Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
L’opera di Karl Marx prende forma negli anni Quaranta e giunge ai suoi esiti maturi negli anni Settanta dell’Ottocento. La sua fisionomia è data dall’intreccio fra la prospettiva della teoria del capitalismo e quella della prassi del partecipante. Il suo programma scientifico mira a dimostrare l’impermanenza del capitalismo e le sue contraddizioni. Il partecipante alla nascita dei movimenti operai risponde così all’esigenza di costruzione del soggetto rivoluzionario. L’eredità del pensatore della questione sociale è impressionante. Esposta nel Novecento al conflitto delle interpretazioni, teoriche e pratiche, sembra destinata a riemergere, quasi ciclicamente, nelle circostanze della crisi e del mutamento sociale.
Premessa
Karl Marx nasce nel 1818 a Treviri in Renania. Gli anni della sua formazione giovanile sono contrassegnati dall’esperienza degli effetti di due rivoluzioni, quella politica dei fatti di Francia, quella economica della prima rivoluzione industriale, e dalla percezione dell’arretratezza politica ed economica della società tedesca. Nel pieno della Restaurazione europea, sono gli anni in cui si avvertono i segni del mutamento e le tensioni nello spazio sociale e politico. I segni di possibili transizioni. Quelle che negli anni Quaranta indurranno la grande ondata rivoluzionaria del Quarantotto europeo. In questa costellazione il giovane Marx sarà, al tempo stesso, un osservatore analitico e un partecipante intransigente. Con un legame e una tensione, che saranno persistenti nel tempo, fra teoria e prassi. Una corrente calda e una corrente fredda sono destinate così a intersecarsi lungo tutta la sua vita e la sua opera, definendone nel tempo una fisionomia inconfondibile.
L’orizzonte culturale dominante in Prussia coincide con l’eredità dell’insegnamento e della costruzione filosofica di Hegel. Gli eredi si dividono fra destra e sinistra, a seconda dell’orientamento conservatore o progressista. Marx, che si schiera con la sinistra dei giovani hegeliani, studia approfonditamente l’opera del filosofo tedesco. Il corpo a corpo con Hegel lo accompagnerà in vario modo per tutta la sua vita e la sua ricerca. Sarà alla base della sua costruzione teorica. Dedica la tesi di laurea alla filosofia della natura di Democrito ed Epicuro e la discute all’università di Jena nel 1841. Insieme a Prometeo, Epicuro resterà uno dei suoi eroi intellettuali e l’eco della sua massima, secondo cui “infelicità è vivere nella necessità, ma non è necessario vivere nella necessità”, lo accompagnerà a lungo.
L’emancipazione umana e il sogno di una cosa
Dopo la conclusione degli studi universitari, Marx si dedica fra il 1842 e il 1843 a un’attività pubblicistica in cui può realizzare il suo impegno politico, intransigente e radicale nei confronti delle misure oppressive e repressive del regime prussiano. È la prospettiva del partecipante a prevalere. Collabora agli “Annali tedeschi” di Arnold Ruge. Poi, alla “Gazzetta Renana” di Moses Hess, che lo converte alle prospettive socialiste e comuniste insieme a Friedrich Engels. Engels diverrà l’amico di una vita e il suo instancabile collaboratore. Marx si trasferisce da Bonn a Colonia, dove diviene redattore capo della rivista. Nel marzo del 1843, consapevole dell’impossibilità di un esercizio libero della funzione intellettuale, Marx lascia la redazione. La rivista è soppressa dal governo dopo pochi giorni. Nel giugno dello stesso anno, dopo aver sposato Jenny von Westphalen, la straordinaria compagna della sua vita, Marx parte per Parigi. Il progetto, condiviso con Ruge, è una nuova rivista, gli “Annali franco-tedeschi”, che si avvale della collaborazione di Heinrich Heine, Moses Hess e dell’amico Engels.
La prospettiva teorica e politica di Marx rivela, nel periodo parigino, un progressivo distacco dagli intellettuali della sinistra hegeliana. Il conflitto delle interpretazioni dell’eredità della cattedrale hegeliana aveva posto al centro della riflessione e della critica il senso e il ruolo della religione. Marx è convinto che sia urgente mettere a fuoco criticamente lo spazio della politica e delle sue istituzioni, a partire dallo Stato. In una lettera a Ruge del settembre 1843, scrive: “Come la religione è l’indice delle battaglie teoretiche degli uomini, lo Stato politico lo è delle loro battaglie pratiche [… ] il critico non solo può, ma deve interessarsi dei problemi politici [… ] il nostro motto sarà: riforma della coscienza, non mediante dogmi, bensì mediante l’analisi della coscienza mistica oscura a se stessa, sia che si presenti in modo religioso, sia in modo politico. Si vedrà allora come da tempo il mondo possieda il sogno di una cosa, di cui non ha che da possedere la coscienza, per possederla realmente”.
