Vedi Kuwait dell'anno: 2012 - 2013 - 2014 - 2015 - 2016
Il Kuwait è una monarchia costituzionale dell’area del Golfo Persico divenuta indipendente nel 1961, anno in cui il Regno Unito rinunciò a esercitare la propria sovranità sul territorio. La rilevanza regionale e internazionale del Kuwait deriva dalla posizione geografica del paese – collocato alla sommità del Golfo – e dalle sue ingenti risorse petrolifere, che lo rendono il sesto paese al mondo per risorse provate.
Anche in ragione della sua rilevanza geo-strategica, nel 1990 il Kuwait fu vittima dell’invasione da parte dell’Iraq, guidato dall’allora presidente Saddam Hussein, che rivendicava la sovranità irachena sull’intero territorio del Kuwait. Tale atto, condannato dalla maggior parte dei paesi arabi, fu all’origine della Guerra del Golfo del 1990-91. Scaduto invano il termine stabilito da una risoluzione delle Nazioni Unite che invocava il ritiro delle truppe, una coalizione internazionale guidata dagli Stati Uniti intervenne a difesa della sovranità kuwaitiana. Il ritiro delle forze irachene dal Kuwait avvenne il 27 febbraio 1991, dopo che la coalizione era penetrata anche in territorio iracheno senza arrivare tuttavia a rovesciare il regime di Saddam Hussein.
Le relazioni con l’Iraq sono migliorate soltanto negli ultimi anni, dopo la caduta del rais iracheno nel 2003, anche se esistono ancora questioni irrisolte che potrebbero ripristinare un clima di tensione. A oggi, il Kuwait ha ricevuto dall’Iraq quasi 30 dei 41 miliardi di dollari dovutigli per i danni causati dalla guerra e nel 2015 la quota per il risarcimento sarà devoluta totalmente.
I rapporti con l’Iran, sull’altra sponda del Golfo, sono invece più problematici, influenzati dall’andamento delle relazioni tra Teheran con gli Stati Uniti da un lato e con i paesi del Golfo dall’altro, entrambi peggiorati in seguito allo scoppio della guerra siriana e al sostegno iraniano al governo di Bashar al-Assad. Il Kuwait, al contrario, ha sostenuto una risoluzione approvata dalla Lega Araba il 1° settembre 2013 per sollecitare un intervento internazionale contro il potere in carica in Siria. I rapporti con gli altri attori regionali sono generalmente buoni, mediati dall’appartenenza all’Organizzazione dei paesi esportatori di petrolio (Opec) e al Consiglio per la cooperazione del Golfo (Gcc). In particolare, la linea politica del Kuwait si allinea a quella degli Emirati Arabi Uniti e dell’Arabia Saudita, come dimostra la comune ostilità alle forze di partito islamiche che si stanno affermando in Medio Oriente. All’indomani della cacciata del leader della Fratellanza musulmana Mohammed Mursi dalla presidenza in Egitto, il Kuwait si è, infatti, prodigato a versare ingenti somme di denaro nelle casse della Banca centrale e ha inviato un miliardo di dollari in prodotti petroliferi per il paese.
Sebbene, dal punto di vista istituzionale, la famiglia reale degli al-Sabah eserciti un potere indiscusso sull’emirato mantenendo saldamente nelle proprie mani tutti i posti chiave dell’esecutivo, i partiti siano proibiti e il Kuwait sia pertanto classificato dall’Economist tra i regimi autoritari, il paese è oggi uno dei meno illiberali di tutta l’area del Golfo sotto il profilo delle libertà civili.
Il Kuwait ha stabilito fin dalla sua indipendenza un’Assemblea nazionale unicamerale, composta da 50 membri e rinnovata ogni quattro anni, che lo rende il sistema parlamentare più antico del Golfo. Questo parlamento, i cui membri sono eletti direttamente dal popolo, ha intrattenuto spesso rapporti altalenanti, finanche di scontro, con la famiglia regnante. Per tale motivo l’emiro, che è anche il capo dello stato, ha più volte sciolto il parlamento prima del suo termine: dal 2006 vi sono state ben sei elezioni diverse per il rinnovo dell’Assemblea nazionale. Dopo l’esperienza negativa delle due tornate elettorali tenutesi nel 2012 – di cui una boicottata dall’opposizione –, le ultime elezioni del 27 luglio 2013 hanno restituito un parlamento inclusivo ed eterogeneo. I rappresentanti tribali si sono assicurati quasi la metà dei seggi e altri tre sono andati ai candidati liberali dell’Alleanza democratica nazionale che in precedenza aveva fatto parte della coalizione di boicottaggio. A perdere è stata invece la minoranza sciita (pari a circa un terzo della popolazione kuwaitiana) che stavolta ha ottenuto solo otto seggi, mentre nel dicembre 2012 si era aggiudicata un numero record di 17 seggi.
Come per tutti i paesi desertici del Golfo, ad eccezione dello Yemen, il Kuwait presenta una forte urbanizzazione, con un tasso pari a più del 98%. Un secondo dato rilevante nell’analisi della composizione demografica del paese riguarda la percentuale di cittadini non kuwaitiani sul totale della popolazione. Si stima infatti che, su circa tre milioni di abitanti, circa il 70% sia costituito da espatriati (provenienti prevalentemente dal Sud-Est asiatico e dagli altri paesi arabi) e persino da residenti senza cittadinanza. Tale tendenza, che rende il Kuwait uno dei paesi con il più alto tasso di immigrazione netta al mondo, è dovuta alle grandi dimensioni del mercato del lavoro interno, generato dall’industria petrolifera e dal suo indotto, a fronte di una popolazione autoctona di circa un milione di abitanti. Ne consegue che il livello delle rimesse in uscita, diretto principalmente verso l’Asia sud orientale, è decisamente elevato.
