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ADAMS, John

di Loenardo Vitetti - Enciclopedia Italiana (1929)
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ADAMS, John

Loenardo Vitetti

Nacque a Merry Mount, piccola terra del Massachusetts, dove ora sorge Quincy, il 30 ottobre 1735, da John Adams, piantatore, di antica famiglia del Devonshire, che si vantava di avere avuto per un secolo le proprie case e i campi nella Nuova Inghilterra. Nel 1755, ottenuto a Harward College il suo diploma accademico, A. divenne maestro di scuola a Worcester; e l'anno dopo, senza lasciare l'insegnamento, si diede allo studio delle leggi e alla pratica della giurisprudenza sotto la guida di Rufus Putnam. Erano i tempi della guerra indiana e francese; e il giovane A. aveva vaste idee sulle fortune del suo paese e la visione di un'America impero dell'avvenire, sede della sapienza e della potenza, più popolosa, di là a cent'anni, dell'Inghilterra, e capace di resistere a ogni tentativo europeo di sottometterla. Erano idee che dovevano, poi, potentemente influire sopra la sua attività politica. Ammesso, nel 1758, all'esercizio della professione di avvocato, cominciò presto a interessarsi alle questioni costituzionali sollevate da quei provvedimenti del governo inglese, che dovevano preludere alla riforma imperiale. E quando, dopo la pace di Parigi, la riforma fu iniziata con il proclama di ottobre (1763) e con lo Stamp Act (1765), egli prese una posizione di prima linea tra i whigs del Massachusetts, e tra gli assertori e difensori dei diritti delle colonie di fronte al governo regio: tanto che, nel 1765, fu scelto con altri a delegato della città di Boston, per far valere questi diritti. Il fondamento giuridico, sul quale le colonie respingevano la tassazione imperiale, egli espose lucidamente davanti al governatore e al Consiglio, in un discorso la cui tesi ultima dell'invalidità costituzionale della legge sul bollo (Stamp Act) - che cioè il Massachusetts, non essendo rappresentato nel Parlamento, non aveva consentito ad essa - doveva poi rappresentare il più vigoroso argomento dei coloni durante tutto il primo periodo della rivoluzione, fino alla dichiarazione d'indipendenza. A. si staccava con questa tesi tanto dal rivoluzionarismo demagogico, quanto dal naturalismo teorico; e gettava le basi di una dottrina che poi completò, esponendola organicamente nel suo Novanglus or history of the dispute with America (1764). Le idee che risultano da questo scritto possono riassumersi nel seguente schema: le colonie non hanno mai riconosciuto l'autorità del parlamento, e hanno anzi più volte protestato contro di esso. Esse hanno fatto, è vero, delle concessioni, ma non nei loro affari interni, sibbene solo nelle relazioni imperiali. Gli Acts of trade (Leggi sul commercio) erano stati, in pratica, accettati dalle colonie come dei trattati di commercio, ed erano da considerarsi una volontaria cessione di poteri da parte loro: cessione che dava facoltà al parlamento di esercitare la sua autorità in materia di relazioni commerciali, ma non in materia di affari interni delle colonie. Fu questa la posizione costantemente tenuta da A. durante tutto il primo periodo della rivoluzione.

Nel 1774, A. fu scelto membro del Congresso continentale, al quale appartenne fino al 1778. In seno al Congresso, egli sostenne vigorosamente la tesi della secessione e della indipendenza; ed esercitò un'influenza delle più risolutive in questo senso, come anche in favore della scelta di Giorgio Washington a comandante in capo dell'esercito rivoluzionario. Venuto in discussione il problema dei rapporti con la Francia, egli fissò alcuni principi sulla politica estera degli Stati Uniti, mirabili per precisione e chiarezza e per la definizione che essi ormai contengono della politica dell'isolamento continentale da adottarsi dagli Stati Uniti: niente alleanza politica e militare con la Francia, ma un accordo commerciale che non impegnasse gli Stati Uniti in un sistema politico. Nominato, nel 1778, delegato del Congresso continentale in Europa, al posto di Silos Deane, egli giunse a Parigi che il trattato franco-americano del 6 febbraio era già firmato. Tornò in America, e fu di nuovo inviato in Europa nel settembre 1779, come plenipotenziario per i negoziati di pace con l'Inghilterra, che allora sembravano possibili. Nel luglio del 1780 fu inviato all'Aia, dove negoziò con successo il prestito olandese alle colonie, e ottenne il riconoscimento dell'indipendenza americana e un trattato di amicizia e di commercio che, nel suo pensiero, doveva, allargando il sistema diplomatico degli Stati Uniti, indebolire l'influenza francese. Contro questa influenza, e per una politica estera americana indipendente, egli costantenente si batté. Dopo aver sostenuto al Congresso, nel 1776, la tesi dell'isolamento politico, delegato a Parigi sostenne (1782) in seno alla delegazione americana e fece valere la tesi dell'indipendenza dei negoziati anglo-americani e volle condurre infatti questi negoziati direttamente con i plenipotenziarî inglesi, senza consultarsi con il governo francese, secondo le istruzioni del Congresso.

