KEATS, John
Poeta inglese, nato a Londra il 29 o 31 ottobre del 1795. Fu il primo di cinque figli e suo padre, nativo delle regioni dell'ovest, s'era trasferito da giovane a Londra, allogandosi come garzone presso un Jennings, proprietario d'una locanda all'insegna del Cigno e del Cerchio (Swan and Hoop) situata in Finsbury Pavement. Egli sposò la figlia del Jennings al quale, col tempo, succedette negli affari. Nel 1803 il fanciullo John fu mandato alla scuola privata del rev. John Clarke, a Enfield, dove, prima di finire il corso, si legò di stretta amicizia col figlio del suo maestro, Charles Cowden Clarke, giovane di buona cultura e buon musicista, con un gusto contagioso per la poesia inglese. Il padre di K. era morto nel aprile del 1804 e la madre morì nel febbraio del 1810; in quel medesimo anno i suoi tutori lo tolsero dalla scuola e lo allogarono come apprendista per un periodo di cinque anni presso un chirurgo di Edmonton. Ma il giovane venne in dissidio col chirurgo più d'un anno prima della scadenza del termine e si trasferi a Londra per continuarvi gli studî professionali presso gli ospedalì di St Thomas e di Guy. Nel 1816 sostenne con buon esito gli esami di licenza all'Apothecaries's Hall e fu nominato assistente nell'ospedale di Guy. Si formò una solida conoscenza dei rudimenti di medicina e chirurgia, e nella pratica non mancava di abilità; ma nella professione non metteva il proprio cuore, e durante quei primi anni a Londra non fece che abbandonarsi sempre più alla crescente passione per la poesia. Il suo amore per la poesia, sviluppatosi negli ultimi diciotto mesi di vita scolastica, ebbe impulso, in quegli anni di tirocinio, da Cowden Clarke, con cui K. s'era mantenuto in stretto contatto; costui per primo gli fece conoscere la poesia dello Spenser. Così il lato artistico della sua natura ricevette il primo stimolo definitivo; ed è significativo che il più antico componimento poetico di K. a noi noto sia la Imitation of Spenser, scritta probabilmente nel 1813; né mai poi cessò l'influsso dello Spenser sulla sua immaginazione. Nel 1816 il Clarke gli fece conoscere la traduzione d'Omero del Chapman: K. fu preso dall'incantesimo delle prime opere del Milton e delle poesie del Fletcher e di William Browne, mentre il suo gusto per gli spenseriani del sec. XVII divenne inseparabile dall'ammirazione per Leigh Hunt, che tra i suoi contemporanei era quegli che più s'ispirava allo Spenser. Leigh Hunt, poeta facile e superficiale, uomo di larga cultura ed entusiasta appassionato della buona poesia, riconobbe subito il nascente genio di K., ne pubblicò alcuni sonetti nel suo giornale The Examiner e ne divenne intimo. Sotto l'influsso congeniale del suo amico più adulto, K. sbocciò e per un certo tempo considerò il Hunt con rispetto e ammirazione di discepolo. Nel dicembre del 1816 K. decise di abbandonare la medicina per dedicarsi esclusivamente alla poesia e da allora la storia della sua vita non si può separare da quella delle sue opere.
