Whitfield, John Humphreys
Critico e italianista inglese, nacque a Wednesbury il 2 ottobre 1906. Studiò al Magdalen College di Oxford, dove si laureò nel 1928 in lingua e letteratura francese e nel 1929 in lingua e letteratura italiana. Insegnò per qualche anno francese alla King Edward VII School di Sheffield e fu poi lettore di italiano all’Università di Oxford (1936-46) e professore di lingua e letteratura italiana all’Università di Birmingham (1946-74). Di rilievo le sue Barlow lectures su Dante tenute all’University College di Londra (1958-59). Fu presidente della Society for Italian studies (1962-74) e senior editor degli «Italian studies» (1967-74). Morì a Edgbaston il 20 febbraio 1995. I suoi studi, d’impianto spesso polemico, spaziano dalla letteratura alla linguistica e alla storia, con particolare interesse per la cultura rinascimentale. Tra le sue opere: Petrarch and the Renascence (1943); Dante and Virgil (1949); Giacomo Leopardi (1954); The Barlow lectures on Dante, 1959: essays in the like and the unlike (1960); A short history of Italian literature (1960).
W. dedicò a M. il volume Machiavelli (1947), il saggio Machiavelli’s use of Livy (in Livy, ed. T.A. Dorey, 1971, pp. 73-96), diversi altri studi raccolti in Discourses on Machiavelli (1969) e l’introduzione a un’edizione del Principe (1969). La sua interpretazione, polemica verso la più autorevole critica machiavelliana, si basa sul presupposto di un’analisi parallela del Principe, dei Discorsi (considerati l’opera principale) e degli altri scritti, compresi quelli minori. Secondo W. la riflessione di M. non delinea una forma ben definita di Stato, ma l’indagine di alcune occorrenze linguistiche (come ordini, libero, ordinario, virtù) permetterebbe di cogliere gli aspetti di un sistema politico che scardina certi stereotipi del machiavellismo e dell’antimachiavellismo come l’immagine del Segretario realista, assertore dell’azione audace e feroce, propugnatore della tirannide. Lo svolgimento del suo pensiero storico-politico porterebbe invece all’individuazione della via di mezzo (misura e prudenza) come l’unica soluzione proficua nell’organizzazione e nella pratica di governo, se non fosse impedita dalla natura dell’uomo; questa la più concreta espressione del suo realismo. I Discorsi (soprattutto il I libro) testimonierebbero l’importanza del sostantivo ordini e dei suoi derivati, adottato nell’accezione di struttura costituzionale, di assetto sociale libero e civile che origina la gloria e la sicurezza di un regno o di una repubblica; solo per la sua tutela sarebbe ammesso il ricorso alle vie straordinarie come le armi e la violenza. Modello in tal senso è il passato romano da cui M., antagonista del dispotismo, inviterebbe l’uomo politico a trarre solo gli esempi positivi (come la condotta di Romolo). Da Livio egli desume l’idea di Roma come Stato perfetto, stabile e duraturo (sintesi di principe, ottimati e popolo), nato dal compromesso fra patrizi e plebei in un contrasto che aveva tutelato la libertà dei cittadini (il giudizio sulla Francia ben ordinata dimostrerebbe il limite del realismo di M.). Agli antipodi di Roma si troverebbe l’Italia schiava e vituperata; da tale contesto storico trae origine il Principe, intriso di idealismo, la cui chiave di lettura risiederebbe nel xxvi capitolo e nell’invito rivolto ai Medici a cogliere l’occasione di liberare l’Italia in nome della giustizia e della pietà. Autentico intento di M. sarebbe educare Giuliano e Lorenzo a fuggire la tirannia, individuando nella prudenza e nell’umanità le vere qualità di un principe e mostrando gli atteggiamenti da evitare, sulla scia anche del ritratto del tiranno disegnato da Girolamo Savonarola. L’esempio di Cesare Borgia, che come Romolo ha fatto ricorso alla violenza e alla crudeltà, si giustificherebbe solo al fine di conservare gli ordini e il vivere civile.
Bibliografia: Essays in honour of John Humphreys Whitfield, presented to him on his retirement from the Serena chair of Italian at the University of Birmingham, ed. H.C. Davis, Birmingham 1975.