koinè
Il termine koinè (meno diffusa la variante grafica coinè) proviene dal greco koinē´, femminile dell’agg. koinós «comune» accordato con diálektos s.f. «lingua», indicante la lingua letteraria usata dai prosatori di età imperiale, e allude a una delle cinque varietà greche, coesistente con attico, dorico, ionico, eolico (Coluccia 2009: 2478-2479).
Nella terminologia dei linguisti tale prestito, di diffusione internazionale, data dai primi decenni del Novecento: registrato nell’italiano a partire dal 1933, indicato come sostantivo femminile invariabile da molti vocabolari dell’uso, significa «lingua comune che si diffonde in un determinato territorio» formata per sommatoria intenzionale. Riferiti prevalentemente all’uso scritto, la parola e il concetto possono essere estesi anche a episodi dell’oralità, del presente (in opposizione a fenomeni diversificati di particolarismo e di localismo) e del passato, nonostante la difficoltà obiettiva di acquisire documentazione affidabile e efficacemente analizzabile.
Qui verranno esaminate alcune manifestazioni esemplari, riconducibili nell’alveo della koinè, generate nelle aree settentrionale, centrale e meridionale d’Italia fino agli inizi del Cinquecento e alla codificazione bembesca (➔ Pietro Bembo). Si esclude per ovvie ragioni la Toscana, regione che ha fornito alle altre la lingua affermatasi sulle molteplici varietà locali: la toscanizzazione è comunque un processo di lunga durata, il cui esito non si può considerare predeterminato.
L’affermazione di modelli sovralocali è facilitata da fattori unificanti, peraltro non esclusivi dell’area: in primo luogo una fitta rete di grandi arterie di collegamento tra l’Europa occidentale e centrale e il bacino del Mediterraneo, che agevola la circolazione di viaggiatori, mercanti, pellegrini, giullari, soldati, girovaghi; in secondo luogo il costume dei regimi comunali del settentrione di assumere podestà e giudici forestieri (accompagnati di norma da famigli) e maestri di scuola di provenienza esterna, nonché l’attivismo predicatorio dei religiosi di origini diverse; infine, la circolazione di opere letterarie anche non locali, dalle più prestigiose a quelle adatte a circuiti più modesti, come i cantàri. Su tutto opera, come vedremo, la spinta proveniente da corti e cancellerie.
Una tradizione di volgare colto latineggiante, estranea alla cultura toscana preumanistica, conferisce a una parte consistente della produzione letteraria alto-italiana duecentesca una fisionomia linguistica relativamente uniforme o perlomeno favorisce in essa l’affermazione di una serie di tratti morfosintattici e lessicali condivisi: a tale fenomenologia è stato dato il nome complessivo di koinè padana. In questo senso, le concordanze non sarebbero da attribuire a uno stato di necessità o al sostrato comune ma piuttosto a una precisa scelta culturale, dettata da uno sforzo consapevole di coesione (Durante 1981: 155).
In maniera apparentemente indipendente sono state rilevate, nella più antica poesia settentrionale, «omofonie ĭ ē : ī, e ŭ ō : ū, di ascendenza merovingica, meglio note, per quel che riguarda la lirica dugentesca, col nome di rime ‘siciliane’» (CLPIO: ccxxviia) e la congruenza della tradizione settentrionale con quella siciliana pressappoco contemporanea. Potrebbe trattarsi semplicemente della somiglianza di fattori locali casualmente convergenti; ma anche «di un fenomeno riconducibile a un comune background, quello, in altre parole, che si è convenuto di chiamare ‘merovingico’ […] o, più esattamente, ‘africano’» (CLPIO: ccxxviiib), che porterebbe a ipotizzare l’«esistenza di un ‘sistema unitario’ anteriore alla nostra letteratura in versi» (CLPIO: ccxxxa).