Nel fascicolo doppio del 1844 degli “Annali franco-tedeschi” pubblica l’Introduzione alla sua Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico, in cui viene confutata la pretesa hegeliana di trasformare lo Stato prussiano nelle vesti dell’Idea di Stato. Per fare teoria di una società, sostiene l’osservatore analitico, non ci si muove dall’idea di società, ma ci si deve impegnare nell’analisi della struttura materiale di società determinate e situate. Nello stesso fascicolo esce un penetrante saggio Sulla questione ebraica, in cui Marx discute e critica le tesi di Bruno Bauer sullo Stato laico che emanciperebbe le persone rispetto alle religioni. Marx sostiene che si debba distinguere fra almeno tre tipi di emancipazione: l’emancipazione religiosa, quella politica e, infine, quella umana. Bauer esaurisce il discorso critico sull’emancipazione riducendolo ai primi due tipi. Ma la questione centrale è costituita dalla natura dell’emancipazione politica.
L’emancipazione politica è in realtà incompleta e limitata. Essa si basa sulla tensione e sulla contraddizione fra l’emancipazione del citoyen nel cielo dei diritti eguali e di Liberté, Egalité, Fraternité, e la condizione del bourgeois sulla terra della società civile degli interessi privati e delle diseguaglianze. Quella politica di cittadinanza è, in questo senso, una “comunità illusoria”. L’incompletezza dell’emancipazione politica può essere saturata solo con la realizzazione storica del terzo tipo di emancipazione: l’emancipazione umana. E quest’ultima è a sua volta compiuta solo nelle circostanze storiche e concrete, in cui gli esseri umani realizzano l’eguaglianza della loro comune appartenenza all’umanità. Ma perché ciò sia possibile, è necessario che si dia una classe universale che, subendo l’ingiustizia generale e non torti particolari, non rivendica spettanze o diritti particolari, ma può solo emancipare se stessa e l’intera società.
L’attore sociale dell’emancipazione è il proletariato urbano. La teoria può così realizzarsi nella pratica e, in questo senso, si potrà affermare che il proletariato è l’erede della filosofia classica tedesca. È in questo modo che il giovane Marx connette la grande esperienza storica della Rivoluzione francese con l’insorgenza del modo di produzione capitalistico, con l’articolazione in classi della società e, in particolare, con la formazione del proletariato urbano. Rivoluzione politica e rivoluzione industriale generano, nella loro connessione, la questione sociale della modernità.
Una teoria dell’alienazione
Nei Manoscritti economico-filosofici il quadro si allarga e Marx mette a frutto lo studio assiduo dell’economia politica classica e dei suoi critici. Lo spazio dell’economia politica assume così un rilievo che diventerà centrale nello sviluppo del suo programma scientifico e caratterizzerà tutta la sua ricerca, il suo studio e la sua prospettiva politica, sotto il duplice profilo dell’osservatore e del partecipante. Nel primo abbozzo di una critica dell’economia politica classica, riferendosi in particolare a Smith e muovendo dalla sua distinzione fra salario, profitto e rendita, Marx formula una teoria dell’alienazione che costituisce il nucleo della sua visione antropologica. L’alienazione, un termine che è mutuato dalla terminologia di Hegel, assume almeno tre dimensioni cruciali nello spazio dei rapporti di produzione.
La prima dimensione riguarda l’alienazione o l’estraniazione del lavoratore dal prodotto del proprio lavoro. Il prodotto del lavoro si contrappone al lavoratore come un ente estraneo. Qui è all’opera un processo strutturale di privazione del lavoratore. La seconda dimensione investe il rapporto fra il lavoratore e il suo stesso lavoro. Non solo il prodotto del lavoro, ma l’attività stessa del lavoro diviene estranea per il lavoratore salariato. Infine, la terza dimensione coincide con l’alienazione del salariato dall’essenza stessa della sua umanità, della sua appartenenza all’umanità. È proprio dell’umanità che la sua attività di trasformazione della natura, che il suo lavorare, la sua prassi siano attività libere e consapevoli. Esse sono attività che hanno a che vedere con i fini. Ma il lavoro alienato del salariato è semplicemente un mezzo per la sua esistenza, e ciò cancella e deforma la sua “essenza” umana.
Così accade, nell’economia borghese, che il lavoratore conosca l’esperienza del divenire straniero a se stesso in quanto essere umano.
È proprio questa condizione, che è l’esito di un complicato processo storico, a essere naturalizzata e assolutizzata dallo sguardo dell’economia politica. Essa trasforma le leggi storiche e determinate che regolano il meccanismo della produzione capitalistica in leggi “eterne”, immunizzate rispetto al mutamento e alla storia. Il riconoscimento del carattere storico dell’economia borghese implica hegelianamente il riconoscimento della sua intrinseca impermanenza e della necessità del suo superamento. Il comunismo è, in questo senso, lo sviluppo storico necessario che, sopprimendo le condizioni dell’economia borghese, genera la liberazione dell’essere umano dall’alienazione e la riappropriazione della sua essenza intrinsecamente umana. Il sogno di una cosa è ora trasparente. Il suo significato ci parla dell’emancipazione umana.
