Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Gli ebrei e gli zingari hanno per secoli peregrinato per l’Europa, vivendo costantemente un’irrisolta tensione tra l’integrazione con la cultura di accoglienza, spesso ostile, e il mantenimento della propria identità. Le vicende di questi popoli sono state importanti per la musica del Novecento europeo e, in particolare, hanno dato origine a due repertori: il flamenco (Andalusia) e il klezmer (Europa orientale). Si tratta di repertori radicati nella tradizione orale, nati da processi osmotici che li hanno spinti a diventare, nel Novecento, generi della popular music.
Diaspore
Klezmatics
Il nuovo klezmer: tradizione e reinvenzione
“Noi ragazzacci del Ventesimo secolo abbiamo manifestato la nostra iconoclasta passione per ciò che ci appartiene, ma non è tutto. Il mondo dello spirito ebraico è un mondo di eterna tradizione e di sempre vibratile reinvenzione. Le mura del Tempio sono crollate, e noi cerchiamo di costruire il nostro spazio sacro dovunque possiamo. Costruiamo con un occhio rivolto al passato, il che ci lega all’eterno che, a sua volta, ci spinge verso il futuro. Vogliamo costruire un mondo migliore, il che implica una chiara conoscenza di questo in cui viviamo. Creiamo poesia per descrivere dove andiamo, perché nella creazione ci realizziamo nell’immagine di Dio che ha creato il cielo e la terra: Non si può creare nulla di reale finché non lo si immagina. Ciò accade per la giustizia, ciò accade per l’amore. E COSI’ NOI CI INNALZIAMO”.
Testo originale:
We 20th century badass babies have claimed their iconoclastic passion for our own, but they’re not the whole story. The world of Jewish spirit is a world of eternal tradition and ever-shifting reinvention. The walls of the Temple are down, and we seek to build our sacred space wherever we can. We build with one eye on the past, which ties up to the eternal, which leads us to the future. We want to build a better world, which means learning to see this one clearly. We make poetry to describe where we’re going, because in creating we fulfill ourselves in the image of God who made heaven and earth, and you can’t make something real until you can immagine it. That goes for justice; that goes for love. AND SO WE RISE UP.
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L’Europa è stata solcata da due importanti diaspore: quella degli ebrei, scatenatasi dopo la distruzione del secondo tempio da parte dei Romani (70 d.C.), e quella degli zingari, termine non privo di connotazioni negative entrato in uso per indicare un insieme variegato di popoli che hanno in comune il fatto di essere discendenti dalle genti che, a partire dalla fine del primo millennio, furono costrette a lasciare la loro terra d’origine situata nell’area settentrionale dell’India, probabilmente a causa dell’espansione islamica.Da allora, ebrei e zingari si sono dispersi in tutto il mondo, ma sempre vivendo un’irrisolta tensione tra l’integrazione con la cultura di accoglienza e il mantenimento della propria identità, nonché un’altrettanto irrisolta tensione nei confronti di un ambiente spesso ostile, che ha reso e rende questi popoli vittime di pregiudizi, discriminazione e di frequenti drammatiche persecuzioni.
Le diaspore sono sempre fatti drammatici, dove solo sofferenza e disperazione trovano posto. È inevitabile però notare che alcune delle musiche più significative del Novecento emergono proprio da tali drammi: jazz, tango, fado e rebetiko, ad esempio, sono frutto di osmosi le cui origini sono legate anche allo spostamento forzato di intere popolazioni. Ciò riguarda anche ebrei e zingari; anzi, questi due popoli hanno contribuito alla formazione e allo sviluppo di moltissime musiche del mondo. Qui ci soffermeremo su due importanti repertori europei: il flamenco e il klezmer.