Andando ancor più a ritroso, un’importanza fondamentale è stata attribuita al dominio longobardo, che addirittura sarebbe stato in grado di generare una convergenza linguistica tra nord e sud d’Italia, attraverso la Toscana, Spoleto e Benevento, e di dare corpo a una precocissima tradizione comune lungo l’intera Italia, con esclusione dei territori sottoposti alla dominazione bizantina (Sanga 1995: 86-91).
Accantonando le fasi più remote, che per carenza di documentazione si possono esaminare solo con difficoltà, il nostro discorso parte dalla tradizione volgare duecentesca del Nord, sufficientemente ricca e nota. La questione se nel Duecento sia davvero esistita una koinè settentrionale e a quale progetto possa ricondursi, è tutt’altro che semplice: la koinè implica la creazione di un modello comunicativo appositamente calibrato e una scelta espressiva sovralocale programmaticamente perseguita, anche se non in modo esplicito. In assenza di una simile opzione ‘strategica’, che è molto di più rispetto all’occasionale allontanamento dagli elementi di più marcata caratterizzazione locale, non si potrebbe parlare di koinè.
Una linea di «continuità tra le scritture due e quattro-cinquecentesche settentrionali» è stata individuata grazie a una serie di tratti che ricorrono, con intensità variabile, nei testi settentrionali antichi; da queste presenze si dovrebbe dedurre «l’assoluta identità tra koinè alto-italiana del Duecento e la koinè settentrionale che giunge fino alla metà del Quattrocento» (Sanga 1990a: 91-92). Il procedimento dà dunque per scontata l’esistenza della koinè duecentesca; colpisce la quantità dei dati esibiti, che sembrerebbero inappellabili in virtù della loro stessa mole. E tuttavia se serve a testimoniare i fattori che, in base all’evoluzione storica della lingua, contrappongono le regioni settentrionali alla Toscana, la ricorrenza, anche estesa, di elementi coincidenti non basta di per sé a provare l’esistenza di una lingua comune su base non toscana, intenzionalmente programmata, storicamente realizzata e funzionalmente comunicativa (Vàrvaro 1990: 179).
Perché un progetto consapevole prenda corpo bisogna attendere che maturino diverse condizioni in alcune corti e cancellerie e in ben definiti ambienti letterari quattrocenteschi. Nel periodo che comprende il XV secolo e gli inizi del successivo, per un complesso di contingenze storiche e culturali concomitanti, si configurano nel nord dell’Italia varie koinè che si sviluppano in un quadro di riferimento fortemente coeso, nel quale l’elaborazione teorica di un modello unitario si collega direttamente alle esperienze concrete.
Nella produzione cancelleresca lombarda si colgono segni evidenti del processo di formazione di koinè sovramunicipali e della successiva convergenza dalle aree laterali verso un paradigma, cortigiano da una parte e fiorentino dall’altra. I casi meglio studiati sono quelli della Mantova dei Gonzaga e della Milano dei Visconti e degli Sforza (➔ cortigiana, lingua). Mantova si caratterizza per la diffusione di un volgare civile e cancelleresco che nelle gride ufficiali di fine Trecento e di primo Quattrocento dimostra l’abbandono dei tratti marcatamente idiomatici, ancora evidenti nella prosa del notaio Vivaldo Belcalzer, a vantaggio di una lingua cortigiana, in anticipo e anche in opposizione rispetto a Milano. In quest’ultima città i primi documenti in volgare della cancelleria datano dal 1426 e mostrano i segni della crescente sprovincializzazione culturale delle segreterie locali. Ne è prova la modesta quantità di fenomeni fonetici e morfologici indigeni, al contrario ancora ben presenti nei documenti analoghi che provengono da zone laterali, come quella bergamasca, o ricorrenti in testi coevi del medesimo ambiente milanese ma di diversa temperie (i canzonieri di Gasparo Visconti, la corrispondenza di suor Margherita Lambertenghi): «scrivere alla cortesana», imitando la lingua della cancelleria sforzesca nelle sue caratterizzazioni evidenti, diventa un obiettivo progressivamente più diffuso (Bongrani & Morgana 1992: 100). Nel policentrismo padano quattrocentesco, la corte estense di Ferrara assume un ruolo di primo piano sotto il profilo letterario: in quel contesto l’ibridismo cosciente rappresenta un risultato funzionale in grado di contemperare le spinte contrastanti della varietà locale, del latino e del toscano. Il campione più rappresentativo è L’Inamoramento de Orlando di ➔ Matteo Maria Boiardo, in cui la lingua risulta eterogeneamente costituita grazie all’apporto di componenti diverse: la koinè settentrionale, il latinismo come naturale derivato dell’esperienza umanistica e il linguaggio della tradizione poetica precedente.
