WILCOCK, Juan Rodolfo. –
Nacque a Buenos Aires il 17 aprile del 1919 da padre inglese, Charles Leonard, macchinista delle ferrovie, e da Aida Romegialli, argentina ma di origine ticinese. Figlio unico, venne presto abbandonato dal genitore, che lasciò la famiglia seguendo i suoi amori. A casa la presenza di più lingue (lo si chiamava Johnny, Juanito, Rodolfo) ne fece un precoce poliglotta, a suo agio pure in italiano, inglese, francese, tedesco (tradusse per sé Il diario di Franz Kafka). Dopo le scuole, frequentò la facoltà di ingegneria civile nell’Università di Buenos Aires, laureandosi nel 1943, conservando sempre una grande curiosità per le scienze. Partecipò alla ricostruzione della ferrovia Transandina e alla costruzione della linea ferroviaria San Rafael-Malargue, dimettendosi verso la metà del 1944 per dedicarsi all’attività letteraria.
Già nel marzo del 1940 aveva pubblicato la sua prima raccolta di poesie, Libro de poemas y canciones, riportando il premio Martín Fierro dalla Società argentina degli scrittori, e poi nel 1941 il premio Municipal. Tra il 1941 e il 1942, pur tanto precoce, divenne amico di Silvina Ocampo (sorella di Victoria, direttrice di Sur, prestigiosa rivista di rango internazionale, dove lo scrittore intervenne di frequente, anche dopo il trasferimento in Italia), Adolfo Bioy Casares e Jorge Luis Borges. Con i primi due, nel 1951, Wilcock intraprese un lungo viaggio in Europa arrivando per la prima volta in Italia.
Fondandole entrambe, dal 1942 al 1944 diresse la rivista letteraria Verde Memoria e poi dal 1945 al 1947 la rivista Disco, in cui inserì traduzioni da autori francesi, inglesi e tedeschi. Nel 1945 pubblicò, a proprie spese, due raccolte di poesie, Ensayos de poesía lírica e Persecución de la musas menores, l’anno successivo Paseo sentimental, ottenendo la Fascia d’onore dalla Società argentina degli scrittori, e alla fine dello stesso 1946 Los hermosos días, tutte composizioni intrise di struggimenti elegiaci e teneri, da lettore di Alfred De Musset e Anton Čechov. Nel 1953 fece uscire il sesto libro di poesie, dal titolo appunto Sexto.
Tra il 1953 e il 1954 risiedette a Londra, da lui poco amata, lavorando come traduttore dell’Ufficio centrale di informazioni, e come critico letterario, musicale e artistico del Servizio latino-americano della BBC. Ritornò poi a Buenos Aires, ma insofferente del clima instaurato dal regime peronista, dal 1955 iniziò a soggiornare a Roma, insegnando letteratura francese e inglese e collaborando all’edizione argentina dell’Osservatore romano, il giornale del Vaticano. Nel 1958 si trasferì stabilmente a Roma, adottando la lingua italiana, vicina al suo prediletto latino, tornando alle origini piemontesi del ramo materno.
Nel 1960 pubblicò il suo primo volume in italiano, Il caos, serie di racconti prima stesi in spagnolo, dove coniugò il fantastico-grottesco della narrativa sudamericana con richiami buzzatiani.
Nella novella che dava il titolo, il protagonista filosofo, afflitto da varie disabilità fisiche, rischia di essere fatto a pezzi dalla folla con cui cerca contatto; in La festa dei nani omiciattoli castrati si accaniscono torturando il nipote della loro padrona; in La bella Concetta l’amante sfortunato scopre una piovra elettrica celata nel corpo di una donna.
Atmosfere da letteratura della crudeltà circolavano nel coevo Fatti inquietanti, oscillanti tra cronaca nera e strampalerie scientiste. Al di là di un lessico ora ricercato ora crudo, nel gusto dell’ironica sprezzatura e dell’insofferenza riguardo a ogni stereotipo, dall’inizio esibì un nitore scarnificato, dovuto anche alla sua frequentazione dell’inglese. Nel 1961 con i versi di Luoghi comuni, ormai lontani dal pathos giovanile, intese eliminare le convenzioni che fanno della lingua un condominio, non una casa personale (Introduzione a Poesie spagnole, in Poesie, Milano 1980, p. 173).
