KALATHOS (κάλαϑος, calathus, qualus, quasillus)
È un canestro fatto di vimini o di canne, stretto alla base, che si allarga progressivamente fino ad una larga apertura. Veniva usato per riporvi il materiale dei lavori muliebri, sicché divenne l'emblema dell'operosità femminile e poi del gineceo. La pittttra antica, sia vascolare che parietale, ci offre, specialmente in scene di vendemmia, di sacrificio e di vita domestica, una quantità immensa di kàlathoi, che appaiono adibiti ai più diversi usi.
Nel k. si riponevano anche frutta, spighe, ecc., come pure si fabbricava il formaggio. Se ne facevano anche di metallo o di terracotta per riporvi olio, latte, ecc. (v., ad esempio, in una scena di vendemmia di una pittura di Pompei = Reinach, Rép. Peint., p. 124, fig. n. 2, un uomo che porta sulle spalle un k. evidentemente pieno di mosto). Le dimensioni variavano a seconda dell'uso e delle quantità che i kàlathoi erano destinati a contenere. Il piccolo k. si chiama καλαϑίσκος e, fornito di ansa, diventa lo psyktèr (ψυκτήρ).
Tra i kàlathoi rimastici, diversi meriterebbero una speciale menzione per il loro valore artistico, consistente soprattutto nelle decorazioni: di grande pregio è, per esempio, un k. di marmo, a Napoli, proveniente da Ercolano (Guida, n. 1879 [25301), che rappresenta a sbalzo l'apoteosi di Omero.
Il k. assume ben presto un significato religioso, in quanto attributo di divinità dell'abbondanza (Cerere, Terra, Fortuna, ecc.) e di Minerva (che fu la prima filatrice). Si deve identificare il k. col modius che serve da copricapo a diverse divinità, per lo più femminili, ma non solo femminili (si vedano, oltre le teste di Ecate e di Artemide efesina, quelle di Mercurio e di Serapide). Esempî tipici sono: un'Artemide efesia alabastrina (Napoli, Museo Naz., n. 6278), Ecate tricipite di un bassorilievo da Egina, con tre alti kàlathoi (Baumeister, Denkm., p. 622); il Mercurio della Farnesina ha, a sua volta, sul capo un ammasso di volute dalla chiara forma di kàlathos. Il k. adorna il capo anche di divinità minori, come quella femminile scitica dalla testa di toro e dalle gambe di serpente che compare su una tavoletta di terracotta ritrovata a Chersoneso.
Il k. era usato nei sacrifici dai sacerdoti e dalle sacerdotesse, come ci dicono le pitture vascolari, per offrire le primizie alle divinità (v. Reinach, Rép. Peint., pp. 232-234) ed era usato anche dai fedeli (ibid., pp. 235-237).
I costumi dei sacerdoti richiamavano le divinità servite e i loro attributi: infatti le sacerdotesse di Demetra, Afrodite e di altre dee usavano acconciarsi con kàlathoi di giunchi o di rose. Dal significato sacro k. passa a costituire un motivo ornamentale nell'abbigliamento. Prove al riguardo ci sono fornite da un ritrovamento archeologico avvenuto in Crimea: nella tomba di una sacerdotessa di Demetra erano delle placche d'oro che, connesse tra loro, mostravano di essere state il rivestimento di un k.; nello stesso luogo fu rinvenuto un gran numero di brattee cucite in precedenza su un abito; esse rappresentano donne, ornate di k., danzanti. Evidentemente la sacerdotessa di Demetra doveva avere questo aspetto. Quanto alla danza si è pensato che essa fosse il καλαϑίσκος, il cui nome sarebbe nato dall'usanza di abbigliare le danzatrici col kàlathos.
Motivo ornamentale puro è infine il k. come capitello, originato forse dal copricapo di questa forma che si trovava sulle cariatidi. Del resto la leggenda della nascita del capitello corinzio - narrata in un notissimo brano di Vitruvio (iv, 1, 8 ss.) - lo dice aver tratto origine da un k. attorno a cui s'era attorcigliato dell'acanto.
Bellissimi esempî arcaici di cariatidi sono le Korai del Tesoro dei Sifnî e di quello cosiddetto degli Cnidi a Delfi; l'alto k. sul capo delle Korai del primo è decorato con rilievi raffiguranti scene di baccanti.
Cariatidi con alto k. sul capo sono frequenti sia come elemento architettonico che come elemento decorativo, ad esempio, nei sarcofagi, e l'arte classica ne è assai ricca.
Bibl.: S. Reinach, Rép. Peint., Parigi 1922; E. Saglio, in Dict. Ant., I, pp. 812 ss.; W. Helbig, Wandgemälde der von Vesuv verschütteten Städte Campaniens, Lipsia 1868, p. 294, n. 331; E. Wurz, Plastische Dekoration des Stützwerkes in Baukunst und Kunstgewerbe des Altertums, Strasburgo 1906, p. 46 ss.; O. Brendel, Novus Mercurius, in Röm. Mitt., LII, 1937, p. 245; N Piatiševa, Il culto di una divinità greco-tauro-scitica a Chersoneso, Vestnik drevnje istorii, 1947, 3, pp. 313-318 (in russo).