VALDÉS, Juan
de. – Nacque a Cuenca, in Spagna, intorno all’anno 1500, da Fernando de Valdés e da María Barrera, insieme al gemello Alfonso, ultimi di undici figli.
Contentissimo della loro nascita, Fernando nel 1513 disse a un amico di conservare le «camice» con le quali i suoi due figli erano usciti dal ventre della madre nello stesso parto, frase da cui emerge che i due fossero gemelli, cosa messa in dubbio da alcuni studiosi.
In quanto figli di conversos, sui gemelli si appuntarono inevitabilmente i sospetti dei «vecchi cristiani» alimentati dall’Inquisizione spagnola.
Del resto, l’Inquisizione aveva già condannato al rogo lo zio materno, Fernando de la Barrera, giudicato colpevole di pratiche giudaizzanti; e anche il padre e il fratello maggiore di Juan furono penitenciados per parole e fatti contro il S. Uffizio. Sebbene indagati, Juan e Alfonso de Valdés riuscirono a sfuggire agli inquisitori e ad avere un ruolo significativo nella diplomazia dell’imperatore Carlo V.
Nonostante gli ostacoli religiosi, Fernando de Valdés sfruttò la sua posizione di hidalgo per costruirsi una carriera politica e professionale molto redditizia. Nel 1482 il marchese de Moya, anch’egli un converso, sostenne la candidatura di Fernando quale regidor di Cuenca. Quattro anni dopo Fernando vendette un mulino ad acqua per una gualchiera, e alla fine possedette una grande casa a Cuenca, una tenuta di campagna a Valderpíno e terreni cerealicoli a Olmedilla (Caballero, 1875, p. 66).
Quando la regina Isabella morì, nel 1504, in Castiglia scoppiò un conflitto civile tra la fazione borgognona che parteggiava per il genero di Isabella, Filippo d’Asburgo, e la fazione che avrebbe voluto sul trono il marito di Isabella, Ferdinando d’Aragona. Nel 1506, intervenendo alle Cortes, Fernando de Valdés convinse le città del regno a riconoscere come sovrano Filippo d’Asburgo (Crews, 2008, pp. 169 s.). Fedele sostenitore del partito asburgico, nel 1516 introdusse il figlio maggiore Andrés alla corte borgognona di Carlo d’Asburgo, novello re di Spagna. Nel 1518 Alfonso sostituì il fratello Andrés a corte, dove grazie al patronage del gran cancelliere Mercurino da Gattinara divenne scriba imperiale, registrador latino per gli affari italiani, cancelliere di Napoli, segretario latino di Carlo e cronista di corte. Nel riportare la notizia della morte di Alfonso, nell’ottobre del 1532, l’ambasciatore inglese Thomas Cranmer lo definì «primo segretario» dell’imperatore, di cui godeva «il singolare favore» (Records of the Reformation, 1870, II, p. 319).
L’epidemia di sifilide scoppiata nel 1494 e le ricorrenti pestilenze portarono le città castigliane a farsi portavoce delle preoccupazioni per i mendicanti che girovagavano nel Paese, diffondendo la malattia. Nel 1518, alle Cortes di Valladolid, Fernando de Valdés e altri procuradores richiesero una legge che impedisse ai poveri di lasciare la loro regione d’origine per mendicare e che obbligasse i questuanti locali «dañados de bubos» a ritirarsi in un ospizio che avrebbe ricevuto le elemosine a nome loro (Real Academia de la historia, 1861-1863, IV, p. 272). Nel 1525 Carlo V nominò Fernando de Valdés mayoral (amministratore) dell’ospedale e delle case di San Lázaro nella diocesi di Cuenca, strutture destinate all’assistenza dei poveri. Pochi giorni dopo la nomina, Fernando scrisse una lettera veemente alla cofradía de Nuestra Señora de Misericordia e un’altra a Carlo V, reclamando riforme. Quella della Misericordia era la più grande e potente confraternita di Cuenca e della Castiglia, e come altre confraternite spesso, in occasione delle feste di precetto, usava le risorse dell’ospedale per banchetti rallegrati dal vino (Nalle, 1992, pp. 163 s.; Flynn, 1989, pp. 43, 64 s.). Fernando dichiarò che le elemosine elargite per i poveri e agli ammalati dovevano andare ai bisognosi e non alle mondanità profane delle cofradías.
