DRYDEN, John
Poeta e letterato inglese, nato nella contea di Northampton nel dicembre 1631 da genitori nobili appartenenti a famiglie che avevano seguito la causa dei puritani nelle ultime guerre civili. Il ragazzo fu mandato alla scuola di Westminster, dove, sotto la guida del famoso dott. Busby, acquistò una sana cultura classica. Lì, all'età di 17 anni, scrisse i suoi primi versi che conosciamo, un lamento in distici eroici per la morte del suo compagno di scuola, lord Hastings; il componimento è nello stile iperbolico e artificioso messo in voga dal Cowley. Nel 1651 entrò nel Trinity College di Cambridge e nel 1654 prese il diploma di baccelliere. Nello stesso anno perdette il padre, dal quale ereditò una modesta fortuna che gli permise, dopo altri tre anni passati a Cambridge, di stabilirsi a Londra per seguire la sua vocazione letteraria. In principio contrasse relazioni fra i membri del partito repubblicano, e alla morte di Cromwell compose A poem on the death of his late Highnes Oliver etc., (1659), in "quartine eroiche" come quelle usate dal Davenant nel suo poema eroico Gondibert (1656).
In questo poema, il primo in ordine di tempo degno di essere ricordato, si rivela già nell'insieme la dignitosa chiarezza dello stile della sua ultima maniera, quantunque parecchie stanze siano sciupate da un'inopportuna mostra di erudizione e di concetti peregrini. L'omaggio a Cromwell è generoso e bene espresso, e nel poema risuonano note di sincero patriottismo. Ma per quanto non abbiamo motivi per dubitare della sincerità di D. in quel momento, certo è che il regime puritano tanto poco si confaceva alla sua natura, che nel 1660 lo vedremo unire la sua voce a quella del gaudio pubblico nell'Astrea Redux, a poem on the happy Restoration and Return of his sacred Majesty Charles II, che fu seguito nei due anni successivi da un panegirico sull'incoronazione, e da un poema a Clarendon, Cancelliere dello Scacchiere. Nell'Annus Mirabilis (1666) celebrò in 304 quartine eroiche le vittorie riportate contro gli Olandesi, e il grande incendio di Londra. Il poema è prolisso, e viziato in tutta la sua estensione dallo stile affettato ancora in voga; ma contiene molte parti efficaci ed eloquenti, particolarmente il contrasto fra il morale delle flotte rivali, e la profezia sulla futura grandezza di Londra. Il successo dell'Annus Mirabilis fu in parte causa che nel 1668 ricevesse la nomina di poeta laureato e di storiografo reale. Ma i suoi poemi d'indole commemorativa ed encomiastica non gli avevano reso molto dal punto di vista economico. Nonostante il suo matrimonio con Lady Elizabeth, sorella dell'amico sir Robert Howard (1663), che segnò un piccolo accrescimento della sua fortuna, i suoi mezzi rimanevano sempre molto al di sotto di quel che occorreva per vivere nella società degli uomini eleganti. A quel tempo soltanto il teatro offriva agli scrittori la possibilità di un certo lucro, e al teatro si dedicò quindi D. per quasi venti anni (1663-1681) benché riconoscesse da sé che quella non era la sua speciale attitudine. Scrisse in tutto 27 drammi; e sembra che per qualche tempo da questa fonte non ricavasse meno di 400 sterline all'anno. I suoi lavori teatrali si possono dividere approssimativamente in tre categorie: commedie, tragicommedie e drammi eroici. Egli li scriveva seguendo la sua ispirazione e le esigenze del pubblico, ma non trascurò di sviluppare e difendere la teoria e la pratica della sua arte drammatica nell'Essay on Dramatick Poesie (1668) e nelle prefazioni che faceva precedere alla pubblicazione dei suoi drammi; scritti che, presi insieme, costituiscono un brillante e sostanzioso contributo alla critica drammatica. Il suo primo lavoro, una commedia in prosa, The