Karl Marx
Marx confessa le sue differenze rispetto ad Hegel
Il Capitale, Prefazione (II ediz.)
Per il suo fondamento, il mio metodo dialettico, non solo è differente da quello hegeliano, ma ne è anche direttamente l’opposto. Per Hegel il processo del pensiero, che egli trasforma addirittura in soggetto indipendente col nome di Idea, è il demiurgo del reale, che costituisce a sua volta solo il fenomeno esterno dell’idea o processo del pensiero. Per me, viceversa, l’elemento ideale non è altro che l’elemento materiale trasferito e tradotto nel cervello degli uomini.
Ho criticato il lato mistificatore della dialettica hegeliana quasi trent’anni fa, quando era ancora la moda del giorno. Ma proprio mentre elaboravo il primo volume del Capitale i molesti, presuntuosi e mediocri epigoni che ora dominano nella Germania colta si compiacevano di trattare Hegel come ai tempi di Lessing il bravo Moses Mendelssohn trattava lo Spinoza: come un “cane morto”. Perciò mi sono professato apertamente scolaro di quel grande pensatore, e ho perfino civettato qua e là, nel capitolo sulla teoria del valore, col modo di esprimersi che gli era peculiare. La mistificazione alla quale soggiace la dialettica nelle mani di Hegel non toglie in nessun modo che egli sia stato il primo ad esporre ampiamente e consapevolmente le forme generali del movimento della dialettica stessa. In lui essa è capovolta. Bisogna rovesciarla per scoprire il nocciolo razionale entro il guscio mistico.
Nella sua forma mistificata, la dialettica divenne una moda tedesca, perché sembrava trasfigurare lo stato di cose esistente. Nella sua forma razionale, la dialettica è scandalo e orrore per la borghesia e pei suoi corifei dottrinari, perché nella comprensione positiva dello stato di cose esistente include simultaneamente anche la comprensione della negazione di esso, la comprensione del suo necessario tramonto, perché concepisce ogni forma divenuta nel fluire del movimento, quindi anche dal suo lato transeunte, perché nulla la può intimidire ed essa è critica e rivoluzionaria per essenza.
K. Marx, Il Capitale, Roma, Edizioni Rinascita, 1956
Prendere sul serio la storia
A questo punto Marx, che nel febbraio 1845 è espulso dalla Francia su richiesta del governo prussiano e lascia Parigi per Bruxelles, ha bisogno di elaborare una teoria del processo storico. Ora prevale la prospettiva dell’osservatore analitico. Distaccandosi definitivamente dalle prospettive utopistiche del socialismo francese e abbandonando coerentemente l’idea di tratteggiare i lineamenti ideali e normativi di un modo di convivenza e di riproduzione sociale superiore a quello borghese, diventa prioritario definire una concezione della storia, intesa come processo di formazione e trasformazione dei modi di produzione e riproduzione materiale delle società nel tempo. Dall’utopia alla scienza. Il distacco dall’utopia nella direzione di una scienza dello sviluppo storico va insieme al rovesciamento della prospettiva di Hegel e, quindi, alla critica del carattere astratto e illusorio della stessa sinistra hegeliana.
Anche il pensiero di Ludwig Feuerbach, che è decisivo per la critica della cattedrale speculativa hegeliana, viene a questo punto sottoposto a critica e confutazione per la sua incapacità di fare i conti con la dimensione concreta della praxis umana come attività, e non semplicemente passività. I filosofi si sono sinora limitati a interpretare il mondo, ora si tratta di trasformarlo, annota Marx nella sua undicesima tesi inedita su Feuerbach. Forse, Marx ha in mente la figura bifronte dell’osservatore partecipante.
L’ideologia tedesca, il testo inedito cui Marx lavora con Engels nel 1844-45, è dedicato a delineare una prima formulazione della concezione materialistica della storia. La dinamica storica e il mutamento si fondano sulla connessione fra il grado di sviluppo delle forze produttive, a sua volta dipendente dal tipo di divisione del lavoro, e i rapporti sociali di produzione. Ciò che conta non è solo che cosa gli esseri umani producono entro condizioni empiriche determinate e concrete, ma anche il modo in cui producono ciò che producono. La produzione è produzione di beni e, al tempo stesso, di rapporti sociali di produzione. Una determinata formazione sociale trae le sue proprietà distintive dalla particolare relazione tra grado di sviluppo delle forse produttive e rapporti sociali di produzione. È in questo spazio, generato dalla connessione fra sviluppo delle forze produttive e rapporti sociali di produzione, che possiamo individuare, con un’immagine architettonica, la base, la struttura su cui si edifica in ultima istanza il sistema delle istituzioni e delle credenze, delle idee coerenti con la struttura. Entro questo spazio si genera propriamente l’ideologia, intesa come falsa coscienza. La concezione materialistica della storia dispone di criteri per definire le regole di transizione e passaggio da una formazione sociale all’altra. Transizioni e passaggi da un tipo di proprietà e un’altra, alternativa.