Il 4 maggio 1529 Carlo V accordò a Fernando de Valdés il permesso di trasferire la mayoralía di San Lázaro al figlio Juan (Crews, 2008, pp. 170 s.), che la mantenne fino alla morte. Fu lui che il 12 aprile 1530, al capezzale del padre morente, ne stilò il testamento in presenza di testimoni. Nel documento, Juan difese con calore il padre dalle accuse rivoltegli dalla confraternita della Misericordia, che diedero origine a una causa.
La riforma dell’assistenza non riguardò solo la politica locale, ma anche la sfera religiosa, poiché secondo la dottrina delle indulgenze le elemosine potevano ridurre il tempo delle penitenze da scontare in purgatorio. Se gli umanisti si fecero beffe di questi calcoli sui peccati e sul tempo della permanenza in purgatorio, e della vendita delle indulgenze a essi collegata, una minaccia teologicamente più seria al purgatorio venne dagli alumbrados. A Escalona, presso la corte del marchese di Villena, (Diego López Pacheco), dove fu paggio, Juan de Valdés ascoltò i sermoni del famoso alumbrado Pedro Ruíz de Alcaraz. Nel maggio del 1524 l’Inquisizione fece arrestare Alcaraz e l’anno dopo condannò una lista di proposizioni tratte dal suo processo. Gli alumbrados promuovevano uno spiritualismo alimentato dalla meditazione sull’amore di Dio e dall’esperienza della carità. Colui che adorava Dio solo per timore e con opere esteriori «tiene poca experiencia de los efectos de la caridad» (Madrid, Archivo histórico nacional, Inquisición, leg. 106, Proceso de Alcaraz, 1526, f. XXXI). La venalità del purgatorio e delle indulgenze non trovava spazio nella teologia di Alcaraz.
Dopo l’arresto di quest’ultimo, è probabile che Valdés cercasse la protezione di suo fratello Alfonso, prima di iniziare a frequentare l’Università di Alcalá nell’autunno del 1526. La posizione di Alfonso, cronista di corte, lo rendeva di fatto ‘ministro della propaganda’ di Carlo V mentre le armate imperiali combattevano contro le truppe francesi e papali nella guerra della lega di Cognac. Senza paga né disciplina, composto anche di soldati luterani, nel 1527 l’esercito imperiale saccheggiò Roma. In due celebri Dialogi, peraltro rimasti inediti, Alfonso de Valdés adattò le dottrine ireniste di Erasmo da Rotterdam per giustificare il sacco e sostenere la diplomazia imperiale di Carlo V. Anche l’Università di Alcalá diede il suo contributo: forti di un’approvazione semiufficiale, gli studiosi di Alcalá si sentirono liberi di mescolare le dottrine degli alumbrados, di Erasmo e persino dei primi riformatori protestanti in una sintesi stimolante cui Marcel Bataillon (1937) diede l’etichetta, un po’ fuorviante, di erasmismo spagnolo. Nessuna opera esprime meglio quest’ibrido teorico del Diálogo de doctrina christiana di Juan de Valdés (Firpo, 1994, pp. XXXIX-XLIII; Crews, 2008, pp. 27, 30 s.).
Ad Alcalá, Valdés frequentò molti dei dotti umanisti che insegnavano in quell’università, compreso il rettore, il tipografo e l’illustre grecista Francisco de Vergara, oltre a suo fratello Juan de Vergara, che aveva collaborato alla stesura della Bibbia poliglotta. Soprattutto, in quegli anni Valdés fu in corrispondenza con Erasmo, il quale apprezzò il prestigio che si era guadagnato con i suoi studi (Caballero, 1875, p. 353).
Durante l’esame antecedente alla pubblicazione del Diálogo de doctrina christiana, il supremo inquisitore Alfonso de Manrique inviò un messaggio alla commissione di Alcalá incaricata di esaminare il testo, auspicando che «se tornarse a imprimir enmendándose lo que pudiese enmendar» (Longhurst, 1958, p. 115). L’opera uscì anonima nel gennaio del 1529, edita dal tipografo dell’Università di Alcalá Miguel de Eguía. Tuttavia, nell’agosto di quell’anno Manrique ordinò agli inquisitori di cercare e confiscare tutte le copie del libro (Martínez Millán, 1976, pp. 50 s.). Dopo la partenza di Carlo V e della corte imperiale per l’Italia, nella primavera del 1529, l’inquisitore Manrique espulse i riformatori dall’Università di Alcalá, denunciando le eresie degli alumbrados. Lo stesso Valdés fu indagato, e si sottrasse al processo inquisitoriale abbandonando la Spagna.
