CARAMUEL LOBKOWICZ, Juan (Giovanni)
Nacque a Madrid il 23 maggio 1606 da Lorenzo e da Caterina Frisse Lobkowicz, discendente da una famiglia imparentata con la casa reale danese e dalla nobile famiglia boema dei Lobkowicz; il padre invece discendeva da un'antica famiglia di nobiltà fiamminga e fu studioso di astronomia; il nonno, Eugenio, fu ministro di Carlo V e si trasferì per questo in Ispagna.
Il C. ricevette dal padre la prima educazione letteraria ed astronomica, tanto che a cinque anni era già in grado di sostenere discussioni sulla sfera e sui pianeti. A dieci anni fu mandato ad Alcalá di Henares a studiare logica, filosofia, medicina e diritto civile ed ecclesiastico; ma già presso le scuole cesaree dei gesuiti aveva potuto mostrare la sua eccezionale capacità d'apprendere studiando grammatica, retorica, poetica e lingue orientali, in particolare l'ebraico. Laureatosi nel 1629 con una discussione sugli errori di Aristotele (le tesi allora sostenute furono poi edite col titolo Herculis logici labores tres, Francofurti 1656; Viglevani 1680), entrò nel 1630 nel monastero cisterciense di Espina. Dopo una probabile permanenza nel monastero di Monte Ramo, in Galizia, per studiare ancora filosofia, fu mandato dai superiori a Salamanca per gli studi teologici, sotto la guida di Angelo Manriquez. Secondo l'uso, difese in un "atto di teologia", cioè in un difficile dibattito contro le argomentazioni dei professori, alcune verità religiose sia a Salamanca sia a Valladolid. A venti anni fu scelto per duellare dottrinalmente con un avversario dell'università di Alcalá, e poté stupire per la sua abilità dialettica. Egli venne quindi creato lettore di filosofia all'università di Valladolid; risalgono a questo periodo molte opere filosofiche pubblicate successivamente, tra cui: Apparatus philosophicus, Francofurti 1657; Coloniae 1665; Phosphorus philosophicus, Viglevani 1679; Pandectes philosophicus, ibid. 1680; Critica philosophica, ibid. 1681: Philosophia curiosa, inedita.
Passato all'università di Salamanca come lettore di teologia e prefetto degli studi, vi si trattenne fino al 1634, quando iniziò a viaggiare per l'Europa in qualità di abate del monastero scozzese di Melrose e di vicario generale e visitatore di diversi monasteri inglesi e irlandesi, spagnoli, fiamminghi e francesi. Nel frattempo divenne priore dell'Ordine di Calatrava, ma ciò non gli impedì di soggiornare a Lovanio, dove si laureò in teologia, e a Bruxelles nel 1637. L'anno successivo ottenne l'abbazia di Disibodenberg, nel Palatinato, dove combatté il calvinismo finché le vittorie protestanti in Fiandra non lo costrinsero a rifugiarsi nel monastero di S. Andrea a Bruges. Nella quiete di questo convento portò a termine un commentario sulle regole monastiche dei vari ordini, Theologia regularis, Brugis 1640; Francofurti 1644; Venetiis 1651 (edizione ampliata Lugduni 1655), e scrisse varie opere pubblicate in epoche diverse. Dal 1641 al 1643 insegnò teologia a Lovanio; la lettura dell'Augustinus di Giansenio (pubblicato appunto nel 1640) lo spinse a denunciare pubblicamente gli errori in esso contenuti, e rifiutò pertanto di dare il suo avallo ad alcune tesi che per i giansenisti erano tomistiche. Mandò al S. Uffizio romano una relazione sulla diffusione del giansenismo in Fiandra e in Francia, che fu all'origine della bolla In eminenti (1643) di Urbano VIII. Le tesi sulla grazia, sul libero arbitrio, sull'anima secondo la dottrina di s. Bernardo, sostenute dal C. in varie occasioni contro i giansenisti, furono pubblicate in Severa argumentandi methodus, Duaci 1643; Lovanii 1644; Francofurti 1654.