Nell’abbozzo del processo storico dell’Ideologia tedesca, con tutta l’eco delle teorie stadiali dello sviluppo dell’Illuminismo francese e scozzese, ritroviamo così la sequenza che dalla forma della proprietà tribale passa alla proprietà della comunità antica, a quella feudale, sino all’insorgenza della proprietà privata nella società borghese, in cui assume spicco una struttura dicotomica delle classi sociali: da un lato la classe dei proprietari, dall’altra la classe del proletariato. È a questo punto che si può affermare che la divisione del lavoro e lo sviluppo delle forze produttive hanno generato per un verso una “trasformazione della storia in storia universale”, in virtù della costruzione di un “mercato mondiale”, e per altro verso hanno dato luogo alla crescita di una classe “che deve sopportare tutti i pesi della società” e che acquisisce nel tempo “la coscienza della necessità di una rivoluzione che vada al fondo”. L’idea della dilatazione planetaria del modo di produzione capitalistico accompagnerà sino alla fine, in modo persistente, la tenace e vorace ricerca di Marx.
Così, la concezione materialistica del processo storico conferma che la liberazione e l’emancipazione umana sono l’esito necessario delle leggi di movimento della storia. E che il “sogno di una cosa” della lettera a Ruge del settembre 1843 è e non può che essere realizzato nella dinamica materiale della produzione e della riproduzione sociale e nel salto relativamente inevitabile da una società divisa in classi a una società senza classi. L’approdo alla storia finalmente umana, dopo il lungo travaglio della preistoria. Nelle sue linee essenziali il quadro concettuale di sfondo per la ricerca di Marx è approntato. Vi saranno variazioni e ritocchi, anche significativi. Ma la visione preanalitica per il grande programma scientifico è ormai definita.
Questa visione del processo storico è al centro del celebre Manifesto del Partito Comunista che la lega dei comunisti, nata dallo scioglimento della lega dei giusti nel congresso di Londra del giugno 1847, chiede a Marx ed Engels di redigere nel secondo congresso che ha luogo nel novembre dello stesso anno. Il Manifesto esce nel 1848, poco prima della rivoluzione parigina del 23 febbraio e della grande ondata insurrezionale europea. Alla base dell’eloquente e appassionata narrazione del Manifesto, l’idea dello sviluppo storico delle formazioni sociali, caratterizzato dal conflitto e dalla lotta fra le classi sociali sino alla nascita della borghesia, la classe rivoluzionaria della modernità capitalistica che ha lasciato alle sue spalle il vecchio mondo sociale d’ancien régime, ha lacerato i vincoli e le legature della tradizione, ha innescato un impressionante sviluppo della scienza e della tecnica, ha liberato enormi e crescenti forze produttive, ha reso liquido tutto ciò che era stabile nella vecchia società cetuale, ha modellato le idee dominanti e le istituzioni del dominio. La borghesia ha sostituito allo sfruttamento mascherato d’illusioni religiose e politiche “lo sfruttamento aperto, spudorato, diretto e arido”. Ma è inevitabile, alla luce della concezione materialistica della storia, che l’impressionante e accelerato sviluppo delle forze produttive sia destinato ad entrare in contraddizione con i rapporti sociali di produzione. Il modo di produzione capitalistico, per la sua stessa logica, è indotto alla crisi per ragioni endogene. Così, si legge nel Manifesto, “la borghesia non ha soltanto fabbricato le armi che le porteranno la morte. Ha anche generato gli uomini che impugneranno quelle armi: gli operai moderni, i proletari”.
Il Manifesto esce alle soglie dell’insorgenza dei movimenti rivoluzionari che da Parigi si estendono allo spazio europeo, investendo l’assetto istituzionale e politico generato dalla Restaurazione del Congresso di Vienna. Marx partecipa alle fasi dell’ascesa e della sconfitta dei movimenti. Espulso dal Belgio, torna ai primi di marzo alla Parigi del governo provvisorio. In aprile è a Colonia per avviare la pubblicazione della “Nuova Gazzetta Renana”. Quando l’ordine prussiano viene restaurato dall’esercito, Marx rientra a Parigi, ma dopo i moti del giugno 1849 di fronte alla reazione del governo francese sceglie di andare a Londra. Vi resterà sino alla morte.
