STALIN, Josif Vissarionovič
(XXXII, p. 460; App. II, 11, p. 886). - Morto a Mosca il 2 marzo 1953.
Anche se rimane ancora incerta, a tutt'oggi, la parte effettiva avuta da S., nella suprema direzione strategica della guerra, le rivelazioni e gli attacchi sferrati contro di lui nel corso del XX e del XXII congresso del partito comunista sovietico (1956 e 1961) hanno messo in luce le sue gravissime responsabilità, in ordine alla difesa del paese, per la grande "epurazione" che eliminò, con fucilazioni e lavori forzati, gli esponenti maggiori dell'esercito, a cominciare dal maresciallo Tuchačevskij e accanto a lui 13 su 15 generali d'armata, 62 su 85 generali di corpo d'armata, 110 su 195 generali di divisione, 220 su 4006 generali di brigata, ecc. A questo si aggiunsero le pesanti repressioni in sede politica, tutto un costume di dittattura senza uguali che - ben individuato e denunziato in Occidente - ha trovato un'esplicita conferma dai due congressi del P. C. sovietico.
Tuttavia, al di là di queste critiche postume, non c'è dubbio che vanno riconosciute a S. notevoli capacità ed energia nella condotta della guerra, nella scelta degli uomini e, quindi, nello sfruttamento politico e diplomatico della vittoria. Ideali nuovi o rinnovati, quali la coscienza di patria e relativa esaltazione del passato russo (da Pietro il Grande a Caterina II a Suvorov, ecc.), certa solidarietà slava, la restaurazione del patriarcato di Mosca, ecc. furono gli elementi della "tradizione" russa che S., con la guerra, volle riaffermare quali molle ideali per giungere alla vittoria. Questa consentiva all'URSS di spingere ben innanzi le sue frontiere statali e più avanti ancora - con l'instaurazione di regimi comunisti nell'Europa Orientale - quelle politiche. Così quella formula ideologica del "socialismo in un solo paese" che aveva segnato un limite agli sviluppi rivoluzionarî in senso comunista, si apriva verso nuovi orizzonti territoriali, segnati dalla preoccupazione, divenuta ossessiva, della "sicurezza".
Una volta raggiunti questi risultati all'indomani della guerra, S. tornava su posizioni di conservazione, limitando al massimo i rapporti con l'Occidente, e cercando di rendere definitivi i risultati raggiunti. A questo servì la cosiddetta "guerra fredda" delineatasi sin da Potsdam. Stalin, con la collaborazione di V. Molotov, di Vis̄inskij, di Zdanov, fra il 1948 e il 1952, che rappresentò il periodo di più aspra tensione fra i due "blocchi" (sottolineata dalla lunga crisi di Berlino, dalla defezione iugoslava, dal colpo di stato a Praga, ecc.) condusse una politica aspra, dura, logorante contro tutte le posizioni dell'Occidente, dall'Europa al Medio tìriente, all'Oriente Estremo, lungo tutta la fascia di contatto fra i due "mondi", non senza puntare in Africa sul risveglio dei popoli coloniali. La morte di lui apriva una fase nuova, almeno sul momento, nella politica sovietica, interna ed estera. Dopo tanti anni di dittatura staliniana la sua grande personalità, l'impronta da lui data a tutta la vita russa premevano troppo ancora sull'atteggiarsi delle coscienze, sul costume, su tutta la vita del paese, perché non si sentisse la necessità di staccare gli animi dal mito di Stalin. Questo compito si assunse - appena consolidatosi al potere - N. Chruščëv, che nella sua famosa relazione al XX Congresso del partito comunista (14-25 febbraio 1956) svolse una critica aspra e dura allo stalinismo, riaffermando il principio leniniano della "direzione collettiva" contro quel "culto della personalità" che aveva circondato Stalin sino alla morte e minacciava, come mito, di rendere precario il potere dei suoi successori. Queste critiche diventarono vere e proprie rivelazioni cinque anni più tardi, nel XXII Congresso del partito, al termine del quale fu deciso di togliere il corpo imbalsamato di Stalin dal mausoleo sulla Piazza Rossa e di eliminare dalla toponomastica le denominazioni di città e altre entità geografiche dedicate al suo nome.