Chiamato a Magonza dall'arcivescovo A. Casimiro come suo vicario, fu occupato da varie dispute coi luterani e da molteplici problemi teologici, su sollecitazione del papa. Non è facile tener dietro ai continui spostamenti dell'infaticabile C. in questo periodo: ad Anversa, a Spira, a Frankendal, investita dalle truppe del Turenne (le difese furono predisposte proprio dal C., che intorno ad esse pubblicò Arte militar, Frankendaliae 1644), a Magonza, a Francoforte, a Vienna. L'imperatore Ferdinando III lo fece consigliere e lo impegnò in una faticosa visita alle sue fortezze in Ungheria. Eletto abate del monastero di Monserrato a Praga, si trovò a capeggiare la difesa di questa città durante l'assalto degli Svedesi del 1648. Di questo periodo, oltre a vari scritti e disegni di arte militare, è notevole uno scritto teologico-politico sulla pace di Westfalia, Sacri Romani Imperii Pax, Francofurti 1647; Viennae 1649. Divenuto vicario generale di Praga per cinque anni, si adoperò per la diffusione dell'istruzione religiosa e lottò contro gli ussiti, particolarmente come presidente del Consiglio della Riforma, un organismo creato dall'imperatore per sradicare decisamente l'eresia (il C. si vanterà di aver convertito 30.000 eretici). Riprendendo le sue meditazioni teologiche - dopo Theologia regularis aveva ancora pubblicato a Lovanio nel 1645 una Theologia moralis - volle proporre una serie di questioni teologiche, cui erano state date risposte assai incerte, con Theologia fundamentalis (Francofurti 1651; Romae 1656; Lugduni 1657, 1675), definita nell'introduzione "interrogatorium opus"; rispose poi egli stesso ai quesiti proposti con Theologia fundamentale responsiva (Francofurti 1652).
Nel 1654 si recò a Roma per dirimere una questione sorta tra la Chiesa e i principi boemi, e vi rimase fino al 1657, su istanza del papa Alessandro VII, che gli affidò l'incarico di consultore della Congregazione del S. Ufficio e dei Riti. La peste del 1656 lo vide zelante organizzatore dei soccorsi alla popolazione romana. Resosi vacante nel 1657 il vescovado di Campagna e Satriano, nel Regno di Napoli, il C. vi fu inviato, probabilmente più a causa dell'inimicizia dei cardinali romani (essi non lo vollero fra loro, come aveva proposto il papa) che per poter attendere in pace ai propri studi, come si disse ufficialmente; in realtà si trattava di un sito assai infelice e per il C. la vita fu scomoda e senza libri. Abbandonò dunque cariche e rendite dieci volte più redditizie e restò per quindici anni in quel luogo isolato, allontanandosene soltanto perdirimere certe liti tra l'episcopato napoletano e le popolazioni che si servivano come pascolo delle terre della Chiesa.
A Napoli poté conoscere i professori dell'università ed i dotti dell'Accademia degli Investiganti, di cui divenne uno dei rappresentanti più autorevoli. In effetti la sua presenza di ecclesiastico valse ad indebolire l'ostilità della Chiesa e del potere politico verso la nuova cultura sperimentale rappresentata da quell'Accademia. Orientandosi agilmente in mezzo alle dispute dell'Accademia fra tomisti, scotisti, occamisti e cartesiani, egli assunse una posizione mediatrice, con il suo probabilismo e l'adesione ad un metodo di ricerca basato sulla paziente sperimentazione. A suo avviso, è l'esperimento secondo ragione che deve dire se Aristotele è nel vero o no. Partecipò effettivamente a molti esperimenti, come quelli sul raro e denso, sul caldo e freddo, o quello alla grotta del Cane di Agnano, sotto la guida di Francesco d'Andrea.
Avvicinatosi ai nuovi interessi scientifici muovendo dalla fisica rinascimentale, il C. conosceva bene le teorie cartesiane (era stato in corrispondenza con lo stesso Descartes), e contribuì non poco alla diffusione nell'ambiente napoletano di quel pensiero, nonostante personalmente non approvasse la teoria della res cogitans. Riguardo alle possibilità della scienza, assunse un atteggiamento scettico: il concetto è per lui uno strumento puramente umano, che può fare affermazioni solo in base alla legge della probabilità; così la scienza non è che una costruzione della mente umana; non vi sono forme logiche predeterminate secondo cui sia strutturato il mondo, per cui la realtà può essere osservata solo sperimentalmente. Su questa strada, è stato osservato (da N. Badaloni, p. 52) che il C. anticipa attraverso gli Investiganti certe posizioni vichiane. Nella natura l'uomo scopre tutte le realtà, da quella umana a quella divina, anche se nel processo conoscitivo intervengono elementi di natura demoniaca ad ostacolarlo. La materia si organizza per una sua interna capacità formale, per cui si genera, muta e si riproduce secondo dati modelli. Il C. tenta di conciliare l'atomismo di Democrito con la teoria platonica delle idee, nonché con Aristotele e con Averroè; di quest'ultimo sembra accettare anche la teoria della doppia verità, soprattutto per salvaguardare la libertà di esprimere opinioni probabili, anche a carattere scientifico. Riguardo alla teoria copernicana, ad es., ritenendo impossibile provare, per il momento, sia la teoria eliocentrica che quella geocentrica, il C. non si sente di approvare la condanna di quest'ultima; qualora la scienza fosse in grado di darne una dimostrazione scientifica, ad essa bisognerebbe attenersi, indipendentemente dalla condanna della Chiesa.
