Christ, Johann Friedrich
C. nacque a Coburgo il 26 aprile 1701 e morì a Lipsia il 3 settembre 1756. Dopo aver studiato filosofia e diritto presso l’Università di Jena, divenne segretario dei duchi di Meiningen e accompagnò i rampolli della famiglia a Halle, dove frequentò la locale università seguendo i corsi di Christian Thomasius. Passò in seguito a Lipsia, dove si laureò nel 1728 e iniziò la carriera di docente che lo condusse fino alla carica di rettore. All’Università di Lipsia insegnò storia, ma anche poesia, avendo tra i suoi allievi Gotthold Ephraim Lessing (Krause 2003, pp. 90, 532). Le sue lezioni, pubblicate postume da Johann Karl Zeune con il titolo di Abhand lungen über die Litteratur und Kunstwerke vornemlich des Alterthums (1776), fanno ampio uso di storici francesi fino ad allora mai studiati in Germania e mostrano un’inedita attenzione ai realia della vita antica, configurando una didattica della storia e dell’arte che fu presa a modello da Christian Gottlob Heyne (suo allievo diretto) e da Johann Joachim Winckelmann (Justi 1898, 19233, 1° vol., pp. 336, 344 e segg.), e ha fatto collocare C. tra i fondatori della Altertumwissenschaft (Espagne 2010, pp. 15-17).
L’interesse per M. maturò all’interno di una personalità decisamente eclettica: C. fu collezionista di libri e oggetti antichi, grande conoscitore della letteratura latina (Sandys 1908, 1958, p. 20), ma anche attento all’arte e alla cultura moderna nei suoi viaggi nelle capitali europee e in tante città italiane. Documento principale dell’eclettismo di C. sono le sue Noctes academicae (1727-1729), dove ricerche di antichistica e diritto romano convivono con riflessioni sulla storia e sulla letteratura. Tra queste ultime spicca la Pro Hieron. Cardano censura Baelii male habito, una difesa di Girolamo Cardano dai giudizi espressi da Pierre Bayle nel suo Dictionnaire historique et critique, nella quale C. trova anche l’occasione di annunciare un futuro lavoro su Machiavelli. L’opera apparve tre anni dopo, non «vernacula lingua», come preannunciato nelle Noctes, ma in latino, «segno che il suo autore si proponeva di raggiungere un pubblico di lettori più vasto e meno provinciale» (Procacci 1995, p. 283).
I tre libri De Nicolao Machiavello […] in quibus de vita et scriptis item de secta eius viri atque in universum de politica nostrorum post instauratas litteras temporum ex instituto disseritur historiaeque civilis, et rei litterariae passim ratio habetur furono stampati a Halle nel 1731 da Johann Christoph Krebs, con una dedica a Rudolf von Bünau, suo compagno di viaggi e parente di Heinrich von Bünau presso la cui biblioteca lavorò Winckelmann. Nella dedicatoria è subito espresso il fine dell’opera: rimuovere la «vulgata opinio» che vehementius invaluit adversus hunc hominem («violentemente prevalse contro quest’uomo»). Nel 1741 i libri furono ristampati, forse per la concomitanza con l’uscita dell’Anti-Machiavel di Federico II di Prussia (Signorini 1972, p. 104). Il De Nicolao Machiavello, primo esempio di critica sistematica, riveste una grande importanza nella storia della critica machiavelliana: «per la prima volta le opere del Segretario fiorentino venivano lette come quelle di un classico, senza residui di preoccupazioni scolastiche e definitorie» (Procacci 1995, p. 286).
Nel primo libro, C. parte dalla constatazione della damnatio universale di cui sono fatti oggetto M. e, in particolare, il suo scritto più celebre, quel Principe reputato dai più tanquam saevae tyrannidi incentivum («come incentivo a una crudele tirannide»). Scartando l’interpretazione obliqua del trattato (che ha comunque presente), egli anticipa la tesi che verrà argomentata dettagliatamente nei libri successivi: il M. repubblicano e popolare dei Discorsi, chiaramente monarcomaco, può conciliarsi con il M. del Principe solo considerando quest’ultimo come una sorta di postilla senile ai Discorsi. Narrata sommariamente la sua vita, C. conclude il libro elencando le tesi dei principali avversari di M., compresa, in posizione di punta, la curia romana.
Il secondo libro è una Disquisitio dedicata a confutare gli argumenta adversariorum esposti nel primo. Partendo dalle tesi di Jerónimo Osório, Innocent Gentillet, Hermann Conring e Antonio Possevino, C. si sofferma analiticamente sui «luoghi più incriminati» (Procacci 1995, p. 284) dell’opera machiavelliana: la funzione della religione in Discorsi II ii, il ruolo della fortuna nel xxv capitolo del Principe e quello di Cesare Borgia nel vii capitolo. L’analisi del giudizio machiavelliano sul duca Valentino compiuta da C. presenta alcuni aspetti assai significativi: anzitutto l’attenzione prestata, come mai fino ad allora, ai Decennali, nei quali M. mostra di avversare, in nome della libertà, l’operato di Cesare Borgia e di Alessandro VI suo padre; applicando per la prima volta «a un autore moderno e controverso» il «metodo dei loci paralleli proprio della filologia classica», il critico tedesco, oltre a mitigare il famigerato giudizio del vii capitolo del Principe (crimen diluere è l’espressione usata da C.), recupera anche «una dimensione morale e moralistica, addirittura cristiana dell’opera machiavellica», che lascia intravedere «una concezione moderata della monarchia costituzionale e del governo legale contro le tesi paradossali e tiranniche di Hobbes» e, in sintesi, «una proposta politica protoilluminista» (D’Ascia 2002, p. 226).