Klezmer
Gli ebrei arrivarono in Europa nel I secolo d.C., seguendo due vie principali: la via sefardita, che li vide insediarsi nella penisola iberica per poi disperdersi, dopo l’espulsione da parte di Isabella, regina di Castiglia e Ferdinando il Cattolico (1492), nell’Europa Occidentale e nell’area mediterranea; e la via ashkenazita, centrata nell’Europa orientale, dove all’inizio del Novecento troviamo una comunità ebraica assai consistente caratterizzata da una lingua comune: lo yiddish. Il klezmer (dall’ebraico kley zemer, “strumento che canta”) è una musica prevalentemente strumentale propria degli ebrei ashkenaziti che, insieme al repertorio vocale in lingua yiddish, rappresenta una delle più significative espressioni culturali di questa comunità. Si tratta di una musica festosa e piacevole, suonata in piccoli ensemble formati da corde, percussioni e fiati, dove tradizionalmente i ruoli principali sono coperti da clarinetto e violino.
La comunità ebraica aveva un atteggiamento contraddittorio verso la musica, soprattutto strumentale: da un lato la scoraggiava, permettendola solo in occasioni festose, dall’altro, per gli ebrei askhenaziti, questa rappresentò – a fasi alterne – un’importante fonte di occupazione probabilmente fin dal tardo Medioevo, momento nel quale cominciarono a circolare in Europa piccole orchestre itineranti di klezmorim (musicisti), cantanti e badchonim (buffoni), che si esibivano nelle feste popolari e, soprattutto, durante i matrimoni. È da questa tradizione orale, documentata fin dal XVI secolo, che si svilupparono la musica klezmer e la canzone yiddish. Il klezmer prese forma dunque durante il continuo girovagare dei klezmorim, che venivano così a contatto con le varie musiche dell’area dell’Europa orientale, facendole proprie in un processo di continua osmosi che si confrontò anche con le musiche altrettanto ibride degli altrettanto girovaghi musicisti zingari. Tra la fine del XIX secolo e l’inizio del XX, questa tradizione strumentale, di fatto sorprendentemente omogena, vista la sua dispersione in un così ampio territorio, si formalizza: entra nei circuiti concertistici cittadini e comincia a essere incisa su disco, mentre i musicisti cominciano ad avere un ruolo sociale più rilevante. Naturalmente questo significa anche l’avvio di un processo di revisione della formula musicale all’interno del nuovo contesto. Tale processo si sviluppa soprattutto negli Stati Uniti, dove all’inizio del secolo molti klezmorim emigrano. Là il klezmer, ormai solido, trapianta le sue radici e prospera, senza però venire meno alla propria connaturata tensione a immergersi nei suoni dell’ambiente ospitante. In particolare, negli Stati Uniti si intreccia con il nascente jazz, ovvero con la musica frutto di un’altra importante diaspora, quella del popolo africano.
Dopo la seconda guerra mondiale, all’indomani del genocidio nazista, l’interesse per il klezmer cala, probabilmente a causa del desiderio della comunità ebraica di dimenticare il periodo di sofferenza, per ripredere improvvisamente negli anni Settanta. Da allora, il klezmer mostra grande vitalità e, al di là delle inevitabili pressioni con le quali l’industria ha cercato di piegarlo alle mode esotiche di fine Novecento, può oggi contare su un’ampia schiera di estimatori che ne valorizzano la tradizione in una prospettiva sia di conservazione sia di sviluppo attento all’attualità, mantenendo viva la tensione osmotica che storicamente lo ha caratterizzato e che collega idealmente i klezmorin originari a Giora Feidman e ai Klezmatics.
Flamenco
Nel XIV secolo, mentre i klezmorim peregrinavano nell’Europa orientale, gli zingari arrivano in Europa. Parte di loro si stanzia in Andalusia, nell’estremo sud-est della Spagna, dove trova un contesto culturale assai variegato, popolato da Spagnoli, Arabi, Ebrei sefarditi e Berberi. In questo fazzoletto di terra finiscono così per intrecciarsi le storie di vari popoli, le loro religioni (islam, cattolicesimo, ebraismo, hindu) e le culture da cui provenivano (Maghreb, Europa centrale, Medio Oriente, Sud Asia). Gli esiti sono tanto straordinari quanto drammatici. A noi interessa rilevare che è da questo contesto che si sviluppa una delle musiche più popolari del XX secolo: il flamenco, che è testimoniato fin dal XV secolo.
