedente disciplina.
La tutela in caso di licenziamento illegittimo – secondo le forme del rito specifico accelerato ovvero secondo quelle del rito del lavoro ex art. 414 ss. c.p.c. – si estende anche ai casi di licenziamenti collettivi: l’art. 5, co. 3, l. 23.7.1991, n. 223 è stato modificato proprio dall’art. 1, co. 46, l. n. 92/2012 e reca adesso un espresso richiamo al regime di tutela dell’art. 18, co. 1, 4, 7, terzo periodo, st. lav., dal che si è desunta l’applicabilità del rito cd. Fornero alle azioni volte ad impugnarli10.
Del pari non si ravvisano motivi per escludere l’applicazione del regime delle tutele crescenti in caso di licenziamento collettivo e, tuttavia, tale circostanza porrà certamente problemi di coordinamento tra controversie aventi il medesimo oggetto, destinate però ad esser trattate con riti differenti, sulla base della data di assunzione.
Con riferimento all’impiego pubblico, il testo dell’art. 1, co. 78, l. n. 92/2012 sembrerebbe consentire l’applicabilità del rito Fornero, mentre lascia ancora in una situazione di incertezza gli interpreti per quel che riguarda la disciplina sostanziale contenuta nel riformato art. 18 st. lav.
Sul punto, le indicazioni provenienti dalla giurisprudenza di legittimità sono contrastanti, considerando che, con una prima decisione di fine 2015 della VI sezione, la Cassazione ha sancito che in caso di licenziamento disciplinare nullo per violazione di norma imperativa, vada riconosciuta al pubblico dipendente la tutela reintegratoria, anche alla luce della riforma Fornero, applicabile al lavoro pubblico contrattuale11.
A metà del 2016, la sezione lavoro della Cassazione ha invece stabilito che «le modifiche apportate dalla l. n. 92 del 2012 all’art. 18 l. n. 300 del 1970 non si applicano ai rapporti di pubblico impiego privatizzato, sicché la tutela del dipendente pubblico, in caso di licenziamento illegittimo intimato in data successiva all’entrata in vigore della richiamata l. n. 92, resta quella prevista dall’art. 18 st. lav. nel testo antecedente la riforma; rilevano a tal fine il rinvio ad un intervento normativo successivo ad opera dell’art. 1, 8º comma, l. n. 92 del 2012, l’inconciliabilità della nuova normativa, modulata sulle esigenze del lavoro privato, con le disposizioni di cui al d.lgs. n. 165 del 2001, neppure richiamate al comma 6 dell’art. 18 nuova formulazione, la natura fissa e non mobile del rinvio di cui all’art. 51, 2º comma, d.lgs. n. 165 del 2001, incompatibile con un automatico recepimento di ogni modifica successiva che incida sulla natura della tutela del dipendente licenziato»12.
Per quanto riguarda l’applicazione del regime delle tutele crescenti al settore pubblico, a favore della tesi positiva si evidenzia la mancanza, nella legge delega, di esplicita esclusione del lavoro alle dipendenze della pubblica amministrazione, soggetto alla generale disciplina del rapporto di lavoro ex artt. 51 e 2 d.lgs. 30.3.2001, n. 165.
L’opinione contraria sembra però preferibile, considerando che il d.lgs. n. 23/2015 si riferisce anche ai lavoratori con la categoria di quadri (art. 1, co. 1), inesistente nel lavoro pubblico, e sul fatto che sempre la stessa disposizione non comprende i dirigenti, per i quali, secondo giurisprudenza consolidata, trova applicazione, se pubblici, l’art. 18 st. lav.
Dunque, se il Jobs Act si applicasse ai nuovi operai ed impiegati pubblici, si avrebbe la conseguenza irragionevole per la quale godrebbero della tutela dell’art. 18, originaria o modificata dalla l. n. 92/2012, soltanto i nuovi dirigenti e non i dipendenti con inquadramento inferiore. Inoltre, manca, con riguardo alla pubblica amministrazione, la ratio riduttiva dell’occupazione e d’incentivo alle assunzioni a tempo indeterminato sottesa alla disciplina ed espressa nell’art. 1, co. 7, l. n. 183/2014; peraltro, tale soluzione, pur preferibile, pone il problema di compatibilità con i principi di buon andamento e imparzialità dell’amministrazione di cui all’art. 97 Cost., in quanto impone differenti regimi di tutela sulla base della mera differenza temporale di assunzione13.
