Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
L’idea fondamentale di Fichte è costituita dalla concezione della filosofia come “dottrina della scienza”. Alla teoria dell’Io come primo principio assolutamente incondizionato, caratteristica della fase di Jena, Fichte sostituisce a Berlino l’idea di Assoluto come “vita” spirituale in continuo divenire. La libertà del soggetto perde lo statuto di fondamento e diventa il luogo per la manifestazione creativa del divino nel mondo.
Il periodo giovanile (1762-1794)
Fichte nasce da famiglia di umili origini. Notato per la sua intelligenza da un notabile locale, viene avviato agli studi, prima nel ginnasio di Pforta (lo stesso nel quale studierà Nietzsche), quindi all’università. Costretto a interrompere gli studi per le sue ristrettezze economiche, cerca di procurarsi da vivere come precettore. Dal punto di vista filosofico, il giovane è alle prese con la questione del determinismo, che sembra dimostrato in modo inconfutabile dalla ragione (in questi anni escono le Lettere sulla dottrina di Spinoza di Jacobi), ma non può soddisfare le esigenze del cuore (che anela alla libertà).
L’esordio letterario di Fichte è costituito da un’opera di filosofia della religione, intitolata Saggio di critica di ogni rivelazione. Sua ambizione è ottenere l’approvazione e la stima di Kant, dopo che lo studio delle tre Critiche ha completamente rivoluzionato il suo modo di pensare, aprendogli quello che egli stesso definisce un “nuovo mondo”. Il libro è pubblicato nel 1792, e già nell’anno successivo ha una seconda edizione. L’opera esce anonima, e in un primo tempo viene attribuita proprio a Kant. Quando quest’ultimo smentisce pubblicamente tale attribuzione, il successo del libro è ormai conclamato. Fichte si trova immediatamente proiettato al centro della scena filosofica tedesca, e non è estraneo a questa vicenda se nel 1794 viene chiamato a insegnare filosofia presso la prestigiosa università di Jena.
La tesi di fondo è che la rivelazione risponde a un “bisogno”, sentito da uomini che già possiedono la legge morale, nei quali però la forza della ragione non è sufficiente a piegare la resistenza degli impulsi sensibili. La rivelazione, dando all’immaginazione il sostegno della rappresentazione di Dio come autore della legge, fornisce a quest’ultima la forza necessaria a combattere la sensibilità sul suo stesso terreno. La rivelazione, dunque, rimedia a una temporanea debolezza della ragione, ma può contribuire, mediante la formazione della sensibilità, al progresso verso condizioni morali sempre più elevate.
L’importanza degli interessi pratici e politici è confermata dai due testi successivi, intitolati Rivendicazione della libertà di pensiero (1793), e Contributo per la rettifica dei giudizi del pubblico sulla rivoluzione francese, uscito in due fascicoli separati tra l’estate del 1793 e il febbraio 1794. Qui Fichte presenta la sua prima teoria dei rapporti tra diritto, politica e morale, e difende la legittimità della rivoluzione a partire da quella più generale di modificare una costituzione politica. A partire da una concezione dello stato di natura come condizione in cui l’uomo agisce da soggetto razionale sottoposto esclusivamente alla legge morale, Fichte considera il diritto naturale come una sfera inscritta nella precedente, riguardante il piano dei diritti imprescrittibili dell’uomo a fare ciò che gli compete come essere morale. La sfera dei contratti è ancora più ristretta, e riguarda l’ambito del lecito, che a differenza di ciò che è assolutamente obbligatorio (la legge morale in senso kantiano), sottostà alle decisioni del libero arbitrio. Il “contratto sociale”, che fonda gli ordinamenti politici, è soltanto uno tra i contratti possibili, dunque sottostà anch’esso alle decisioni del libero arbitrio. Poiché quest’ultimo può cambiare, anche il consenso all’obbedienza nei confronti di una determinata costituzione politica è soggetto a mutamento. I cittadini hanno dunque il diritto di modificare la propria costituzione politica, ogniqualvolta quest’ultima sembri ostacolare il perfezionamento della cultura. La conclusione di Fichte è che la rivoluzione è legittima, poiché lo Stato può pretendere soltanto un’obbedienza condizionata. Se viene meno il consenso da parte dei singoli, questi possono recedere dal contratto, e lo Stato non lo può impedire senza violare il diritto naturale di ciascuno all’esercizio della propria libera volontà.
Johann Gottlieb Fichte
Il principio primo del sapere
Dottrina della scienza, Parte I
Noi dobbiamo ricercare il principio assolutamente primo, assolutamente incondizionato, di tutto l’umano sapere. Dovendo essere principio assolutamente primo, esso non si può dimostrare né determinare.
