SANJINES, Jorge
Sanjinés, Jorge (propr. Sanjinés Aramayo, Jorge)
Regista cinematografico boliviano, nato a La Paz il 31 luglio 1936. Una delle figure centrali del cinema politico latinoamericano, con il suo lavoro ha costantemente intrapreso la ricerca di un linguaggio che fosse diretta espressione della realtà del suo Paese, emancipata da estetiche e stili riconducibili alla cultura europea e nordamericana.
Di famiglia borghese, a diciannove anni si trasferì in Cile per compiere gli studi universitari in filosofia. Qui scoprì il cinema e abbandonò l'università per studiare regia presso la Escuela Filmica de la Universidad Católica di Santiago. Ritornato in Bolivia nel 1959, insieme all'amico scrittore Oscar Soria (che sarebbe poi diventato lo sceneggiatore di molti dei suoi film) creò il gruppo di lavoro Kollasuyo e una scuola di cinema (la Escuela Filmica Boliviana), con l'obiettivo di produrre un cinema indipendente e di ricerca, svincolato dalle forme e dai linguaggi del cinema occidentale. Osteggiata dal governo boliviano, la scuola fu costretta a chiudere dopo soli cinque mesi di attività. Da questa esperienza nacque però un cortometraggio, diretto da S., ma in realtà opera collettiva degli allievi della scuola, intitolato Revolución (1963), attraverso cui il gruppo di lavoro si costituì come collettivo indipendente di autori di cinema. Grazie a una serie di cortometraggi sulle condizioni di vita dei lavoratori boliviani, il gruppo si affermò nel Paese e nel 1965 S. ottenne dal governo l'incarico di dirigere l'Instituto Cinematográfico Boliviano. Nel 1966 realizzò il primo lungometraggio, nelle lingue aymara e spagnola, Ukamau (Così è), da cui avrebbe preso nome anche il gruppo che si riuniva attorno a lui. Il film è la storia di una violenta vendetta ambientata nel mondo degli Indios e dei meticci boliviani, in cui il regista alterna soluzioni visive simboliche a un uso degli attori (tutti non professionisti) e della macchina da presa vicino alle esperienze del nuovo cinema europeo. L'appello finale a una violenza finalizzata al rovesciamento di un sistema di potere oppressivo non piacque però al governo boliviano, che fece destituire S. dal suo incarico di direttore dell'Instituto subito dopo l'uscita del film, per poi decidere di chiudere l'istituzione nel 1968.
S. lavorò quindi al suo secondo lungometraggio sostenuto dalla casa di produzione indipendente Ukamau Limitado e cercando di mettere a punto una proposta di cinema politico caratterizzato da efficacia comunicativa e maggiore austerità di linguaggio. Yawar Mallku (1969; Sangue di condor) accentua il carattere documentaristico già presente in Ukamau, denunciando la sterilizzazione forzata di donne indie dei villaggi, condotta a loro insaputa dal governo boliviano in collaborazione con organismi governativi statunitensi. Il film ebbe un forte impatto nel Paese (e in tutta l'America Latina) e contribuì ad aprire la strada a una nuova concezione di cinema militante, basato più sulla collaborazione creativa degli attori (sempre non professionisti) che sull'intenzionalità artistica del regista. Obiettivo dell'opera risulta la creazione di un linguaggio filmico aderente alla realtà del popolo, eliminando ogni manipolazione estetica, considerata segno di una presenza esterna all'orizzonte di riferimento dei protagonisti del film. In questo senso, l'uso del piano-sequenza e dei movimenti di macchina circolari (sempre più presenti nel cinema di S. a partire da Yawar Mallku) si rivela una scelta espressiva volta a cogliere la concezione, propria della cultura andina, del tempo e dello spazio come forme cicliche e non lineari e progressive. Dopo che il film Los caminos de la muerte (1970) era andato distrutto, irrimediabilmente rovinato durante il processo di stampa in un laboratorio tedesco, S. nel 1971 realizzò El coraje del pueblo, coprodotto dalla RAI, nel quale ricostruì un episodio della recente storia boliviana (una rivolta popolare repressa nel sangue dall'esercito nel 1967) chiamando a interpretarlo i superstiti dell'eccidio.
Nel 1971, dopo il colpo di stato del generale H. Banzer, la cui dittatura durò sino al 1978, iniziò per S. un lungo periodo di esilio in Cile, Ecuador, Perù ‒ dove realizzò El enemigo principal (1973), incentrato sulle condizioni di vita e di lotta dei contadini andini e ¡Fuera de aquí! (1977), sempre sulle rivolte andine ‒ e infine in Francia. Se i film girati durante l'esilio risultano basati su un concetto di narrazione collettiva, con l'assenza di protagonisti individuali e l'idea di rendere il popolo il vero soggetto che agisce nel film, nei lavori realizzati dopo il suo ritorno in Bolivia, avvenuto nel 1984 (Las banderas del amanecer, 1984; La nación clandestina, 1989; fino a Para recibir el canto de los pájaros, 1995, dove si racconta il tentativo di girare un film sulla conquista spagnola delle Ande), il regista è ritornato a raccontare storie di singoli individui, visti però come figure che riassumono in loro stesse le problematiche collettive di un popolo sfruttato, al quale le immagini filmiche tentano, pur tra mille difficoltà, di dare un volto.
A.G. Dagrón, Cinquant'anni di cinema boliviano, in America Latina: lo sguardo conteso, a cura di A. Aprà, Venezia 1981, pp. 180-95; C. D. Mesa, La aventura del cine boliviano (1952-1985), La Paz 1985; J. Hess, Neorealism and new Latin American cinema: bicycle thief and blood of the condor, in Mediating two worlds: cinematic encounters in the Americas, ed. J. King, A. M. López, M. Alvarado, London 1993, pp. 104-18.