Sembra pertanto utile riassumere brevemente i confini dell’applicazione residuale del rito specifico accelerato, notando che, curiosamente, l’assegnazione delle controversie in materia di impugnazione del licenziamento ad un rito (quello Fornero) o all’altro (quello del lavoro ex art. 414 ss. c.p.c.) non dipende soltanto dal momento di proposizione della domanda, ma anche da fattori esterni, tra i quali, principalmente, la data di assunzione del lavoratore.
In particolare:
i) le cause iniziate prima del 18 luglio 2012 (data di entrata in vigore della l. n. 92/2012) seguono il rito del lavoro ex art. 414 ss. c.p.c.;
ii) le cause iniziate dopo il 18 luglio 2012 seguono il rito specifico accelerato14;
iii) le cause iniziate dopo il 7 marzo 2015:
• seguono il rito specifico accelerato, se relative a licenziamenti di lavoratori assunti prima di tale data;
• seguono il rito del lavoro, se relative a licenziamenti di lavoratori assunti dopo tale data;
• seguono il rito del lavoro ex art. 413 ss. c.p.c., se relative a licenziamenti di lavoratori assunti prima di tale data, ma con contratti a tempo determinato o di apprendistato convertiti in contratti a tempo indeterminato dopo tale data;
• seguono il rito del lavoro ex art. 413 ss. c.p.c., se relative a licenziamenti di lavoratori assunti prima di tale data, qualora il datore di lavoro, in conseguenza di assunzioni a tempo indeterminato avvenute successivamente, integri il requisito occupazionale di cui all’art. 18, co. 8-9, st. lav.15
Certamente, la scelta del legislatore di assoggettare a riti diversi controversie di lavoratori che, in taluni casi, possono accedere alla medesima forma di tutela offre il fianco ad un’evidente eccezione di irragionevolezza.
Ancor più irragionevole appare la scelta se si pone mente alle ipotesi di vicende collettive riguardanti licenziamenti coinvolgenti lavoratori assoggettati a diversi regimi di tutela (e quindi le cui controversie saranno trattate con forme diverse). Si pensi all’impugnazione giudiziale per violazione dei criteri di scelta da parte di più lavoratori (pre e post Jobs Act) e quindi soggetti a regime processuale differente, per decidere la quale sono più che opportune l’uniformità di regole processuali e di corsie e la trattazione unitaria di controversie promosse avanti lo stesso giudice: basti pensare alla necessità della valutazione dei criteri delle esigenze dell’impresa, dell’anzianità e del carico di famiglia rispetto ai quali i lavoratori, assunti prima e dopo l’entrata in vigore del decreto legislativo ma interessati dalla medesima operazione riduttiva del personale, sono in conflitto tra di loro. Ebbene, la diversità di rito e la nota mancanza di regolamentazione, nel contesto della legge Fornero, non solo della disciplina del mutamento del rito, ma anche della connessione, sembrerebbe impedire il simultaneus processus.
Il progressivo abbandono del rito specifico accelerato determinerà probabilmente un nuovo incremento del ricorso alla tutela cautelare d’urgenza, i cui spazi applicativi si erano obiettivamente ridotti16.
La coesistenza del doppio regime processuale per l’impugnativa dei licenziamenti produrrà, inevitabilmente, un aumento dei casi di errore sul rito, con le conseguenti questioni circa l’applicabilità, nel silenzio della disciplina dell’art. 1, co. 47 ss., l. n. 92/2012, degli art. 426 e 427 c.p.c. o dell’art. 4, d.lgs. 1.9.2011, n. 15017.