Le convulsioni del lungo Quarantotto europeo, che il partecipante Marx non rinuncia ad analizzare con la lente dell’osservatore, sembrano chiedere “teoria”. Il sogno di una cosa ha bisogno di una dimostrazione scientifica. Il programma di Marx sarà d’ora in avanti quello di formulare i teoremi dell’emancipazione umana. E a ciò dedicherà l’imponente progetto della sua critica dell’economia politica.
Karl Marx
Praduzione e bisogno
Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, Vol. I
Senza bisogno non vi è produzione. Ma il consumo riproduce il bisogno.
A ciò corrisponde da parte della produzione che essa: 1) fornisce al consumo il materiale, l’oggetto. Un consumo senza oggetto non è un consumo; per questo verso, quindi, la produzione crea, produce il consumo. 2) Ma non è soltanto l’oggetto che la produzione procura al consumo. Essa dà anche al consumo la sua determinatezza, il suo carattere, il suo finish. Allo stesso modo che il consumo dava al prodotto il suo finish come prodotto, la produzione dà il suo finish al consumo. Insomma, l’oggetto non è un oggetto in generale, ma un oggetto determinato, che deve essere consumato in un modo determinato, in un modo che a sua volta dev’essere mediato dalla produzione stessa. La fame è fame, ma la fame che si soddisfa con carne cotta, mangiata con coltello e forchetta, è una fame diversa da quella che divora carne cruda, aiutandosi con mani, unghie e denti. Non è soltanto l’oggetto del consumo dunque ad essere prodotto dalla produzione, ma anche il modo di consumarlo, non solo oggettivamente, ma anche soggettivamente. La produzione crea quindi il consumatore. 3) La produzione fornisce non solo un materiale al bisogno, ma anche un bisogno al materiale. Quando il consumo emerge dalla sua immediatezza e dalla sua prima rozzezza naturale - e l’attardarsi in questa fase sarebbe ancora il risultato di una produzione imprigionata nella rozzezza naturale - esso stesso come propensione è mediato dall’oggetto. Il bisogno che esso ne avverte è creato dalla percezione dell’oggetto stesso. L’oggetto artistico - e allo stesso modo qualsiasi altro prodotto - crea un pubblico sensibile all’arte e capace di godimento estetico. La produzione produce perciò non soltanto un oggetto per il soggetto, ma anche un soggetto per l’oggetto.
K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, Firenze, La Nuova Italia, 1970
L’emancipazione umana e i suoi teoremi
Il nucleo del programma scientifico della critica dell’economia politica coincide con la teoria del valore. Nella biblioteca del British Museum lo scrivano instancabile si impegna, inter alia, in un corpo a corpo con le teorie dell’economia politica classica e, in particolare, con le teorie del valore di Smith e Ricardo oltre che con una vasta gamma di dottrine economiche borghesi, generate dalla transizione al modo di produzione capitalistico. Ora prevale la prospettiva dell’osservatore analitico che indaga sulle cose economiche e sociali. Nel 1857-58 Marx consegna gli esiti ormai maturi della sua ricerca ai Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica e, un anno dopo, a Per la critica dell’economia politica.
Il quadro concettuale di sfondo dell’osservatore analitico si dilata e si approfondisce. Il movimento della ricerca assume, ancora una volta, e più intensamente, uno stile hegeliano. Nella genealogia dei modi di produzione che precedono la formazione sociale capitalistica assumono rilievo il modo di produzione asiatico e, nel contesto europeo, la comunità germanica. La percezione del tempo storico e del processo di transizione da una forma di produzione all’altra incontra una crescente complessità e stratificazione. In questo senso l’analisi scientifica del modo di produzione capitalistico può avvalersi di categorie che rendono conto in modo più adeguato sia del suo funzionamento determinato e storicamente situato, sia della combinazione complessa di tempi e modi diversi di produzione e rapporti di produzione arcaici che persistono e coesistono, sia – infine – delle cause della sua impermanenza. La critica dell’economia politica può così mostrare e mettere in luce quanto era rimasto opaco e nascosto allo sguardo indagatore dei classici, che avevano immunizzato il modo di produzione capitalistico rispetto alla trasformazione e al mutamento storico.
Una celebre lettera a Kugelmann dell’11 luglio 1868, un anno dopo l’uscita del primo libro de Il Capitale, ci introduce in modo eloquente nello spazio della teoria del valore di Marx. “Il cianciare sulla necessità di dimostrare il concetto di valore è fondato solo sulla più completa ignoranza, sia della cosa di cui si tratta, sia del metodo della scienza. Che sospendendo il lavoro, non dico per un anno, ma solo per un paio di settimane, ogni nazione creperebbe, è una cosa che ogni bambino sa. E ogni bambino sa anche che le quantità di prodotti, corrispondenti ai diversi bisogni, richiedono quantità diverse, e quantitativamente definite, del lavoro sociale complessivo. Che questa necessità della distribuzione del lavoro sociale in proporzioni definite non è affatto annullata dalla forma definita della produzione sociale, ma può solo cambiare il suo modo di apparire è self evident. Le leggi della natura non possono mai essere annullate. Ciò che può mutare in condizioni storiche diverse non è che la forma con cui quelle leggi si impongono. E la forma in cui questa distribuzione proporzionale del lavoro si afferma, in una data situazione sociale nella quale la connessione del lavoro sociale si fa valere come scambio privato dei prodotti individuali del lavoro, è appunto il valore di scambio di questi prodotti. La scienza consiste appunto in questo: svolgere come la legge del valore si impone”.