La zona veneta si caratterizza per la particolare abbondanza di materiale documentario in volgare proveniente dai centri di Venezia, Padova, Treviso e Verona; tale situazione consente di caratterizzare con precisione i volgari veneti antichi. L’impiego del volgare nella cancelleria, che nella contigua zona lombarda si dispiega in età umanistica e prerinascimentale, a Venezia ha origine in una fase anteriore: qui il volgare nei documenti cancellereschi si manifesta già tra il XIII e il XIV secolo, peraltro in un contesto in cui ancora prevale quantitativamente il latino. A partire dal Quattrocento prende vita un registro veneziano cancelleresco caratterizzato da considerevole toscanizzazione fono-morfologica; anche a Venezia nel corso del XV secolo la scrittura cancelleresca evolve verso una sempre maggiore accoglienza di forme comuni, qui significativamente condizionate dal prestigio della tradizione toscana (sintesi degli studi in Stussi 1995: 127-132; per i testi successivi Coluccia 2009: 2483).
L’unità tipologica mediana, estranea sia alla Toscana che al Mezzogiorno, comprende Marche, Umbria e Lazio, con estensioni non marginali verso zone abruzzesi e molisane (➔ Italia mediana); da questi territori proviene, fin dalle fasi più remote della nostra storia linguistica, un «complesso imponente di testi in volgare (tutti collegati direttamente ai monasteri benedettini)» e alle loro ramificazioni sul territorio, espressione di una cultura a base religiosa notevolmente unitaria (Vignuzzi 1994: 330-331 passim).
Lo sviluppo del volgare nella zona da Montecassino all’Umbria e il ruolo di primaria importanza svolto dalle grandi fondazioni abbaziali benedettine non comportano la creazione di uno strumento comunicativo unitario che possa a pieno titolo definirsi koinè: l’intercomprensione è garantita piuttosto dall’amplissima coincidenza tra gli idiomi dei singoli centri di produzione testuale e dalla generica affinità tematica dei testi, che presuppone un patrimonio di conoscenze almeno in parte comune.
Esternamente all’ambito religioso, fino ai limiti del Quattrocento, non risultano assenti manifestazioni documentarie di importante interesse. Nel policentrico panorama dell’area assume particolare rilievo l’impatto normalizzatore della lingua delle cancellerie comunali e signorili e la conseguente diffusione di tendenze sovralocali. Il centro maggiormente studiato è Urbino, con riguardo alla corrispondenza ufficiale di Federico da Montefeltro, la cui compagine linguistica si allontana dall’ordito della lingua locale, accostandosi primariamente al latino e subordinatamente al toscano. La fedeltà alla forma del luogo risulta consentita nei casi in cui tale forma possa avvalersi del sostegno del latino, che opera da termine ultimo di riferimento, e secondariamente della lingua letteraria. Il prodotto finale è una koinè soltanto scritta (Breschi 1992: 481-482).