Esso deve esprimere quell’atto che non si presenta, né può presentarsi, tra le determinazioni empiriche della nostra coscienza, ma sta piuttosto alla base di ogni coscienza, e solo la rende possibile. Nell’esposizione di quest’atto non è tanto da temere che, per avventura, non si pensi a quello cui si deve pensare - a questo la natura del nostro spirito ha già provveduto - quanto che si pensi a quello cui non si deve pensare. Questo rende necessaria una riflessione su ciò che forse potrebbe essere ritenuto, sin dal principio, per quello cui bisogna pensare ed un’astrazione da tutto ciò, che non vi appartiene realmente.
Neanche per mezzo di questa riflessione astraente può divenir fatto di coscienza ciò che in sé non è tale; ma essa fa conoscere che si deve pensare necessariamente quell’atto come fondamento di ogni coscienza.
Le leggi secondo le quali si deve pensare assolutamente quell’atto come fondamento del sapere umano o - ciò che è lo stesso - le regole secondo le quali quella riflessione è posta, non sono ancora dimostrate valide, ma esse sono tacitamente presupposte come note e indubitabili. Solo più giù esse sono dedotte dal principio che si può stabilire come giusto solo a condizione della loro giustezza. Questo è un circolo, ma un circolo inevitabile. (...) E poiché esso è inevitabile e liberamente concesso, anche nell’esposizione del supremo principio ci si può dunque richiamare a tutte le leggi della logica generale.
Sulla vita in cui inizia la riflessione, noi dobbiamo partire da una proposizione tale che ognuno ce la conceda senza contraddirci. Di tali proposizioni ce ne potrebbero bene essere anche parecchie. La riflessione è libera e non importa da qual punto essa parta. Noi scegliamo quello, partendo dal quale si arriva più presto al nostro scopo.
Appena è accordata questa proposizione, deve essere in pari tempo accordato come atto ciò che noi vogliamo porre a base dell’intiera dottrina della scienza; e deve risultare dalla riflessione che esso è accordato come tale, insieme con quella proposizione. Poniamo dunque un fatto qualsiasi della coscienza empirica e da esso separiamo, l’una dopo l’altra, tutte le determinazioni empiriche, fino a che rimanga solo ciò che non si può assolutamente escludere e dal quale non si può separare più nulla.
1. Ciascuno ammette la proposizione: A è A (altrettanto che A = A, poiché questo è il significato della copula logica); ed invero senza menomamente pensarci su: la si riconosce per pienamente certa e indubitabile.
Ma se qualcuno dovesse richiederne una dimostrazione, certo non si acconsentirebbe per nulla a dargliela, ma si affermerebbe che quella proposizione è certa assolutamente cioè senza alcuna ragione ulteriore: facendo questo, senza alcun dubbio con l’assenso di tutti, ci si attribuisce la facoltà di porre qualcosa assolutamente. (...)
Consideriamo adesso ancora una volta la proposizione: Io sono Io.
a) L’Io è posto assolutamente. Si ammetta che l’Io che nella proposizione precedente sta al posto del soggetto formale significhi ciò che è posto assolutamente; che quello, che sta al posto del predicato, significhi invece ciò che è; allora, col giudizio assolutamente valido che entrambi sono affatto la medesima cosa, si asserisce o si pone assolutamente: che l’Io è, perché ha posto se stesso.
b) L’Io nel primo significato e l’Io nel secondo debbono essere assolutamente eguali fra loro. Pertanto si può anche invertire la proposizione precedente e dire: l’Io pone se stesso semplicemente perché è. Esso si pone per mezzo del suo mero essere ed è per mezzo del suo mero esser posto.
Questo spiega dunque pienamente in qual senso noi adoperiamo qui la parola Io e ci guida ad una spiegazione precisa dell’Io come soggetto assoluto. Ciò, l’essere (l’essenza) del quale consiste puramente in questo, che esso pone se stesso come essente, è l’Io come soggetto assoluto. Così come esso si pone, è; e così come è, si pone; l’Io perciò è assolutamente e necessariamente per l’Io. Ciò che non esiste per se stesso, non è Io.
J.G. Fichte, Dottrina della scienza, trad. it. di A. Tilgher, riveduta e corretta da F. Costa, Roma-Bari, Laterza, 1987
Johann Gottlieb Fichte
Opposizione tra “Io” e “Non-io”
Dottrina della scienza, Parte II
La proposizione: L’Io si pone come determinato dal Non-io, è stata or ora dedotta dal terzo principio; se questo vale, deve valere anch’essa. Ma quel principio deve avere un valore con la stessa certezza con la quale l’unità della coscienza non può essere annullata e l’Io non può cessare di essere Io (§ 3). Questa proposizione deve perciò valere essa stessa con la medesima certezza con la quale l’unità della coscienza non può essere annullata.
Noi dobbiamo in primo luogo analizzare questa proposizione, cioè vedere se e quali opposti siano compresi in essa.