Da ultimo, appare illogica l’esclusione, per le impugnative dei licenziamenti soggette alle regole del Jobs Act, della cd. corsia preferenziale di cui all’art. 1, co. 63 e 65, l. n. 92/2012.
La previsione contenuta nell’art. 3, co. 12, d.lgs. n. 23/2015, deve essere letta in combinato disposto con il co. 1, nonché con l’art. 5 l. n. 604/1966.
Ne scaturisce una norma secondo cui la mancata prova della giusta causa o del giustificato motivo soggettivo o oggettivo del licenziamento disciplinare, il cui onere continua a gravare sulla parte datoriale (art. 5 l. n. 604/1966), determina comunque l’estinzione del rapporto di lavoro alla data del licenziamento e la condanna del datore di lavoro al pagamento di un’indennità non assoggettata a contribuzione previdenziale.
Nel solo caso in cui il lavoratore riesca a dimostrare «direttamente» l’insussistenza del fatto materiale posto a fondamento della giusta causa o del solo giustificato motivo soggettivo, vale a dire un fatto negativo – con le intuibili difficoltà di riuscirci –, questi potrà accedere alla ormai rarissima tutela in forma specifica di tipo reintegratorio, conseguente alla dichiarazione di annullamento del licenziamento da parte del giudice.
Il legislatore ha dunque tipizzato l’unica ipotesi di «fattispecie di licenziamento disciplinare» (a fronte del plurale adoperato dall’art. 7, lett. c, l. n. 183/2014: «specifiche fattispecie») nella quale è previsto il diritto alla reintegra.
È stata evidenziata l’anomalia cui dà luogo una tale previsione, considerato che in un giudizio avente ad oggetto un’azione costitutiva, qual è, secondo buona parte degli interpreti, quello con cui si deduce in giudizio l’illegittimità del licenziamento, l’onere della prova negativa dell’esistenza del fatto contestato sia imputato ad un soggetto diverso da quello che ha esercitato il potere sostanziale (di recesso)18.
Non c’è dubbio che la norma rischi di gravare il lavoratore, che ambisca alla tutela reintegratoria, di una probatio diabolica, senza considerare il fatto che la regola sul riparto dell’onere probatorio «“deve tenere conto anche del principio – riconducibile all’art. 24 cost. e al divieto di interpretare la legge in modo da rendere impossibile o troppo difficile l’esercizio dell’azione in giudizio – della riferibilità o vicinanza o disponibilità dei mezzi di prova” (Cass., 6 giugno 2012, n. 9099)»19.
Nell’ambito di una impugnativa di licenziamento disciplinare, occorrerà sempre tener distinto il fatto materiale posto a fondamento della giusta causa o del giustificato motivo soggettivo da altri fatti rilevanti ai fini della forma di tutela conseguibile (si pensi al numero di dipendenti dell’impresa ecc.); una volta individuato il fatto materiale contestato, si apre un ventaglio di ipotesi:
a) il datore di lavoro riesce a dimostrare il fatto materiale
e dunque:
• il licenziamento è legittimo, perché il fatto è rilevante giuridicamente come legittima causa di recesso, oppure
• il licenziamento è illegittimo, perché ad esempio è sproporzionato rispetto al fatto, con la conseguenza che opererà soltanto la tutela obbligatoria forte e il giudice dichiarerà comunque risolto il rapporto di lavoro;
b) il datore di lavoro non riesce a dimostrare il fatto materiale e
• il lavoratore riesce a fornire la prova diretta della sua inesistenza, accedendo dunque alla tutela reale, oppure
• il lavoratore non riesce a fornire la prova diretta della sua inesistenza, accontentandosi del rimedio per equivalente e rassegnandosi alla pronuncia di scioglimento del contratto di lavoro.
Sennonché, tra le maglie della previsione legislativa, si annida un ampio numero di ipotesi, difficilmente prevedibile senza adeguati riscontri pratici: nella insussistenza del «fatto materiale contestato» rientra qualunque condotta, commissiva od omissiva, posta in essere dal soggetto cui viene contestato l’illecito disciplinare.