Poligrafo compulsivo, tra poesie, drammi, romanzi, racconti, recensioni, collaborò a periodici vari, su testate d’ideologia opposta, dall’Espresso, Il Mondo (dal 1958 al 1966, in cui per un certo periodo sostituì Nicola Chiaromonte come critico teatrale, firmando articoli sia con il suo nome vero sia con quello di Matteo Campanari, suo pseudonimo, con il quale a volte polemizzava per sorniona simulazione), La voce repubblicana, Tempo presente, al Tempo, di destra. Annoiato dall’andare a teatro, parlò a volte di spettacoli inesistenti, creando così la figura del regista catalano Llorenz Riber, autore di messinscene immaginarie, come le Investigazioni filosofiche del suo adorato Ludwig Wittgenstein. In quegli anni fu anche consulente all’Einaudi.
A poco a poco la sua incompatibilità con i salotti letterari (nonostante legami con pochi privilegiati, Ennio Flaiano, Alberto Moravia, Elsa Morante, Roberto Vacca, Elio Pecora) e con le mode dell’industria culturale, lo spinse a rifugiarsi a sud di Velletri, dove rimase quasi un decennio, salvo poi alla fine del 1969 rientrare di nuovo nella capitale, tentato da prospettive teatrali, poi vanificate. Da Roma, infine, si allontanò per sistemarsi nel borgo di Lubriano (nel Viterbese) acquistando un’ampia estensione di quaranta ettari di colline, con tanto di greggi. Sfoggiava un’aria malinconica, una bizzarra autonomia da dandy in bolletta, elegante in abiti larghi e mai stirati, intransigente nella sua ipocondria contro il degrado romano, geloso della propria riservatezza. In compenso nel 1961 adottò il giovane Livio Bacchi, da poco maggiorenne, che fece laureare in lingua spagnola avendolo così al suo fianco nel lavoro di traduttore in italiano sia da autori ispanici sia anglisti.
In tale ambito, da segnalare l’inizio del Finnegans Wake joyciano, il Teatro di Christopher Marlowe, Riccardo III di William Shakespeare, nonché Ezra Pound, Samuel Beckett e Virginia Woolf, e Les nègres di Jean Genet.
Nel 1964 venne scelto da Pier Paolo Pasolini per il ruolo del crudele Caifa nel Vangelo secondo San Matteo. Nel 1968 i suoi nuovi versi, La parola morte, ribadirono la connessione tra linguaggio e insensatezza annichilente, anche perché «noi si muore grammaticalmente» (Poesie, cit., p. 86). E nondimeno in altre composizioni – vedi Epitalamio (presente in Luoghi comuni) con qualche rimando a Wystan Hugh Auden, e soprattutto Italianisches Liederbuch del 1974 – esplosero, tra disincanti e vertiginosi abbassamenti prosastici, estatici trasporti amorosi verso adolescenti. Wilcock si proiettò spesso in personaggi strambi e affetti da manie paranoiche, come nello Stereoscopio dei solitari del 1972, una settantina di brevi ritratti di mitomani visionari, predicatori e folli inventori, utopisti demenziali, vedi Samisa dove un’attrice recita per un solo spettatore, o Gli amanti, in cui rispunta il patologico cannibalismo erotico caro allo scrittore. Sempre nel 1972 firmò La sinagoga degli iconoclasti, riunendo surreali uomini bestia o ridotti a cose, angeli e insetti, forme ibride e raccapriccianti descritte con il distacco di un entomologo scrupoloso. Nella relativa recensione del 1973, Pasolini precisò come per lo scrittore «non c’è altro che l’inferno» (Pasolini, 1999, p. 1719).