L’Io si pone come determinato dal Non-io. Quindi l’Io deve non già determinare, ma essere determinato; è il Non-io, invece, che deve determinare, porre limiti alla realtà dell’Io. Perciò nella proposizione che abbiamo enunciata è compresa innanzi tutto la seguente:
Il Non-io determina (attivamente) l’Io (che per questo riguardo è passivo). L’Io si pone come determinato, mediamente una attività assoluta. Ogni attività deve procedere dall’Io, almeno per quanto noi possiamo giudicarne sinora. L’Io ha posto se stesso, ha posto il Non-io, ha posto entrambi nella quantità. Ma l’Io si pone come determinato; questo manifestamente vuol dire lo stesso che: l’Io si determina. Perciò nella proposizione enunciata è compresa anche la seguente:
L’Io determina se stesso (con attività assoluta).
Noi ora facciamo ancora completa astrazione da questo: se accada che ognuna di queste due proposizioni contraddica se stessa, contenga una contraddizione interna e perciò annulli se stessa. È però subito evidente che tutte e due si contraddicono reciprocamente l’una l’altra; che l’Io non può essere attivo, se deve essere passivo e viceversa. (...)
Se due proposizioni che son comprese in una sola e medesima proposizione si contraddicono fra loro, esse si annullano e la proposizione nella quale esse sono comprese annulla se stessa. Questo accade con la proposizione su enunciata. Essa perciò annulla se stessa.
Ma essa non può annullarsi, se l’unità della coscienza non deve essere annullata; noi perciò dobbiamo cercare di unificare quegli opposti che abbiamo indicati (ossia, secondo quel che abbiamo detto, noi non dobbiamo già, nella nostra riflessione, immaginare con un artificio un punto d’unione per quei contrari; ma poiché l’unità della coscienza è posta in pari tempo di quella proposizione che minaccia d’annullarla, il punto di unificazione deve già esistere nella nostra coscienza e noi dobbiamo solo trovarlo con la riflessione. Noi abbiamo testé analizzato un concetto sintetico = X che esiste realmente; dai contrari scoperti con l’analisi noi dobbiamo concludere qual sorta di concetto sia l’incognito X).
Veniamo alla soluzione del nostro problema.
In una proporzione si afferma ciò che nell’altra si nega. Realtà e negazione sono dunque quelle che si annullano e che non si annullano, ma debbono essere unificate, e questo accade (§ 3) per mezzo della limitazione o determinazione.
Dicendo: l’Io determina se stesso, si attribuisce all’Io l’assoluta totalità della realtà. L’Io non può determinarsi se non come realtà, poiché esso è posto come realtà assoluta (§ 1) ed in esso non è posta affatto alcuna negazione. Tuttavia esso doveva essere determinato da se stesso: questo non può significare che l’Io annulli in sé una realtà, poiché ciò lo metterebbe immediatamente in contraddizione con se stesso; ma deve significare che l’Io determina la realtà e, per mezzo di questa, se stesso. Esso pone ogni realtà come una quantità assoluta. Fuori di questa realtà non ce n’è punto altra. Questa realtà è posta nell’Io. L’Io è dunque determinato, in quanto è determinata la realtà.
È da notare ancora che questo è un atto assoluto dell’Io e propriamente quello stesso che si incontra nel § 3, dove l’Io pone se stesso come quantità, e che qui, in ragione delle sue conseguenze, doveva essere esposto distintamente e chiaramente.
Il Non-Io è opposto all’Io; in esso vi è negazione, come nell’Io vi è realtà. Se nell’Io è posta l’assoluta totalità della realtà, deve esser posta necessariamente nel Non-Io l’assoluta totalità della negazione; e la negazione stessa deve essere posta come assoluta totalità. L’una e l’altra, l’assoluta totalità della realtà nell’Io e l’assoluta totalità della negazione nel Non-Io, debbono essere unificate mediante la determinazione. Perciò l’Io in parte si determina ed è in parte determinato.
Ma l’una e l’altra cosa debbono esser pensate come una sola ed affatto medesima cosa; cioè precisamente nel riguardo in cui l’Io è determinato, esso deve determinarsi; e precisamente nel riguardo in cui esso determina se stesso, deve esser determinato.
L’Io è determinato, cioè in esso viene annullata della realtà. Se dunque l’Io pone in sé solo una parte dell’assoluta totalità della realtà, per ciò stesso annulla in sé il resto di quella totalità; in virtù dell’opposizione (§ 2) e eguaglianza della quantità con se stessa, pone nel Non-io (§ 3) la parte della realtà eguale alla realtà annullata. Un grado è sempre un grado: sia esso un grado della realtà o della negazione. (Dividete, per esempio la totalità della realtà in 10 parti uguali; di queste ponetene 5 nell’Io. Necessariamente son poste con ciò nell’Io cinque parti della negazione).
