Judgment at Nuremberg
(USA 1961, Vincitori e vinti, bianco e nero, 178m); regia: Stanley Kramer; produzione: Stanley Kramer per Roxlom/United Artists; sceneggiatura: Abby Mann, dal suo omonimo originale televisivo; fotografia: Ernest Laszlo; montaggio: Frederic Knudtson; scenografia: Albrecht Hennings, Rudolph Sternad; costumi: Joe King, Jean-Louis; musica: Ernest Gold.
Nel 1948 l'esercito americano in Germania celebra a Norimberga un processo contro quattro giudici ‒ uno di essi, Ernst Janning, è un famoso e rispettato giurista ‒ accusati di avere applicato con servile solerzia le leggi naziste. È chiamato a presiedere la corte un giudice americano del Maine, Dan Haywood, buon magistrato di periferia anche se non personaggio eccelso, e uomo probo, che si sforza di applicare al meglio gli strumenti giuridici in suo possesso. Alloggiato in una villa elegante, curato da due efficienti persone di servizio (anch'esse come la casa sono state requisite dall'esercito americano e quindi sottratte alla loro datrice di lavoro, la signora Bertholt, vedova di un generale tedesco antinazista e dai nazisti sacrificato), il giudice si sforza di penetrare la terribile realtà evocata dalle carte e dagli interrogatori processuali e al tempo stesso di comprendere la psicologia dei tedeschi che lo circondano: generalmente obbedienti, laboriosi, straniti dalla sconfitta e tuttavia come anestetizzati da un passato recente di cui tutti affermano di non aver conosciuto l'abiezione. Il processo inizia e prosegue il suo cammino: vi campeggia l'aggressivo pubblico accusatore americano, il colonnello Lawson, ben deciso a condurre alle sue logiche conseguenze processuali e morali una vittoria che è stata anche ideologica oltre che militare. Lawson è contrastato con passionale e minuziosa intensità processuale dall'avvocato difensore tedesco, Hans Rolfe. Questi ha spesso buon gioco nel dimostrare che anche le nazioni vincitrici hanno avuto, ciascuna, la propria parte di responsabilità nella generale e diffusa tolleranza verso la Germania nazista. Le proiezioni dei documentari girati nei lager nazisti riempiono di orrore non solo il giudice Haywood ma anche molti dei tedeschi presenti in aula. Le testimonianze più diverse svelano in piccola parte, ma anche con grande intensità, tormenti e aberrazioni del regime nazista: Irene Hoffman ha pagato duramente il legame con un ebreo, Rudolph Petersen è stato evirato. A un certo punto del processo il famoso Ernst Janning, sino a quel momento impassibile, accetta di testimoniare; egli si confessa colpevole come tutti quelli che scientemente, pur conoscendo perfettamente i principi del diritto e la lettera e lo spirito delle leggi, hanno applicato norme indegne offrendo al regime un fondamentale appoggio giuridico e morale. D'altro canto la situazione politica sta rapidamente mutando in Germania: l'Unione Sovietica si rende minacciosa a Berlino, le autorità americane decise a resistere hanno bisogno dell'appoggio dell'opinione pubblica tedesca e il processo di Norimberga è in certo modo imbarazzante. Il colonnello Lawson riceve dai superiori richieste specifiche in questo senso. Il giudice Haywood però non si lascia fuorviare. La condanna finale è severissima. Ma, avverte una scritta finale, già nel 1960 nessuno degli imputati era più in carcere.