Talora l’illecito prevede non solo una condotta, ma anche un evento da questa determinato, sicché del concetto di fatto materiale faranno parte in tal caso anche l’evento e il rapporto di causalità tra la prima ed il secondo.
Ne consegue che ai fini della prova della insussistenza del fatto materiale contestato sarebbe sufficiente accertare che anche uno solo tra condotta, evento e rapporto eziologico tra condotta ed evento non sussista.
Il termine «contestato», oltre a presupporre che una contestazione debba esservi stata, ha anche la funzione di collegare il fatto ad un soggetto: se una condotta viene contestata ad un lavoratore, ma poi si accerta che l’ha commessa un’altra persona, nei confronti del primo il fatto materiale contestato è insussistente; tale collegamento manca anche nell’ipotesi in cui il fatto sia stato effettivamente compiuto da un soggetto, ma questi non sia imputabile.
Inoltre il termine «contestato» e la finalità della previsione, volta a scegliere quale sanzione applicare indicano che si deve trattare di un fatto che abbia rilievo disciplinare, con la conseguenza che fatti non rilevanti ai fini disciplinari sono fatti insussistenti a tal fine.
Certamente meritevole di analisi è l’espressione per cui rispetto al fatto materiale contestato, «resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento». È necessario chiarire che il criterio della proporzionalità del licenziamento disciplinare rispetto all’entità del fatto continua a valere per stabilire se un licenziamento disciplinare sia legittimo: se vi è sproporzione, era e rimane illegittimo.
Con l’inciso su riportato si stabilisce una cosa diversa e cioè che l’eventuale sproporzione della sanzione espulsiva rispetto all’infrazione del lavoratore non potrà mai comportare la tutela forte della reintegrazione nel posto di lavoro, ma si determinerà comunque l’estinzione del rapporto con l’applicazione di un indennizzo, secondo il meccanismo dell’art. 3, co. 1, anche nel caso in cui l’illecito disciplinare sia di minima entità20.
Ad ogni modo, la previsione secondo cui l’inesistenza debba essere «direttamente dimostrata in giudizio» non sembra possa essere ignorata21: il legislatore parrebbe voler escludere la prova indiretta, basata su presunzioni, nonché quella su fatti secondari e sembrerebbe gravare il lavoratore della prova di un fatto negativo, che, però, può consistere soltanto nella prova di fatti positivi contrari e dunque non può che essere indiretta.
Qualcosa in più di un dubbio di legittimità costituzionale parrebbe sorgere, non solo con riferimento all’art. 24 Cost., ma anche con riguardo all’art. 3 Cost., considerando lo squilibrio tra lavoratore e datore di lavoro che, nel giudizio di impugnativa, può servirsi di qualunque mezzo di prova per dimostrare il fatto materiale posto a fondamento della giusta causa o del giustificato motivo.
Il meccanismo congegnato dal legislatore, ammesso che superi il vaglio di costituzionalità diffuso rimesso ai giudici del lavoro, dovrebbe mettere fuori gioco l’interpretazione della «insussistenza del fatto contestato» di cui all’art. 18, co. 4, st. lav., offerta dalla Cassazione, secondo cui «la completa irrilevanza giuridica del fatto equivale alla sua insussistenza materiale e dà perciò luogo alla tutela reintegratoria»22; la più recente affermazione appare in distonia con quanto stabilito da Cass., 6.11.2014, n. 23669 e opera una fusione tra accertamento del fatto e suo effetto giuridico.
Nel quadro del Jobs Act, lo strumento dell’offerta di conciliazione sostituisce il tentativo obbligatorio di conciliazione di cui all’art. 7 l. n. 604/1966 e si affianca, senza sostituirle, alle altre modalità di conciliazione previste dalla legge.
Non si tratta di una nuova forma di alternative dispute resolution (ADR), perché l’accordo è il frutto di una trattativa tra parti private che, mediante reciproche rinunce e concessioni, regolano i rapporti scaturenti dall’esercizio di un diritto potestativo, prevenendone la contestazione o, in sua presenza, evitando che sfoci in un giudizio.
