OKEGHEM (Ockenheim, Hoc Queam, ecc., oltre a varie translitterazioni della prima grafia), Johannes de
Compositore di musica, nato circa il 1430, probabilmente a Termonde (Fiandre orientali), secondo altri a Okeghem, paese del Hainaut, e morto circa il 1495 a Tours. Alcuni studiosi pensano che l'O. sia stato allievo, durante un certo tempo, di G. Binchois; del che mancano però prove decisive, mentre di sicuro sappiamo che il primo avviamento alla musica egli lo ebbe presso la cantoria della cattedrale di Anversa, ove fu tra i pueri nel 1443-44. Nel '46 il giovinetto passava a Moulins nella casa di Carlo duca di Borbone, e vi rimaneva fino al '48. Nel 1450, secondo molte testimonianze, era a Cambrai, presso G. Dufay, il maggiore maestro della prima scuola franco-fiamminga. Due o tre anni dopo entrò nella corte di Carlo VII a Parigi, dove quasi subito (1454) ebbe la carica di compositore aulico e il posto di "primo cappellano" (come risulta da documenti in cui il suo nome compare nella forma francese Hoquegan), posto che conservò per lungo tempo benché già nel 1459 avesse ricevuto la nominale dignità di tesoriere dell'abbazia di S. Martino di Tours, ma a Tours effettivamente finì col trasferirsi. Le funzioni di corte comportavano del resto una certa varietà di prestazioni e di residenza: tra l'altro, una volta giunto al grado di maestro della cappella reale (1465), l'O. dovette recarsi, al servizio del re, in Spagna (1469) e nelle Fiandre (1484). Questi non furono del resto i soli viaggi intrapresi dall'O., ché la sua presenza è anche attestata a Mantova presso Isabella d'Este. Tanto per l'eccellenza dei centri musicali da lui tenuti e ancora meglio illustrati, quanto per il concorso di numerosi musicisti alla sua scuola e per gli stessi suoi viaggi, la musica dell'O. godette nel suo tempo d'una grande diffusione in tutta Europa pur non essendo stata ancora introdotta la stampa musicale a tipi mobili, potente aiuto del quale ebbero a giovarsi già J. Obrecht e poi gli esponenti della scuola franco-fiamminga e in genere gli autori della generazione più giovane, pur dell'O. in gran parte allievi diretti o comunque discepoli: Josquin Després (il maestro della terza scuola), P. de la Rue, A. Brumel, L. Compère, J. Mouton, H. Isaak, ecc. Per questa anteriorità all'uso della stampa, come per la distruzione delle copie manoscritte già possedute dalla Vaticana (fino al sacco di Roma, 1527) e dal capitolo di S. Martino di Tours, la diretta conoscenza, se non la fama, di questa produzione okeghemiana venne presto a rarefarsi, in confronto con quella mantenuta dalle musiche degli Obrecht e dei Josquin; troppo poche le composizioni date postume a stampa.
Le quali ultime, a quello che ci è effettivamente giunto, costituiscono una piccola parte del retaggio di J. de O. La messa Cujusvis toni, intera nel Missarum Liber XV edito da J. Petreius a Norimberga nel 1538, è l'unico lavoro di grande mole che si conosca in stampa ancora vicina alla composizione: gli altri si riducono a cinque canzoni, inserite da O. Petrucci due nell'Odhecaton del 1501 (Ma bouche rit, e Malheur me bat) e tre nei Canti C del 1503. Pagine date come saggio si trovano poi nelle Selectae, artificiosae et elegantes fuguae (sic), ecc., pubblicate da J. Paix nel 1587. In manoscritto ci sono giunte 15 messe (compresa la Cujusvis toni), 7 mottetti, un Deo gratias a 36 voci in canone nonuplo, 19 Canzoni, 4 canoni e un Salve Regina; dei quali lavori rimangono alla Vaticana 7 messe: Cujusvis toni, De plus en plus, Dominicalis, Nutiavail fuys, Quarti toni, Sine nomine, Vagans, e il Salve Regina; alla Bibl. Royale di Bruxelles altre due messe: Pour quelque peine, e Ecce Ancilla Domini; alla biblioteca del castello di Heidelberg il Deo gratias. Altri lavori in un codice cinquecentesco della biblioteca del Liceo musicale di Bologna e in parecchi archivî italiani ed esteri.
In edizioni moderne sono apparsi: frammenti della messa Cujusvis toni in opere storiografiche e antologiche di J. F. Rochlitz, J. N. Forkel, R. G. Kiesevetter e A. W. Ambros, della Missa prolationum nel Kontrapunkt di H. Bellermann, la canzone Se vostre coeur nella suaccennata Storia della musica dell'Ambros (vol. V), il Deo gratias di Heidelberg nella Storia della mhsica di H. Riemann (vol. II), un canone enigmatico in molte Storie, le due messe Le serviteur e Caput nei Denkmäler der Tonkunst in Österreich (vol. XIX, 1) e otto messe nel volume primo, pubblicato nel 1927 a cura di D. Plamenac, dell'edizione integrale del Corpus okeghemiano impresa dalla Deutsche Musikgesellschaft presso Breitkopf e Härtel a Lipsia.
La maggiore fama raggiunta, tra le opere okeghemiane, dalla Missa cujusvis toni, dalla prolationum, dal mottetto Deo gratias a 36 voci, dal più interessante canone enigmatico, e simili, può già di per sé indicare una delle più forti ragioni del prestigio esercitato dal maestro nel mondo suo contemporaneo, e cioè la prodigiosa sicurezza della tecnica struttiva. La quale, implicita in tutta la produzione dell'O., nelle composizioni ora citate non fa che esplicare alcune sue risorse in piena luce, mostrandosi agevolmente, quasi elegantemente, vittoriosa nei cimenti più ardui del contrappunto severo. Nonostante il pregio estetico (forse maggiore) di altre pagine, l'interessamento più vivo e duraturo destato dalla Cujusvis toni, dal Deo gratias, ecc., è legittimato da ragioni storicomusicali.
