Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
La breve presidenza di John Fitzgerald Kennedy ha segnato una svolta politica e caratterizzato un’epoca. Il progetto della nuova frontiera, prima ancora che dagli spari di Dallas, è stato fermato dall’opposizione del Congresso americano alle proposte del presidente e soprattutto dalle difficili condizioni dello scenario internazionale. Pur nel passaggio dalla guerra fredda a una nuova fase di distensione, gli anni Sessanta sono infatti segnati dall’incombente pericolo di uno scontro nucleare. La prospettiva di rinnovamento tracciata da Kennedy contribuisce tuttavia a rinsaldare le ragioni ideali dell’egemonia americana e rimane a lungo come punto di riferimento nel patrimonio della democrazia occidentale.
Le radici del kennedismo
L’età kennediana è racchiusa in due date: il 20 gennaio 1961, il giorno dell’insediamento alla Casa Bianca di John Fitzgerald Kennedy, e il 22 novembre 1963, allorché il trentacinquesimo presidente degli Stati Uniti d’America è ucciso a Dallas dai colpi di un fucile telescopico mentre attraversa la città su un’auto decappottata. L’eccezionalità di questo passaggio storico consiste proprio in una durata estremamente breve, neanche tre anni di governo, controbilanciata da un’intensità di progetti e di speranze di rinnovamento che sopravvivono alla scomparsa del suo eponimo, al punto da avvalorare una mitologia storica che riconosce nell’America dei Kennedy un periodo di svolta della politica contemporanea. Il kennedismo sovrasta i meriti realmente acquisiti dalla gestione della presidenza Kennedy, ma affonda le proprie radici nel precipitare degli equilibri del dopoguerra. Sicché quella presidenza si trova effettivamente ad assumere un ruolo decisivo nel passaggio dall’epoca della guerra fredda a quella della distensione internazionale, con importanti ricadute sui rapporti con l’Europa e sulla stessa vita americana.
La carriera politica di John Kennedy inizia nell’immediato dopoguerra. Proveniente da una famiglia di origini irlandesi e figlio di un importante uomo d’affari che nel corso degli anni Trenta aveva sostenuto l’ascesa al potere di Franklin Delano Roosevelt, Kennedy ottiene la sua prima elezione alla Camera dei rappresentati nel 1946 tra le file del Partito Democratico. Non ha neanche trent’anni, ma può investire in politica un più che cospicuo patrimonio familiare e riesce a consolidare i propri consensi con un sostegno attivo, ma non pedissequo, alla linea democratica. Così, per esempio, si schiera subito a sostegno del piano Marshall e dei progetti in favore dell’edilizia popolare, ma contesta apertamente la presidenza Truman per la condiscendenza dimostrata nei confronti dell’affermazione comunista in Cina. Nel 1952 Kennedy realizza una tappa fondamentale della sua ascesa politica, conquistando con appena il 51,4 percento dei voti il collegio senatoriale del Massachusetts, prima di allora controllato dal Partito Repubblicano. Da quel momento in poi il Massachusetts sarà la roccaforte elettorale dei Kennedy (alle successive elezioni John supera il 70 percento dei consensi) e il collegio senatoriale appannaggio della famiglia.
Da senatore, Kennedy avanza senza successo una prima candidatura per la vicepresidenza alla Convenzione democratica per le elezioni del 1956, che vedono poi prevalere il repubblicano Eisenhower, e inizia così con largo anticipo a lavorare alla successiva campagna presidenziale. Già nel 1957 egli avvia un giro di conferenze per l’intero territorio degli Stati Uniti, che lo porta ad accumulare più di 150 incontri e costituisce la prima affermazione di popolarità per un politico giovane, dal programma ancora indefinito, ma con un impatto sull’opinione pubblica assai diverso rispetto alla consolidata immagine dell’uomo di potere americano di fine anni Cinquanta.
La presidenza di Eisenhower è ricordata come una stagione di appannamento dell’egemonia americana. L’amministrazione sembra incapace di governare le tensioni interne, derivanti soprattutto dall’acuirsi dei conflitti razziali, mentre assiste passivamente all’insediamento di un regime comunista nella vicina isola di Cuba, non riesce a contenere la corsa agli armamenti dell’Unione Sovietica ed è coinvolta con prospettive alquanto incerte nei conflitti del Sud-Est asiatico. La nazione americana comincia a interrogarsi sui costi della guerra fredda, tra spinte isolazioniste che tradizionalmente affiorano nei periodi di crisi e un crescente distacco dalle sorti dell’Europa, dove la politica di de Gaulle e la crisi del canale di Suez contribuiscono ad allargare il solco euro-atlantico. La comparsa sulla scena di una giovane generazione politica, di cui John Kennedy rappresenta l’esponente di maggior risalto, riporta così l’attenzione su un Paese che per la prima volta nella sua storia appare piegato sul passato e sfiduciato nei confronti dell’avvenire.