Quante parti della negazione l’Io pone in sé, tante parti della realtà esso pone nel Non-io; è precisamente questa realtà nell’opposto che annulla la realtà in esso. (Se per esempio son poste nell’Io cinque parti della negazione, son poste perciò nel Non-Io cinque parti di realtà).
Dunque l’Io pone in sé negazione, in quanto pone realtà nel Non-io; e pone realtà in sé, in quanto pone negazione nel Non-io. Esso si pone dunque come determinantesi, in quanto vien determinato; e si pone come ciò che viene determinato, in quanto esso determina se stesso. Il problema, in quanto fu sopra proposto, è risolto.
J.G. Fichte, Dottrina della scienza, trad. it. di A. Tilgher, riveduta e corretta da F. Costa, Roma-Bari, Laterza, 1987
Fichte a Jena (1794-1799)
L’attività di Fichte a Jena si caratterizza per la produzione delle grandi opere sistematiche che ne avrebbero caratterizzato la ricezione nei decenni a venire. Si tratta del Fondamento dell’intera dottrina della scienza (Grundlage der gesammten Wissenschaftslehre, 1794-95), del Fondamento del diritto naturale (1796-97) e del Sistema di etica (1798). Accanto a questi lavori, Fichte redige una serie di altri scritti, dedicati a questioni più particolari. Tra questi vanno segnalati: La destinazione del dotto (1794); Sullo spirito e la lettera nella filosofia (1795, ma pubblicato nel 1800); La facoltà linguistica e l’origine del linguaggio (1795); Compendio di ciò che è specifico della dottrina della scienza (1795). Poco prima di cominciare le sue lezioni all’università di Jena, Fichte pubblica l’importante scritto programmatico Sul concetto di dottrina della scienza (1794). Di contro, a pubblicazione completa della Grundlage (estate 1795), egli inizia a meditare nuove forme di esposizione, di cui recano traccia la Prima e Seconda introduzione alla dottrina della scienza (1797) e il Primo capitolo (1798), testi raccolti sotto il titolo Saggio di una nuova esposizione della dottrina della scienza (1797-98). Le trascrizioni rimaste attestano che Fichte perviene effettivamente a una nuova esposizione (la cosiddetta Nova methodo), anche se essa non vedrà mai la luce in forma completa. La ragione addotta da Fichte, non a torto, è che proprio nel periodo della nuova elaborazione, esplode la “disputa sull’ateismo” (autunno 1798), che sarebbe terminata con la perdita della cattedra di Jena e il trasferimento del filosofo a Berlino (luglio 1799). Qui, nel gennaio 1800, egli pubblica l’opera che può essere considerata come il bilancio filosofico della polemica, e l’inizio di un nuovo periodo nella sua speculazione (La destinazione dell’uomo).
Johann Gottlieb Fichte
Libertà dell’individuo
Sistema della dottrina morale
Io mi pongo come individuo in opposizione ad un altro individuo determinato in quanto io mi attribuisco una sfera per la mia libertà, una sfera che attribuisco anche agli altri, ed all’altro, e da quest’ultima mi escludo - si capisce, esclusivamente pensando ad un fatto, ed in seguito a questo fatto. Io mi sono dunque posto come libero accanto a lui, e senza pregiudizio della possibilità della sua libertà. Mediante questo porre la mia libertà, io mi sono determinato: l’esser libero costituisce il mio carattere essenziale. Ma che significa esser libero? Evidentemente, poter realizzare i concetti che si sono concepiti per le proprie azioni. La realizzazione, però, segue sempre il concetto, e la percezione del progettato prodotto dell’attività casuale è sempre futura, se riferita all’ideazione del concetto. La libertà viene quindi sempre posta nel futuro, e se essa deve costituire il carattere di un essere, viene posta per tutto il futuro di un individuo. La libertà viene posta nel futuro nella misura in cui l’individuo stesso viene posto nel futuro.
Ora, però, la mia libertà è possibile solo nel caso che l’altro rimanga all’interno della propria sfera; dato che pretendo la mia libertà per tutto il futuro, io pretendo quindi per tutto il futuro anche la limitazione dell’altro, e dato che egli dev’essere libero, pretendo la sua limitazione mediante se stesso per tutto il futuro, e pretendo tutto ciò immediatamente, per il fatto che mi pongo come individuo.
Questa richiesta a lui rivolta è contenuta nel porre me come individuo.
Egli può però limitarsi solamente in conseguenza di un concetto di me come di un essere libero. Certo io pretendo in modo assoluto questa limitazione; pretendo quindi da lui la consequenzialità, e cioè che tutti i suoi concetti futuri siano determinati da un certo concetto precedente, vale a dire dalla conoscenza di me come di un essere razionale.