Wild Gallant, non ebbe successo; a questo fece seguire The rival Ladies, tragicommedia in versi sciolti alla maniera di Beaumont e Fletcher. Con The Indian Emperor iniziò la serie dei drammi eroici in strofe di versi decasillabi nella quale raggiunse il culmine della sua arte con The Conquest of Granada (2 parti, 1669-70) e Aurengzebe (1675). A questi drammi deve D. il suo posto ben chiaro e definito nella storia del dramma inglese. I motivi fondamentali di essi sono l'amore eroico e l'onore, intrecciati in situazioni artificiose sempre, spesso comicamente artificiose, e presentati in un linguaggio in cui brani di vera grandezza retorica si alternano con brani ampollosi e vacui. Nel 1667 segnò al suo attivo due successi con Sir Martin Mar-all, una commedia nello stile di Molière, e The Maiden Queen, una tragicommedia che però nel suo genere fu superata dal posteriore Spanish Friar. All for Love (1678), in versi sciolti, è un'opera che sta a sé; si potrebbe descrivere come l'Antonio e Cleopotra di Shakespeare gallicizzata. L'autore ne parlava come del suo dramma migliore, e i posteri hanno generalmente condiviso il suo parere.
Frattanto gli affari nazionali volgevano verso una crisi che doveva dar modo a D. di dimostrare il suo vero talento. L'autorità facilmente ricuperata dalla Corona nei primi anni della restaurazione le veniva ora contesa da un'aspra e potente opposizione; l'asservimento di Carlo II alla Francia era profondamente criticato, mentre la sua devozione alla Chiesa di Roma, di cui erano membri confessi la moglie, la favorita e il fratello Giacomo, erede al trono, sollevava l'indignazione e l'allarme della popolazione protestante. Il problema della successione divise il paese in due partiti dei whigs e dei tories. Nel 1681 Shaftesbury capo dei whigs riuscì a far approvare dalla Camera dei comuni un decreto che escludeva Giacomo dal trono con la mira di assicurare la successione al duca di Monmouth, il maggiore dei figli illegittimi di Carlo. Ma i whigs spinsero troppo oltre il loro successo, in un'ondata di reazione contro la furia antipapista degli estremisti; Shaftesbury fu arrestato e imputato di alto tradimento. Una settimana prima del processo entrò in lizza D., che nel suo Absalom e Achitophel, presentò la situazione dal punto di vista tory. In alcune satire del tempo era stata già osservata l'analogia fra Carlo e David, e fra Shaftesbury e Achitophel; da questo spunto il D. prese le mosse per sviluppare la maggior satira politica inglese. Senza soffermarsi sui particolari dell'allegoria, nello schema generale del poema il D. contempla la situazione politica nelle sue linee principali. Achitophel, l'uomo politico calcolatore e senza principî, che mette su il figlio contro il padre; Assalonne, il giovane debole e affascinante, zimbello di un uomo astuto, e Zimbri, l'instabile e inconcludente dilettante della politica e della vita, sono tutti capolavori di ritratti satirici.
Presto fece seguire un'altra satira, The Medal, contro Shaftesbury, in cui assaltò fino alla più deliziosa canzonatura l'incostanza della folla onnipotente" che sosteneva Shaftesbury. Il successo che ebbe con queste satire è attestato dalla quantità di risposte scurrili ma inefficaci che provocò nel partito whigs. A due, le principali, si degnò di replicare. In un magnifico poema eroico, il Mac Flecknoe, piantò Shadwell sul trono della stupidità, e nella seconda parte dell'Absalom e Achitophel che fece scrivere da Nahum Tate un mese dopo (novembre 1682) sotto la sua direzione, aggiunse i personaggi di Doeg e di Og, nei quali schiaccia Shadwell e Settle sotto il ridicolo. Con questi quattro poemi, scritti tutti in dodici mesi, D. portò la satira inglese alla sua più alta espressione.