Una volta sistemate le proprietà paterne, Valdés molto probabilmente raggiunse il fratello alla corte imperiale, a Bruxelles, mentre nell’autunno del 1531 era a Roma, in contatto con Juan Ginés de Sepúlveda, umanista impegnato nella propaganda imperiale. Sepúlveda ottenne, nel 1535, anche il posto di storiografo ufficiale che era stato di Alfonso de Valdés. Il 1° marzo dello stesso anno, Carlo V nominò Juan suo segretario personale e ordinò ai suoi contabili di pagarlo «sin pedirle como entiende en cosas de nuestro servicio ni otra residencia alguna» (Crews, 2008, p. 174).
La pace tra Carlo V e papa Clemente VII divenne il cardine della politica imperiale, il cui obiettivo era tenere la Francia fuori dall’Italia. Clemente VII concesse a Alfonso e Juan de Valdés piena indulgenza per tutto ciò che avevano scritto in precedenza, e nominò Juan suo camerario. Nell’autunno del 1532 Juan de Valdés si unì alla corte imperiale a Mantova, dove gli giunse la notizia della morte del fratello Alfonso – ammalatosi di peste – di cui ereditò la posizione di segretario; ma siccome Juan decise di non tornare in Spagna con la corte, dovette rinunciare all’incarico (ibid., p. 116).
Come risarcimento, Carlo V nominò Valdés archivista del Regno di Napoli, ma un mese dopo Juan scrisse a un altro diplomatico, il polacco Johannes Dantiscus, chiedendone l’aiuto per ottenere una posizione migliore. In ogni caso, nel dicembre del 1533 accettò 1000 ducati per la vendita della carica (Croce, 1902, p. 153). Due mesi dopo il viceré di Napoli, Pedro de Toledo, informò Carlo V che la città lo aveva ricompensato in modo degno dell’imperatore, che rispose esprimendo gratitudine per i servizi prestati dai due fratelli Valdés (Simancas, Archivo general, Estado, 1534, leg. 1017, ff. 18, 26).
Nel trasferirsi da Roma a Napoli, Valdés organizzò una preziosa rete di informatori, tale da indurre Carlo V a nominarlo suo segretario personale, senza obbligo di presenziare a corte. Uno dei suoi primi compiti fu di fungere da fiduciario per il cardinale di Ravenna Benedetto Accolti, personaggio notoriamente corrotto, ma filoimperiale: ottenerne il rilascio dalla prigione pontificia di Castel Sant’Angelo richiese a Valdés abilità, conoscenze e 3000 ducati del suo denaro personale.
Doveri più piacevoli riguardarono i suoi rapporti con i Medici. In qualità di camerarius era stato membro della familia di Clemente VII e in virtù di tale legame aiutò Caterina Cibo, figlia di Maddalena di Lorenzo de’ Medici e quindi nipote di Leone X, che governava la città fortificata di Camerino, vicina al confine dello Stato pontificio con il ducato di Urbino. La morte del marito, Giovanni Maria da Varano, ucciso dalla peste nel 1527, aveva scatenato una disputa ereditaria, in cui a un certo punto si inserì papa Paolo III, deciso a imporre alla città l’autorità papale. Subito dopo la morte di Clemente VII, nel settembre del 1534, Caterina diede in sposa la figlia dodicenne Giulia al figlio ed erede del duca di Urbino, Guidobaldo Della Rovere, alleato di Carlo V, e Paolo III reagì allestendo un esercito. Il rischioso conflitto fu evitato anche grazie alle preziose informazioni che Valdés ricevette dalla Francia e trasmise alla corte imperiale (Crews, 2008, p. 71). Di lì a breve, Caterina diventò una fervente discepola delle sue dottrine religiose.