Ora, però: egli può riconoscermi per un essere razionale soltanto a condizione che io tratti lui stesso come tale, in conseguenza di questo concetto di lui. Io impongo a me, quindi, la medesima consequenzialità, ed il suo agire è condizionato dal mio. Noi ci troviamo nell’azione reciproca della consequenzialità del nostro pensare e del nostro agire con se stessi e, reciprocamente, uno con l’altro.
La conclusione è già raggiunta. Io devo riconoscere in tutti i casi l’essere libero fuori di me come un essere libero, devo cioè limitare la mia libertà mediante il concetto della possibilità della sua libertà.
Il rapporto tra esseri razionali che si è dedotto - che ognuno limiti la propria libertà mediante il concetto della possibilità della libertà dell’altro, a condizione che questo altrettanto limiti la propria mediante quella del primo - si chiama rapporto giuridico, e la formula ora enunciata si chiama il principio del diritto.
Questo rapporto è stato dedotto dal concetto di individuo. È quindi dimostrato quel che era da dimostrare.
Inoltre, il concetto di individuo è stato dimostrato precedentemente come condizione dell’autocoscienza. Dunque, lo stesso concetto del diritto è condizione dell’autocoscienza e, di conseguenza, questo concetto è stato correttamente dedotto a priori, vale a dire dalla pura forma della ragione, dall’Io.
Grande antologia filosofica, diretta da M.F. Sciacca e M. Schiavone, Milano, Marzorati, 1968
La dottrina della scienza
L’idea fondamentale di tutto il pensiero di Fichte si riassume nella concezione della filosofia come “dottrina della scienza” (Wissenschaftslehre). Essa si presenta in forma pubblica con lo scritto Sul concetto, che enuncia i parametri formali che devono essere rispettati da una filosofia che voglia affermarsi come scienza. Le idee fondamentali sono quelle di “principio” (Grundsatz) e di “sistema”. Quest’ultimo indica una concatenazione dimostrativa, centrata sul nesso logico di premessa e conseguenza, che deve presentarsi come completa ed esaustiva. “Esaustiva” significa che non deve essere saltato alcun membro intermedio. “Completa” significa che la dimostrazione deve avere un termine. I criteri dell’esaustività e della completezza sono indispensabili perché noi possiamo essere certi della verità dei nostri risultati. Se l’esposizione andasse all’infinito, o in essa emergessero delle lacune, mancherebbero i requisiti essenziali della certezza, e il nostro sapere sarebbe vanificato da “dubbio e incertezza”.
Fino a qui Fichte sembra muoversi all’interno dei parametri fissati da Cartesio. Il salto di qualità avviene sull’altro versante, cioè quello del “principio”. Al riguardo, Fichte sottolinea la rilevanza dei due termini che lo compongono, quello di “fondamento” (Grund) e di “proposizione” (Satz). Il principio si deve articolare linguisticamente, deve assumere la forma grammaticale di una proposizione, e tale proposizione deve avere un carattere “assoluto”, tale cioè da esprimere una verità prima e incondizionata. “Prima” sta a indicare che essa deve fungere da inizio dell’esposizione. “Incondizionata” sta a significare che non può basarsi su nient’altro che su se stessa.
È chiaro allora che, per rispettare questi parametri formali, la proposizione dovrà esprimere un contenuto compatibile con essi, tale cioè da essere esso stesso fondamento primo e incondizionato. Ma un contenuto che sia fondamento primo e incondizionato dovrà essere tale da recare in se stesso la certezza della propria verità.
A questo punto si riallaccia la Grundlage. Assunta l’esigenza del principio come imprescindibile, si tratta di ricercare quale possa essere. Se noi siamo in grado di trovarlo, rispondiamo al tempo stesso alla questione se esso esista effettivamente. La ricerca è intesa da Fichte come effettiva: non si tratta di applicare concetti che già possediamo, ma di scoprire qualcosa che ancora non conosciamo. In termini kantiani, si tratta di usare la nostra facoltà di giudizio riflettente, non determinante. Vi è dunque una libertà strutturale, che fa della filosofia un esercizio di pensiero in atto, e consente a chi la pratica di scegliere tra una molteplicità di metodi possibili. Nella Grundlage, Fichte assume come punto di appoggio per la ricerca il principio logico dell’identità (A = A). L’interrogazione riguarda il suo statuto di principio, generalmente accettato come indiscutibile. Fichte si chiede se tale assunzione sia giustificata, o se la sua evidenza non dipenda da un principio ulteriore e più alto. La sua risposta va in questa direzione, e alla radice dell’identità scopre l’attività dell’Io che pone assolutamente se stesso.