Nella stessa epoca attendeva al poema Religio Laici or A Layman's Faith, nel quale discuteva la credibilità della religione cristiana e i meriti della dottrina e del governo della Chiesa anglicana. Senza possedere lo splendore dello stile delle satire, questo poema è un bell'esempio di ragionamento chiaro e di espressione lucida. Ma poco dopo questa abile difesa della Chiesa inglese, D. si convertì alla Chiesa romana, e quando salì al trono Giacomo II (1685) fece la sua comparsa alla messa pubblica. Una conversione dalla quale gl'interessi mondani hanno tanto da avvantaggiarsi riesce inevitabilmente sospetta; tuttavia non abbiamo ragione per dubitare della sincerità di questa. È stato detto giustamente di D. che aveva un'intelligenza da sovrano e una volontà da schiavo; d'altra parte in lui era istintivamente radicato il rispetto per l'autorità. Però se anche i motivi che lo spinsero a quella conversione non erano del tutto puri, sembra che trovasse nella nuova fede la pace definitiva del suo spirito, perché le restò fedele anche dopo la rivoluzione, quando avrebbe avuto tutto da guadagnare ritrattandosi. In The Hind and the Panther (1687) fece l'apologia della sua conversione. L'assurdità della favola animale, nella quale la Chiesa di Roma, rappresentata da "una cerbiatta candida come il latte", discute con la Chiesa anglicana, "la più nobile delle creature chiazzate", di soggetti quali i sacramenti, la tradizione e l'infallibilità del papa, fece di questo poema un facile bersaglio per il ridicolo, e Prior e Montague ne approfittarono per scrivere The Hind and the Panther transversed to the story of the Country Mouse and the City Mouse. Tuttavia nessuna delle opere di D. presenta maggior ricchezza o varietà di questa. La discussione vi è lucida e ordinata come in Religio Laici, i ritratti satirici, come quello del Burnet, raffigurato nel falco, hanno lo stesso vigore e acutezza che nelle satire anteriori, mentre nella favola delle rondini D. dimostra un talento narrativo facile e affascinante e una fantasia delicata che prelude alla sua ultima maniera. Anche lo stile presenta una varietà che indusse il Pope a dichiarare questo poema, dal punto di vista metrico, la maggior opera compiuta dal Dryden.
Con l'abdicazione di Giacomo II e col rinsaldarsi del regime protestante (1688) D. rimase privo dell'alloro ufficiale e di tutte le pensioni e i favori che poteva aspettarsi dalla Corona; e benché conservasse qualche protettore, allora più che mai si trovò a dipendere dalla sua penna. Affrontò l'avversità con coraggio e fermezza. Cominciò con lo scrivere nuove opere teatrali, due delle quali, Amphitryon, commedia che deve molto a Plauto e a Molière, e Don Sebastian, tragedia in versi sciolti, sono fra le opere migliori che abbia dato al teatro (1690). Ma per il cespite principale di guadagno si rivolse ai librai, e ormai dedicò le sue maggiori energie a fare traduzioni. Alla fine del sec. XVII, il riconoscimento generale della supremazia dei poeti greci e latini, e l'aumento del numero dei lettori, incapaci per lo più di leggere gli originali, creò un'esigenza di cui D. si rese presto conto, affrettandosi a farle fronte. Già attraverso il libraio Tonson aveva pubblicato nel 1684-85 due volumi di Miscellanies, che contenevano traduzioni delle egloghe di Virgilio, e alcuni brani di Ovidio, Lucrezio, Teocrito, Omero e Orazio. Nel 1693 nell'Examen Poeticum presentò Persio e molto di Giovenale, con brani delle Metamorfosi e dell'Iliade. Il successo di questo volume lo indusse a intraprendere la traduzione di tutto Virgilio, alla quale attese per tre anni, e per cui ricevette compensi variamente stimati fra le 1000 e 1300 sterline (1697). Il principio che seguiva nel tradurre, e che espone in varie prefazioni, era: "parafrasi o traduzione libera". Poco si curava di riprodurre lo stile o lo spirito dell'originale; conservava la materia del soggetto, e compensava l'inevitabile perdita delle bellezze originali con l'aggiunta di nuovi elementi ("perché al poeta soltanto spetta tradurre il poeta") presentando l'insieme in uno stile lucido e splendente e in versi melodiosi. In Lucrezio raggiunse i migliori risultati, ma con l'impareggiabile dolcezza di Teocrito non poteva rivaleggiare. Anche la profondità e la maestosità di Virgilio erano al di là delle sue forze: tuttavia riuscì a infondere nella sua Eneide un po' della vigoria e della magnificenza di stile dell'originale.
