Kalina krasnaja
(URSS 1974, Viburno rosso, colore, 100m); regia: Vasilij Šukšin; produzione: Mosfil′m; sceneggiatura: Vasilij Šukšin, dal suo omonimo racconto; fotografia: Anatolij Zabolo-ckij; montaggio: E. Michajlova; scenografia: Ippolit Novoderëžkin; musica: P. Čekalov; suono: V. Beljarov.
Scontata una condanna a cinque anni per furto, Egor Prokudin, un ex contadino traviato dall'inurbamento, torna alla stamberga dove alloggia la sua banda di un tempo e qui sfugge a una retata della polizia. L'episodio funziona per lui come ennesimo segnale della necessità di ravvedersi che già da tempo si è fatta strada nel suo animo. Si reca perciò nel villaggio di campagna dove lo attende Ljuba, sua 'madrina' epistolare negli anni di prigione. L'iniziale imbarazzo e le prevenzioni reciproche si trasformano ben presto in simpatia e affetto. Anche gli abitanti del piccolo paese, a partire dagli anziani genitori della donna, sembrano superare le difficoltà legate ai precedenti dell'intruso. Pur non rinunciando del tutto alle abitudini irregolari di una volta, Egor si inserisce progressivamente nel nuovo tessuto sociale, recuperandone i valori. Ma d'improvviso il passato ritorna. La visita all'anziana madre, che non lo riconosce e alla quale non ha il coraggio di rivelare la propria identità, riapre nell'uomo ferite e sensi di colpa antichi e lancinanti. Infine, i suoi ex compagni di malavita lo raggiungono e, di fronte al rifiuto opposto al loro invito a rientrare nella banda, lo uccidono. Il fratello di Ljuba li insegue con il camion, speronando la loro vettura e scaraventandola nel fiume.
Kalina krasnaja è l'ultimo dei cinque film diretti dal regista, attore, sceneggiatore e scrittore siberiano Vasilij Šukšin, scomparso poco dopo averlo portato a termine. Fatalmente, dunque, finisce per costituirne il testamento spirituale e artistico, assommando pressoché tutte le costanti della sua poetica: il mondo contadino visto come luogo dell'autenticità, ma anche della transizione; il polo a esso oppositivo della città che corrompe, pur rappresentando un'attrazione pressoché irresistibile; un protagonista antieroe irregolare, non un grande peccatore, ma capace "di ribellioni minime e private, di scatti apparentemente immotivati e dai risvolti non di rado apertamente comici" (S. Vitale). Rispetto alle opere precedenti, si impone qui con maggior forza l'elemento autobiografico, sottolineato dal fatto che Šukšin regista dirigeva per la prima volta se stesso nel ruolo principale, e contemporaneamente si accentua l'aspetto melodrammatico, quasi egli fosse cosciente dell'imminenza della propria fine. La temperatura emozionale risulta sapientemente composita grazie soprattutto al controcanto dell'ironia, che interviene sia ad 'asciugare' la simpatia di Egor, sia a fare da contrappeso all'affettuosa rievocazione di un mondo rurale le cui figure vengono modellate con ammirevole sapidità.
Nell'ambito tradizionale della cosiddetta 'prosa della campagna', Šukšin sembra rifarsi ai grandi modelli ottocenteschi. C'è sicuramente qualcosa di tolstoiano, ad esempio, nell'accigliata semplicità e nella barba lunga e candida dell'anziano padre, nella sua diffidenza per il passato dell'ex galeotto destinata a trasformarsi mano a mano in complicità. Nella sua dicotomia tra forza e fragilità, viene da lontano anche l'incantevole Ljuba di Lidija Fedoseeva, moglie del regista, con il suo corpo massiccio e commovente, abbigliato nella foggia piccolo borghese delle contadine russe nei giorni di festa, a fare da involucro un po' goffo a una concreta spiritualità che si impone nei comportamenti, nelle parole, nell'azzurro lindore dello sguardo. Materna presenza archetipica, la donna si ricollega a quella stessa terra sulla quale si consuma la magistrale sequenza di disperazione del protagonista dopo l'incontro con la madre, di intensità dostoevskijana, inevitabile picco di pulsione di morte, di senso di colpa e di coscienza di ineluttabilità del destino in un personaggio caratterizzato da un esibito vitalismo. Facendolo parlare con le betulle, interlocutori silenziosi ma partecipi, sottolinenandone la commozione davanti alle canzoni popolari, che, a partire da quella che dà il titolo al film, vengono a ricoprire un ruolo diegetico oltre che simbolico, Šukšin rischia poi spavaldamente il luogo comune, se esso può aiutarlo a rendere più diretta la strada verso quella che egli chiama "la radice dell'anima".