Karl Marx
Il carattere di feticcio della merce e il suo arcano
Il Capitale, Libro I, sez. I, cap. IV
A prima vista, una merce sembra una cosa triviale, ovvia. Dalla sua analisi, risulta che è una cosa imbrogliatissima, piena di sottigliezza metafisica e di capricci teologici. Finché è valore d’uso, non c’è nulla di misterioso in essa, sia che la si consideri dal punto di vista che soddisfa, con le sue qualità, bisogni umani, sia che riceva tali qualità soltanto come prodotto di lavoro umano. È chiaro come la luce del sole che l’uomo con la sua attività cambia in maniera utile a se stesso le forme dei materiali naturali. P. es. quando se ne fa un tavolo, la forma del legno viene trasformata. Ciò non di meno, il tavolo rimane legno, cosa sensibile e ordinaria. Ma appena si presenta come merce, il tavolo si trasforma in una cosa sensibilmente sovrasensibile. Non solo sta coi piedi per terra, ma, di fronte a tutte le altre merci, si mette a testa in giù, e sgomitola dalla sua testa di legno dei grilli molto più mirabili che se cominciasse spontaneamente a ballare.
Dunque, il carattere mistico della merce non sorge dal suo valore d’uso. E nemmeno sorge dal contenuto delle determinazioni di valore. Poiché: in primo luogo, per quanto differenti possano essere i lavori utili o le operosità produttive, è verità fisiologica ch’essi sono funzioni dell’organismo umano, e che tutte tali funzioni, quale si sia il loro contenuto e la loro forma, sono essenzialmente dispendio di cervello, nervi, muscoli, organi sensoriali, ecc. umani. In secondo luogo, per quel che sta alla base della determinazione della grandezza di valore, cioè la durata temporale di quel dispendio, ossia la quantità del lavoro: la quantità del lavoro è distinguibile dalla qualità in maniera addirittura tangibile. In nessuna situazione il tempo di lavoro che costa la produzione dei mezzi di sussistenza ha potuto non interessare gli uomini, benché tale interessamento non sia uniforme nei vari gradi di sviluppo. Infine, appena gli uomini lavorano in una qualsiasi maniera l’uno per l’altro, il loro lavoro riceve anche una forma sociale.
Di dove sorge dunque il carattere enigmatico del prodotto di lavoro appena assume forma di merce? Evidentemente, proprio da tale forma. L’eguaglianza dei lavori umani riceve la forma reale di eguale oggettività di valore dei prodotti del lavoro, la misura del dispendio di forza-lavoro umana mediante la sua durata temporale riceve la forma di grandezza di valore dei prodotti del lavoro, ed infine i rapporti fra i produttori, nei quali si attuano quelle determinazioni sociali dei loro lavori, ricevono la forma d’un rapporto sociale dei prodotti del lavoro.
L’arcano della forma di merce consiste dunque semplicemente nel fatto che tale forma rimanda agli uomini come uno specchio i caratteri sociali del loro proprio lavoro trasformati in caratteri oggettivi dei prodotti di quel lavoro.
K. Marx, Il Capitale, Roma, Edizioni Rinascita, 1956
La teoria del valore
La teoria del valore di Marx mira a spiegare la forma che il costo sociale reale dei prodotti, corrispondente a una quota di lavoro sociale erogato, assume nel caso storico e determinato in cui i prodotti siano merci e, perciò, abbiano un valore di scambio con altre merci. Il mondo, leggiamo nel classico incipit del primo libro de Il Capitale, è un’immane raccolta di merci. E se i valori d’uso delle merci sono differenti, come del resto aveva riconosciuto Ricardo, la possibilità del loro scambio presuppone che si dia un “equivalente generale”, grazie al quale realizzare il loro valore di scambio, generato dal tempo di lavoro socialmente necessario per la loro produzione. L’equivalente generale coincide con il denaro, il “ruffiano universale” di Shakespeare.
L’enigma che deve essere dissolto è quello per cui, nel modo di produzione capitalistico, il denaro impiegato per comprare una merce al suo valore di scambio generi più denaro. Il feticismo delle merci ha impedito ai classici di decifrare il meccanismo all’opera nel processo di produzione di merci e, per questo, sia Smith sia Ricardo hanno messo a fuoco il processo di distribuzione del prodotto sociale, per rendere conto del sovrappiù che contraddistingue l’economia capitalistica. Marx vuole tenere fermo lo sguardo al processo di produzione che è processo, al tempo stesso, di produzione di merci e di produzione di rapporti sociali di produzione.
