L’abuso del diritto nella disciplina dei contratti
La stagione presente del diritto dei contratti, inserita appieno nella dinamica della complessità propria della società contemporanea, sollecita sempre più spesso argomentazioni svolte attraverso la tecnica dell’abuso del diritto, che ha ricevuto, di recente, riconoscimento normativo attraverso la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea; si tratta di una tecnica che interpella in modo particolarmente significativo la sensibilità del giurista, chiamato a governare uno strumento prezioso ed al tempo stesso insidioso per l’inevitabile carica di indeterminatezza che lo stesso trae con sé.
Il tema dell’abuso del diritto ha conosciuto, nell’ultimo periodo, nell’area del diritto civile, una ripresa di interesse, dal punto di vista dell’elaborazione dottrinale, che risente ancora del dibattito assai vivace suscitato dalla sentenza Cass., 18.9.2009, n. 201061: ed è anche questa ripresa di interesse a giustificare qualche notazione al riguardo, nella prospettiva, un po’ insolita, della tecnica dell’abuso del diritto dall’angolo visuale dei rimedi contrattuali. La scelta non è casuale, poiché riguardare il diritto privato nella sua dimensione rimediale costituisce un progresso conoscitivo che dobbiamo, in larga misura alla dottrina più recente2.
In particolare, i contributi dottrinali più significativi che si registrano sul tema, nel periodo più recente, si muovono, il primo3, nella prospettiva di un’articolata difesa degli svolgimenti argomentativi della sentenza, il secondo, al contrario, nel solco di una rinnovata critica della stessa; e proprio dall’illustrazione delle posizioni assunte nei due scritti appare opportuno muovere in questa sede di ricognizione degli snodi fondamentali della materia, così come delineatisi nel periodo che delimita, per le ragioni poc’anzi accennate, l’orizzonte temporale della nostra riflessione.
Nel saggio che condivide le argomentazioni della decisione, si sottolinea, innanzi tutto, che, ad onta delle numerose critiche suscitate dalla sentenza, la categoria dell’abuso del diritto costituisce in realtà, e da tempo, uno strumento del quale si è avvalsa l’elaborazione giurisprudenziale della Suprema Corte, sia all’interno del tema classico dell’abuso del diritto di proprietà, sia nell’area del diritto delle obbligazioni e dei contratti. In quest’ultimo, infatti, si rammenta, in termini di abuso del diritto sono state da tempo impostate e risolte questioni come quella del recesso ad nutum dall’apertura di credito a tempo indeterminato o dal contratto di fornitura, quella dell’abuso del diritto di voto del socio di società di capitali, il problema dell’abuso della pretesa esecutiva del creditore consistente nel frazionamento del credito ovvero l’abuso del diritto di chiedere il fallimento del proprio debitore4. Pertanto, l’estensione della categoria dell’abuso del diritto alla materia contrattuale sarebbe il frutto di un’operazione ermeneutica già più volte, anche nel recente passato, posta in essere dalla giurisprudenza: ed in questa prospettiva verrebbe in considerazione soprattutto l’elaborazione giurisprudenziale che ha utilizzato il concetto di abuso del diritto nella materia del recesso dal contratto di apertura di credito5.
D’altra parte, osserva ancora l’Autore al pensiero del quale stiamo facendo riferimento in questa sede, proprio lo specifico problema che la sent. n. 20106/2009 ha risolto (e cioè la verifica della modalità, in ipotesi abusiva, dell’esercizio del diritto di recesso dal contratto) sarebbe tale da rendere evidente l’assenza di un pericolo del depotenziamento del vincolo contrattuale. In questa prospettiva, anzi, verrebbe in considerazione il rilievo che l’essenza del vincolo contrattuale sta nell’esigenza di rispettarlo, e non già nell’attribuzione, eventuale, alle parti contraenti del potere di recedere: cosicché il conferimento al giudice del potere di scrutinare le modalità di un esercizio corretto del diritto di recesso sarebbe funzionale ad una più efficace tutela del vincolo contrattuale e non certo ad un indebolimento del medesimo. Si tratterebbe, in altre parole, di una tecnica di «governo giudiziario della discrezionalità contrattuale», praticata dalla giurisprudenza della Corte di cassazione fin dagli anni novanta, secondo una linea di tendenza che, anche con riferimento ai contratti le cui parti hanno pari forza contrattuale, si orienta verso la verifica dell’equilibrio contrattuale e della sua permanenza nel tempo e si manifesta attraverso l’uso sempre più pervasivo delle clausole generali. In questa prospettiva, verrebbero in considerazione, appunto quali strumenti tecnici di esercizio del potere giudiziario di governo della discrezionalità contrattuale, il parametro della meritevolezza di tutela dell’interesse perseguito (cui ha riguardo, com’è noto, l’art. 1322, co. 2), a sua volta bisognoso di valutazione pure con riferimento a singole clausole contrattuali, l’equità contrattuale (così come disciplinata dall’art. 1374), che potrebbe rilevare anche come equità correttiva, la buona fede nell’interpretazione del contratto (art. 1366), destinata a configurarsi ora, ed anche nella giurisprudenza