Nella considerazione del continuum linguistico romano quattro-cinquecentesco, caratterizzato da un divario piuttosto netto tra uso scritto e uso parlato e da dislivelli sociali e culturali propri di una compagine urbana composita, non vanno trascurate le articolazioni stilistiche di una produzione particolarmente abbondante ed eterogenea, nella quale le distinzioni tra varietà alta, media e bassa, ognuna scritta e orale, si movimentano ulteriormente a seconda del livello diafasico (➔ variazione diafasica). La svolta complessiva non si realizza con la meccanica sostituzione del toscano, scritto e parlato, al volgare locale, ma attraverso un lento compromesso tra realtà linguistiche diverse in coesistenza e in conflitto; la toscanizzazione raggiunge fin dal Quattrocento la produzione scritta e formale della élite dirigente concentrata nella corte papale o nei suoi paraggi, mentre nel secolo successivo il volgare originario a forte impronta mediana viene progressivamente dismesso dall’intera comunità dei parlanti, di ogni ceto sociale, fino a diventare uno strumento inservibile e desueto. L’unicità del cosiddetto caso Roma nella storia linguistica preunitaria non va rintracciata nella toscanizzazione dell’uso scritto – fenomeno che, con intensità variabile, coinvolge molti altri centri della penisola – ma nella toscanizzazione precoce dello stesso uso parlato. A Roma si produce con anticipo la spinta all’unificazione linguistica che nelle altre regioni si realizza in misura decisiva nel periodo postunitario; senza citare singoli casi, si rinvia ai noti studi di Migliorini (1948), Ernst (1970), D’Achille (1987), Sabatini (1987), De Mauro (1989), Serianni (1989), P. Trifone (1990), Palermo (1991), Vignuzzi (1992), Mancini (1993), M. Trifone (1999).
In collegamento con le vicende del romanesco e con i caratteri della lingua promanante dalla corte romana viene elaborata, agli inizi del Cinquecento, la cosiddetta teoria cortigiana, rivendicata in primo luogo da Mario Equicola e da Vincenzo Colli detto il Calmeta (Giovanardi 1998). La norma da essi proposta si basa su un modello concreto da offrire come punto di riferimento nazionale: la lingua della corte di Roma, varietà toscaneggiante ma non integralmente toscanizzata, ben diversa dalla norma poggiata sul canone ristrettissimo di autori toscani classici e trecenteschi.
Nel secondo Quattrocento meridionale si rivela decisivo il ruolo svolto dai centri del potere politico e amministrativo, in particolare dalle corti.
Nei testi amministrativi e cancellereschi (➔ cancellerie, lingua delle) è presto evidente l’adozione di un volgare depurato dei tratti sentiti come eccessivamente locali e temperato da una certa presenza di forme toscaneggianti e latineggianti. Già nel 1356, sotto il regno di Giovanna I, un piccolo contingente di lettere, indirizzate dalla regina e dal marito Luigi d’Angiò al gran siniscalco Niccolò Acciaiuoli, documenta l’apparizione del volgare meridionale nella cancelleria della corte napoletana. Il tipo linguistico usato mostra eloquentemente che a metà del Trecento la comunicazione all’interno dell’ambiente dinastico e con gli alti funzionari della corte avviene in una lingua «notevolmente artificiosa, per effetto del suo forte ibridismo. Siamo davanti a una lingua confezionata (anche collegialmente) in cancelleria, a un tipico prodotto di koinè» (Sabatini 1996: 485).
Sotto gli Aragonesi a Napoli si ha un’intensa attività della cancelleria di corte, che produce una mole rilevante di documenti, solo in parte conservati. Tra i funzionari addetti alla stesura di atti pubblici e amministrativi, di istruzioni e di lettere, spiccano personaggi come Pontano, Petrucci, Carafa, Cinico, altrimenti noti per la loro produzione letteraria: anche in virtù della matrice elevata di tanti estensori, la lingua cancelleresca e amministrativa della corte aragonese mostra segni evidenti di demunicipalizzazione e di delocalizzazione. L’adozione di un volgare depurato e temperato nelle modalità descritte sopra ha successo anche fuori dalla capitale e presso scriventi di qualità meno elevata. Tra i documenti amministrativi della periferia, un caso ben studiato è quello dei Capitoli della Bagliva di Galatina (1496-99; D’Elia 1968). In generale, si osserva che nella tradizione cancelleresca e amministrativa l’influenza del modello uniformante favorisce la confezione di prodotti (statuti, capitoli, bandi, registri erariali, ecc.) ripetitivi nella struttura testuale e relativamente omogenei nella lingua, anche a dispetto delle variazioni legate al luogo, al momento e alla contingenza redazionale.