In questa formulazione l’Io appare come attività di posizione in generale: non si tratta dunque né di coscienza individuale, né di pensiero in senso empirico e psicologico. Il punto decisivo è che l’identità, per essere, deve essere posta, e questo essere posta esige qualcosa che non sia posto da nient’altro che da se stesso; non per una petizione di principio legata al divieto di andare all’infinito, ma perché è un fatto che l’identità è posta, mentre se non ci fosse un’attività di posizione più originaria di essa, non sarebbe posta e dunque non sarebbe affatto.
Vale la pena di sottolineare che Fichte, anticipando la logica del Novecento, intende l’identità come una proposizione ipotetica, non categorica: A = A significa non che A è posto, e dunque è uguale a se stesso, bensì che se esso è posto, allora deve essere posto come identico a sé. Nell’Io abbiamo la reciproca implicazione di contenuto e forma, e quindi un principio che è incondizionato per ambedue gli aspetti. Adottando lo stesso metodo che ha condotto alla scoperta dell’Io come principio primo, Fichte utilizza i principi logici di contraddizione e di ragione sufficiente per derivare gli ulteriori principi dell’Io che pone il Non-io (incondizionato per la forma), e dell’Io che oppone nell’Io a un io divisibile un non-io divisibile (incondizionato per il contenuto). D’ora in avanti, si tratterà di esplicitare le contraddizioni interne a ogni nostro risultato, e trovare il modo di sintetizzarle, fino alla produzione della sintesi suprema, che dovrà ricondurre l’esposizione al suo punto di partenza, dimostrandone l’esaustività e la completezza.
Gli interpreti hanno molto discusso se la Grundlage rispetti questi parametri. Chi scrive ritiene possibile argomentare in senso affermativo, facendo leva sul fatto che l’Io assoluto svolge, per la coscienza finita, la funzione di Idea. Punto di partenza e punto di arrivo, dunque, sono effettivamente gli stessi, ma considerati da due punti di vista opposti e complementari: all’inizio dell’esposizione, dal lato del filosofo che conduce la ricerca; alla fine dell’esposizione, dal lato della coscienza effettiva, di cui Fichte ha ricostruito sia le condizioni trascendentali di possibilità, sia gli elementi strutturali di fondo.
L’esposizione Nova methodo
Fichte non fu mai soddisfatto del metodo espositivo adottato nella Grundlage. Da una parte, la divisione in tre sezioni (i primi principi, la parte teoretica, la parte pratica) non rende giustizia dell’unità complessiva della coscienza. Dall’altro, la sequenza adottata sembra rendere indipendente l’attività teoretica dall’attività pratica, mentre il perno della concezione di Fichte consiste nel dimostrare la dipendenza della prima dalla seconda. Così, già nell’avviso del corso per il semestre invernale 1796-97, Fichte annuncia che esporrà “fundamenta philosophiae transscendentalis (die Wissenschaftslehre) nova methodo”. Contemporaneamente, divenuto condirettore del “Philosophisches Journal” fondato dal collega Niethammer, pubblica le due Introduzioni e il Primo capitolo di quella che sarebbe dovuta essere la nuova versione a stampa della dottrina. L’insieme di questi testi, che costituiscono il Saggio di una nuova esposizione, esce in tre diversi numeri della rivista tra l’inverno 1797 e il marzo 1798.
Quali sono i principali tratti distintivi che caratterizzano la Nova methodo rispetto al testo a stampa? Il primo è senz’altro costituito dall’impiego del concetto di intuizione intellettuale e dal corrispondente punto di partenza dell’esposizione. Fichte non risale più all’Io che pone se stesso dal principio logico d’identità, ma parte direttamente dall’Io che pone se stesso come attività che “ritorna in sé”, e dunque come autocoscienza. A questa consapevolezza immediata di sé, Fichte dà il nome di “egoità” (Ichheit), termine che era già apparso nella Grundlage, ma che solo ora diventa cifra caratterizzante della dottrina, tanto più che svolgerà una funzione cruciale anche per il Sistema di etica.. Esso è il termine chiave per la concezione fichtiana negli ultimi anni di Jena (1796-1799). L’altro punto dirimente, rispetto alla Grundlage, è l’abbandono dell’esposizione a partire da principi primi, con la conseguente suddivisione tra una parte teoretica e una parte pratica. Nel momento in cui ci poniamo all’altezza dell’egoità come intuizione intellettuale, infatti, non abbiamo più bisogno di scomporre l’unità della coscienza in due sezioni separate, poiché tutte le sue operazioni trovano la loro radice comune nell’attività originaria con cui l’Io, ponendo se stesso, torna nuovamente in se stesso. È dunque coerente con la nuova impostazione che la facoltà pratica, costituita dallo Streben (“sforzo” o “tendenza”) a porre se stessi nella realtà, sia dedotta prima di quella teoretica.