Le nuova frontiera
Nell’interpretazione dell’epopea kennediana è stato spesso attribuito più risalto all’immagine rispetto che ai programmi: all’apparenza piuttosto che alla sostanza. Il giovane politico americano, aiutato anche dalla presenza al suo fianco della moglie Jacqueline Bouvier, figlia di un agente di cambio, riserva all’impatto con i mezzi di comunicazione un’attenzione superiore a quella sino ad allora accordata dai politici di professione. È però innegabile che l’elemento dirompente di quella politica sia costituito soprattutto dal fascino programmatico di una nuova frontiera, ossia dall’intuizione che dalla stagnazione americana non si possa emergere in altro modo che con un salto in avanti, con una rottura netta con il passato. La percezione della difficoltà americana corrisponde a un giudizio diffuso anche al di fuori degli Stati Uniti e al tempo stesso riflette una capacità di reazione più dinamica di quella europea. Da questo punto di vista il richiamo esplicito all’esperienza di Roosevelt (così nel discorso sulla nuova frontiera: “dopo Buchanan, questa nazione ha avuto bisogno di Lincoln, dopo Taft di Wilson, dopo Hoover di Franklin Roosevelt e ora, dopo otto anni di sonno drogato ed inquieto, questa nazione ha nuovamente bisogno di una leadership democratica forte e creativa per la Casa Bianca”) costituisce la chiave di lettura più efficace per comprendere il kennedismo. Vi si esprime infatti la consapevolezza che il futuro è legato alla capacità di riscatto dimostrata dagli Americani, con una sorta di chiamata di correo che punta a stimolare le migliori energie in una popolazione tradizionalmente in grado di offrire il meglio di sé nelle occasioni cruciali. In questo modo si conferma anche la capacità di leadership da parte degli Stati Uniti, che affrontano le difficoltà affidandosi alla guida di un gruppo dirigente quarantenne, laddove la classe politica europea è ancora quella del dopoguerra. Una volta eletto alla presidenza – in un confronto con il repubblicano Nixon, vicepresidente di Eisenhower, poco più anziano di lui –, Kennedy si circonda di uno staff giovane e di forte impronta intellettuale, che comprende tra gli altri il fratello Robert (ministro della Giustizia), lo storico Schlesinger, l’economista Rostow, il fisico Wiesner.
Come il New Deal degli anni Trenta, così la nuova frontiera kennediana non nasconde la minaccia di una crisi irreversibile, ma offre anche una prospettiva per uscire da quella crisi. Nel discorso alla Convenzione democratica che lo ha designato per la corsa presidenziale, preferendolo con largo margine al texano Lyndon Johnson che sarà suo vice-presidente, Kennedy accentua semmai i toni della crisi accennando a “ignote opportunità e pericoli” e chiamando l’elettorato a responsabilità dirette: “La frontiera di cui vi parlo non assicura promesse, ma soltanto sfide. Non esprime ciò che io voglio offrire agli americani, bensì ciò che voglio chiedergli”. Questa linea si rivelerà vincente, riversando sul rivale repubblicano la responsabilità di un grigiore senza prospettive e allargando l’orizzonte sugli elementi costitutivi del sogno americano: “Le rotte inesplorate della scienza e dello spazio, i problemi irrisolti della pace e della guerra, le sacche ancora non vinte dell’ignoranza e del pregiudizio, le domande senza risposta della povertà e dell’abbondanza”.
Alla resa dei conti l’affermazione di Kennedy su Nixon è più netta dei pochi voti di differenza che gli consentono di prevalere (il 49,7 percento contro il 49,5 del rivale repubblicano). Kennedy infatti ha sfidato apertamente il malessere americano, ponendo i presupposti, non tanto per un ricambio di classe dirigente, ma tout court per una nuova fase storica. Il fatto poi che sull’esito elettorale si rivelino decisivi gli scontri televisivi non testimonia soltanto una dimestichezza con i moderni mezzi di comunicazione, ma anche la capacità di impatto del messaggio kennediano su una platea elettorale che non risente dei vincoli di appartenenza ideologica o della tradizione. Lo dimostra anche l’attenzione suscitata fuori dai confini americani e soprattutto in Europa dal richiamo alla nuova frontiera.