La popolazione kuwaitiana è per lo più araba e, sul piano religioso, si divide tra una maggioranza musulmana sunnita e una cospicua minoranza di sciiti, pari al 30%.
Nell’area del Golfo Persico il Kuwait si contraddistingue per dei livelli di libertà politiche e civili più elevati rispetto agli altri attori regionali. Nel 2005 il Kuwait ha concesso il diritto di voto alle donne, permettendo loro anche di partecipare attivamente alla vita politica: le elezioni del 2009 hanno così visto per la prima volta l’entrata in parlamento di quattro donne.
Nel biennio 2011-12 il paese è stato attraversato da una costante ondata di manifestazioni e proteste di piazza. Originatesi sulla scia delle ‘Primavere arabe’, le rivendicazioni dei manifestanti hanno puntato il dito tanto contro la corruzione della classe politica, quanto contro la deriva autoritaria dimostrata in alcune occasioni dalla famiglia reale e dal governo: su tutte, l’annullamento delle elezioni del febbraio 2012 e il tentativo, andato comunque invano, di riformare in senso restrittivo la legge elettorale che riduceva il numero di voti a disposizione di ogni elettore da 4 a 1.
L’economia del Kuwait è sostenuta quasi completamente dalle risorse petrolifere: con più di 100 miliardi di barili di riserve, il Kuwait è il sesto paese al mondo per riserve di petrolio. Le esportazioni di petrolio, dirette soprattutto verso i mercati asiatici (come Corea del Sud, India, Giappone e Cina) rappresentano la quasi totalità del valore delle esportazioni nazionali e contribuiscono al 90% circa delle entrate statali. Il paese ha in atto una riforma economica strutturale di stampo liberista, che mira ad aumentare il ruolo del settore privato e a diversificare l’economia; tale passaggio procede comunque molto lentamente a causa dei disordini interni e dell’intensa burocrazia kuwaitiana.
Il Kuwait soffre di una carenza strutturale di risorse idriche, che lo rende dipendente dall’acqua desalinizzata; nel gennaio 2013, però, si è assegnato l’appalto per la costruzione ad al Zour della prima centrale idrica indipendente.
Essendo desertica la gran parte del suo territorio, il settore primario è sostanzialmente inesistente e il paese dipende per il proprio sostentamento anche dalle importazioni agricole. Per quanto riguarda il settore dei servizi, grande importanza è rivestita da quelli finanziari.
L’esercito del Kuwait non è particolarmente sviluppato, sia dal punto di vista quantitativo che da quello tecnologico. Anche la spesa militare sul pil, sebbene non modesta in assoluto, risulta essere più bassa rispetto a quella di quasi tutti gli altri paesi del Golfo.
Fin dal 1991, la difesa del Kuwait è legata a doppio filo agli Stati Uniti, i quali si sono proposti di mantenere a tempo indeterminato i 13.500 soldati stanziati nel paese. Nel 2004, inoltre, Washington ha conferito al paese lo status di ‘Major non Nato Ally’.
Ad un ventennio dalla Guerra del Golfo permangono ancora alcune controversie con l’Iraq, ma, attualmente, esso non sembra rappresentare una fonte di preoccupazione per la sicurezza del paese, che in questi ultimi anni ha guardato piuttosto all’Iran come possibile minaccia. I nuovi dialoghi tra Obama e Rouhani fanno sperare però in un calo delle tensioni tra Stati Uniti e Iran, tranquillizzando il Kuwait circa il timore di divenire bersaglio di eventuali ritorsioni iraniane.
Una spinosa questione di politica interna riguarda diversi paesi del Golfo Persico e solleva controversie che intaccano l’identità nazionale, la demografia e la sicurezza. Alle periferie delle grandi città di Kuwait City, Riyadh e Doha, si sviluppano delle baraccopoli abitate da famiglie a cui non è mai stata riconosciuta una cittadinanza, bidun jinsiiya appunto. In Kuwait si stima che bidun siano circa un terzo della popolazione, per una cifra compresa tra le 80.000 e le 120.000 persone. La maggioranza degli apolidi risiede nel paese sin dall’anno dell’indipendenza ma, vivendo lontano dalla capitale, è rimasta all’oscuro della necessità di registrarsi con i governi di nuova formazione per ottenere la cittadinanza. In altri casi, invece, si tratta di migranti arrivati nel corso di questi decenni per cercare rifugio. Negli ultimi anni, i paesi del Golfo hanno adottato vari approcci per individuare lo status da assegnare ai bidun: il Bahrain li ha nazionalizzati quasi tutti, l’Arabia Saudita ha offerto un soggiorno permanente. Molti, tuttavia, temono che i bidun siano solo interessati ad usufruire dei servizi di welfare offerti dai ricchi stati petroliferi ai loro cittadini e che, attribuendo la cittadinanza a decine di migliaia di persone anche di origine diversa, si sposti il delicato equilibrio etnico, religioso ed economico delle popolazioni locali. Nel 2013, il Parlamento kuwaitiano ha approvato una legge che prevede di estendere la cittadinanza ad un massimo di 4000 persone, prospettando che il beneficio possa essere allargato fino 34.000 bidun. Sull’effettiva applicazione del provvedimento aleggiano, però, diversi dubbi e, nel frattempo, i bidun jinsiiya continuano a non godere dei diritti più elementari (accesso alle strutture sanitarie e scolastiche, un impiego regolare) e a subire molteplici violazioni e discriminazioni.