della Suprema Corte, quale criterio principale e non più come criterio sussidiario, di interpretazione, restando così superato senz’altro il discusso canone ermeneutico secondo il quale in claris non fit interpretatio6. Quella della quale costituisce espressione Cass. n. 20106/2009 sarebbe, dunque, una giurisprudenza suscettibile di essere valutata con favore anche in termini di analisi economica del diritto: infatti, ed a tale stregua, si passerebbe da una visione puramente quantitativa ad una visione altresì qualitativa della circolazione della ricchezza, procedendosi altresì ad una valutazione sempre più sensibile della congruità causale del contratto, così come articolato nelle sue singole clausole, nella prospettiva di un’indagine penetrante circa l’effettiva giustificazione dell’atto di scambio. In altre parole, si tratterebbe di una prospettiva, nuova ed inedita, attraverso la quale riguardare il problema della giustizia del contratto: e letto in questi termini l’esigenza della giustizia contrattuale potrebbe senz’altro venire in considerazione come un potente fattore di sviluppo economico, essendo in grado di dispiegare su questo piano effetti favorevoli, quali lo sviluppo della propensione a contrattare e l’incremento della fiducia del mercato7.
Naturalmente, e poiché ormai ogni teoria del contratto, o dei singoli aspetti del problema dell’autonomia privata, si specifica in relazione alla prospettiva dei rimedi, anche la tecnica dell’abuso del diritto deve essere esaminata pure da questo profilo; e, secondo l’impostazione dottrinale della quale stiamo qui rendendo conto, al punto di vista dei rimedi, l’atto abusivo, in materia contrattuale, non sarebbe un atto illecito e, come tale, produttivo dell’insorgere dell’obbligazione risarcitoria a carico di chi l’abbia posto in essere, bensì un atto invalido e, come tale, destinato ad essere privato di effetti, con il corollario che, come affermato dalla giurisprudenza della Suprema Corte con riferimento al tema del recesso abusivo dal contratto di apertura di credito, quest’ultimo dovrebbe considerarsi ancora in corso nonostante il recesso abusivo.
La ricostruzione sul piano rimediale della teorica dell’abuso del diritto si articola, tuttavia, dal punto di vista funzionale, nel momento in cui il rimedio invalidatorio non appaia idoneo alla reintegrazione dell’interesse leso; in questo caso, potrà essere dato ingresso all’azione di danni, pur venendo in considerazione non un’ipotesi di responsabilità aquiliana, ma un’ipotesi di responsabilità contrattuale e, in particolare, di inadempimento dell’obbligazione di eseguire il contratto secondo buona fede, sancita, com’è noto, dall’art. 1375 c.c.8.
Dovrebbe, poi, essere respinta, secondo questo Autore, la tesi9 che aveva messo in discussione il nesso fra canone di buona fede ed abuso del diritto, sulla base dell’assunto che la buona fede dovrebbe essere riferita alle modalità di esercizio del diritto e l’abuso del diritto allo scopo per il quale il diritto è esercitato; ed infatti non sarebbe sostenibile che sia censurabile, in termini di contrarietà a buona fede, l’anomala modalità di esercizio del diritto, ed invece immune da censura, ove non repressa «una ben più grave ipotesi, qual è l’esercizio del diritto che risulti preordinato ad uno scopo anomalo».
Infine, e quanto al fondamento dell’abuso del diritto, lo stesso non dovrebbe essere più ravvisato nella clausola generale di buona fede, ma – più specificamente – nella previsione dell’art. 54 della Carta di Nizza, secondo la quale «nessuna disposizione della presente Carta deve essere interpretata nel senso di comportare il diritto di esercitare un’attività o compiere un atto che miri alla distruzione dei diritti o delle libertà riconosciute nella presente Carta o di imporre a tali diritti e libertà limitazioni più ampie di quelle previste dalla presente Carta»10.
È proprio sui rapporti tra abuso del diritto e buona fede, e sulla possibilità di individuare, o meno, un distinto ambito di operatività tra i due che si innesta la replica11 nell’altro scritto che ha scandito il dibattito dottrinale in materia nel corso del 2011. Infatti, nel solco di un’obiezione da tempo12 mossa alla categoria dell’abuso del diritto, secondo la quale la stessa integrerebbe un doppione concettuale della buona fede (ed allora, osservava quella critica, essendo entrata la buona fede per prima nel linguaggio del giurista, ed avendo la stessa un solido fondamento normativo, sarebbe inutile giustapporle la categoria dell’abuso del diritto), si rileva che, a voler mantenere nello strumentario del giurista entrambi i concetti, sarebbe necessario fare uno sforzo per differenziare le due nozioni: non certamente al fine di elidere l’una o l’altra di esse, bensì per individuare, dell’una e dell’altra, le condizioni di uso, evitando, così, il rischio di genericità ed indeterminatezza dell’una e dell’altra categoria. Questo corrisponderebbe anche all’esigenza, al tempo stesso sistematica e pratica, di disporre di strumenti argomentativi sufficientemente precisi e puntuali, come tali idonei a fondare decisioni ragionevolmente prevedibili ad opera delle parti dell’atto di autonomia privata13.