Il suo primo volume apparve nel 1817 e sebbene contenga anche alcuni tentativi infantili scritti qualche anno innanzi, l'influsso letterario che vi domina è quello di Leigh Hunt. La prima poesia del volume reca in epigrafe un verso citato dalla Story of Rimini di Hunt: places of nestling green for poets made (nidi di verde fatti per i poeti), e questo verso dà come la chiave del volume, che è ispirato da uno schietto amore per la natura, mescolato, come sempre in K., con un sentimento intensamente aderente per la letteratura e per le leggende antiche. Ma dopo un esordio pieno di delicatezza, la poesia degenera in un disordinato catalogo di bellezze naturali, non immune da qualche sentimento banale e insipido, ed espresso con tutta l'indeterminatezza propria della maniera astratta di Hunt. Tuttavia sono poche, nel volume, le poesie che, nonostante palesi difetti di stile e di consistenza poetica, non diano qualche promessa delle riuscite future, sia per la loro suggestione fantastica, sia per una loro peculiare felicità di linguaggio. Per un simile poeta l'influsso di Hunt non poteva essere che di breve durata; ma sebbene questo influsso sia in certo senso da deplorare, K. gli dovette moltissimo: Hunt ne aveva riconosciuto per primo il genio e lo aveva incoraggiato in un periodo in cui l'incoraggiamento era del massimo valore. E se la visione superficiale che delle cose aveva Hunt non soddisfece l'intelletto e il cuore del poeta, fu la cordiale ospitalità dell'amico che per prima consentì a K. d'incontrarsi con uomini più capaci di stimolare il lato più intenso della sua natura. Perché K. ebbe profondo il senso dell'amicizia. Egli aveva già conosciuto Joseph Severn che doveva assisterlo con abnegazione negli ultimi giorni di vita; ma fu nel periodo dominato da Hunt che cominciò l'intimità di K. col pittore Haydon, degno di memoria non per le enormi tele che durante tutta la vita riempì, ma per aver riconosciuto l'altissimo valore dei cosiddetti Elgin Marbles. Ugualmente in quel periodo egli fece amicizia con John Hamilton Reynolds, che tra i suoi amici gli fu forse il più affine; con Benjamin Bailey e con Charles Armitage Brown. Fece anche la conoscenza dello Shelley, del Lamb, di Horace Smith e di W. Hazlitt. Le lezioni e le conversazioni di quest'ultimo lo impressionarono così vivamente, che egli parlò della iprofondità di gusto" del Hazlitt; come d'una delle cose "da meravigliarsene nel nostro tempo". Vivendo in stretta compagnia con tali uomini, egli apprese presto a sviluppare la parte più autentica e vitale di sé stesso, comprendendo che solo così la poesia avrebbe potuto, da mero dilettantismo, divenire una seria vocazione. Egli era indubbiamente di natura sensualistica al massimo grado; ma un suo abbandono totale al lussureggiare delle proprie sensazioni sarebbe stato incompatibile con il suo solido buon senso, con la chiara visione critica dei difetti proprî e altrui, con l'abito riflessivo del suo spirito, col vivo attaccamento alla famiglia e agli amici, rivelato dalle sue lettere e ampiamente attestato da quanti lo conobbero. Della frase contenuta in una delle sue lettere: "Oh, avere una vita di sensazioni anziché di pensieri!" si sono serviti Matthew Arnold e altri critici per dimostrare in K. un eccesso di emotività; ma dal contesto in cui la frase si trova risulta chiaro che alla parola "sensazioni" K. dava il significato di "intuizioni", e che non intendeva se non contrapporre la via per cui giunge alla verità il poeta a quella per cui vi giunge il filosofo. All'atto pratico, la sua forza di carattere non solo lo aiutò ad accorgersi dei proprî pericoli, ma gli diede la fermezza per vincerli. Egli ebbe un alto concetto non solo dei piaceri ma anche dei doveri nella vita del poeta, e risoluto prese la via che gli consentiva di mettere l'arte d'accordo con le idealità. Si rese conto della necessità dello studio, non del solo studio tecnico dei modelli artistici, sì anche dello studio della vita e dei suoi problemi e del cuore umano. "Intendo" scriveva "di seguire i precetti di Salomone: acquista conoscenza, acquista sapienza. Vedo che nulla è degno d' essere perseguito, se non l'idea di fare un po' di bene nel mondo. Per me vi è a ciò una sola via, e passa per l'applicazione, lo studio, la meditazione: questa io seguirò". È quindi significativo che il suo intelletto si sviluppasse nei più stretti contatti con due maestri che per vie diverse potevano insegnargli ciò ch'egli più aveva bisogno di apprendere: Shakespeare e Wordsworth. Il periodo di raccoglimento che seguì alla sua decisione di dedicar la propria vita alla poesia, egli lo occupò innanzi tutto in un serio studio di Shakespeare. Le tracce di questo studio visibili nel testo dell'Endymion, non sono che indizî superficiali d'un influsso molto più profondo. È in Shakespeare che K. trovò i maggiori esempî di rappresentazione fantastica della vita, e a poco a poco la vita ch'egli vide nelle pagine di Shakespeare divenne parte della sua propria esperienza interiore. Nello stesso tempo si volgeva al Wordsworth, non solo come a quello dei poeti viventi che era pienamente conscio della dignità della sua vocazione, ma più ancora come al commentatore ispirato della facoltà poetica. È continua la testimonianza della forza con cui fece presa sul suo spirito la filosofia della vita contenuta in poesie del Wordsworth quali Tintern Abbey e Ode on Immortality. Il fatto è già evidente in Sleep and Poetry, la poesia più importante nel volume del 1817, nella quale il poeta abiura definitivamente "il regno di Flora e del vecchio Pan" per "una più nobile vita - dove io possa trovare i tormenti, la lotta - dei cuori umani"; e lo sviluppo del medesimo concetto si può tr0vare in poesie successive.
