Sternberg, Josef von (propr. Sternberg, Jonas)
Regista cinematografico austriaco, di origine ebraica, nato a Vienna il 29 maggio 1894 e morto a Hol-lywood il 22 dicembre 1969. Emigrato negli Stati Uniti dall'Austria come Erich von Stroheim, volle anch'egli aggiungere al cognome una particella nobiliare (von) cui nessuno dei due (di famiglia modesta) aveva diritto: ma farli passare per nobili austriaci fu una buona opportunità pubblicitaria per le case di produzione statunitensi, che dapprima sfruttarono il loro prestigio come esponenti della cultura mitteleuropea, per poi emarginarli quando questa cultura divenne incompatibile con gli standard sempre più rigidi dello studio system. Le analogie, però, si fermano qui: gli 'eccessi', le trasgressioni di Stroheim andavano sempre in direzione del realismo, mentre S. fu forse l'esponente più prestigioso di un cinema sbilanciato sul versante della stilizzazione. Per lui lo studio (un po' come sarebbe stato più tardi per Federico Fellini) è la scatola magica in cui ambientare una realtà fantastica, tra scenografie visionarie e luci usate in funzione drammatica, non immemori dell'insegnamento di Max Reinhardt e dell'Espressionismo.
Giunto adolescente negli Stati Uniti, frequentò le scuole superiori a New York, per poi iniziare a lavorare subito nell'industria cinematografica, adattandosi a svolgere qualsiasi mansione prima di debuttare come regista. La vicenda filmica di S. non fu priva, peraltro, di contraddizioni: già il suo primo film, Salvation hunters (1925) si pone nel segno di una polemica anti-hollywoodiana, traducendosi in scelte anti-narrative e altamente stilizzate, tra personaggi simbolici senza nome (il Ragazzo, la Ragazza, il Bambino) e gesti carichi di senso, rallentati al limite dell'immobilità. Più tardi, un capolavoro come Underworld (1927; Le notti di Chicago o Il castigo) fondò, sul piano d'un calcolato 'romanticismo espressionista', il genere stesso del gangster film. Analogamente, qualche anno dopo, S. inaugurò la serie dei suoi film più visionari, ma poté permettersi di farlo solo ricorrendo a una grande diva, Marlene Dietrich, di cui lui stesso creò il mito. Il cinema di S. si alimentò dunque di quelle risorse (studio system e star system) che ne avrebbero in seguito decretato la fine, dimostrando a quali raffinatezze visionarie potesse condurre il coefficiente di irrealismo insito nel sistema degli studios e quali vertici di erotismo perverso potesse raggiungere l'adorazione della star come feticcio. Underworld stabilì (con l'aiuto della sceneggiatura di Ben Hecht) tutte le mitologie cui si rifarà il gangster film, a cominciare dal mito urbano di una Chicago ricostruita in studio dallo scenografo Hans Dreier; ma mentre il genere diverrà campo di una scrittura filmica per definizione secca ed essenziale, qui tutto vira verso l'onirico. Il ritrovo dei gangster si chiama Dreamland Café ed è quasi un teatrino a palchi sovrapposti. Compare inoltre un altro luogo canonico di S., la festa scatenata (da ballo, o di carnevale), vera orgia di festoni, tappeti di coriandoli, stelle filanti appese a formare tende mobili o sipari, specchi deformanti ecc., che saturano l'inquadratura in una specie di 'orrore del vuoto'. Tuttavia il finale, nel suo esasperato romanticismo (il capo della gang si consegna alla polizia per dar modo di fuggire alla coppia di innamorati), esalta un'epica del sacrificio che non dispiaceva a Hollywood. Sul piano tematico, il riscatto attraverso il sacrificio sarebbe tornato molto spesso nelle opere dirette da Sternberg.
The last command (1928; Crepuscolo di gloria) si struttura in due diversi mondi spazio-temporali: la Hollywood moderna (cinema sul cinema) e la Russia zarista. È una storia che evidenzia il potenziale mortifero della macchina-cinema, con la morte sul set del vecchio generale zarista ridotto a fare la comparsa a Hollywood, mentre guida altre comparse nella scena di un assalto alla baionetta, agli ordini di un regista che aveva arrestato in Russia, anni prima, come rivoluzionario. Il set, insomma, come luogo di un'illusione così potente da portare alla morte. Sono andati invece perduti The drag net (1928) e The case of Lena Smith (1929). The docks of New York (1928; I dannati dell'oceano) è un'altra storia d'amore tra due diseredati, che risente della poetica del Kammerspiel di M. Reinhardt. Tra un solitario marinaio e una prostituta disperata, avviene un 'matrimonio per scherzo' che lei considera vero. Non la pensa così il marinaio, che la lascerà per raggiungere la sua nave, salvo poi tuffarsi in mare per tornare da lei, in un soprassalto di rimorso tipicamente sternberghiano.