Dopo l’elezione di papa Farnese, Valdés si era trasferito nel Regno di Napoli, dove in ricompensa dei suoi servizi Carlo V gli concesse l’ufficio di perceptor de las significatorías, dal quale egli si dimise chiedendo di permutare la carica con quella da lui ritenuta più adatta di veedor de los castillos. Nel dicembre del 1537 Valdés rinunciò anche a questo ufficio, reclamando un incarico più conveniente e provocando le rimostranze del viceré Pedro de Toledo, che manifestò scherzosamente alla corte imperiale il sospetto che egli si aspettasse «di essere nominato viceré di questo Regno» (ibid., pp. 187 s.). Francisco de los Cobos trasmise divertito questo commento al Consiglio di Castiglia, sottolineando come il lavoro di Valdés fosse ben noto. La sua vera attività restò la stessa: quella di raccogliere informazioni riservate dall’élite intellettuale italiana e promuovere abilmente la propaganda imperiale per la riconciliazione religiosa.
Al di là del suo ruolo politico e di spionaggio, a Napoli Valdés riprese i suoi interessi religiosi, presentandosi come un maestro socratico in due dialoghi del 1536: il Diálogo de la lengua e l’Alfabeto cristiano. Sebbene rimasto inedito fino al XVIII secolo, il Diálogo de la lengua è stato ritenuto dagli studiosi di letteratura spagnola come la migliore prosa di Valdés, nonché una delle grandi opere del Rinascimento spagnolo. In quelle pagine egli si inserì nel dibattito degli umanisti italiani sull’uso della lingua volgare, con lo scopo di dare lustro alla lingua e alla letteratura spagnola, e giustificarne in tal modo la diffusione anche tra i ceti colti in Italia, sottolineandone la grande capacità di esprimere concetti religiosi. Esagerando l’influenza greca sulle origini linguistiche dello spagnolo, infatti, Valdés identificò la sua lingua madre come il volgare più preciso per discutere di religione. Le parole spagnole derivate dal greco, osservò, «casi todos son perteneçientes o a la religión o a doctrina» (Dialogo de la lengua, 1965, p. 81). Una copia del dialogo datata 1540 circolò tra alcuni dei suoi vecchi amici all’Università di Alcalá, forse in previsione della pubblicazione (Anipa, 2014, pp. 10-13, 33).
Un intenso sermone tenuto durante la predicazione quaresimale del 1536 dal celebre predicatore cappuccino Bernardino Ochino lasciò la nobildonna Giulia Gonzaga in uno stato di confusione emotiva. Fu questa l’occasione che diede a Valdés l’idea di dedicarle l’Alfabeto cristiano, «una sorta di elementare “grammatica”» volta ad avviarla a «“uno camino secreto” su cui muovere i primi passi della sua rigenerazione cristiana “senza essere veduta dal mondo”», «utile per apprendere soltanto “i principii della perfettione cristiana, facendo istima che, imparati questi, ha da lasciare l’alphabeto et applicare l’animo suo a cose maggiori, più eccellenti et più divine”» (Firpo, 1994, p. LXXVI). Se dapprima Valdés aveva affiancato donna Giulia per aiutarla in una spinosa questione ereditaria, da quel momento egli divenne il suo maestro spirituale e la nobildonna la sua più fedele discepola. L’Alfabeto cristiano fu il primo dei molti testi valdesiani che Giulia Gonzaga salvò dopo la morte di Valdés, ed è probabile che collaborasse alla sua pubblicazione a stampa nel 1545 in traduzione italiana.
A partire dal 1537, Valdés tradusse in spagnolo e commentò diversi libri della Bibbia, e di tale indefesso lavoro sono sopravvissute le sue riflessioni sui primi quaranta Salmi, sulle lettere di san Paolo ai Romani e sulla prima ai Corinzi, e sul Vangelo di Matteo. Scrisse inoltre altri testi analoghi all’Alfabeto, come il Catechismo e le Domande e risposte. Tuttavia, la sua opera più celebre furono le Ciento diez divinas consideraciones, che ebbero una circolazione europea, sia in forma manoscritta sia nella versione in italiano messa a stampa nel 1550 a Basilea da Celio Secondo Curione.
Morì a Napoli nel luglio 1541.