Nell'Endymion, scriao nel 1817 e pubblicato l'anno seguente,K. si sforza di trattare in una forma di più alto livello poetico il problema che gli era sempre presente allo spirito e di presentare in un mito, la cui bellezza lo aveva affascinato da lungo tempo, un'allegoria dello spirito del poeta nel suo sviluppo verso una compiuta rivelazione di sé stesso. Il poema, scritto in distici eroici liberi, è un po' caotico e sovraccarico di sia pur bellissimi particolari; tuttavia la sua significazione è molto chiara: la unicità della bellezza che si rivela in tutte le attività umane, sicché senza una simpatia intensa per gli uomini il poeta non può raggiungere il vertice della sua potenza d'artista.
Nel Hyperion (1818-19), scritto in blank verse, che mostra un notevole progresso nella concentrazione e nella forza artistica, è presente la medesima posizione di pensiero. Il concetto fondamentale che è legge eterna che chi è primo in bellezza dev'esser primo in potenza", non può avere in K. che un' unica interpretazione. La bellezza non è un mero lusso, ma una forza; forza che viene dalla conoscenza, dallo sviluppo dello spirito il quale giunge a comprendere tutta l'esperienza intellettuale e spirituale. Questa conoscenza si acquista con la lotta e col dolore. La sterile guerra dei Titani - personificazioni delle forze elementari del mondo contro quella stirpe la cui supremazia era basata sopra un principio più alto che non la forza bruta - è sintetizzata per K. nella caduta d'Iperione, il fiammeggiante dio solare, di fronte ad Apollo, dio della luce e del canto. Ma Apollo conquista la propria divinità attraverso una sofferenza più acuta di tutte quelle sofferte dai Titani nella loro disfatta; e unico balsamo a tale sofferenza è una spietata medicina: quelli di veder le cose come sono, di accettare l'ordine divino: "sopportare tutte le verità nude e affrontare l'insieme dei fatti con piena calma".
In Lamia (1819) K. si distolse dalla questione del posto della simpatia umana nell'arte e concentrò le sue forze in una presentazione drammatica dell'antagonismo tra ragione e sentimento.
È significativo che per questi tre poemi che costituiscono le più ambiziose tra le sue opere e più pienamente riflettono la sua esperienza interiore e le sue idealità poetiche, K. abbia tratto la materia dal mondo greco, le cui leggende lo avevano affascinato nell'infanzia e non avevano mai perduto il potere suggestivo sulla sua immaginazione. Ma K. non era uno studioso di materie classiche: poeta della Grecia antica egli divenne attraverso la sua affinità di spirito e di gusto con gli Elisabettiani. Durante la vita fu accusato d'aver messo in versi il dizionario del Lamprière; ma in realtà la sua ispirazione classica era, tanto per la materia quanto per lo spirito, l'ispirazione del Rinascimento, quale appare nella letteratura inglese da Spenser a Milton. L'influsso del Paradiso perduto su K. si comincia a vedere nel Hyperion: la struttura del poema mostra somiglianza ovvia con l'epica di Milton, e ne risente profondamente anche lo stile; nel Hyperion si possono trovare molti echi miltoniani i quali dànno al poema un vigore e una dignità che si cercherebbero invano nell'Endymion. Ma il classicismo dello stile di Milton, sebbene espressione naturale d'uno studioso dei Greci e dei Latini, non poteva mai essere il linguaggio spontaneo d'un poeta meno nutrito di classici; perciò K. interruppe bruscamente il suo poema proprio mentre s'avvicinava al concetto centrale di esso. Poi lo riprese, intitolandolo Fall of Hyperion, e tentò di riplasmarlo in forma d'una visione che presenta tracce dell'influsso di Dante. Ma dimostra una netta decadenza di vigore artistico da attribuirsi non a errore del poeta sulla tendenza naturale del proprio genio, bensì all'indebolirsi della sua salute.
Per la versificazione e lo stile di Lamia K. ebbe a modello le Fables di Dryden, di cui l'influsso è evidente nella costruzione, sebbene la felicità della frase e la profondità immaginativa siano unicamente di K.
Tuttavia le sue qualità essenziali trovano espressione più libera dove egli è meno vincolato da restrizioni esteriori di stile e di metodo, dove può trattare soggetti puramente romantici, come in Isabella, nella Eve of St Agnes, nella frammentaria Eve of St Mark e in La Belle Dame sans Merci. Di questi, Isabella, or the Pot of Basil, composto in ottava rima, fu scritto per primo e venne ultimato solo un mese prima della revisione finale dell'Endymion. Per bellezza di lingua e per simpatia col soggetto, il poema eleva sul piano della tragedia il racconto che nel Boccaccio è essenzialmente materiato d'orrore.