Probabilmente questa rimane non solo l'opera migliore di Stanley Kramer, ma anche una sorta di quieto e solidissimo monumento a un affascinante periodo del cinema americano che affondava le radici in un terriccio fertile e complesso. Da un lato la vertigine della ancor recente vittoria e il peso del difficile destino imperiale che gravava sugli Stati Uniti dopo la schiacciante vittoria, dall'altro il desiderio di disegnare un profilo morale dell'America di sapore progressista, fra Roosevelt e Wallace, e al tempo stesso di montare una di quelle perfette macchine processuali di cui appunto gli Stati Uniti (del cinema e dei libri) hanno il segreto. Sono anche gli anni della maggior felicità creativa di Kramer (produttore collaudato e regista qui al suo sesto lungometraggio) che con l'andar del tempo cederà poi a una sorta di magniloquenza didattica pur sempre di alto livello professionale. Non è un caso che si sia rivolto per la sceneggiatura (perfetta) ad Abby Mann, il quale, a partire dai tardi anni Quaranta (e utilizzando talora il nome Ben Goodman) fu uno dei costruttori della drammaturgia televisiva USA, spaziando da Studio One all'episodio pilota di Kojak, e che a partire dagli anni Sessanta ebbe anche qualche possibilità al cinema con pochi copioni non sempre fortunati (I sequestrati di Altona per Vittorio De Sica, 1962; A Child Is Waiting ‒ Gli esclusi per John Cassavetes, 1963; Ship of Fools ‒ La nave dei folli ancora per Kramer, 1965).
Il sodalizio Kramer-Mann (che per questo film ricevette un Oscar) è qui perfettamente integrato: eguali lo scrupolo polemico, la vocazione didattica di alto profilo, l'amore per la concitazione drammatica in ambiente chiuso (situazione nella quale Mann, temprato dalla pratica televisiva, può spendere il meglio del suo talento). E il gusto della grande recitazione, a partire qui dalla determinante presenza di Spencer Tracy che riassume con asciutta genialità tante sue figurazioni precedenti: l'americano concreto ma sensibile al bisogno, ben disposto ma sempre combattivo, genuinamente popolano nel cuore ma borghese nei modi spicci però mai grossolani. L'attore era già malato (sarebbe morto nel 1967, subito dopo Guess Who's Coming To Dinner ‒ Indovina chi viene a cena? dello stesso Kramer) e ci lascia qui una toccante testimonianza della maniera di recitar antica americana. Come tanti: dallo scattante Widmark al contenuto e misterioso Lancaster, da Clift alla Garland (i loro camei sono straordinari, degni del grande talento dei due, splendidi attori visibilmente travolti da una vita piena di cedimenti) via via sino a Maximilian Schell, che colse qui un Oscar e che non ebbe forse più un'occasione drammatica così clamorosa. Notazione linguistica: si comincia con i protagonisti che parlano ciascuno nella propria lingua, il che ci è ricordato in tribunale dalla voce dei traduttori simultanei, i quali via via cedono il passo all'inglese del film: preoccupazione fonetica rara in un cinema come quello americano, indifferente alle lingue quasi quanto quello italiano.
Interpreti e personaggi: Spencer Tracy (giudice Dan Haywood), Burt Lancaster (Ernst Janning), Marlene Dietrich (madame Bertholt), Richard Widmark (colonnello Tad Lawson), Maximilian Schell (avvocato Hans Rolfe), Judy Garland (Irene Hoffman Wallner), Montgomery Clift (Rudolph Petersen), Ed Binns (senatore Burquette), Werner Klemperer (Emil Hahn), Torben Meyer (Werner Lammpe), Martin Brandt (Friedrich Hofstetter), William Shatner (capitano Harrison Byers), Kenneth MacKenna (giudice Kenneth Norris), Alan Baxter (generale Matt Merrin), Ray Teal (giudice Curtiss Ives), Virginia Christine (Mrs. Halbestadt), Ben Wright (Halbestadt), Joseph Bernard (maggiore Abe Radnitz), John Wengraf (Dr. Karl Wieck), Karl Swenson (Dr. Heinrich Geuter), Howard Caine (Hugo Wallner), Otto Waldis (Pohl), Olga Fabian (Elsa Lindnow), Paul Busch (Schmidt).
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J. Gillet, Judgment at Nuremberg, in "Sight & Sound", n. 1, Winter 1961/62.
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