WEBSTER, John
Drammaturgo inglese, nato tra il 1570 e il 1580, morto tra il 1625 e il 1634. Della sua vita non si sa quasi nulla. Varî omonimi vissuti in quel periodo si sono voluti identificare col W., soprattutto due membri della Merchant Taylors' Company e un Magister Johannes Webster che figura tra gli ammessi al Middle Temple; siccome quest'ultimo, che assai plausibilmente può identificarsi col drammaturgo, è dato come figlio di un altro J. W., uno dei due membri della Merchant Taylors' Company potrebbe essere suo padre. Mentre costoro furono made free della compagnia, il W., nella prefazione a Monuments of Honour asserisce (ed è l'unico fatto certo che si sappia di lui) di essere born free della Merchant Taylors' Company. La sua carriera drammatica comincia nel 1602. Il W. collaborò con Thomas Dekker e altri drammaturghi in varie commedie, quali Westward Ho! e Northward Ho! (1604-5, pubblicate nel 1607); Anything for a Quiet Life (con Thomas Middleton, 1621); The Fair Maid of the Inn (con Philip Massinger e John Ford) e A Cure for a Cuckold (con William Rowley) circa 1625; scrisse l'"Induction" del Malcontent di John Marston (1604), e la nuova serie di trentadue "caratteri" che apparve nella sesta impressione dei Characters di sir Thomas Overbury (1615); in occasione della morte di Enrico principe di Galles pubblicò (Londra 1613) l'elegia A Monumental Column. È difficile riconciliare con la figura di questo mestierante della penna e del freddo autore della tragedia classicheggiante Appius and Virginia (verso il 1625, pubbl. 1654) nonché dell'ineguale tragicommedia The Devil's Law Case (1620, pubbl. 1623), il genio che scrisse le due tragedie macabre d'argomento italiano, The White Devil (circa 1611-12, pubbl. 1612) e The Duchess of Malfi (rappresentata prima del dicembre 1614, pubbl. nel 1623), la prima basata su avvenimenti del 1581-85, che giunsero al W. per un tramite non precisato, forse orale (la passione del duca di Bracciano per Vittoria Accoramboni, con i delitti cui diede origine), la seconda su avvenimenti del 1504-13 (la persecuzione della duchessa d'Amalfi da parte dei fratelli, per il suo matrimonio col suo maggiordomo Antonio Bologna), narrati dal Bandello (I, 26), e giunti al W. per il tramite del Belleforest (Histoires Tragiques) e del suo traduttore inglese William Painter (Palace of Pleasure, 1566-67). W. ignorava il dramma di Lope de Vega basato sulla stessa novella, El Mayordomo de la Duquesa de Amalfi, scritto prima del 1609 ma stampato per la prima volta nel 1618.
Il caso del W. fu probabilmente quello non infrequente di uno scrittore dotato d'un'ispirazione viva, ma angusta: bastarono due drammi per esaurirla. In questi due drammi troviamo gli stessi temi esplorati in tutte le loro sfumature e possibilità. Dopo di essi, il poeta non aveva altro da dire, ma restava il drammaturgo che continuò a scriver drammi per professione. Se egli fu pienamente consapevole dell'altezza da cui era caduto si può star certi che la sua fu una vita infelice. Si potrebbe allora comprendere perché si mettesse a scriver drammi d'un carattere e d'uno stile così diverso da quello della sua prodigiosa coppia; è possibile che il maggior sé stesso d'un tempo, cui non sapeva più elevarsi, gli venisse in odio, e che cercasse di drizzargli contro una personalità indipendente, quasi per istinto di conservazione. Un'altra spiegazione è suggerita dalla prefazione al White Devil, dove il W. sembra dire implicitamente che, se la scelta fosse dipesa da lui, avrebbe scritto drammi di stampo classico, ma che il gusto della incapable multitude l'aveva persuaso che a quel modo avrebbe perso invano il suo tempo. Sicché il W., benché in teoria partigiano delle regole pseudo-aristoteliche, in pratica avrebbe seguito la voga popolare. Che nelle sue due grandi tragedie il W. avesse costantemente di mira l'effetto sul pubblieo, lo dimostra il modo in cui seppe sfruttare il fascino esotico (egli sfrutta abilmente i due aspetti allora popolari dell'esotismo italiano: lo splendore delle corti principesche e delle cerimonie ecclesiastiche, e l'abitudine dei veleni), ma non meno certo è ch'egli, quali che fossero le sue teorie di critico drammatico, in quanto artista, condivideva il gusto della moltitudine. Il gusto popolare egli torse talvolta a fine diverso, per es., la famosa scena dei pazzi nella Duchess of Malfi (IV, 2), che nel teatro disabettiano poteva essere un interludio grottesco, il W. la volse ad accrescere la terribilità del dramma dandole il senso d'inaudita tortura. Col W. giunge alla sua suprema espressione la voga teatrale per gli orrori italiani iniziata con la Spanish Tragedy del Kyd e il Jew of Malta del Marlowe.