Conclusa la pace e stabilite le relazioni diplomatiche con l'Inghilterra, A. fu nominato (1785) ministro americano a Londra, dove scrisse una famosa Defense of the constitution of government of the United States (1788). Eletto poi vice-presidente della repubblica e tornato negli Stati Uniti (1789), si trovò, proprio nel periodo più oscuro della storia americana, e mentre l'opera nazionale della rivoluzione pareva dovesse cadere nell'anarchia e nel dissolvimento, a vivo contatto con i problemi della organizzazione di un governo popolare. Ne trasse la convinzione che la democrazia illimitata non era che una forma di tirannia e che ad essa bisognava opporsi con tutte le forze. Fuori che nella prima giovinezza, quando, assertore dei diritti dell'uomo, egli aveva proclamato che "dove finiscono le elezioni annuali comincia la schiavitù", A. non era stato mai molto incline alle teorie democratiche e, meno ancora, alle innovazioni radicali contro le quali egli aveva reagito, negli stessi entusiasmi della rivoluzione, fino al 1776. Poi lentamente, nel corso degli anni, aveva piegato sempre più verso una concezione dello stato che fu giudicata nettamente anti-democratica. Uomo diritto e sincero, A. espose le sue idee sullo stato, prima nella sua Defense, poi nei Discourses on Davila (1790), con la stessa determinazione e con la stessa chiarezza con le quali trent'anni prima aveva esposto il sistema teorico dei diritti delle colonie di fronte al governo regio, e con le quali aveva sostenuto la necessità dell'indipendenza. Senza respingere la dottrina della sovranità popolare, sulla quale la giovane repubblica era fondata, A. attaccò con energia la concezione di uno stato egualitario e democratico, e rivendicò la funzione storica e politica delle aristocrazie. Il principio che egli essenzialmente negava non era quello della sovranità popolare, ma proprio quello dell'uguaglianza degli uomini, che la "Dichiarazione d'indipendenza" (1776) aveva affermato. Ed egli concludeva per l'esistenza di un'aristocrazia e quindi di una divisione naturale della nazione in due gruppi: quello dei gentlemen e quello dei simplemen; quello degli uomini superiori, per qualunque virtù o ricchezza o per nascita, e quello degli uomini comuni. Un'aristocrazia, anche ereditaria, era necessaria, secondo A., alla stabilità degli stati; ed egli non ripugnava teoricamente dalla monarchia ereditaria, che in ogni caso gli sembrava preferibile al governo illimitato del popolo. Ostile al sistema elettorale, che gli sembrava aver fallito ovunque, scettico in fondo sulla capacità del popolo a governarsi da sé, egli esitò tra un re e un presidente della repubblica a vita. Il popolo deve avere parte nel governo: ma la sua azione deve essere limitata dal potere di un primo magistrato e da quello di un'aristocrazia politicamente rappresentata. Ecco, dunque, lo stato di A.: un senato aristocratico, un'assemblea popolare e un capo del potere esecutivo, arbitro trai due. Veramente, A. non pensava allo stabilimento immediato di una monarchia negli Stati Uniti, ma riteneva che il suo avvento fosse fatale, perché la gelosia, l'invidia e la ingratitudine avevano sempre rovinato ogni stato democratico.

Durante gli otto anni (1789-1796) in cui egli tenne l'ufficio di vice-presidente, i suoi rapporti con Washington non furono molto felici. Del resto, il suo carattere rese per tutta la sua vita difficili i rapporti con tutti: con Vergennes e con Hamilton, con Washington e con Jefferson. Washington lo allontanò a poco a poco dagli affari e, negli ultimi anni del suo ufficio, cessò di consultarlo. Poco amato in fondo, ma ammirato e stimato per la sua determinatezza e la sua onestà, egli, quando Washington si ritirò dalla presidenza, sembrò il candidato naturale del partito federalista e fu eletto presidente nel 1796. Tenne quest'ufficio fino al 1800, per quattro anni che furono i più oscuri forse della sua vita e della sua carriera. Succeduto a un uomo della popolarità e autorità di Washington, senza la gloria di lui, sospettato dal partito militare che lo riteneva ostile all'esercito permanente e circondato da una rete di imbrogli politici, attaccato aspramente per il suo atteggiamento verso la Francia, giudicato dagli uni incostituzionale, dagli altri debole ed equivoco, con Washington, ridivenuto comandante in capo dell'esercito, che aveva idee sue, con Hamilton che dominava il gabinetto e aveva una propria politica, egli rimase per quattro anni isolato e incompreso nella rissa tra le varie fazioni in cui il partito federalista si era scisso. Nel 1800, ripresentato come candidato federalista per l'ufficio di presidente, egli fu battuto da Jefferson, che utilizzò contro di lui l'opposizione popolare alle Alien and Seditious Laws. Si ritirò allora a vita privata a Quincy, dove morì, il 4 luglio 1826, il giorno stesso in cui si celebrava il cinquantesimo anniversario della "Dichiarazione di Indipendenza.".

Bibl.: C. F. Adams, The Works of John Adams, with Life, Boston 1850-56, 10 voll.; John e Abigail Adams, Familiar Letters during the Revolution, Boston 1875; M. Chamberlain, John Adams, the Statesman of the Revolution, Boston 1898.

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