Inoltre, per garantire l’inoppugnabilità dell’accordo, questo deve aver luogo «in una delle sedi di cui all’art. 2113, quarto comma, del codice civile, e all’art. 76 del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276». A ben vedere, sin qui nulla di nuovo. Le novità sono costituite:
a) dal termine per la formulazione della proposta, cioè sessanta giorni dalla comunicazione del licenziamento, il che rivela il chiaro intento deflattivo;
b) dalla funzione del termine, il cui rispetto consente di concludere un accordo economico vantaggioso per le parti, giacché la somma offerta non costituisce reddito imponibile ai fini dell’imposta sul reddito delle persone fisiche e non è assoggettato a contribuzione previdenziale;
c) dal limite minimo e massimo dell’offerta datoriale, compresa tra due e diciotto mensilità;
d) dalla modalità della corresponsione delle somme, per la quale è previsto l’assegno circolare.
L’ambito di applicazione pare generale, nel senso che l’art. 6 sembra poter operare per tutti i licenziamenti, anche se collettivi, intimati a lavoratori (vale a dire quadri, impiegati ed operai, esclusi i dirigenti, in quanto non menzionati, ma la contrattazione collettiva potrà disciplinare diversamente la materia) assunti con contratto di lavoro soggetto al regime delle tutele crescenti23.
Sembra ragionevole escludere dalla sua applicazione il licenziamento dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni: la ratio dell’offerta di conciliazione pare suscettibile di contrasto con l’art. 97 Cost., non potendo il datore di lavoro pubblico licenziare un suo dipendente senza previa valutazione circa la sussistenza di giusta causa o giustificato motivo24.
L’art. 9 d.lgs. n. 23/2015 estende l’istituto alle piccole imprese ed alle organizzazioni di tendenza.
Non sembrano ravvisabili ostacoli all’applicabilità nei confronti dei licenziamenti nulli, orali o discriminatori, dato che proprio con riferimento a casi in cui è altamente probabile l’impugnativa giudiziale da parte del lavoratore, il datore avrà interesse ad evitarne le conseguenze.
Se lo sgravio fiscale costituisce il principale incentivo all’accettazione dell’offerta, non sembra chiaro se il suo godimento possa riguardare anche i casi in cui l’ammontare dell’offerta ecceda il computo delle mensilità rapportate agli anni di servizio del lavoratore; fermo restando che l’ultimo periodo della disposizione prevede che «le eventuali ulteriori somme pattuite nella stessa sede conciliativa a chiusura di ogni altra pendenza derivante dal rapporto di lavoro sono soggette al regime fiscale ordinario», quid iuris, sotto il profilo fiscale, nel caso in cui ad un lavoratore venga offerta una somma pari ad un numero di mensilità che, pur compreso nel numero di diciotto, ecceda gli anni di servizio?
Quanto al limite dell’ammontare, è stabilito tra due e diciotto mensilità della retribuzione utile ai fini del trattamento di fine rapporto e, ferma restando la libertà delle parti di addivenire ad un accordo in misura inferiore o superiore, la legge esclude l’operatività dello sgravio rispetto alle somme eccedenti le diciotto mensilità, e sembra ragionevole escluderlo, pur in mancanza di espressa previsione, nel caso in cui l’offerta sia inferiore a due.
Quanto al termine per la formulazione dell’offerta, esso è coincidente con quello per l’impugnativa stragiudiziale del licenziamento; il datore dunque potrà formulare l’offerta anche dopo la comunicazione della contestazione, da parte del lavoratore, purché entro il termine di sessanta giorni dal proprio recesso. Al fine di conferire un senso alla scelta del legislatore di prevedere un termine, pare preferibile escludere che l’offerta, effettuata a termine scaduto, possa determinare gli effetti voluti dalla norma: certamente potrà essere accettata dal lavoratore e determinare la soluzione conciliativa della controversia, ma difficilmente le parti potranno giovarsi degli incentivi fiscali previsti.