Curione presentò Valdés come «splendido cavaliere di Cesare, ma viepiù onorato e splendido cavaliere di Cristo», giungendo a scrivere che «chi meglio, più saldamente e più divinamente abbi scritto [delle cose cristiane] che Giovanni Valdesso, dopo gl’apostoli del Signore ed evangelisti, sarebbe forse difficile a ritrovare» (C.S. Curione, Alli cristiani lettori, in Valdés, 2004, pp. 155, 158). Da queste parole affiora il successo che arrise alle idee di Valdés, che tuttavia sono state oggetto di animati dibattiti: definite volta a volta erasmiane, luterane, alumbrade, mistiche, radicali e perfino cattoliche. Fin quando, grazie agli studi di Massimo Firpo, si è giunti a una migliore comprensione dell’eresiarca spagnolo e del vasto movimento a lui ispirato.
Gradualismo e nicodemismo, in un percorso eclettico e segnato da ampia tolleranza ed enormi spazi di libertà soggettiva, sono emersi quali caratteri identificanti dello spiritualismo di Valdés, che insegnava ad avviarsi lungo un «camino secreto», da illuminare man mano, grazie a una pedagogia maieutica che dava all’adepto gli strumenti per forgiare la propria fede più che fornirgli compiuti insegnamenti dottrinali. Un percorso iniziatico ed esoterico, che lasciava scorgere sempre nuove frontiere nella conoscenza dei «secretos de Dios», e che si basava sull’esperienza e sull’illuminazione, senza la quale la lettura della stessa Bibbia era una «fioca candela» (Firpo, 2016, p. 57).
Punto di partenza per ogni valdesiano era la giustificazione per fede, il cardine del pensiero di Martin Lutero cui Valdés aveva apportato varianti in tema di opere e libero arbitrio, sulla base dell’alumbradismo e del pensiero di Erasmo; ma Valdés insegnava che erano sempre possibili ulteriori passi in avanti. Così, vari altri discepoli accolsero le conseguenze di tipo luterano che seguivano l’accettazione della giustificazione; altri ancora giunsero a negare valore sacramentale all’eucarestia. Infine, sotto la guida di un intimo discepolo di Valdés, Juan de Villafranca, diversi adepti si spinsero a un autentico radicalismo, negando la Trinità, la divinità di Gesù, la verginità della Madonna, la piena veridicità dei Vangeli e l’immortalità di tutte le anime.
È vero che è difficile trovare in Valdés spunti radicali enunciati espressamente; ma essi non mancano, per esempio in materia di mortalità delle anime dei reprobi e nella svalutazione delle Sacre Scritture. E in ogni caso, «non v’è dubbio che lo spiritualismo al centro della sua ispirazione religiosa, il carattere esoterico del suo insegnamento, la volontà di ridurre al minimo i fundamentalia fidei, il costante rinvio a ulteriori rivelazioni dello spirito di Dio e il conseguente rifiuto di ogni rigida cornice di ortodossia teologica consentissero simili sviluppi» (Firpo, 2016, pp. 257 s.).
Gli esiti differenziati cui conduceva il valdesianesimo, accanto al carisma dell’eresiarca spagnolo, spiegano lo straordinario successo che arrise al suo messaggio, tanto che poté diffondersi l’idea che egli avesse «infectato [...] tutta Italia de heresia» (Lopez, 1976, p. 152). Cifra essenziale della Riforma italiana, il valdesianesimo fu capace di attrarre grandi aristocratici come Ascanio Colonna e Galeazzo Caracciolo, potenti cardinali come Reginald Pole e Giovanni Morone, raffinati umanisti come Marcantonio Flaminio e Scipione Capece, famosi predicatori come Ochino e Pier Martire Vermigli; donne d’alto rango – come Gonzaga, Cibo, Vittoria Colonna, Isabella Briseño –; ma anche tante persone semplici e di bassa condizione sociale. Una diffusione che spiega la vasta repressione inquisitoriale di cui furono oggetto i valdesiani tra gli anni Quaranta e Sessanta, costringendo molti di essi all’esilio, ma portando con sé quell’eversivo messaggio di cui ben presto, nello stesso mondo riformato, fu percepita la pericolosità nel mettere in discussione ogni ortodossia dottrinale. Non a caso, dopo la sua morte il nome di Valdés sopravvisse soprattutto negli ambienti del radicalismo europeo.
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