Filosofia del diritto e della morale
La dottrina della scienza può essere considerata sia come esposizione specifica, sia come sistema complessivo della filosofia. Come esposizione specifica, essa è la disciplina principale del sistema globale della Wissenschaftslehre. A Jena Fichte riesce a dare concretezza alla dottrina della scienza in questo secondo significato solo per quanto riguarda le discipline del diritto e della morale. Per quanto riguarda il diritto, egli cerca di coniugare la tradizione del contrattualismo moderno con la sua nuova filosofia trascendentale. Il risultato è una costruzione piuttosto complessa, il cui tratto distintivo è costituito dalla compresenza, a fianco del classico impianto basato sul patto di unione e di sottomissione a un potere rappresentativo, dell’istituzione dell’eforato. Fichte richiama la figura dei tribuni della plebe dell’antica Roma, e sostiene che la presenza di questa magistratura sia la pietra di paragone per un governo legittimo. La suddivisione decisiva, per valutare la legittimità di uno Stato, non è più costituita dalla divisione dei poteri in legislativo, esecutivo e giudiziario, bensì da quella, secondo Fichte più fondamentale, tra il complesso del potere rappresentativo (che unifica al suo interno tutte e tre le funzioni precedentemente indicate) e la magistratura di garanzia, costituita dagli efori. In caso di dubbio sull’operato del governo, questi ultimi hanno la facoltà di proclamare l’interdetto all’indirizzo dei governanti, e di convocare il popolo in assemblea. A quest’ultimo spetterà il compito di cambiare il governo, o in caso contrario di revocare la propria fiducia negli efori.
Per quanto riguarda il Sistema di etica, l’ambizione di Fichte consiste nel derivare geneticamente la legge morale. Quest’ultima ricalca le prerogative di quella kantiana, però a differenza del carattere puramente formale di quest’ultima, Fichte intende attribuirle anche una validità di carattere materiale. Il rapporto tra ragione e sensibilità non è più quello di un’ostilità irrimediabile, ma di una progressiva formazione degli impulsi in vista dell’attuazione della legge morale nel mondo sensibile. Di qui l’attenzione che Fichte dedica al corpo come strumento per l’agire effettivo dell’uomo, e la concezione della natura come totalità organica, tale dunque da rendere possibile l’agire in senso finalistico da parte del soggetto razionale finito.
La ripartizione tra diritto e morale non può essere interpretata in senso dualistico, ma come articolazione epistemologica tra due discipline che operano sulla base di principi diversi: il diritto, in base alla ricerca delle condizioni che rendono possibile la convivenza tra esseri razionali nel mondo esterno, indipendentemente dalla qualità delle rispettive convinzioni interiori; la morale, in base alla qualità dell’intenzione, ma anche alla sua effettiva capacità di tradursi in agire concreto.
Disputa sull’ateismo e trasferimento a Berlino
Nell’autunno del 1798 il “Philosophisches Journal” pubblica il saggio di F.C. Forberg, abituale collaboratore della rivista, intitolato Svolgimento del concetto di religione. Tale contributo è preceduto dall’intervento di Fichte, che in qualità di condirettore prende le distanze dalle tesi di Forberg e dalle loro implicazioni di carattere ateistico, intitolato Sul fondamento della nostra fede nel governo divino del mondo. Tesi principale di quest’ultimo è che Dio vada inteso come “ordine morale” e “mondo intelligibile”, concezione che Fichte stava sviluppando sia nella Nova methodo, sia nel Sistema di etica. A Dio, inteso in questo senso, nessun uomo come soggetto morale e razionale può far mancare la propria fede. È questa posizione, che sembra negare la concezione di un Dio personale creatore del mondo, che provoca la polemica, destinata a coinvolgere varie corti della Germania dell’epoca, e che si conclude con le dimissioni forzate di Fichte dall’università di Jena. Tra i momenti più alti della disputa va senz’altro ricordata la Lettera a Fichte redatta da Jacobi nel marzo 1799. In questo testo, l’autore formula nei confronti della dottrina della scienza l’accusa di “nichilismo”, inaugurando la fortuna filosofica di cui questo termine avrebbe goduto nei decenni successivi. Fichte rimane sicuramente colpito da questa accusa, benché essa sia dovuta ad alcuni grossolani fraintendimenti, come la confusione tra Io assoluto e coscienza empirica, e l’identificazione tra idealismo trascendentale e idealismo psicologico. La risposta a queste critiche sarebbe stata formulata con la Destinazione dell’uomo, che inaugura l’attività pubblicistica di Fichte a Berlino, dove si stabilirà in modo definitivo nella primavera del 1800.
