Kamel Daoud
Vittima di una doppia fatwa
Lo scrittore algerino premiato al Goncourt, accusato di apostasia dagli imam e di islamofobia dagli intellettuali francesi. Ha denunciato i mali della società araba.
Da 20 anni Kamel Daoud tiene sul suo giornale, il Quotidien d’Oran, la rubrica ‘Raïna raïkoum’, vale a dire «La mia opinione, la vostra opinione». In quelle 60 righe lo scrittore e giornalista algerino ha esercitato a lungo la verve polemica, la voglia di raccontare la realtà senza preoccuparsi troppo dei dispiaceri che avrebbe provocato. Dal 2013 – quando ha pubblicato il romanzo Il caso Meursault, che nel 2015 si è aggiudicato il premio Goncourt per il romanzo d’esordio – a oggi, Daoud è diventato in poco tempo uno degli intellettuali di espressione francese più noti al mondo, tanto amato dai lettori quanto contestato dai suoi sempre più numerosi nemici.
Nato a Mostaganem in Algeria nel 1970, figlio di un gendarme, unico in famiglia ad avere condotto studi universitari, Kamel ha messo la cultura e l’erudizione al servizio della battaglia delle idee. Prima contro le forze che monopolizzano la vita pubblica dell’Algeria, ossia gli eredi del FLN che hanno cacciato i francesi nel 1962 e dominano la terra e gli imam islamisti radicali che si sono appropriati della religione e usurpano il cielo. Poi, mano a mano che la sua notorietà diventava internazionale, Daoud ha affrontato temi cruciali per l’Occidente: il rapporto del mondo arabo e dell’Europa con l’islam, il ruolo dell’Arabia Saudita come base ideologica del terrorismo islamista, fino ai fatti di Colonia del 31 dicembre 2015, quando decine di aggressori in maggioranza arabo-musulmani hanno molestato le donne che festeggiavano per strada la fine dell’anno.
Daoud non è un polemista, non fonda la sua celebrità sugli attacchi personali. È un letterato arrivato al successo in Francia e in Europa grazie al suo primo brillante romanzo, nel quale prosegue il percorso de Lo straniero, 70 anni dopo Albert Camus, riprendendo quella storia con le parole del fratello della vittima. Finalista al Prix Goncourt, il più importante premio letterario francese, Daoud ha cominciato ad avere successo fuori dei confini dell’Algeria.
Intervistato alla TV francese nel dicembre 2014, Daoud ha detto che «se nel mondo arabo non risolviamo la questione di Dio non riusciremo a riabilitare l’uomo, non avanzeremo». Questo gli è valsa la fatwa dell’imam salafita Abdelfattah Hamadache Zeraoui, che su Facebook ha invitato i musulmani a uccidere Kamel Daoud, a suo dire colpevole di apostasia. Dopo gli anni passati a denunciare il sistema di potere corrotto del regime algerino e del presidente Bouteflika, Daoud si ritrova a quel punto nel cuore della questione cruciale per il mondo intero: come affrontare l’islam politico, come accogliere l’altro senza perdere la propria identità. Lo scrittore applica alle questioni internazionali il metodo tante volte usato nella rubrica ‘Raïna raïkoum’: niente attacchi personali, niente risse, solo riflessioni sul fondo dei problemi.
Il 20 novembre 2015, una settimana dopo i 130 morti dei massacri di Parigi, Daoud scrive sul New York Times un articolo eloquente già dal titolo, «Arabia Saudita, un Isis che ce l’ha fatta», nel quale sottolinea il ruolo di pilastro ideologico (e non solo) del regime wahabita per i movimenti jihadisti, e denuncia i legami sempre più stretti e contraddittori della Francia e dell’Occidente con «la Fatwa Valley, una specie di Vaticano islamista con una vasta industria che produce teologi, leggi religiose, libri e aggressive campagne editoriali e mediatiche».
Daoud a questo punto è odiato dal regime laico e dai religiosi algerini, dai jihadisti, dai paesi arabi compromessi con l’islamismo, ma ancora non basta.
Riesce a infastidire anche un gruppo di 19 sociologi e altri intellettuali francesi, che in un testo su Le Monde lo accusano di islamofobia per avere denunciato «la miseria sessuale del mondo arabo» come una delle cause dei fatti di Colonia. Quello è l’attacco di troppo.
«Ogni volta che scrivo qualcosa ricevo tonnellate di insulti e minacce, e per fortuna anche manifestazioni di sostegno. Ma non mi trovo a mio agio, perché non sono un provocatore, sono solo un uomo libero che vuole esprimere la sua opinione. Questo non è più possibile», dice il 16 febbraio 2016, annunciando una pausa dal giornalismo.
Daoud cerca di farsi più discreto, ma ormai non riesce a dedicarsi solo all’Algeria e alla sua Oran, lo sguardo non può che spaziare. A maggio, l’amara riflessione su Donald Trump e la crisi del sistema politico americano: «Finirà per togliere credibilità alla formula ‘la soluzione è la democrazia’, a vantaggio di ‘la soluzione è l’islam’, lo slogan dei Fratelli musulmani».
I suoi libri
- Raïna raïkoum, Oran 2002 (raccolta di scritti pubblicati su Quotidien d’Oran)
- La fable du nain, Oran 2003
- Ô Pharaon, Oran 2005
- L’Arabe et le vaste pays de ô..., Algeri 2008
- La préface du nègre, Algeri 2008 (pubblicato in Francia nel 2011 con il titolo Minotaure 504; trad. it. La prefazione del negro)
- Meursault, contre-enquête, Algeri 2013 (pubblicato in Francia nel 2014; trad. it. Il caso Mersault)