Kennedy definisce meglio i confini della frontiera da raggiungere nei discorsi di insediamento alla presidenza, con una rinnovata insistenza sul “pericolo di perdere la nostra interiore saldezza”, ossia di smarrire “quello spirito di iniziativa e d’indipendenza che fu dei padri pellegrini e dei pionieri, quell’antica devozione spartana al ‘dovere, all’onore, alla patria’”. Il richiamo all’indole americana si combina con l’indicazione di una fitta agenda programmatica, che comprende misure per ridurre la disoccupazione e stimolare l’aumento della produttività, incentivi agli investimenti nelle nuove tecnologie e programmi per l’edilizia di abitazione, insieme a interventi in materia di istruzione e di discriminazione razziale.
Il nodo della politica estera
È però in politica estera che le scadenze sono più incombenti. Qui Kennedy non intende spostare il confine dell’anticomunismo, bensì rafforzarlo con iniziative che rendano più evidente la distanza tra democrazia e totalitarismo. Comincia così ad affermarsi l’idea che sia possibile arginare il comunismo non solamente con il confronto militare (secondo la linea sostenuta da un ex generale quale Eisenhower), ma anche incoraggiando l’attuazione di riforme sociali ed economiche nei Paesi sottosviluppati e persino a Cuba. Per l’America Latina il nuovo presidente propone inoltre di costituire un’area di scambio e di collaborazione economica, che sotto il nome di Alliance for Progress sarà anche una delle poche realizzazioni concrete della sua agenda di politica estera. Ciò non esclude che sia dato un forte impulso anche alla corsa agli armamenti, nell’intenzione di sostenere il confronto con l’Unione Sovietica da una posizione di forza, così come imposto dalla logica dell’equilibrio nucleare. Occorre anzi portare la concorrenza anche nel campo della ricerca spaziale, per il quale il traguardo fissato è quello della conquista della luna.
La contraddizione più evidente della presidenza Kennedy è contenuta in una impostazione di natura roosveltiana, cadenzata da un programma di interventi concreti sul versante economico e contrastata dalle emergenze della politica internazionale, che ne determinano una diversa direzione di marcia. Laddove il presidente degli Stati Uniti avrebbe voluto imporre un nuovo linguaggio nelle relazioni internazionali, lo scenario della guerra fredda costringe gli Stati Uniti a muoversi sulla precedente falsariga. I due episodi culminanti sono quelli della crisi cubana e di Berlino. A Cuba il kennedismo si scontra con i limiti della precedente impostazione e con il tentativo di forzare la mano alla nuova amministrazione da parte del governo sovietico. Nel primo caso il sostegno accordato nel 1961 all’operazione della Baia dei Porci, con un velleitario tentativo di invasione dell’isola da parte di esuli cubani armati e sostenuti dagli Stati Uniti, rappresenta una sconfessione della teoria kennediana di contenimento del comunismo. La reazione di Castro al tentativo di invasione, agevolmente respinta, consiste nel rafforzare il legame della rivoluzione cubana con il mondo del comunismo reale, consolidando un pericoloso avamposto nemico a breve distanza dalle coste statunitensi.
A questo punto la tensione internazionale raggiunge la soglia di guardia non appena sull’isola caraibica vengono allestite piattaforme per basi missilistiche sovietiche. Rivendicata con fierezza dagli stessi dirigenti cubani, l’assistenza militare sovietica prelude nell’ottobre del 1962 a una prova di forza dalle conseguenze incalcolabili, che tuttavia Kennedy accetta di sostenere in base al principio, enunciato in un discorso alla nazione, che “il pericolo più grande di tutti sarebbe quello di non fare nulla”. Dopo un braccio di ferro durato alcuni giorni sull’orlo di una guerra nucleare, l’Unione Sovietica rinuncia a forzare il blocco navale imposto dagli Americani attorno all’isola e predispone il ritiro dei missili. Tra le due superpotenze nucleari viene istituita una linea di comunicazione diretta che segna l’inizio di una fase di relativa distensione nelle relazioni internazionali. È chiaro tuttavia che il confronto con l’Unione Sovietica, pur neutralizzato nei suoi effetti estremi di guerra nucleare, è semplicemente trasferito su altri piani, in una competizione per l’egemonia mondiale che di fatto domina l’intero breve arco della presidenza Kennedy.