Egli distingue due piani, quello speculativo e quello pratico; mentre il primo è al di sopra dei mutamenti contingenti, il secondo può adattarsi alle circostanze, quindi è lecito ritrattare la condanna di una verità probabile. Le implicazioni di queste idee in campo teologico e morale (per lui la teologia rientra in un ambito unico con tutte le scienze) sono facilmente comprensibili, e giustificano le accuse di eccessivo lassismo (Princeps laxistarum lo definì Alfonso de' Liguori [citato in Lexikon für Theologie und Kirche, col. 936]; del resto egli stesso aveva affermato di poter risolvere le questioni teologiche con regole matematiche. L'indagine sperimentale e la legge di probabilità, basi di ogni scienza, sono per lui in grado di chiarire le idee anche in campo teologico e giuridico.
Riguardo al diritto, il C. contribuì, con gli Investiganti D'Andrea e De Rubeis, al rinnovamento della scuola giuridica napoletana. La sua preoccupazione di conservare forme politiche e giuridiche del passato, senza negarne gli intimi elementi di rinnovamento, lo portò a sostenere la necessità dello Stato di diritto e del mantenimento, da parte del principe, delle antiche leggi e dei privilegi feudali. Egli stesso, a salvaguardia dei privilegi giurisdizionali della Chiesa, contrastò il potere civile, ad es. nel 1668 per il caso di un malfattore rifugiatosi in chiesa, che un giudice aveva fatto arrestare e condannare a morte.
Chiamato ancora a Roma nel 1671 per difendere la liceità del battesimo degli aborti, fu destinato nel 1673 al ricco vescovado di Vigevano, per volontà dello stesso Carlo II di Spagna. Poté così proseguire tranquillamente i suoi studi e dare alle stampe moltissime opere, da Trismegistus Theologicus (Viglevani 1679) a Leptotatos (ibid. 1681), da Logica moralis seu politica (ibid. 1680) a Met-Ethica (ibid. 1682).
Fin dal 1670 era stato nominato arcivescovo d'Otranto, ma non vi volle andare per l'età avanzata. Divenuto cieco nel 1680, la sua salute prese poi a peggiorare; morì l'8 sett. 1682 e fu sepolto nel duomo di Vigevano.
Lasciò più di 260 opere, di cui la maggior parte ancora manoscritte (e a tutt'oggi irreperibili) sui più disparati argomenti; egli stesso le divise in otto classi: grammatica, metrica, steganografia, filosofia, matematica, diritto civile, storia profana, arti manuali.
Conosceva ventiquattro lingue, dall'ebraico al cinese, per le quali compilò grammatiche e dizionari; fu maestro di retorica (Encyclopedia Concionatoria, Pragae 1649) e poeta estemporaneo; per pubblicare la sua Metametrica (Romae 1663), sui metri più artificiosi, fu necessario fondere nuovi caratteri; si occupò di magia e portò innovazioni nella scrittura musicale (Nova musica, Viennae 1645); scrisse di mariologia come di alfabeti segreti e della steganografia di Tritemio, con uno stile concettoso e complicato. Fornito di un'erudizione sterminata, ma poco approfondita, la sua figura è paradigmatica del secolo barocco, ma più come moralista che come enciclopedico; le sue teorie sul peccato filosofico sembrano preludere ad un'etica naturalistica; la sua difesa del probabilismo e del lassismo (Apologema... de probabilitate, Lugduni 1663) fu condannata dalla Chiesa, alle cui decisioni egli si sottomise; si oppose tenacemente ad ogni novità dottrinale, dei giansenisti o degli ussiti, dei calvinisti o dei seguaci di Wycliffe; ma anche all'interno della Chiesa si adoperò per reprimere abusi e licenze. Per aver sostenuto che un sacerdote può anche uccidere chi vuol togliergli la vita o l'onore, Pascal ne ha fatto, nella VII lettera delle Provinciali, un tipico esponente dei casuisti.