Fichte a Berlino (1800-1814)
L’attività di questo periodo si caratterizza per una profonda separazione tra opere pubblicate e scritti inediti. Tra le prime, oltre alla Destinazione dell’uomo e allo Stato commerciale chiuso (1800), spiccano i Tratti fondamentali dell’epoca presente (1806), la Guida alla vita beata (1806) e i Discorsi alla nazione tedesca (1808). L’unica pubblicazione riguardante la dottrina della scienza come disciplina specifica è costituita dalla breve sintesi intitolata La dottrina della scienza esposta nei suoi contorni generali (1810). Come si vede, si tratta in gran parte di scritti popolari o di filosofia applicata. Se invece diamo uno sguardo ai testi inediti, ora tutti pubblicati in edizione critica, vediamo come Fichte proceda a un’incessante rielaborazione della dottrina della scienza, che dà luogo a uno dei momenti di maggiore creatività di tutta la filosofia moderna. Le principali esposizioni di questo periodo avvengono negli anni seguenti: 1801-02, 1804 (ben tre esposizioni, di particolare rilievo la seconda), 1805 (a Erlangen), 1807 (a Königsberg), infine una ogni anno tra il 1810 e il 1814, data della morte del filosofo. La Guida alla vita beata, che illustra la filosofia della religione di Fichte, presenta anche un’esposizione popolare della dottrina della scienza, cui possiamo fare riferimento per delineare lo schema generale della teoria. Sviluppando concezioni che erano apparse per la prima volta nella Destinazione dell’uomo, Fichte pone alla base della sua teoria non più l’Io che pone se stesso, ma l’Assoluto come vita originaria, che non si fonda né su un soggetto, né su un ente supremo, bensì è intesa come divenire impersonale, che trova nella coscienza dell’uomo il luogo del suo apparire. La libertà resta un momento centrale, ma non è più intesa come fondamento primo e incondizionato. Tutto ciò viene espresso, nella struttura sistematica, in termini di rapporto tra quintuplicità e infinità. Per quintuplicità Fichte intende i cinque punti di vista fondamentali a partire dai quali è possibile interpretare il mondo. Il primo è costituito dal godimento sensibile, il secondo dalla legalità, il terzo dalla morale superiore, il quarto dalla religione, il quinto dalla filosofia come dottrina della scienza. È interessante notare come, nel punto di vista della legalità, Fichte comprenda sia la visione kantiana della legge morale, sia la filosofia del diritto e della morale che egli stesso aveva sviluppato nel periodo di Jena. La morale superiore abbandona la visione formale della legge (cosa che in realtà era avvenuta già nel Sistema di etica), ma soprattutto pone il senso della vita nella capacità di creazione spirituale, che riguarda sia il piano dell’azione storica, sia quello dell’innovazione intellettuale. In questo senso, vi è una forte integrazione tra terzo e quarto punto di vista: la religione, infatti, sposta l’accento dalla soggettività creatrice alla vita divina, che è vista come principio operante al suo interno. Fatto sta che, senza la mediazione della libertà umana, la vita divina non potrebbe apparire; viceversa, la consapevolezza del principio divino operante nell’uomo rafforza quest’ultimo nelle proprie energie e convinzioni, e diventa condizione di sviluppo per ulteriori creazioni. Poiché la vita è inesauribile, essa scaturisce all’infinito, ma questo infinito non è letto da Fichte come un dato cosmologico, ma come effetto della libertà originaria di Dio, in quanto fonte incessante di nuova attività. È importante notare come Fichte, sottolineando le potenzialità creatrici della libertà, contesti alla radice ogni metafisica di tipo creazionista. Riprendendo per questo aspetto la posizione di Spinoza, egli ritiene contraddittorio con l’idea di Dio immaginare quest’ultimo come ente personale che avrebbe creato l’universo dal nulla, come a suo avviso stava facendo Schelling. Alla luce di questa visione complessiva, risulta comprensibile l’impegno di Fichte a comunicare le sue dottrine a uditori non specialisti, e ad impegnarsi anche sul piano politico (esemplari da questo punto di vista i Discorsi tenuti nella Berlino occupata dalle truppe francesi).
Gli ultimi anni della vita di Fichte (1809-1814) sono caratterizzati da un impegno intensissimo come docente nell’appena fondata università di Berlino, di cui sarà rettore tra il settembre 1811 e l’aprile 1812. Ai corsi sulla dottrina della scienza, egli fa precedere cicli di lezione introduttivi alla filosofia (i cosiddetti Fatti della coscienza), affiancati nel 1812 da due corsi di Logica trascendentale. Di particolare rilievo la rielaborazione, sempre nel 1812, della filosofia del diritto e della morale, a partire dai nuovi principi caratteristici della fase berlinese. Per quanto riguarda la filosofia applicata, infine, da segnalare i testi pubblicati postumi sotto il titolo di Dottrina dello Stato (Staatslehre, 1813), in cui Fichte sviluppa una filosofia politica su base cristologica, nella quale la dottrina della scienza viene intesa come realizzazione filosofica del cristianesimo, e base per una nuova costituzione politica dello Stato. Nel gennaio del 1814 Fichte si spegne.