Nel 1973, nei Due allegri indiani, cui teneva molto, il culto dell’antiromanzo e del frammentismo lo portò a dissolvere il ruolo autoriale intrecciando un indiavolato labirinto intorno a un racconto a puntate edito in una rivista di ippica, collage di inserti e registri diversi sino alla progressiva invalidità del presunto autore, con il piede in cancrena, compresa la macchina da scrivere che perde lettere della tastiera. Nel medesimo anno fece uscire Il tempio etrusco, sussiegoso progetto edificatorio a opera di un demenziale consiglio comunale, affidato a operai neri, selvaggi violentissimi ma dal candore buffonesco, capaci solo di dissotterrare il sottosuolo, popolato al solito di esseri deformi, topi e vermi, quasi metafora dell’inconscio, come già nel racconto I donghi in Caos. In L’ingegnere, edito nel 1975, distillò aspetti autobiografici – dal lavoro giovanile a oscure pulsioni private – snodando il tutto quale epistolario morboso a una nonna troppo amata da parte di un operatore sulle Ande, che sbava di notte dormendo su un materasso a terra. In più, qualche allusione al gusto cannibalesco, sulla scia di Jonathan Swift, verso bambini sequestrati, una pedofilia rivendicata nel disprezzo verso i normali. La vicenda noir veniva collocata durante la guerra, con la minaccia di Adolf Hitler trionfante, tra il 1943 e il 1944.
In collaborazione con Francesco Fantasia, conoscitore del russo, Wilcock firmò nel 1976 Frau Teleprocu, genere inclassificabile dal furore decostruttivo, introdotto da due critici prefatori impegnati in lodi strampalate degli autori, moltiplicandone identità e professioni, oltre ad anticipare sintesi non corrispondenti alle pagine che poi seguivano. Nella sezione Dialoghi nell’inferno personaggi storici entravano in collisione burlesca tra fatui battibecchi. Ancora con Fantasia siglò poi un’operetta demenziale, Le nozze di Hitler e Maria Antonietta nell’inferno (edita postuma nel 1990), al di là dantesco trasformato in salotto delirante, dove cadevano gerarchie etiche e giudizi di valore tra continue intrusioni anacronistiche. Qui, Benito Mussolini obeso si lamentava perché senza amici, e l’eroina appariva invaghita di Giuseppe Garibaldi, mentre Groucho Marx duettava con il dottor Albert Schweitzer. Nel Libro dei mostri del 1978 offrì scenari allucinanti di freaks usciti dall’iconografia di Hieronymus Bosch, caparbiamente intenzionati a sopravvivere nonostante le condizioni penose della propria esistenza.
Anche nella drammaturgia, con dialoghi di abbagliante incongruenza, Wilcock portò i suoi veleni sbeffeggianti contro le istituzioni, pubbliche e private, nella commistione tra moduli tragici e ridicoli, all’altezza del miglior Eugène Ionesco. Nel 1962 antologizzò in Teatro in prosa e versi, di forte tenuta letteraria, i copioni fino allora scritti, come l’atto unico La famiglia, in cui i membri smemorati dei propri legami di parentela si incontravano sotto il portico di un ministero romano, tra cui una figlia prostituta, alle spalle una zia mangiata dai gatti; o il trittico La notte di San Giovanni, articolato tra Le cantate, zombies emersi dalle tombe in un fitto sussurro con angeli, Il Brasile, zuffa tra una vecchia madre e la figlia, apparizioni di fate e fantasie su soldati stupratori, e Il ballo degli impostori, dove una famiglia altolocata con tanto di poeta a caccia di premi si mostra a disagio con una ragazza disabile, soggetta a visioni di civiltà antiche; o ancora Didone, in cui la tragedia della regina assediata da spettri poi abbandonata da Enea, espressa in versi, viene alternandosi allo sguardo profano in prosa di fatui escursionisti, alla fine coinvolti dai lutti antichi; così pure il classicheggiante Giulia Domna, sette quadri in costume centrati sulla madre dell’imperatore fratricida poi eliminato dai pretoriani, tra battute anacronistiche e fonemi astratti in bocca ad ambasciatori etiopi.