L'opera che seguì fu Fables, ancient and modern (1700), nella quale pubblicò, insieme con altre traduzioni da Omero e da Ovidio, rifacimenti liberi, cinque da Chaucer e tre da Boccaccio. Nella prefazione, che è una divertentissima critica in forma discorsiva, lancia una sfida al gusto convenzionale del tempo, proclamando spavaldamente di preferire Chaucer a Ovidio. La sua ignoranza dell'inglese antico, e la corruzione dei testi chauceriani che si trovavano allora, gl'impedì di valutare al giusto la squisitezza dell'arte metrica del Chaucer, ma in tutto il resto che dice sul genio di lui mostra di averlo ben compreso. Per noi queste versioni hanno poco valore; D. era infatti ben lontano dal poter riprodurre la semplice delicatezza e l'aderenza alla natura del grande poeta; e soltanto nei brani di maggior splendore retorico del Palamon and Arcite si accosta al modello; ma rese un grande servigio al suo tempo risvegliando l'interesse per un autore caduto in oblio. Nelle novelle del Boccaccio trovò invece una materia più affine alla sua natura, e specialmente con Theodore and Honoria fece un capolavoro di vivace poesia narrativa, di vigoria e di rapidità tali che non trovano confronti finché non si giunge a Byron, e di tanta grazia e naturalezza da sorpassare ogni sua opera precedente. Insieme con le Fables pubblicò la famosa ode Alexander's Feast, che, ci dice egli, era considerata da tutti la migliore delle sue poesie. Noi, leggendola oggi, pur dovendone riconoscere la grandiosità della concezione, la sentiamo più meccanica e retorica che poetica. La sua non era davvero un'età che incoraggiasse le più sottili forme dell'espressione lirica; ma così in questa, come nelle altre odi e nei canti sparsi nei suoi dramni, senza dubbio D. torreggia fra i suoi contemporanei per abilità metrica e fertilità, di tanto quanto li superava nella strofe eroica. Similmente eccelle nell'elegia, nelle epistole famigliari poetiche e nelle poesie d'occasione - quali per es., quelle dedicate alla memoria di John Oldham (1684), a Congreve (1694), al cugino John Dryden, e la dedica delle Faoles alla duchessa di Ormond - nelle quali in versi facili e nobili fa una critica acuta e illuminata della vita e della letteratura.