Assai più riuscita nell'insieme è tuttavia The Eve of St Agnes (gennaio 1819) scritta in strofe spenseriane ed eseguita impeccabilmente nello spirito della leggenda medievale da cui fu ispirata. Essa esprime, con la perfezione con cui poteva esprimerle K., il romance e la delizia d'un amore che appaga e trionfa. Ma accanto a questo egli dipinse anche un amore che è a un tempo incantesimo e destino: nella ballata lirica La Belle Dame sans Merci (28 aprile 1819) il rifiorimento medievale nella poesia inglese sembra attingere il vertice. Fu specialmente il K. di questa ballata e di Eve of St Mark che i Preraffaelliti dovevano prendere a loro maestro; egli li precorse anche col trarre, primo tra i poeti moderni, ispirazione delle arti figurative: dal Poussin, dal Lorenese, dal Tiziano, dall'arte greca.
Ma K. non si appagava di creare poesie lontane dalla realtà della vita umana, e in una lettera a un amico confessava che la sua "più grande ambizione" era di "scrivere qualche bella opera per il teatro". È difficile supporre fino a qual punto egli avrebbe potuto realizzare tale ambizione. Otho the Great, l'unico dramma che egli poté finire, fu scritto in condizioni che escludevano la possibilità d'una buona creazione di caratteri; ma la versificazione, almeno, dimostra che egli aveva studiato utilmente i migliori maestri dell'arte drammatica.
K. aveva già scoperto nell'ode una forma lirica ben adatta a esprimere le qualità essenziali del suo genio. Appunto nelle odi quell'indipendenza per la quale egli aveva lottato fin da principio, è gloriosamente conquistata. Nelle odi egli non ha maestri; e la loro ineffabile bellezza è cosi immediata, è un'emanazione così peculiare del suo spirito, che in questo genere K. non poté avere discepoli. Tutte le odi, a eccezione della Ode to Sorrow (Endymion, IV) e dello squisito frammento d'una Ode to Maia, appartengono al 1819, il periodo più maturo della sua attività; e tutte, salvo l'ode To Autumn, sono dei primi mesi di quell'anno. Collegate non solo dal continuo ricorrere di frasi e di cadenze, ma da affinità di pensiero e da unità di sentimento, esse assommano l'atteggiamento del poeta di fronte alla vita. Sono l'espressione, in varie chiavi emotive, d'uno spirito che ha "amato il principio della bellezza in tutte le cose" e che in un mondo d'instabilità e decadenza, tra le forme effimere della grazia, cerca qualche cosa di durevole e d'eterno.
La Ode to Autumn, con la sua serenità perfetta, chiude degnamente la breve carriera poetica di K. Tutte le sue poesie postume, tra cui si trovano alcune buone liriche e pochi sonetti che sono da porre tra i più belli della letteratura inglese, erano state scritte prima di quell'ode, salvo The Fall of Hyperion e la trascurabile composizione satirica The Cap and the Bells.
Nel 1820, l'anno che per noi è legato con la pubblicazione delle sue opere maggiori, K. lottava già, inutilmente, contro una consunzione ereditaria ed era angosciato da una passione divorante. Circa 18 mesi prima aveva incontrato miss Fanny Brawne e tutta la relazione di K. con lei è tragica nella sua torturante irrequietezza, nata com'era da un amore che non poteva attendere nessun adempimento delle proprie speranze. La salute del poeta aveva cominciato a destare preoccupazioni fin dagl'inizî del 1818 e sembra certo che la fine sia stata affrettata dalle conseguenze d'un viaggio a piedi, fatto da K. con Charles Armitage Brown, attraverso la regione dei Laghi e in Scozia. Nel settembre 1820 il poeta partì per l'Italia col suo amico Severn, sperando che un invenno all'estero gli giovasse alla salute; ma era troppo tardi: morì a Roma, nel suo alloggio in Piazza di Spagna, il 23 febbraio 1821 e fu sepolto nel cimitero presso la piramide di Caio Cestio.