Nel Vietnam del Sud per esempio gli Stati Uniti incrementano il dispiegamento delle forze militari contro i vietcong, determinando la caduta del regime di Ngo Dinh Diem ma avviando nel contempo una escalation del conflitto che arriva a comprendere interventi ai danni della popolazione. L’epicentro della guerra fredda è però simboleggiato dalla divisione di Berlino, dove nell’agosto del 1961 i Sovietici danno inizio alla costruzione del muro. La reazione del presidente degli Stati Uniti, anch’essa fortemente simbolica, si concretizza nel giugno del 1963 in una visita alla città e in un discorso pronunciato davanti al municipio che è anche il suo ultimo significativo intervento pubblico. Il discorso viene ricordato soprattutto per la frase “Ich bin ein Berliner (io sono un berlinese)”, che Kennedy pronuncia due volte e che sottintende l’immedesimazione di tutto l’Occidente nella condizione del popolo tedesco. Si tratta in effetti di una rivendicazione del valore indivisibile della libertà in contrapposizione alla minaccia del totalitarismo, che costituisce senza dubbio la quintessenza del kennedismo ma che ne segna anche il limite. Le urgenze dettate dal confronto con l’Unione Sovietica e i suoi alleati riducono infatti quasi del tutto i margini per una politica di respiro più ampio, così come delineata nei programmi originari. La stessa Europa, nel disegno kennediano, figura ormai più come un avamposto del mondo libero che come un interlocutore nel percorso della nuova frontiera.
Kennedy e l’Europa
Anche per questo motivo la recezione europea del kennedismo è alquanto vaga e fondata semmai su elementi estemporanei, anziché su reali motivi di adesione politica. Nel concreto si tratta di un modello che non sembra in grado di diffondersi sul continente europeo, dove i partiti socialdemocratici tendono a smorzare piuttosto che accentuare i temi del confronto con i Paesi d’oltrecortina, mentre i partiti liberali sono attestati su posizioni di conservatorismo estremo e comunque molte riforme sociali prospettate dal kennedismo sono già acquisite nel sistema dello “stato del benessere”. La salita al governo di partiti di sinistra in Italia e in Germania negli anni Sessanta è indubbiamente consentita da un più aperto atteggiamento dell’amministrazione americana, ma non ne è una diretta conseguenza. La stessa tradizione liberal, che Kennedy interpreta in modo originale, è estranea alla storia politica europea con la sola eccezione inglese, dove però le origini irlandesi e la professione di fede cattolica impediscono un’adesione incondizionata nei confronti del kennedismo. Anche in Europa però Kennedy diventa il simbolo di una trasformazione generazionale e del definitivo passaggio dal dopoguerra a una fase nuova, che non ha ancora i connotati di una trasformazione politica, ma influenza l’opinione pubblica e i movimenti collettivi che si preparano a venire alla ribalta.
Nel continente americano il solco segnato da questa politica lascia invece una traccia profonda nella mentalità e nell’ideologia, ben al di là dei risultati del breve e incompiuto periodo della presidenza Kennedy. Sul piano pratico quasi tutti i provvedimenti di politica sociale avanzati dall’amministrazione (dall’estensione della previdenza sociale all’assistenza sanitaria gratuita, dal piano di aiuti per le scuole sino al risanamento delle aree urbane) si scontrano con l’opposizione di un Congresso attestato su posizioni conservatrici e rimangono lettera morta se non si accetta di ridurne la portata, come nel caso dei sussidi previdenziali che registrano soltanto un lieve incremento e delle agevolazioni fiscali a favore degli investimenti industriali, che il presidente riesce a strappare dopo una lunga battaglia parlamentare.
Se dunque la strategia kennediana rimane un progetto per l’avvenire che l’uscita di scena del suo artefice impedisce di portare a compimento nel corso di un eventuale secondo mandato, il suo impatto sul sistema politico americano ha invece l’effetto di un’acquisizione di lunga durata e lo si nota su diversi versanti di quell’esperienza. Basti pensare all’importanza dell’iniziativa pubblica a sostegno di quella privata, riconosciuta negli anni successivi anche da amministrazioni repubblicane attestate su posizioni tutt’altro che kennediane. Oppure alla graduale affermazione dei diritti civili e al ripudio delle discriminazioni razziali. Per non dire del riconoscimento della leadership carismatica quale requisito indispensabile per un’ascesa presidenziale, attraverso la comunicazione diretta con la popolazione senza filtri di partito o di altre appartenenze.
La tragica conclusione della presidenza Kennedy segna infine un punto di non ritorno nella storia e nella memoria americana. I misteri che si addensano ancora su quella fine, la successiva uccisione del presunto killer per mano di un sicario della mafia, i molti dubbi che restano irrisolti dopo le inchieste giudiziarie e parlamentari, la sensazione di vulnerabilità del potere di fronte a nemici invisibili, sono tutti elementi che non ridimensionano l’ambizione del progetto di una nuova frontiera americana, ma che anzi dilatano nel tempo la realizzazione di un lungo processo di trasformazione avviato in quegli anni.