Certamente non si dovrebbe isolare il fenomeno del C. architetto da quello globale di un intellettuale attivo nei vari rami della teologia e filosofia, nelle scienze matematiche ed astronomiche: il suo interesse architettonico, che è anzitutto basato su elementi teorici e speculativi, s'integra così con difficoltà nella tradizione della trattatistica architettonica, anche per la tendenza a uno sperimentalismo scientifico derivante dalla posizione filosofica del Caramuel.
Senz'altro si deve tener conto di questa posizione filosofica, del rapporto col pensiero cartesiano (soprattutto nel periodo napoletano) e dell'esposizione delle "due vie" da seguire, quella speculativa e l'altra pratica. Più ancora è importante conoscere i punti concreti di tali rapporti all'interno della discussione delle arti, vale a dire soprattutto della prospettiva e delle leggi matematiche inerenti e connesse, discusse soprattutto in Francia. Ciò non è però sufficiente a spiegare il carattere interdisciplinare del trattato e della figura del C., che è piuttosto basato su di un eclettismo, ben visibile nella volontà di assimilare i vari campi delle discipline storiche e delle scienze applicate come per esempio la musica: per questa propone un nuovo sistema di notazione, in analogia al costrutto teorico dell'architettura obliqua (vedi: L'arte nueva de musica, Roma 1642 e la recensione in Giornale de' letterati, II [1669], pp. 124 s.).
Il trattato di architettura del C., pubblicato nel 1678 a Vigevano in edizione latina (Templum Salomonis. Rectam et obliquam architecturam exhibens) e spagnola (Architectura civil,recta y obliqua,considerada y dibuxada en el Templo de Ierusalem), è frutto di una lunga riflessione. Lo stesso C. dichiara che il suo interesse per l'architettura obliqua risale al 1624 e che fin dal 1635 aveva fatto incidere lastre per il trattato. Ma è anche possibile che tale affermazione voglia mirare a dimostrare ulteriormente la novità dell'invenzione dell'architettura obliqua; comunque è molto probabile, come permettono di accertare alcuni riferimenti contenuti nel trattato, che esso sia stato redatto nel settimo e soprattutto nell'ottavo decennio.
Il trattato va oltre ogni schema normale di un trattato d'architettura e riflette la vasta gamma degli interessi del Caramuel. Il libro è basato sulla discussione del tempio di Gerusalemme, nel quale - e qui si dimostra l'interesse storico-teologico che lo pone nella tradizione che va dal Villalpando al Newton - fu istituita per la prima volta l'architettura. Per questo e per le osservazioni talvolta molto astratte di carattere matematico (c'è anche un "Tratado" dedicato ai logaritmi, "arte nueva nacida en nuestro siglo"), astronomico oppure architettonico, il trattato del C. rassomiglia più che altro a libri d'architettura non italiani, meno specializzati negli argomenti pratici e scritti da eruditi più che da architetti. È interessante a questo proposito osservare un certo parallelismo con l'opera di N. Goldmann (Vollständige Anweisung zu der Civil-Bau-Kunst, Wolfenbüttel 1696), edita e commentata da L. C. Sturm (Der auserlesenste... Goldmann, Augsburg 1718).
Per l'architettura il C. introduce un nuovo sistema di classificazione: "architectura obliqua" che il C. dichiara invenzione sua e che illustra nel "Tratado VI" (pp. 1-39), e "architectura recta" ("Tratado V"). È meno esplicita la definizione di "architectura naturalis" data alle parti introduttive della geometria e dell'aritmetica.
L'"architectura recta" viene dimostrata attraverso una discussione preliminare storica. Segue l'esposizione degli ordini, che inizia con l'"orden Tyrio" o "Hierosolymitano" dedotto dal tempio di Gerusalemme, e che agli ordini classici aggiunge l'ordine attico (identificato, contro il De significatione vocabularium Vitruvianorum [Augsburg-Amsterdam 1649] di Bernardino Baldi, nei pilastri angolari del cortile di S. Ambrogio a Milano), l'ordine "gothico" (la cui trattazione può aver influito sul relativo passo dell'Architettura civile del Guarini: v. Oechslin, 1970, pp. 581 s.), l'"orden Atlantico", il "Mosaico" (che sarebbe stato inventato da una setta ebrea) e il "Paranymphico".