L’anno dopo, vennero allestiti i suoi beckettiani Sei atti unici senza parole, cerimonie gestuali e dinamiche sadomasochiste che spersonalizzavano gli interpreti a maschere inespressive, mentre in Da un’onda all’altra sei numeri colloquiavano tra loro senza rimandi a forme umane riconoscibili. Nel maggio del 1967, su Sipario, uscì L’agonia di Luisa con le avventure di Gilgamesh alla televisione, con l’epopea sumerica decontestualizzata in spettacolo televisivo tra annunci pubblicitari, seguito dalla protagonista costretta in un letto d’ospedale. Qui svettava la mirabile invettiva, lanciata da una radio, contro il creatore e contro l’uomo, detronizzato dal centro dell’universo, in più condannato alla «consapevolezza verbale della morte» (L’abominevole donna delle nevi e altre commedie, Milano 1982, p. 203), con il linguaggio additato quale peccato originale. Nel 1975 Valeria Moriconi portò in scena L’abominevole donna delle nevi, Abo d’Abruzzo la donna animale là catturata, quindi integrata dall’industria culturale, depilata e civilizzata tanto da esprimersi in versi raciniani e marlowiani, per poi fuggirsene azzannando pubblico e artisti durante risibili happenings, e morire colpita da cacciatori. E intanto il lessico si apriva a crescenti derive in dadaiste filastrocche nonsense. In XX, allestito da Luca Ronconi a Parigi nel 1971, aveva ipotizzato un colpo di Stato fascista. Clima cimiteriale e claustrofobico si respiravano in Elisabetta e Limone, con dinamiche sadomasochiste tra la folle protagonista, intenta a cucire vestitini per topi, e il malcapitato ladro.
Colpito da un infarto, Wilcock si spense il 16 marzo del 1978 nella sua casa di campagna a Lubriano. Venne sepolto a Roma, nel cimitero acattolico vicino alla Piramide.
A suggello della sua vita appartata, il destino volle per ironia che la notizia del suo decesso venisse oscurata dal clamore del rapimento di Aldo Moro e dell’uccisione della sua scorta, avvenuto in quel giorno. A stroncarlo fu la presenza di colesterolo nel sangue, malattia ereditata dalla madre. Lo trovarono disteso sul pavimento, accanto la boccetta con le pillole e il prontuario per attacchi cardiaci. La cittadinanza italiana, a lungo bramata, gli arrivò post mortem il 4 aprile 1979. Le carte, alla morte di Livio nel 2013, passarono a suo nipote Stefano.
Opere. Per la produzione poetica si veda Luoghi comuni, Milano 1961; Poesie spagnole, Milano 1963; La parola morte, Torino 1968, Italienisches liederbuch, poi tutte inserite nella raccolta Poesie, Milano 1993, comprensive di parte di quelle inziali spagnole. Per la narrativa: Il caos, Milano 1960 (poi Parsifal, Milano 1974); Fatti inquietanti, Milano 1961; La sinagoga degli iconoclasti, Milano 1972; Lo stereoscopio dei solitari, Milano 1972; I due allegri indiani, Milano 1973; Il tempio etrusco, Milano 1973; L’ingegnere, Milano 1975; con F. Fantasia, Frau Teleprocu, Milano 1976 e Le nozze di Hitler e Maria Antonietta nell’inferno, Roma 1985. Per la drammaturgia: Teatro in prosa e versi, Milano 1962; L’abominevole donna delle nevi e altre commedie, cit. Utile pure la raccolta di articoli, Il reato di scrivere, a cura di E. Camurri, Milano 2009.
Fonti e Bibl.: D. Balderston, La literatura antiperonista de J.R. W., in Revista iberoamericana, 1986, n. 135-136, pp. 573-581; G. Spagnoletti, Prefazione a Le nozze di Hitler e Maria Antonietta nell’inferno, Milano 1990; P.P. Pasolini, Descrizioni di descrizioni, in Id., Saggi sulla letteratura e sull’arte, a cura di W. Siti - S. De Laude, II, Milano 1999, pp. 1718-1723; Segnali sul nulla. Studi e testimonianze per J.R. W., a cura di R. Deidier, Roma 2002; A. Patat, W., scrittore straniero, in Moderna, XII (2010), 1, pp. 113-122; A. Gialloreto, I cantieri dello sperimentalismo. W., Manganelli, Gramigna e altro Novecento, Milano 2013, pp. 17-142.