Le origini del flamenco sono ancora oggetto di discussione. La parola “flamenco” ci fornisce qualche indizio: essa deriva dal termine flamengo (“fiammingo”), con il quale erano indicati i gitani provenienti dalle Fiandre, oppure dalle parole arabe felag (“contadino”) e mengu (“errante”, “fuggitivo”), espressione che probabilmente si riferiva anch’essa agli zingari. E infatti, secondo un’ipotesi assai accreditata, che ben si sposa con l’approccio tipico della cultura zingara, il flamenco sarebbe frutto dall’appropriazione dei gitanos delle musiche presenti nel contesto che li accolse e dalla loro rielaborazione, sviluppata in relazione alle tradizioni arabe e ebraiche, comunità insieme alle quali gli zingari condividevano la condizione di discriminazione imposta dai Re cattolici.
Se il klezmer è musica festosa relativamente omogenea, il flamenco è un insieme assai eterogeneo di pratiche musicali accumunate dalla ricerca di un elemento peculiare, connaturato alla cultura spagnola: il duende. Il duende è un’intensa e sofferta profondità emotiva e spirituale, uno stato d’animo di completo abbandono che può essere colto, ma che subito sfugge. L’importanza del duende nella cultura spagnola e il radicamento del flamenco nell’animo delle genti ci mostrano come questo non rappresenti un semplice momento di svago, ma rispecchi un profondo atteggiamento esistenziale incarnato nell’anima popolare.
Per vari motivi, su cui torneremo, il flamenco è noto soprattutto come danza, ma è parere condiviso che il duende trovi la sua piena realizzazione nel cante jondo (canto profondo), detto anche grande, un repertorio costituito da canzoni cantate da voci potenti, accompagnate da chitarristi virtuosi e dal gioco ritmico generato dal battito di mani. Tradizionalmente il cante jondo era eseguito nelle juergas (baldorie) gitane, dove i confini tra musicisti e pubblico erano assai sfumati. Assume la sua forma canonica alla metà del XIX secolo, quando la sua crescente fama lo fa entrare a pieno titolo nell’intrattenimento cittadino. Accanto alla tradizionale juerga, cominciano a moltiplicarsi le juergas organizzate da aristocratici non gitani (payos). Il flamenco farà poi il suo ingresso nel café chantant spagnolo, mentre la presenza dei musicisti payos, un tempo non molto rilevante, aumenta considerevolmente.
Il periodo che va dal 1920 al 1960 vede il flamenco prosperare ed entrare nell’industria dell’intrattenimento, raggiungendo prima una fama nazionale e poi, anche a causa della massiccia emigrazione che caratterizza la Spagna a metà del secolo, il riconoscimento internazionale. Ciò significa però un progressivo disinteresse del pubblico per il flamenco tradizionale, soprattutto verso il cante jondo. Emerge dunque il filone della danza flamenco, certo più adatto per la sua spettacolarità ai contesti di intrattenimento, come ad esempio lo spettacolo leggero detto “Opera flamenca”. In generale, comunque, sarà il flamenco più ibridato con gli altri repertori spagnoli e gitani, nonché con i balli latino-americani, a riscuotere i maggiori consensi.
È significativo notare che, mentre viene avviata una valorizzazione del cante jondo inteso come autentica espressione del popolo andaluso, ufficializzata dalla prima edizione del Concurso de cante jondo organizzato da Federico García Lorca e Manuel de Falla nel 1922, il flamenco, coerentemente con l’approccio osmotico che ne ha caratterizzato le origini, continua a trasformarsi e ad appropriarsi di musiche di ogni tipo. Il flamenco-pop e il cante chico (canto piccolo) – nato attraverso l’interazione di elementi mutuati dalla rumba e dal son cubano – degli anni Sessanta sono da leggere in questa chiave, così anche come la svolta impressa da Camaron de la Isla e Paco de Lucia, e le successive ibridazioni con il rock e le sperimentazione della world music dei Pata Negra o dei Radio Tarifa, che hanno reinventato il flamenco introducendo di fatto un nuovo genere: il nuevo flamenco.