Ma il nucleo della teoria architettonica del C. è la pur breve discussione dell'"architectura obliqua", che è la sua invenzione più originale. Si tratta di un tentativo di osservare sistematicamente e di classificare fenomeni e problemi già esistenti in pratica ma ovviamente non integrati nella teoria architettonica per la loro anomalia. Il metodo consente di discutere gli elementi di architettura che per la loro applicazione in spazi o membri curvi oppure obliqui richiedono una definizione speciale. Per il C. il problema si risolve in sede puramente teorica e aprioristica: ogni elemento architettonico in combinazione con configurazioni curve ed oblique - si tratterà soprattutto di spazi circolari ed ovali e di scale - dovrà seguire il carattere "obliquo" di queste membrature secondo le leggi prospettiche. Come risultato si avranno capitelli obliqui, colonne dal diametro ovale, balaustre oblique, ecc. Il C. prova anche a tracciare una specie di storia dell'architettura obliqua, asserendo che essa fu usata dagli architetti di Semiramide, e prima ancora da Caino, fondatore della prima città, Enochia, ed addirittura da Dio stesso, quando doveva fare il mondo col sistema complesso dei meridiani.
Nel "Tratado VII", che tratta di "alcune arti e scienze che accompagnano e adornano l'architettura", il C. include capitoli sulla pittura e scultura, sulla prospettiva, sulla fisionomia, sulla musica, sull'astronomia e .sull'architettura militare. D'altra parte sorprende vedere che sono poche le fonti che il C. indica come necessarie a un architetto ("Libros que ha de procurar en su Bibliotheca un Architecto"): lista molto più breve di quell'altra, ugualmente contenuta nel trattato architettonico, delle opere pubblicate ed inedite dello stesso Caramuel. A parte la ampia "edizione vitruviana" (Amsterdam 1649) che include il testo del Filandro, il commento del Barbaro, il libro del Wotton, scritti del Baldi, dell'Alberti, di Pomponio Gaurico e Ludovicus Demontiosius, il C. indica i trattati dell'Osio, del Serlio, del Palladio, di P. A. Barca, del Vignola, del Marlois e del Miliet de Chales nonché un libro di Sigfried Hersch che include brani scritti dell'imperatore Ferdinando III.
L'ampio "Tratado VIII" dedicato all'"architectura practica" è quello che mette in luce i vasti interessi storici del C., molto vicini a quelli del padre Kircher. Dopo una prima parte, che tratta delle "meraviglie del mondo" e una seconda, dedicata ad altri edifici antichi e famosi, la terza parte illustra i monumenti della Gerusalemme nuova, Roma, seguendo spesso le interpretazioni di Iacopo Lauro e di G. B. Casalio: quando giunge a parlare di S. Pietro, ne dimostra la superiorità sulle "meraviglie"; riassume gran parte degli aneddoti relativi alla costruzione della basilica; confronta piazza S. Pietro con piazza Navona e infine discute gli errori di S. Pietro seguendo Casalio e aggiungendo come quinto errore il non aver seguito, nella piazza, i principî dell'architettura obliqua. La quarta parte infine illustra i monumenti della Spagna e contiene la descrizione dell'Escurial come "ottava meraviglia del mondo".
È caratteristico del trattato del C. il doppio orientamento verso un'integrazione di criteri matematico-scientifici, culminanti nella proposta dell'architettura obliqua, e verso un intendimento storico-teologico dell'architettura. Grande è stata la fortuna del trattato, malgrado sia rimasto piuttosto isolato e sia stato scarsamente accettato come libro d'architettura. I riferimenti più numerosi ed espliciti si trovano nell'Architettura civile del Guarini (1737) che discute estesamente il problema dell'architettura obliqua e ne respinge - da buon architetto praticante - il rigorismo con cui viene proposta. Ma citazioni del C. si trovano anche più tardi: per esempio in Ferdinando Galli-Bibiena (Architettura civile, Parma 1711, pp. non numerate) ovviamente attratto dalla discussione dei problemi di prospettiva. Per il Cicognara (Catalogo ragionato..., I, Pisa 1821, p. 82) l'opera del C. è "farraginosa" e piena di cose indigeste; ed è ancora del 1862 un riferimento critico nell'introduzione ai Lavori e progetti di valenti architetti moderni (Milano) di R. Pareto.