Primo film sonoro di S. fu Thunderbolt (1929; La mazzata), collocabile tra il gangster film alla maniera di Underworld e il film carcerario. Tornato in Europa, in Germania il regista scoprì Marlene Dietrich, girò con lei Der blaue Engel (girato anche in versione inglese, The blue angel, 1930, L'angelo azzurro; produzione di Erich Pommer per la UFA), se ne innamorò, e la condusse a Hollywood, trasformandola in un mito. Da allora l'universo cinematografico di S. si identificò con l'immagine di Marlene Dietrich nella forma di un 'esibizionismo freddo' della bellezza distante e spietata (ma ancora carnale, nella Lola-Lola di Der blaue Engel), che tuttavia, per adattarsi al moralismo hollywoodiano, virò nella dimensione tragica del sacrificio. Così, nell'altra grande storia d'amore tra una cantante di cabaret (naturalmente Marlene) e un legionario (Gary Cooper), in Morocco (1930; Marocco), lei canta, inguainata in un frac nero molto mascolino, in un locale di varietà composto di palchi a gradoni sovrapposti, che sovraccaricano l'inquadratura. Negli interni, i riquadri di luce delle finestre e le ombre a strisce delle grate si proiettano sulle pareti e sui volti, come se i corpi si liquefacessero nell'increspatura ossessiva della luce. In Dishonored (1931; Disonorata) il simbolismo si fa sempre più esplicito: nella stanza della spia X-27, ex prostituta, che nell'esito tragico dell'intrigo finirà fucilata, è sospesa al soffitto con fili una vera foresta di piccole bambole che agitano tremolando braccia e gambe al capriccio di ogni soffio. Dopo il poco riuscito An American tragedy (1931; Una tragedia americana, senza la Dietrich), in Shanghai Express (1932) il feticcio-Marlene, ancora nelle vesti di un'avventuriera, Shanghai Lily, domina una folla di comprimari e presunti antagonisti, in una finta città cinese attraversata da un treno che è insieme grand hotel, bazar e postribolo. Nella lacrimosa storia d'amore coniugale di Blonde Venus (1932; Venere bionda), è grazie alla scrittura filmica, al trattamento spaziale, che si attinge il livello del visionario: Marlene, in un famoso numero da night (Hot voodoo), si cela sotto la bruttezza ributtante di una pelle di gorilla e poi, lasciandone le spoglie, si rivela in tutta la sua bellezza sfolgorante, cui il costumista Travis Banton aggiunge un'incredibile parrucca bionda. Nel 1934, in The scarlet empress (L'imperatrice Caterina) il personaggio della Dietrich punta ormai decisamente al potere, in quanto mezzo di affermazione della propria personalità nel mondo corrotto cui è stata condotta suo malgrado come sposa di un vecchio zar folle. E tale conquista, tra orge di sangue, congiure, smisurate scenografie e statue torturate dalla luce, passa anche attraverso la rinuncia all'amore per Aleksej (figura che allude allo stesso S.). Deterioratosi il rapporto, S. girò l'ultimo film con la Dietrich nel 1935, The devil is a woman (Capriccio spagnolo) dal racconto La femme et le pantin di P. Louys, dove il 'burattino', l'uomo tradito e sbeffeggiato da Marlene-Concha Perez, è ancora una volta, metaforicamente, lo stesso regista, mentre si scatena, in un tripudio di coriandoli, festoni, maschere e stelle filanti, il carnevale spagnolo. L'industria hollywoodiana on seguito cominciò a emarginare S., non apprezzando più il suo talento visionario. Dopo alcuni film mediocri, o che gli furono sottratti dalla produzione, solo con The Shanghai gesture (1941; I misteri di Shanghai) S. riuscì a tornare ai suoi temi preferiti, romantici ed esotici insieme. Seguirono altre prove incerte, poi il regista chiuse la sua carriera, prima di un lungo silenzio (interrotto solo dalla stesura dell'autobiografia, Fun in a Chinese laundry, 1966) con un film ambientato su un'isola del Giappone, di scarsi mezzi ma per il quale poté lavorare in piena indipendenza, Anatahan, noto anche come The saga of Anatahan (1953; L'isola della donna contesa), girato interamente in studio, dove tutto (anche la giungla) è artificiale, salvo lo splendido corpo di Keiko, la donna contesa, ultimo toccante omaggio di S. al fascino eterno della bellezza.
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