Csillagosok, katonák
(Ungheria/URSS 1967, L'armata a cavallo, bianco e nero, 105m); regia: Miklós Jancsó; produzione: Mafilm/Mosfilm; sceneggiatura: Georgij Mdivani, Gyula Hernádi, Miklós Jancsó; fotografia: Tamás Somló; montaggio: Zoltán Farkas; scenografia: Boris Čebotarëv; costumi: Maya Abar, Gyula Várdai.
Ambientato negli anni Venti del Novecento, in Russia, quando la guerra civile oppose le milizie dei 'bianchi' zaristi a quelle dei 'rossi' bolscevichi (gli 'internazionalisti magiari' ‒ costituiti da prigionieri ungheresi della prima guerra mondiale ‒ erano incorporati fra le truppe bolsceviche), il film mostra, quasi in alternanza, le violenze commesse dai 'bianchi' contro i 'rossi' e dai 'rossi' contro i 'bianchi'. Gli episodi si concentrano in prevalenza intorno a due luoghi: un monastero abbandonato che, già quartier generale dei 'rossi', viene conquistato dai 'bianchi', i quali perpetrano una strage sadica contro i prigionieri bolscevichi, dopo aver fatto fuggire gli ungheresi; e un ospedale di campagna, nel quale, tra i feriti, viene offerto rifugio ai 'rossi'. Il comandante di una truppa di 'bianchi' vorrebbe costringere Elizaveta, la direttrice dell'ospedale, a denunciarli. Visto il suo rifiuto, l'infermiera Olga, alla quale viene ucciso sotto gli occhi il giovane soldato 'rosso' innamorato di lei, è costretta a prestarsi al compito. Sopraggiunge un'armata di 'rossi' che giustizia Olga, insieme al comandante della truppa dei 'bianchi'. Accerchiati a loro volta dai nemici, i 'rossi' vengono infine decimati. Un soldato ungherese, trovando i loro cadaveri, rende omaggio ai caduti sguainando la sciabola.
Secondo momento di una trilogia sulla violenza del Potere ‒ preceduto da Szegénylegének (I disperati di Sandor, 1964) e seguito da Csend és kiáltás (Silenzio e grido, 1968) ‒ Csillagosok, katonák conferì a Miklós Jancsó un successo critico internazionale. Come gli altri due film, ambientati in Ungheria in due diverse epoche del passato, potrebbe definirsi con difficoltà un'opera storica: più che spiegare le dinamiche degli eventi, chiarire le motivazioni personali e ideologiche dei loro protagonisti, focalizza l'attenzione dello spettatore sul nudo meccanismo della sopraffazione fisica del vincitore (provvisorio) sul vinto. Se diversi sono i tipi umani che si ritrovano nei due contrapposti eserciti (eleganti e disciplinati i 'bianchi', nelle loro divise inappuntabili; cenciosi ed entusiasti i 'rossi'), analoga è la violenza di cui danno prova. Analogia evidenziata dalla ripetizione di un rito: l'ordine dei carnefici alle vittime di denudarsi completamente, in segno di degradazione, prima di essere uccise o costrette alla fuga.
Che tuttavia il punto di vista di Jancsó non sia equidistante rispetto alle due fazioni in lotta, è chiarito dall'insistenza sulle differenze di comportamento attribuite ai rispettivi miliziani: i 'bianchi' nel monastero uccidono con indifferenza e sprezzo aristocratici; mentre la violenza dei 'rossi' è oggetto di scontro e di dibattito all'interno dell'esercito (uno dei soldati, protestando contro la fucilazione di alcuni prigionieri e scongiurandola, afferma: "Penso che si possa combattere anche restando umani"); raramente i bolscevichi si sfogano in esecuzioni sommarie e, quando queste si verificano, sono spiegate come una sorta di rivalsa, per quanto feroce. A chiarire l'atteggiamento ideologico dell'autore vale il finale epico, nel quale il battaglione dei 'rossi', preso alla sprovvista, procede disarmato, cantando strenuamente la Marsigliese, incontro alle truppe 'bianche' che ne fanno strage.
Eppure, come nota Giovanni Buttafava in una minuziosa e acuta disamina dell'intera trilogia, la simpatia manifestata da Jancsó per i bolscevichi introduce nell'opera "un elemento di disturbo e di convenzionalità immotivata": il nucleo tematico è invece costituito dalle forme, codificate e ritualistiche, sempre sostanzialmente identiche, con le quali viene esercitata la violenza. L'antico monastero ortodosso, così come i paesaggi naturali nei quali si svolge in larga parte l'azione, che recano in loro un senso di eternità, suggeriscono l'idea che il racconto non riguardi alcuni eventi particolari, prodottisi in un certo periodo storico, ma universali leggi del Potere, cui i personaggi, siano essi carnefici o vittime, sono inconsapevolmente e ciecamente asserviti. Di qui la meccanicità dei loro comportamenti, la loro atonia emotiva e l'assenza di profili psicologici individuali.
Il film è costituito da una successione di articolati piani-sequenza, lunghe inquadrature senza tagli di montaggio interni, ottenute attraverso complessi movimenti della macchina da presa (in particolare, attraverso carrellate associate a zoom). Tale strumento espressivo, che ricorre in continuazione nelle opere dell'autore, in Csillagosok, katonák è condotto a un alto grado di perfezionamento tecnico, consentendo a Jancsó di seguire duttilmente l'azione, ora soffermandosi su un primo piano, ora spaziando su un campo lungo. Scandendo stragi e sevizie nella loro durata reale, misurando la compattezza senza scampo dei larghi spazi che ne sono scenario, il piano-sequenza qui riesce soprattutto a evocare il pathos di una grave, tragica fatalità. Il titolo originale (che, tradotto letteralmente, significa: "Stellati, soldati") è ricavato dalle prime parole dell'Internazionale ungherese. Altro titolo, autorizzato dall'autore per la distribuzione internazionale, è The Reds and the Whites.
Interpreti e personaggi: Tatjana Konjiuchova (Elizaveta), Krystyna Mikolajewska (Olga), Michail Kozakov (comandante rosso), Viktor Avdjuško (marinaio), Bolot Bejšenalev (Činzig), András Kozák (László), Jószef Madaras (comandante ungherese), Jácint Juhász (comandante della Brigata Internazionale), Nikita Michalkov (sottotenente Glazunov), Sergej Nikonenko (ufficiale cosacco), Anatolij Jabbarov (Čelpanov), Gleb Striženov, Vladimir Prokofiev.
T. Kezich, La trilogia della sconfitta, in "Sipario", n. 271, novembre 1968.
M. Argentieri, Epopea e tragedia della violenza, in "Rinascita", n. 48, 6 dicembre 1968.
P. Leroy, P. Loubière, Miklós Jancsó, in "Cineforum", n. 81, gennaio 1969.
J.-L. Comolli, Autocritique, in "Cahiers du cinéma", n. 219, avril 1970.
G. Buttafava, Miklós Jancsó, Firenze 1974.
Sceneggiatura: in "Cineforum", n. 81, gennaio 1969.