La tesi avanzata, nella sua forma più elementare, è la seguente: quando si dia una merce come la forza-lavoro, il capitalista che l’acquista nello scambio sul mercato eroga un salario corrispondente al valore d’uso dei mezzi di sussistenza del lavoratore e, quindi, si appropria legittimamente del valore eccedente, incorporato nelle merci prodotte, che deriva a sua volta dal lavoro eccedente il valore dei mezzi di sussistenza. Il pluslavoro del salariato coincide con il plusvalore per il capitalista. E questa è la forma che assume, nel modo di produzione capitalistico, lo sfruttamento. Il plusvalore generato nel processo di produzione rende conto del processo di accumulazione e di sviluppo capitalistico.
Ora, la condizione che deve essere soddisfatta perché si inneschi il processo, è l’esito di un complesso processo storico e dipende, come sappiamo, da una determinata connessione fra i rapporti sociali di produzione e il grado di sviluppo delle forze produttive. Come osserva Marx nel secondo libro de Il Capitale, dedicato all’analisi e alla costruzione degli schemi di riproduzione e che uscirà postumo a cura di Engels nel 1885, “l’atto introduttivo, che costituisce un atto di circolazione, la compravendita della forza-lavoro, si fonda esso stesso a sua volta, su una distribuzione degli elementi di produzione che precede la distribuzione dei prodotti sociali e ne è un presupposto, cioè la separazione della forza-lavoro come merce del lavoratore dai mezzi di produzione come proprietà di non lavoratori”.
Lo scambio fra capitale e forza-lavoro presuppone l’articolazione dicotomica delle classi sociali centrali: la classe dei proprietari dei mezzi di produzione e la classe dei proprietari della propria forza-lavoro. Il valore dei mezzi di produzione corrisponde al lavoro erogato e incorporato, il lavoro morto. E ciò coincide con il capitale costante. La forza-lavoro è lavoro vivo e coincide con il capitale variabile. Il rapporto fra capitale costante e capitale variabile definisce la composizione organica del capitale. Il rapporto fra il plusvalore, derivante solo dal capitale variabile, e la somma di capitale costante e variabile si esprime nel saggio di profitto.
Una volta determinata la struttura del modo di produzione capitalistico, grazie alla teoria del valore lavoro, nel primo libro del Il Capitale Marx si impegna nell’analisi e nella ricostruzione della sua genesi e dei suoi presupposti. Nel continuum dei modi di produzione e riproduzione sociale è necessario indagare le modalità della transizione al capitalismo e l’insorgenza dello specifico modo di produzione capitalistico. Il grande affresco storico e la grande narrazione marxiana mettono a fuoco, con questo scopo, il processo dell’accumulazione originaria di capitale che prende le mosse dalla crisi del modo di produzione feudale. E, delineando le distinte fasi capitalistiche della cooperazione e della manifattura, l’osservatore analitico perviene ai tempi della grande industria.
La genealogia del capitalismo è genealogia, al tempo stesso, dei metodi di produzione e dei rapporti sociali di produzione. Ai tempi della grande industria lo sviluppo delle forze produttive, grazie all’uso su larga scala delle macchine e alla crescita della scienza e delle tecniche, genera la classe del capitale e la classe del proletariato urbano. La tendenza alla polarizzazione dicotomica della società è individuata grazie al progressivo aumento del capitale costante e alla creazione di un “esercito industriale di riserva”. L’accumulazione di ricchezza in poche mani coincide con l’accumulazione di miseria e sofferenza sociale fra amplissime frazioni di popolazione. Marx è convinto che la tendenza sia inevitabile e che la legge fondamentale dell’accumulazione capitalistica possa essere definita nei termini dello sviluppo crescente dell’esercito industriale di riserva. D’altra parte, il complemento di questa legge è dato dagli effetti dell’aumento del capitale costante rispetto al capitale variabile. È quindi possibile individuare una legge di lungo periodo della caduta tendenziale del saggio di profitto, che Marx enuncia nel terzo libro del Capitale, uscito postumo nel 1894, sempre a cura di Engels.
Così, i teoremi della critica dell’economia politica dimostrano l’impermanenza del modo di produzione capitalistico e le ragioni endogene del suo superamento. Della sua transizione a un modo di produzione e riproduzione sociale, in cui si dissolva l’antagonismo fra le classi e prenda forma il sogno di una cosa. Una società in cui si realizzi l’emancipazione umana. E si renda omaggio alla vecchia massima di Epicuro.
“Je ne suis pas marxiste”
Negli anni in cui Marx si impegna nella realizzazione del suo programma scientifico, incentrato sui teoremi di dimostrazione dell’impermanenza del modo di produzione capitalistico, la prospettiva dell’osservatore analitico si intreccia costantemente e nervosamente con la prospettiva del partecipante.