In ambito letterario Giovanni Brancati elabora una coerente presa di posizione teorica tendente a prospettare ai prosatori aragonesi l’opportunità di una via espressiva tutta propria, in grado di fronteggiare e superare con una opzione originale la triplice pressione della varietà locale, del toscano e del latino. A Brancati il re Ferrante d’Aragona commissionò la revisione della versione volgare della Naturalis Historia di Plinio eseguita dall’umanista fiorentino Cristoforo Landino e dedicata al sovrano medesimo. Alla richiesta del re Brancati oppone, in una lettera databile al 1473 (o a un periodo immediatamente successivo), una espressa disistima del risultato e delle qualità stesse di Landino, per cui la revisione risulta troppo onerosa e di fatto impraticabile, bandendo ogni deferenza nei confronti del toscano. Quando poi – nel 1480 circa – realizza la sua traduzione dell’opera pliniana, Brancati dichiara:
Non ho anche curato far la medesma traductione in altro linguagio che in lo nostro medesmo, non pur napolitano ma misto, parte perché ò iudicato questo ad nesun altro esser inferiore, parte perché ho voluto la medesma traductione sia utile ad tucti certo, ma principalmente a li mei conregnicoli et sopra ad tucti ad te, invictissimo re Ferrando.
Si tratta di una categorica rivendicazione del valore assunto dalla koinè meridionale continentale di stampo letterario, alla quale espressamente rinvia la formula «linguagio [...] non pur napolitano ma misto» (non «napolitano misto», come erroneamente continua a ripetersi). L’opzione si intende appieno alla luce della successiva allusione ai «conregnicoli» (e non, ai soli napoletani) quali destinatari ideali della nuova e più adeguata traduzione (Coluccia 1994: 396-397).
Brancati, oltre che con la traduzione pliniana, si cimentò pure con una versione di Vegezio e con un trattato esopiano, pervenuti entrambi in forma adespota. Nelle lettere dedicatorie che accompagnano le tre opere si ripetono schemi e dichiarazioni molto simili; anche la lingua del volgarizzamento pliniano presenta spiccati elementi di analogia con quella degli altri due testi: in essa «si ha l’impressione che il tasso di variazione sia relativamente poco elevato e si vada, soprattutto in morfologia, verso una certa standardizzazione» (Barbato 2001: 539).
Anche nella poesia si possono registrare tentativi programmatici di instaurare modelli applicabili nell’alveo di una specifica koinè ancora in fondazione. Il variegato gruppo dei lirici aragonesi, pur senza abiurare completamente alla componente idiomatica (Vitale 1992), attraverso strategie differenziate persegue l’obiettivo comune di confezionare una lingua valida per la comunicazione poetica: nel gruppo si può distinguere la posizione di chi (Galeota) mostra evidente inclinazione al compromesso tra toscano e tradizione indigena da quella di chi (Aloisio e, con maggiore lucidità, De Jennaro e Rustico) vagheggia il distacco dalle tendenze locali per aderire ai modelli toscani, rappresentati in primo luogo dai quattrocentisti contenuti nella Raccolta aragonese del 1476; un po’ isolata in questo senso appare la posizione di Caracciolo che, mirando a un recupero della componente petrarchista, di fatto apre la strada alle maggiormente mature esperienze di Cariteo e di Sannazaro.