Bisogna infatti pensare che presso i maestri della prima scuola fiamminga la polifonia sacra appariva ancora monocorde, per così dire, e piuttosto rigida: espressione d'un volontario irrigidimento dell'animo nel cerchio magico del "canto" dato. Cerchio dal quale non si concepiva uscita: le voci, più die dialogare tra loro, sia pure in concordia o in virtuale identità di parola, procedono insieme, lungo le dure linee d'una scrittura ancora discantistica, quasi ignare d'una loro intima, reciproca dialettica: l'imitazione tende a categorizzarsi in un assoluto: il canone. Quando Guillaume Dufay e Gilles Binchois escono da questo cerchio, essi escono nel tempo stesso dalla scrittura severa della vera polifonia dotta, specialmente propria del mottetto chiesastico, e si trovano nuovamente vergini e vivaci nella libera scrittura della polifonia a tendenze monodico-accompagnate (tipica dell'Ars nova ormai giunta ai suoi frutti più maturi) propria delle forme profane e popolaresche. E quivi raggiungono i vertici della loro arte, insuperata nella freschezza e venustà della voluta melodica e nella saporosità dei coloriti, e chiaramente individualistica nelle posizioni spirituali quanto singolare nei movimenti stilistici.
Il momento storico segnato dalla comparsa di O. corrisponde al nuovo slancio dialettico in cui la pura frase melodica del cantus (cioè della voce superiore ed egemonica) innerva delle sue volute tutte le voci in concerto, chiamandole a pari compiti per un lirismo proprio non d'una sola di esse, ma proprio e peculiare del loro compatto e organico complesso. A più precisa individuazione del quale spostamento di valori lirici dalla voce singola al concerto, ecco le parti contrappuntistiche, rivalutate in caratteri intimamente vocali, esigere anche in pratica il loro vocale timbro, abbandonando alla musica popolaresca ogni uso di strumenti sia per riduzioni di comodo sia per sostegno o "accompagnamento". Così l'O., pur tanto meno inventivo del suo maestro Dufay quanto alla melodia, viene a valorizzare in policorde lirica la scultura a parti. Il mondo vi è sentito ormai polifonicamente, e si vengono quindi creando stilemi polifonici atti a qualunque suo moto: l'imitazione, tra gli altri, produce proprî valori espressivi (e cioè struttivi, nel mirabile intuito architettonico, unitario dell'O.) determinandosi nella figura di proposta e risposta a dialogo tra le varie voci, rese così concordi e omogenee per la comune loro sostanza melica. Il canone, non più fatale entelechia dell'imitazione, acquista per conto proprio una ragione estetica di forma componistica - una delle tante forme - e si avvia così a un magnifico sviluppo struttivo, come appunto si vede nel Deo gratias a 36 voci che elabora tra più gruppi (o cori) un canone nonuplo. E intanto il complesso normale della composizione polivocale trova presso O. il suo nucleo, sufficiente alla pienezza e all'equilibrio fonico (cioè, virtualmente, armonistico), nella partitura a quattro voci, anche oggi basilare nonostante spiegabili e preziose varianti (p. es., il madrigale cinquecentesco, di preferenza a 5). Gli stessi "generi" vengono presso O. a nuove posizioni: non soltanto il mottetto, ma anche la messa può ora esprimere polifonicamente il suo vasto e policorde mondo, e rapidamente ascende alla dignità di più importante genere dotto. E, in ultima analisi, è l'intero mondo musicale del tempo, che O., fiancheggiato da quell'Obrecht sì fortemente a lui vicino e di tanto debitore all'arte di lui, risolve in larga, ricca e diffusa coscienza polifonica.
Mondo "musicale", s'è precisato, in quanto quest'arte di O., e dei secondi Franco-Fiamminghi che intorno a O. si stringono, non impone valori immediatamente dati dalle vicende comuni di tutti, sia pur sentiti dall'individuo più egocentrico, come avveniva nella musica profana dei primi Fiamminghi, ma piuttosto valori di culturale mediazione: l'esperienza stilistica s'è andata arricchendo dal Dufay all'O. sì da costituire già di per sé un vario, differenziato mondo saturo di musicali impressioni e reazioni: O. e Obrecht sentono il loro lavoro come spiegazione e unificazione di tutte quelle eterogenee esperienze; e il lavoro s'interessa di sé stesso, si fa consapevole del suo logico congegnarsi, s'avvia a finalità esplicitamente estetiche. Nella serena, ampia architettura sonora della messa okeghemiana, un intimo senso di logicismo in cui l'individuo cede all'impersonale razionalità. La strada di O., come anche quella di Obrecht, sembra di solito illuminata più dalla riflessione che da un vivido sentimento di gioia o di dolore. E non per nulla a O. seguirà Josquin Després e la terza scuola, a riportare sulla scena musicale un nuovo prepotente soggettivismo, impuro e fecondo.
Bibl.: Oltre ai cenni dedicati all'O. in tutte le opere storiografiche, v. specialmente: M. Brenet, J. de O. (bio-bibliografico), Parigi 1893, rifuso in Musique et musicien de la vieille France, ivi 1911; Comte de Marcy, Un musicien flamand: J. de O., Termonde 1895; D. Plamenac, Autour d'O., in Revue musicale, febbraio 1928; id., J. O. als Motetten- und Chansonkomponist, dissert. all'università di Vienna, 1925, inedito.