Col senso dello spettacoloso il W. combinava quello delle correlazioni drammatiche, per cui le sue tragedie sembrano anticipare l'uso dei "temi" in Wagner, Ibsen e Hardy. Per es., Bracciano avvelenato dice a Vittoria: "Do not kiss me, for I shall poison thee". Ora, appunto baciando il ritratto avvelenato di Bracciano, la sua prima moglie era stata fatta morire. Il significato tragico di simili parallelismi non è solo di contrappasso perfetto; un più sottile brivido si comunica al pubblico per il fatto che un episodio pare quasi la prefigurazione d'un altro, e si crea un'atmosfera di misteriose corrispondenze che quasi tien luogo dell'"ananke" d'una tragedia greca. W. ha notevolmente raffinato il concetto di fatalità che gli elisabettiani avevano desunto da Seneca. Non gli basta enunciare la ferrea legge; egli ne compenetra l'essenza stessa dei personaggi, addensa intorno a essi una fosca atmosfera di presagio. In lui le parole si gravano di significati distanti: egli possiede una consumata maestria di sinistra ambiguità. Questa intonazione dà quell'unità poetiea alle due tragedie del W., che la sua imperfetta psicologia quei personaggi non gli avrebbe consentito. Il disegno generale delle due tragedie è grossolano, ma l'elaborazione dei particolari è perfetta; singole frasi dei personaggi hanno un realismo poetico che colpisce, mentre essi stessi son poco più che fantocci. V'è un'unità di fantasia nelle due tragedie, sicché esse si completano quasi rappresentassero la stessa cosa in diversi toni. V'è una qualità meridiana nella tragedia di Vittoria Accoramboni, v'è una qualità crepuscolare in quella della Duchessa d'Amalfi. La tragedia della duchessa è come la sera del giorno di cui la tragedia della cortigiana è il meriggio. La Duchess of Malfi sembra maturata in quello stesso clima di tardo Rinascimento in cui crebbe il capolavoro del Tasso (tenendo conto che il Rinascimento inglese è in ritardo sull'italiano): la stessa stagione di declinante luce - sera o autunno - sfuma i lineamenti dei personaggi, mentre un anticipo di romanticismo si avverte in espressioni di patetica tenerezza, in situazioni melanconiche, strazianti. Antonio che passeggia e medita tra le antiche rovine ("I love these ancient ruins...". Duch. Malfi, V, 3) non è meno idolâtre de sa tristesse di Tancredi. Il traditore Bosola è un Iago pervaso di tutta la melanconia e la vacillante coscienza d'un Amleto.
Bibl.: The Complete Works, a cura di F. L. Lucas, Londra 1927, voll. 4. Le due tragedie principali si trovano ristampate in moltissime raccolte moderne di drammi elisabettiani, per es. nella Mermaid Series (vol. W. and Tourneur, a cura di J. A. Symonds). Traduzioni ital.: delle due tragedie, di L. Gamberale, Agnone 1922, della Duchess of Malfi di E. Allodoli, Vita e bibliografia nel primo volume della edizione del Lucas; R. Brooke, J. W. and the Elizabethan Drama, Londra 1916; M. C. Bradbrook, Themes and Conventions of Elizabethan Tragedy, Cambridge 1935; U. M. Ellis-Fermou, The Jacobean Drama: an Interpretation, Londra 1936; F. Olivero, "La duchessa d'Amalfi" di J. W., in Studi britannici, Torino 1931. Per la storia di Vittoria Accoramboni, vedi i volumi a lei dedicati da D. Gnoli, Firenze 1870, e da G. Brigante Colonna (La nepote di Sisto V. Il dramma di Vittoria Accoramboni), Milano 1936.