Nessun termine è previsto per l’accettazione, che potrà intervenire in qualunque momento, fino allo spirare del termine per l’impugnativa giudiziale del licenziamento. Se la ratio esplicita è quella di «evitare il giudizio», deve ritenersi che l’eventuale impugnativa giudiziale da parte del lavoratore faccia decadere ipso iure l’offerta, ferma, ovviamente, la possibilità per le parti di conciliare comunque la loro controversia, seppur senza benefici fiscali.
L’accettazione dell’assegno circolare da parte del lavoratore comporta che il rapporto di lavoro si considera cessato alla data del licenziamento, e, qualora l’impugnazione sia stata già proposta, ne comporta rinuncia. L’offerta non potrà dunque in alcun caso essere fatta in sede giudiziale; non può, tuttavia, escludersi che le parti, nell’ambito di una controversia che investa profili di carattere retributivo e rispetto ai quali sopravvenga un licenziamento intimato lite pendente, chiedano di comparire spontaneamente dinanzi al giudice a fini conciliativi e in questa sede il datore di lavoro formuli l’offerta.
L’accettazione dell’offerta, salva, ovviamente, diversa volontà delle parti, non ha effetto rispetto alle altre pretese dedotte in giudizio dal lavoratore ed attinenti a profili risarcitori o retributivi.
Quanto alla forma, sembra preferibile, anche considerando la struttura della norma, ritenerla libera: è sufficiente che il datore di lavoro presenti l’istanza presso uno degli organismi di conciliazione, il quale poi dovrà convocare le parti che potranno farsi assistere o essere rappresentate secondo le consuete regole. Non si ravvisano ragioni per escludere l’applicazione della disposizione di cui all’art. 410, co. 2, c.p.c., secondo cui la comunicazione della richiesta inoltrata alla commissione di conciliazione interrompe la prescrizione e sospende, fino a venti giorni successivi alla conclusione, il decorso di ogni termine di decadenza.
La modalità di corresponsione della somma è predeterminata e consiste nella dazione di un assegno circolare, il che rivela la volontà del legislatore di garantire per il lavoratore l’immediata disponibilità della somma e prevenire eventuali azioni di inadempimento; non è chiaro se l’uso di altri metodi di pagamento possa considerarsi neutro rispetto all’accesso ai benefici fiscali previsti dalla norma.
Da ultimo, l’eventuale rifiuto della proposta non sembra in grado di produrre alcuna conseguenza nell’eventuale seguente giudizio, al contrario di quanto previsto per la mancata accettazione «senza adeguata motivazione» della proposta formulata dalla commissione ex art. 411, co. 2, c.p.c. o della proposta formulata dal giudice, ai sensi dell’art. 420, co. 1, c.p.c.
Note
1 Per una raccolta sistematica di tutte le novità contenute nel cd. Jobs Act, v., esemplificativamente, Curzio, P., Jobs Act. Legge, decreti, circolari, accordi, sentenze, Bari, 2016.
2 Si vedano, in particolare, le notazione critiche espresse e raccolte da Dalfino, D., I licenziamenti dopo la l. n. 92 del 2012: profili processuali, in Barbieri, M.Dalfino, D., Il licenziamento individuale nell’interpretazione della legge Fornero, Bari, 2013, 57 ss.; v., inoltre, Id., Il rito Fornero nella giurisprudenza: aggiornamento, in Riv. giur. lav., 2014, II, 3; Id., Il rito Fornero nella giurisprudenza: le questioni ancora aperte, ibidem, 397.
3 Sul punto, v. AA.VV., La riforma del lavoro (c.d. Jobs Act) Il contratto di lavoro a tutele crescenti e gli strumenti di contrasto alla disoccupazione (d.leg. 4 marzo 2015 n. 22 e 23), in Foro it., 2015, V, 229.