Probabilmente meno riuscito di Vaš syn i brat (Vostro figlio e fratello, 1966), Kalina krasnaja ha i suoi punti di debolezza nella caratterizzazione un poco semplicistica e manichea dei delinquenti e nell'epilogo di sapore moralistico; inoltre, non sempre si appoggia a una scrittura adeguata alla forza della storia e dei suoi personaggi. Šukšin non è forse regista per vocazione, ma lo è diventato per l'urgenza di raccontare, attraverso "l'arte più importante", la propria esperienza umana e letteraria: "Per quanto riguarda la mia breve esperienza nel cinema e nella letteratura, sarei in malafede se mi lamentassi del mio destino cinematografico, eppure, superando un certo imbarazzo, devo dire che i racconti da cui ho tratto i film che ho diretto sono migliori dei film stessi. Oltre a me non c'è nessun altro che la pensi così. D'ora in poi smetterò di realizzare film dai miei racconti, proverò a scrivere letteratura solamente per il cinema (quando si tratterà di cinema). Forse, chissà quando, qualcosa ne uscirà. Dovrà essere una letteratura estremamente duttile, che non costringa registi e interpreti ad adattarsi a essa, bensì sia essa stessa ad adattarsi a loro. Ma in tal caso esigerà una cosa: il regista e gli interpreti dovranno essere degli artisti. E sarà giusto". Coe-rentemente con la sua fama di anticonformista, in questo suo film ultimo ed estremo, accolto con qualche imbarazzo censorio perché non tace l'esistenza di una criminalità organizzata nell'Unione Sovietica, Vasilij Šukšin fa i conti in maniera del tutto personale con un genere, il melodramma, "non aprioristicamente inventariato, ma inglobato a posteriori, fuori da ogni convenzionalità e stilizzazione", proiettandolo "nel visibile e nella vera quotidianità eroica e tragica e comica, tutt'insieme, della sua gente", permettendosi "gesti immediati, scarti eterododossi, cattiverie e abbandoni impensabili e imperdonabili nelle maniere dei registi e degli autori 'indiretti' contemporanei" e proponendo la propria opera "come modello per il nuovo cinema degli anni Ottanta e Novanta" (G. Buttafava).
Interpreti e personaggi: Lidija Fedoseeva (Ljuba), Vasilij Šukšin (Egor Prokudin), N. Ryzov (padre di Ljuba), M. Skvorcova (madre di Ljuba), A. Vanin (Pëtr), M. Vino-gradova (Zoja), O. Bystrova (madre di Egor), Z. Procho-renko (giudice istruttore), A. Gorbenko (Kolja), N. Pogodin (direttore del sovkhoz), N. Grabbe (comandante della colonia penale), L. Durov (cameriere), G. Burikov, T. Gavrilova, A. Makarov, O. Korcikov (la banda).
N. Lordkipanidze, Šukšin snimaet 'Kalina krasnaja', in "Iskusstvo kino", n. 10, ottobre 1974.
V. Suksin, Il viburno rosso, introduzione di S. Vitale, Roma 1978.
V. Suksin, I mezzi della letteratura e i mezzi del cinema, in Aldilà del disgelo. Cinema sovietico degli anni Sessanta, a cura di G. Buttafava, Milano-Torino 1987.
B. De Marchi, Introduzione allo studio di Vassilij Suksin, in "Bianco e nero", n. 7-8, luglio-agosto 1976.
M. Milesi, Vassilij Sciukscin: la buona terra tra realtà e poesia, in "Cineforum" n. 158, ottobre 1976.
"Cinemasessanta" n. 158, ottobre 1976, in particolare U. Casiraghi, Introduzione a Suksin, V. Soloviev, Tra letteratura e cinema, V. Suksin, Confessioni di un autore.
G. Peruzzi, Viburno rosso, in "Cinema nuovo", n. 255, settembre-ottobre 1978.