Nella rassegna delle condizioni linguistiche insulari il caso più celebre è rappresentato dalla ➔ Scuola poetica siciliana: nata all’interno di un progetto culturale e linguistico sovralocale, di matrice strutturalmente composita, è costituita anche da personaggi non nativi dell’isola, meridionali del continente e talvolta non meridionali.
Dopo la splendida stagione lirica duecentesca, va ricordata (ma per ridimensionarla) la tesi sulla (almeno parziale) neo-romanizzazione della Sicilia e sull’esistenza di una precocissima koinè isolana, che si sarebbe originata fin dal XIII secolo e continuata poi in epoche successive: il siciliano scritto usato nel corso dei secoli è atipico per la sua modernità, cioè per la scarsità di arcaismi e la relativa omogeneità (Vàrvaro 1981: 214-220). Il prevalere di una varietà linguistica di fattura colta, che riduce il peso di realizzazioni locali fortemente connotate, produce risultati di una certa omogeneità, che si constatano fin dal testo più antico della tradizione letteraria siciliana post-federiciana, il Libru de dialogu de Sanctu Gregoriu, volgarizzamento dal latino da collocare, almeno nella sua sezione più antica, nella prima metà del XIV secolo. Comincia così a formarsi una tradizione di prosa in volgare di contenuto moraleggiante, didattico e divulgativo, che costituisce l’elemento peculiare di questa cultura anche nel secolo successivo. Fondamentale è il complesso rapporto che la Sicilia stabilisce con il grande modello toscano, a partire dalle prime traduzioni trecentesche quali l’Istoria di Eneas; come in altre zone d’Italia, anche nell’isola il processo di toscanizzazione, in atto fin dal Trecento, procede attraverso fasi di discontinuità e un progressivo allargamento degli ambiti di interesse. I contenuti salienti della cultura volgare siciliana nella seconda metà del XV secolo si addensano attorno ad alcuni nuclei fondamentali: trattati di mascalcia o sull’ammaestramento dei cavalli, qualche prodotto storiografico e soprattutto scritture religiose. Tendenza generale di questi testi, che nella loro relativa varietà testimoniano un consolidamento dei campi occupati dal volgare, è un certo indebolimento della caratterizzazione linguistica locale, cui si accompagnano in misura notevole fenomeni di variazione interna: forse troppo poco per pensare con certezza a differenti realizzazioni di una unica koinè intenzionale. Si tratta piuttosto delle manifestazioni di un sistema a base siciliana caratterizzato da una notevole pluralità di uscite, del quale è difficile dare una descrizione unitaria «in termini di contenuti linguistici e in termini di sua vigenza nello spazio» (Vàrvaro 2004: 205).
Diversamente dai numerosi episodi trecenteschi, nel Quattrocento la traduzione non nasce dalla necessità di rendere accessibili alla cultura insulare prodotti altrimenti inintelligibili; le versioni in siciliano, proprio perché in un certo senso ‘superflue’, sembrano rappresentare l’orgogliosa riaffermazione del volgare colto locale come lingua letteraria, funzione che il siciliano mantiene ancora, almeno nel campo della letteratura religiosa, fino al pieno Cinquecento.
Sono coeve ai volgarizzamenti (➔ volgarizzamenti, lingua dei) eseguiti nel primo Trecento le più antiche attestazioni finora note di scritture documentarie in siciliano. Per tutto il secolo, la produzione di atti pubblici in volgare è estremamente minoritaria rispetto a quella in latino e si caratterizza per fenomeni di forte variazione (Rinaldi 2005: X e XV), che dimostrano quanto difficoltosa sia nell’isola la realizzazione della koinè di tipo cancelleresco. Con il progredire del tempo l’uso del volgare locale registra un costante incremento quantitativo e si guadagna dichiarazioni teoriche di una certa importanza, come quella che esplicita la preferenza per tale scelta linguistica nella redazione di un atto pubblico nell’ottobre 1363: «azò ki li audituri haianu plui claru intellectu di nostra intencioni» (Mattesini 1994: 419).
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