Nel terzo libro, C. tira le somme e cerca di collocare l’opera di M. entro le correnti di pensiero contemporanee. La lode machiavelliana delle libertà della Roma repubblicana e delle città tedesche diviene così per C. argomento per opporsi alle moderne teorie del dispotismo. Il volume si conclude con un’appendice di testimonianze di vari autori: da Paolo Giovio a Pierre Bayle, dall’ignoto prefatore dell’edizione Palermo 1584 (da assegnare in realtà al colto tipografo inglese John Wolfe) che giudica gli scritti degli antimachiavellici «degni di servire ai venditori di salciccie e di sardelle», all’elogio delle Istorie fiorentine («un ouvrage achevé et presque inimitable») tessuto dall’ambiguo diplomatico olandese Abraham van Wicquefort nel suo manuale L’ambassadeur et ses fonctions; si compone così un’antologia della critica machiavelliana quale si poteva allora configurare.
Uno dei tre esemplari dell’opera posseduti dalla BAV, contrassegnato dalla segnatura R.G.Vite.IV. 5744 e proveniente dal fondo librario appartenuto a Pasquale Villari, contiene numerose annotazioni dell’autore, in margine al testo o interfoliate. Sono note di grande rilievo che testimoniano un interesse non episodico per Machiavelli. Nel primo libro, tra coloro «qui contra Machiavellum scripserunt», si leggono aggiunte cospicue di autori spesso trascurati dalla critica: come quel Jakob Brucker, autore della Historia critica (1742-1744), definito in una nota nugacissimus de philosophis nugarum proditor («il più sciocco tra i filosofi scopritore di sciocchezze»: cfr. Sasso 1988, pp. 251-52). Nel secondo libro (tra le cc. 52 e 53) C. cita Principe xviii («ad un principe adunque non è necessario avere tutte le soprascritte qualità») e postilla: sed per illa, quae sequuntur ad exitum illius capitis Machiavelli verba, ista ambigua non male corriguntur («ma le parole di Machiavelli che seguono alla fine di quel capitolo correggono queste ambiguità»); più avanti (tra le cc. 54 e 55) cita Principe viii («Di quelli che per sceleratezze») e postilla: non laudat, non suadet sed protestatur ipse [...] merita huius caussae se nolle iudicare («non loda, non consiglia, ma dichiara che [...] non è disposto a giudicare il merito di questa causa»). Tra le cc. 58 e 59, il capitolo dedicato al tema della fortuna è integrato da un’ulteriore difesa di M. attraverso numerose citazioni di Aristotele, Giovenale e altri autori classici; tra queste è notevole (e, a quanto risulta, mai prima e dopo di allora notata da altri) l’affermazione che l’immagine della fortuna «fiume rovinoso» di Principe xxv nihil aliud magis continet nisi carminis horatiani [Odi III 29] ad verbum paene expressam eamque elegantem satis, imitationem («contiene nient’altro che un’imitazione di un carme oraziano, quasi espressa con le stesse parole e ugualmente elegante»). Molto interessante, sempre sul tema della fortuna, la citazione della prefazione alle Rime di Giovan Battista Guarini:
se poi leggendo troverete fato, destino, fortuna, sorte, caso e altre voci […] sempre l’autore favella poeticamente e che non altro intende che di notare le seconde cause, con le quali piacque a Dio nostro signore di ordinare e operare gli effetti della somma sua provvidenza.
Anche l’appendice di testimonianze che conclude il volume presenta notevoli aggiunte: tra queste (tra le cc. 132 e 133) si segnala la citazione dei versi di Jean de La Fontaine (OEuvres posthumes, 1696):
Je chéris l’Arioste, et j’estime le Tasse / Plein de Machiavel, entêté de Boccace / J’en parle si souvent qu’on en est étourdi
Mi piace l’Ariosto e stimo il Tasso / Pieno di Machiavelli, stordito da Boccaccio / Ne parlo così spesso da stupire,
dove, probabilmente per la prima volta, viene notato il legame che unì il poeta francese a Machiavelli.
Bibliografia: E. Dörffel, Johann Friedrich Christ, sein Leben und seine Schriften: ein Beitrag zur Gelehrtengeschichte des 18. Jahrhunderts, Leipzig 1878; C. Justi, Winckelmann und seine Zeitgenossen, 3 voll., Leipzig 1898, 19233; J.E. Sandys, A history of classical scholarship, 2° vol., New York 1908, 1958; A. Signorini, Individualità e libertà in Vittorio Alfieri, Milano 1972; G. Sasso, Machiavelli e gli antichi e altri saggi, 3° vol., Milano-Napoli 1988; G. Procacci, Machiavelli nella cultura europea dell’età moderna, Roma-Bari 1995; L. D’Ascia, Machiavelli e i Borgia dal Rinascimento al secolo XIX, «Giornale critico della filosofia italiana», 2002, 81, 2, pp. 214-33; K. Krause, Alma mater Lipsiensis: Geschichte der Universität Leipzig von 1409 bis zur Gegenwart, Leipzig 2003; M. Espagne, Il ruolo della traduzione nella genesi del Neoclassicismo, in Traduzioni e traduttori del Neoclassicismo, a cura di G. Cantarutti, S. Ferrari, P.M. Filippi, Milano 2010, pp. 13-21.