4 Per quanto riguarda i contratti a termine, premesso che il rapporto di lavoro, al di fuori del recesso per giusta causa di cui all’art. 2119 c.c., può essere risolto anticipatamente non già per un giustificato motivo oggettivo ai sensi dell’art. 3 l. n. 604 del 1966, ma soltanto in presenza delle ipotesi di risoluzione del contratto previste dagli art. 1453 ss. c.c., sembra preferibile l’inapplicabilità del regime dell’art. 18 st. lav. e quindi del rito Fornero (v. Trib. Milano, 15.10.2012, citata in Barbieri, M.Dalfino, D., op. cit., 72, e le cui conclusioni sono condivise; contra, De Feo, D., L’ambito applicativo del rito speciale per le controversie in materia di licenziamento, in Argomenti dir. lav., 2012, 1211).
5 Peraltro, il disegno di legge delega al Governo recante disposizioni per l’efficienza del processo civile (2284/S/XVII), assegnato alla 2ª Commissione permanente (giustizia) in sede referente il 17 marzo 2016, e il cui esame è iniziato il 3 agosto 2016, prevede che «le disposizioni di cui all’articolo 1, commi da 48 a 68, della legge 28 giugno 2012, n. 92» – cioè quelle che regolano il rito specifico accelerato per l’impugnativa dei licenziamenti – siano abrogate.
6 Nella relazione illustrativa al d.lgs. n. 23/2015 si afferma che «Fermo restando l’onere della prova a carico del datore di lavoro rispetto alla legittimità del motivo addotto per il licenziamento, l’onere della prova rispetto all’insussistenza del fatto materiale contestato (unica fattispecie di licenziamento per motivo soggettivo o giusta causa per cui può scattare la tutela reintegratoria) è in capo al lavoratore».
7 In Foro it., 2014, I, 3418, con commento di M. De Luca.
8 Si pensi, per esempio, all’abrogazione del rito cd. societario (di cui al d.lgs. 17.1.2003, n. 5) avvenuta nel 2009.
9 Cfr. Lai, P., Il contratto di lavoro a tutele crescenti: risvolti processuali, in Riv. dir. proc., 2016, 151 ss.
10 Cfr. Trib. Taranto, 5.12.2013, in Foro it., 2014, I, 601.
11 Cfr. Cass., 26.11.2015, n. 24157, in Lav. giur., 2016, 353 (in senso contrario, però, v. Trib. Venezia, 2.12.2014, in Lav. giur., 2015, 609, secondo cui al licenziamento intimato al pubblico dipendente continuano ad applicarsi le disposizioni dell’art. 18 st. lav., prima delle modifiche introdotte dalla l. n. 92/2012); la decisione si fonda sulla valorizzazione del rinvio formale che l’art. 51 d.lgs. n. 165/2001 fa alla l. n. 300/1970 ed alle sue successive modificazioni ed integrazioni. La soluzione potrebbe riverberarsi anche sull’applicabilità del d.lgs. n. 23/2015: con riferimento ai casi di nullità, per la tesi che l’inclusione nell’art. 2 dell’avverbio «espressamente» comporti che siano compresi nell’ambito della previsione le sole ipotesi in cui la conseguenza della nullità sia specificamente prevista dalla legge, v. de Angelis, L., Il contratto a tutele crescenti, in Working papers del Centro studi di diritto del lavoro europeo «Massimo D’Antona», 2015, fasc. 250; per l’opinione secondo cui sarebbero soggetti all’art. 22 tutti i casi di contrarietà a norma imperativa, in virtù della previsione di nullità contenuta nell’art. 1418 c.c., v. Giubboni, S., Profili costituzionali del contratto di lavoro a tutele crescenti, ibid., fasc. 246; v., anche Battini, S., Jobs Act e lavoro pubblico: i «controlimiti» alla privatizzazione, in Giorn. dir. amm., 2015, 145; Buconi, M.L., Il d. leg. 23/15: ambito applicativo e profili di compatibilità costituzionale, in Lav. giur., 2015, 661.