Nel 1864, tre anni prima della pubblicazione del primo libro de Il Capitale nasce a Londra la Prima Internazionale. Marx è convinto, dal punto di vista teorico, che l’associazione dei lavoratori debba naturalmente assumere una dimensione che attraversi le frontiere, rispondendo antagonisticamente al processo di unificazione capitalistica senza frontiere e alla costruzione del mercato mondiale. Dal punto di vista del partecipante, nell’Indirizzo inaugurale del novembre del 1864, mira a conseguire una convergenza fra le differenti correnti e i distinti movimenti, comunisti, socialisti, socialisti utopisti, anarchici, repubblicani che aderiscono all’Internazionale. Ottiene il consenso unanime. Ma Marx continuerà la sua battaglia da partecipante intransigente, prima con i seguaci di Proudhon, la cui visione aveva severamente criticato negli anni giovanili ne La miseria della filosofia, poi con gli anarchici di Bakunin, l’autore di Stato e anarchia. Nella critica alle posizioni degli avversari politici, Marx si avvale sistematicamente degli esiti e degli strumenti concettuali della sua teoria. Corrente calda e corrente fredda si intersecano l’una con l’altra. Si contaminano. Vanno in tandem.
Quando nel 1870, dopo la sconfitta francese nella fulminea guerra con la Germania e la proclamazione della repubblica, Marx deve scrivere ai primi di settembre il secondo manifesto dell’Internazionale, la sua preoccupazione principale lo induce a mettere a fuoco il carattere prematuro di un’azione rivoluzionaria del proletariato parigino. Nel marzo 1871 l’insurrezione della Parigi operaia, guidata da gruppi anarchici, radicali e dai seguaci di Louis-Auguste Blanqui, proclama la Comune rivoluzionaria. Marx, quale osservatore, è scettico quanto alle possibilità di successo dell’esperimento di governo operaio. Quale partecipante, non può che aderire. Dopo la sconfitta e il massacro dei comunardi a opera dell’esercito francese, nello scritto La guerra civile in Francia, l’osservatore partecipante si inchina di fronte alla Parigi operaia che “con la sua Comune, sarà celebrata in eterno come l’araldo glorioso di una nuova società”.
Nel 1875, un anno prima dello scioglimento alla conferenza di Filadelfia della Prima Internazionale, Marx usa ancora una volta gli strumenti dell’osservatore analitico per gli scopi politici del partecipante. Riunito a Gotha, il Partito operaio tedesco approva il proprio programma. Marx elabora una critica puntigliosa di molte tesi, consegnata alla Critica del Programma di Gotha. Ma alla critica si accompagnano, in questo testo, quasi dei frammenti di un discorso sulla transizione verso la società comunista. Le dure repliche della storia, la memoria viva dei profitti e delle perdite dei movimenti rivoluzionari, suggeriscono a Marx la necessità, nel processo di trasformazione rivoluzionaria, di una transizione in cui si eserciti la dittatura rivoluzionaria del proletariato. E il remoto sogno di una cosa evoca una fase più avanzata della società comunista in cui, al di là dei rapporti di sfruttamento, della scarsità e della macchina borghese dello Stato, nel pieno e onnilaterale sviluppo umano e della ricchezza sociale, la società possa finalmente scrivere “sulle proprie bandiere: ognuno secondo le sue capacità; a ognuno secondo i suoi bisogni!”.
Nel 1881, l’anno della morte di Jenny, la straordinaria compagna di una vita, e due anni prima della sua morte, che avverrà il 14 marzo 1883, Marx medita a lungo sulla risposta appropriata alla lettera di Vera Zasulich che, dalla Russia in larga parte arretrata, gli pone la questione delle possibili vie alternative alla rivoluzione proletaria e alla transizione alla società comunista. Marx esita. La convinzione dell’osservatore analitico è in tensione con la propensione del partecipante. Ma l’idea di fondo resta salda: solo il pieno sviluppo del modo di produzione capitalistico può aprire la strada al processo rivoluzionario di transizione alla società senza classi, in cui si realizzino le condizioni dell’emancipazione umana.
L’enorme influenza che il progetto di Marx eserciterà, nello spazio e nel tempo, sulle vicende politiche e sociali del Novecento è tanto nota quanto controversa. Il secolo breve ha conosciuto un’impressionante varietà di interpretazioni teoriche e pratiche del retaggio del grande pensatore della questione sociale della modernità. E lo spettro di Marx sembra destinato ciclicamente a riemergere, nelle costellazioni di crisi e mutamento. Gioverà, in ogni caso, ricordare che la sua battuta preferita resta “Je ne suis pas marxiste” e che lui, il Moro, non aveva una particolare propensione a stilare ricette per le cucine dell’avvenire.