D. morì nel maggio 1700 e fu sepolto nell'abbazia di Westminster. Benché fosse allora povero, e avesse perduto il favore della corte, pure mai come nella sua tarda età stette tanto in alto nella stima del pubblico. Seduto nella sua vecchia poltrona al famoso caffè Wills', rimase per anni l'arbitro del gusto del pubblico, come indubbiamente era l'espressione più piena e completa dello spirito del tempo. Il suo genio non era essenzialmente originale, e in nessuno dei varî generi che tentò si può dire che sia stato un innovatore; era più atto a migliorare che a inventare, e non tanto a guidare il gusto del pubblico, quanto ad afferrarne la tendenza, e a esprimerla con impareggiabile vigoria e distinzione. Quando D. cominciò la sua carriera, furoreggiavano i concetti metafisici, e allora superò anche il Cowley in stravaganza; ma orientandosi gradatamente il gusto del pubblico verso la logica e il buon senso, anch'egli cominciò a sdegnare tutti i boyisms di uno spirito falso e ad accettare "la proprietà delle parole e del pensiero" col criterio di un buono stile. In poesia il Waller e il Denham avevano già introdotta la moda di una strofa eroica corretta e dolce, nella quale il senso della frase era ristretto nel distico; D. fece suo il loro strumento, dandogli però un ardire e una fluidità che essi non avevano mai sognato. Che se ne servisse per le discussioni chiare e precise, o per le pungenti antitesi della satira, o per la narrazione naturale e rapida, sapeva renderlo ugualmente efficace e appropriato a quel certo suo fine particolare; e se il discepolo Pope lo superò nella rifinitezza, eliminando quell'abuso dell'alessandrino e della terzina che forse adombra l'arte del D., gli rimase indubbiamente inferiore per quanto concerne varietà e vigoria. Inoltre, mentre il Pope eccelleva soltanto nella strofa, D. aveva una padronanza perfetta di tutti i metri allora in voga. Ma è nei suoi ritratti satirici che egli si lascia indietro tutti gli altri poeti inglesi. Al contrario di quella del Pope, la sua satira è sempre benevola. Conservando di fronte alle sue vittime una superiorità olimpica e una coscienza della sua grandezza che non è arroganza, le schiaccia sotto il ridicolo invece che coprirle di fango. E i suoi ritratti migliori non sono soltanto caricature di determinati individui, ma hanno in loro elementi di universalità. Come scrittore, il suo difetto principale è la trascuratezza. Osservò giustamente il Pope che D. non aveva "l'arte di cancellare". Non avendo da temere rivali, lasciava passare versi di cui uno scrittore più coscienzioso si sarebbe vergognato. Specialmente nei drammi, provando per il pubblico un certo disprezzo, lasciava tener dietro ai più bei versi un brusco contrasto (bathos), che si sarebbe affrettato a mettere in ridicolo in un altro. Inoltre non sempre sapeva distinguere quello che era strano ma originale da quello che era assurdo. Pigro di carattere, aveva bisogno di essere stimolato; ma quando tutte le sue facoltà erano deste, scriveva con un gusto e un piacere che trascinavano il lettore.
Nella prosa inglese D. ha altrettanta importanza che nella poesia. Anche in questo campo seppe secondare il gusto del tempo per la lucidità, la semplicità e la grazia spontanea, superando felicemente ogni rivale. "L'insieme" dice Johnson "è arioso, animato, vigoroso; quel che è piccolo, è gaio, e quel che è grandioso è splendido". D. è il primo grande scrittore moderno in prosa, come anche il primo critico inglese. Benché a volte fosse impacciato nelle sue vedute generali dalle regole a cui la società del suo tempo dava tanta importanza, si riserba sempre la libertà di ammirare quel che è degno di ammirazione, e per es., le sue osservazioni su Shakespeare e Chaucer sono felici modelli di giustificato encomio. Ma sia nella prosa sia nella poesia, la forza e la debolezza di D. sono quelle del suo tempo. Egli rimane inferiore ai più grandi poeti per la sublimità del pensiero e la profondità intuitiva della fantasia; ma nessun altro scrittore ha mai mostrato un più ampio repertorio, né ha dominato così magistralmente la letteratura del suo tempo.
Opere: Works, ed. Scott, riveduta da Saintsbury, voll. 18, Londra 1882; Poems, ed. Christie, Londra 1870; ed. Sargeaunt, Londra 1910, Essays, ed. Ker, voll. 2, Oxford 1900.
Bibl.: Johnson, Life & Criticism, in Lives of the Poets, Londra 1781; G. Saintsbury, Life, in English Men of Letters Series, Londra 1881; A. Beljame, Le public et les hommes de lettres en Angletere (1660-1744), Parigi 1881; A. Ward, Cambridge History of Engl. Lit., VIII, Cambridge 1912.