Nessun altro poeta inglese, in età così giovane, in una vita tanto breve e in circostanze tanto sfavorevoli, ha attinto le altezze raggiunte da K. Tra il momento in cui si dedicò tutto alla poesia e quello in cui la sua salute cedette fatalmente, trascorsero meno di tre anni. Egli aveva cominciato con una preparazione tecnica inadeguata e con un gusto scarsamente formato: si educò da sé stesso con seria riflessione sui principî della propria arte e con uno studio profondo e avido dei grandi maestri. Ma sebbene da questi egli apprendesse tutto ciò ch' essi avevano da insegnargli, K. decise fin da principio di non essere un imitatore, anzi di seguire la tendenza del proprio genio individuale. Vinse, perché di tutti i poeti inglesi egli fu forse il più riccamente dotato di natura e di temperamento artistico. Nessuno più di lui fu vigile nello scoprire la bellezza e alla sua apparizione nessuno rispose più prontamente. "Nulla", riferisce chi lo conobbe, "gli sfuggiva. Il ronzio di un'ape, vista d'un fiore, lo splendore del sole sembravano far vacillare la sua stessa vita: l'occhio gli si accendeva, gli si colorivano le guance, le labbra gli tremavano". Né meno immediata era la sua rispondenza alla bellezza della poesia e dell'arte: "considerava le belle frasi con occhio d'amante". Egli medesimo sentiva che, in qualche modo, Shakespeare era il suo genio tutelare, e la qualità shakespeariana dei suoi versi è stata ammessa da tutti i suoi critici maggiori.
Ma la caratteristica che in K. uomo colpisce forse di più, è la sua straordinaria capacità di provare e ispirare affetto. Fu un fratello devoto: Hyperion fu cominciato mentre K. assisteva il fratello Tom durante una malattia che riuscì fatale; e uno degli aspetti più belli del suo carattere ci è rivelato dai suoi rapporti col fratello George e con la più giovane sorella Fanny. Della sua capacità di amicizia si è già detto. Per quanto diversi fossero gli amici che ebbe, a ognuno egli diede qualcosa di sé stesso e ne ricevette in cambio un affetto raro per profondità di sentimento. Si può dire che la bellezza delle sue poesie è un riflesso della bellezza della sua vita.
Le sue lettere private sono tra le più belle della letteratura inglese. A tutti coloro che si conquistavano la sua fiducia egli si dava senza riserve né pose. Dall'autoritratto che nell'epistolario egli ha involontariamente tracciato, se appare una natura fortemente emotiva, generosa, di cuore sensibile, ma alterata da un elemento morboso che è effetto naturale della sua malattia, non appaiono meno la virilità e il coraggio, un'acuta conoscenza di sé e un sano giudizio su uomini e cose. Il suo epistolario ha inoltre grande interesse perché è appena superato dal The Prelude di Wordsworth come documento di alto valore per studiare lo sviluppo dello spirito poetico.
Ediz.: Poems (Londra 1817); Endymion (Londra 1818); Lamia, Isabella, The Eve of St Agnes and other Poems (Londra 1820); Hyperion, facsimile de manoscritto autografo di K. con note di E. de Selincourt (Oxford 1905); Works, a cura di H. Buxton Forman (Glasgow 1900-1901); Poems, a cura di H. Buxton Forman (Oxford 1910), Poems, con introduz. e note di E. de Selincourt (Londra 1905; 5ª ed., 1926); Letters, a cura di H. Buxton Forman (Oxford 1931, voll. 2).
Traduzioni italiane: Endimione, trad. di S. Frascino, Lanciano 1924; Iperione, trad. in versi di M. Praz, "in Atene e Roma", annata 1923; La Vigilia di Sant'Agnese, Odi, La Belle Dame sans Merci, trad. in versi di M. Praz, in Poeti inglesi dell'Ottocento, Firenze 1925; Iperione, Odî e Sonetti, versione in prosa e note di R. Piccoli, Firenze 1925; Odi, trad. di T. Wiel, Venezia 1906.
Bibl.: Sulla vita: R. M. Milnes (lord Houghton), Life and Letters and Literary Remains of J. K., voll. 2, Londra 1848, rist. 1906, nuova rist., Oxford 1931; S. Colvin, Life of J. K., Londra 1887, notevolmente accresciuta; A. Lowell, Life of J. K., voll., 2, Londra e New York 1925. Sulle opere: M. Arnold, Essays in Criticism, Londra 1888, rist. Oxford 1918; A. C. Bradley, in Oxford Lectures on Poetry (1909); R. Bridges, Critical Introduction K., Oxford 1929 (Collected Essays); J. W. Mackail, Lectures on Poetry, Londra 1912; C. H. Herford, in Cambridge History of Litterature (1915); H. W. Garrod, K., Oxford 1926; J. Middleton Murry, K. and Shakespeare, Oxford 1925; Studies in K., Oxford 1930; K. Memorial volume, Londra 1921.