12 Cfr. Cass., 9.6.2016, n. 11868, in Euroconfence Legal (eclegal.it), con nota di G. Ammassari.
13 Cfr. de Angelis, L., Gli aspetti processuali della disciplina del d.leg. 23/15, in Foro it., 2015, V, 256.
14 V. Cass., 11.5.2015, n. 9462, in Giur. it., 2015, 2692, con nota di G. Lucchetti, secondo cui la circostanza che la l. n. 92/2012, art. 1, co. 67, preveda l’applicabilità delle nuove norme processuali solo alle controversie instaurate dopo l’entrata in vigore della legge stessa non significa, a contrariis, che le nuove norme sostanziali in essa contenute siano applicabili ai licenziamenti anteriormente intimati, ma semplicemente che queste ultime seguono, in assenza di esplicita disposizione contraria, la regola dell’irretroattività sancita dall’art. 11 delle preleggi, regola cui può derogarsi soltanto se ciò è espressamente previsto da apposita disposizione di diritto transitorio, che nel caso di specie manca.
15 In senso esattamente conforme, v. Dalfino, D., La decisione delle domande proposte in via subordinata nel c.d. rito Fornero, in corso di pubblicazione, consultato per cortese concessione dell’A.
16 Pur essendo prevalsa l’idea della compatibilità tra tutela cautelare d’urgenza e tutela sommaria non cautelare del procedimento ex art. 1, co. 48 ss., l. n. 92/2012, è stato stabilito che il vaglio del giudice in merito alla sussistenza del requisito del periculum in mora deve essere particolarmente rigoroso, sì da ritenerne la sussistenza solo quando il pregiudizio irreparabile sia così imminente da non poter essere evitato nel tempo necessario a far valere il diritto con un procedimento sommario non cautelare (cfr. Trib. Lecce, 20.12.2012, in Riv. crit. dir. lav. priv. pubbl., 2012, 1075; Trib. Bari, 17.12.2012, in Foro it., 2013, I, 674, con nota di S. Calvigioni; Trib. Perugia, 9.11.2012, in Lav. pubbl. amm., 2012, 1117; Trib. Rossano, 5.11.2012, in Not. giur. lav., 2013, 100; Trib. Ravenna, 18.3.2013, in Lav. giur., 2013, 567; in senso contrario, v. Trib. Bologna, 25.9.2012, ibidem, 674).
17 Sia consentito rinviare, per approfondimenti, a De Santis, A.D., Errore sul rito, inammissibilità dell’impugnativa del licenziamento e impedimento della decadenza, in Riv. it. dir. lav., 2015, 478 e ss.
18 Lai, P., op. cit., 157 ss.
19 In tal senso, v. Borghesi, D., Aspetti processuali del contratto a tutele crescenti, in Judicium (judicium.it), (7 aprile) 2016.
20 Per una critica nei confronti dell’esclusione della proporzionalità dai parametri di valutazione sanzionatoria, v. Curzio, P., Il licenziamento ingiustificato, in Foro it., 2015, V, 246.
21 Nel senso di sminuirne la portata, v. Pisani, C, Il nuovo regime di tutele per il licenziamento ingiustificato, in Pessi, R.Pisani, C.Proia, G.Vallebona, A., Jobs Act e licenziamento, Torino, 2015, 36 ss.; v., anche, Borghesi, D., op. cit., § 1, secondo il quale la norma andrebbe comunque letta in consonanza con l’art. 5 l. n. 604/1966, in modo da consentire l’accesso alla tutela reintegratoria sol che il datore non riesca a dimostrare la sussistenza del fatto materiale.
22 Cfr. Cass., 13.10.2015, n. 20540, in Foro it., 2015, I, 2820, con nota di V. Ferrari; Cass., 13.10.2015, n. 20545 ha altresì precisato che l’insussistenza del fatto è ravvisabile qualora la fattispecie di illecito configurata dalla legge o dal contratto sia realizzata soltanto in parte.
23 Falsone, M., La conciliazione ex art. 6 d. lgs. 23/2015 tra autonomia privata e incentivi statali, in Working papers del Centro studi di diritto del lavoro europeo «Massimo D’Antona», 2015, fasc. 274.
24 Cfr. Garilli, A., Nuova disciplina dei licenziamenti e tecniche di prevenzione del conflitto, in Riv. it. dir. lav., 2015, I, 215.