Kumarila Bhatta
Filosofo indiano (7° sec. ca.). Aderente alla scuola Mīmāṃsā, fu fondatore al suo interno della corrente Bhāṭṭa. Con i suoi commenti (Ślokavārttika, Tantravārttika, Tupṭīkā e Br̥haṭṭīkā) all’opera di Śabara (il primo commentatore dei Mīmāṃsāsūtra), K. sistematizza e struttura teoreticamente la scuola Mīmāṃsā, che con lui entra in pieno nel dibattito filosofico fra le scuole indiane, distinguendosi soprattutto per la polemica contro le scuole buddiste (fondamentale è la critica di K. a Dignāga, ➔ Pramāṇavāda) e, in misura minore, contro la scuola Nyāya. Sul piano epistemologi- co, K. riconosce sei mezzi di valida conoscenza (pramāṇa), ossia percezione sensibile (pratyakṣa), inferenza (anumāna), comunicazione linguistica (śabda), analogia, cogenza (arthāpatti), assenza (abhāva). Quest’ultimo è riconosciuto solo da K. e dalla sua scuola e serve a conoscere l’assenza di qualcosa. L’esempio tipico della speculazione dei Bhāṭṭa è quello dell’‘assenza’ di un vaso, che non è conoscibile tramite percezione sensibile (tramite la quale percepiamo solo la nuda superficie del pavimento), né tramite inferenza (perché sarebbe impossibile costruire un sillogismo valido che porti dalla nuda superficie del pavimento all’assenza di un vaso). K. si concentra però soprattutto sulla difesa della comunicazione linguistica come strumento conoscitivo, sottolineando come, oltre al Veda, anche la comunicazione mondana possa essere uno strumento conoscitivo. La difesa della validità epistemologica del Veda si lega in K. alla sua teoria della validità intrinseca di ogni conoscenza (svataḥ prāmāṇya). Secondo tale teoria, le cause che determinano il sorgere di una conoscenza (jñāna) sono anche le stesse che ne determinano la validità, che non necessita quindi di ulteriori fattori. Una conoscenza deve quindi essere considerata valida fin dal momento in cui sorge, senza attendere verifiche esterne. Viceversa, le scuole Nyāya e Pramāṇavāda sostengono che una conoscenza non possa essere considerata valida finché non se ne abbia una riprova esterna, per es. tramite una prova della sua efficacia. Si potrà così dire che si ha davanti a sé dell’acqua solo dopo aver provato a dissetarvisi. Tuttavia, sostiene K., tale teoria è contraddittoria. Chi ci assicura infatti della validità della seconda cognizione (la percezione dell’estinzione della sete nell’esempio citato), che dovrebbe garantire la validità della prima? Se nessuna cognizione è intrinsecamente valida, allora anche la seconda cognizione dovrà essere verificata da una terza e così via all’infinito. Se invece si sostiene che sia lecito fermarsi a un certo numero di verifiche, perché non fermarsi subito e considerare ogni cognizione valida fino a prova contraria? Nel caso di una comunicazione linguistica, la sua intrinseca validità può venir inficiata se si venga a sapere di un difetto nella sua fonte (ossia nel parlante o nel testo da cui proviene) o qualora il suo contenuto venga contraddetto da un altro strumento conoscitivo. Entrambe le possibilità sono però escluse a priori nel caso del Veda. Questo è infatti senza autore (e quindi non è possibile immaginare un difetto nella sua fonte) e tratta argomenti che trascendono la dimensione ordinaria (loka ➔) e che non sono quindi conoscibili tramite altri strumenti conoscitivi. Infatti, secondo l’intera Mīmāṃsā, a parte il Veda gli altri strumenti conoscitivi condividono lo stesso ambito di applicazione della percezione, ossia il sensibile.