Di recente, il confronto tra la proposta per un'architettura obliqua avanzata dal C. e la critica mossagli dal Guarini ha suscitato negli studiosi un grande interesse per il suo trattato; interesse che, spostatosi dal livello teorico su quello pratico, ha condotto, in una estrema sopravvalutazione, ad assegnargli perfino un intervento - e non marginale - nella progettazione di piazza S. Pietro a Roma. Questa ipotesi è fondata oltre che sul fatto che nel suo trattato il C. considera il colonnato a quattro file una forma architettonica particolarmente connessa al problema della obliquità e che critica la soluzione berniniana, anche alla presenza del C. a Roma dal 1654 al 1657, quando, malgrado la simpatia di Alessandro VII, fu costretto ad abbandonare Roma. Va però osservato che è inesatto affermare che il C. fosse nemico del Bernini, da lui anzi ammirato come il Fidia del suo secolo, tanto che il baldacchino di S. Pietro figura sul frontespizio del suo trattato architettonico; e del resto il C. loda le opere del Bernini con l'unica eccezione, appunto, di piazza S. Pietro (peraltro in questo contesto il nome del Bernini non appare). Ma in più, come si è detto, mentre la discussione su S. Pietro in genere segue quella del Casalio, quella sulla piazza è aggiunta (il quinto errore di S. Pietro) con l'ovvio intento di dimostrare che la nuova invenzione dell'architettura obliqua consente di scoprire ulteriori errori; si mantiene quindi sempre sul piano teorico per cui è più che azzardato dedurne un intervento concreto, tanto più che il brano del trattato porta i segni di ripensamenti successivi. È, quindi assurdo voler concludere dagli "elementi obliqui" di piazza S. Pietro una presenza del C. nel processo di progettazione. Permane improbabile che il C. abbia formulato delle proposte concrete. E del resto lo stesso C. non si è mai attribuito l'invenzione dell'architettura obliqua a livello operativo, ma solo a livello di metodo d'indagine e di classificazione per poter discutere scientificamente le relative leggi.
Non è lecito isolare dal trattato architettonico singole discussioni o osservazioni per farne dei "fatti storici"; e ciò vale anche per i cosiddetti "counterprojects" (R. Wittkower, A counterproject to Bernini's Piazza S. Pietro, in Journal of the Warburg and Courtauld Institutes, III [1939-40], pp. 88 ss.). In generale sembra più facile stabilire i rapporti tra il trattato architettonico e le altre attività teoriche che quelli con l'attività pratica del C., che si riducono all'osservazione di concetti generali come il rispetto della simmetria nella piazza di Vigevano.
In sostanza, l'attività pratica del C. come architetto - tanto più che è difficile valutare la supposizione che il C. abbia provveduto alle fortificazioni di Praga - sembra ridursi al periodo del suo episcopato a Vigevano dove gli si deve la nuova facciata della cattedrale e la relativa sistemazione dell'antistante piazza rinascimentale. È ben visibile la volontà, analoga a tutte le proposte teoriche, di subordinare una situazione concreta a leggi generali e aprioristiche. Per conciliare l'asse della piazza con la facciata concava della cattedrale, asimmetricamente disposta, il C: ricorre a espedienti che portano a risultati del tutto anomali: la facciata a quattro assi (con quattro portali) e quindi senza centralità, il portale a sinistra che invece di introdurre nell'interno si apre sulla stradina fiancheggiante il corpo della cattedrale. Alla simmetria perfetta della piazza viene quindi sacrificato il rapporto esterno-interno. Anche se in parte modificato dai restauri condotti da G. Moretti nel 1910 (De Bernardi Ferrero, 1965, pp. 109, s.), la facciata, per la mancanza in essa di qualsiasi traccia di una tradizione di "scuola", si definisce quale tipica opera di un architetto dilettante; soluzioni simili si trovano fuori d'Italia nel St. Peter Cornhill di Chr. Wren e nel "zweites Exempel einer Kirche" del Goldmann.
W. Oechslin
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A. DeFerrari-W. Oechslin