D’altra parte, prosegue la riflessione della dottrina le cui linee si stanno ripercorrendo in questa sede (proprio per la particolare rilevanza che essa assume all’interno del dibattito, così come svoltosi nell’arco di tempo che costituisce l’orizzonte della nostra indagine), sarebbe fondato il rilievo – che invece la dottrina in precedenza menzionata aveva giudicato non pertinente – secondo il quale un uso inappropriato della categoria dell’abuso del diritto sarebbe fonte di un indebolimento ulteriore della forza del vincolo contrattuale: ed infatti il principio pacta sunt servanda sarebbe tale da rilevare per il complesso delle clausole del contratto, comprese quelle attraverso le quali le parti disciplinano, qualora ritengano di prevederle, le modalità di scioglimento unilaterale del vincolo contrattuale. Inoltre, sarebbe in linea di principio estranea alla tecnica di controllo attraverso la tecnica dell’abuso del diritto il mettere in discussione il contenuto della singola pattuizione (a meno che la stessa non palesi profili di illiceità e/o di immeritevolezza), potendo quella tecnica essere utilizzata per sottoporre a verifica le modalità di esercizio di un diritto, in ipotesi esistente (in quanto validamente sorto) sulla base del contratto14.
Non potrebbe, d’altra parte, essere sostenuto che, riconosciuta alla tecnica dell’abuso del diritto l’idoneità a porre in essere un tipo di controllo di tipo causale, la causa cui si debba fare riferimento sia quella del singolo contratto dal quale si recede e non invece la causa del recesso presa in sé: ed infatti l’esercizio del diritto di recesso non può essere valutato in termini di coerenza o meno con la causa del contratto. Qui verrebbe in considerazione l’essenza stessa, dal punto di vista funzionale, del recesso (che produce, com’è ovvio, lo scioglimento unilaterale del rapporto contrattuale), posto che il recesso è, ontologicamente, un atto che contraddice il programma negoziale (o, comunque, la determinazione delle parti di portarne innanzi la realizzazione) e, al tempo stesso, in un certo senso, la causa del contratto. Pertanto, il tipo di controllo che dovrebbe essere svolto sul recesso non sarebbe da impostare nei termini di una (impossibile) coerenza causale con l’originario programma contrattuale, bensì sul piano di una verifica dei presupposti per l’esercizio del diritto di recesso stesso.
Infine, ed anche nella prospettiva dell’applicazione della disciplina di derivazione comunitaria, al rilievo dell’introduzione di uno specifico riferimento all’abuso del diritto come limite generale all’esercizio del diritto, all’interno della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, si dovrebbe accompagnare la constatazione che il problema oggetto della sent. n. 20106/2009 è disciplinato e risolto, a livello di regolamentazione comunitaria, secondo modalità tali da fondare la conclusione di una corrispondenza dell’esercizio del diritto di recesso da parte dell’impresa concedente alla disciplina normativa della materia15. Cosicché vi sarebbe il rischio che un’utilizzazione non appropriata del concetto di abuso del diritto finisca per configurare il sistema giuridico italiano «come una provincia (anche sul piano giuridico), riottosa al rispetto di regole che tutti gli altri condividono»16.
Le posizioni contrapposte appena illustrate rendono evidente che – sullo sfondo del problema, pure, già di per sé, di particolare complessità e di assai ampio respiro – della configurabilità, ed utilizzabilità, come autonoma categoria (più correttamente, come autonoma tecnica di controllo dell’autonomia privata e dei suoi atti di esercizio, strutturata secondo la modalità della clausola generale17) dell’abuso del diritto si staglia un quesito di fondo, che è quello del ruolo che la modalità argomentativa, e decisoria, per clausole generali è destinata a giocare nell’assetto attuale del nostro sistema giuridico; e per rendersi conto di ciò è necessario un, sia pure assai rapido, cenno ad un dibattito che, ovviamente, come del resto quello sull’abuso del diritto, risale ad una prospettiva temporale assai più ampia di quella oggetto del presente scritto.
In particolare, l’immagine che restituisce il dibattito più recente sulle clausole generali18 di un mutamento radicale del senso e della portata, che si intende attribuire in materia privatistica, alla legislazione per principi e per clausole generali e, dunque, alla concreta applicazione di queste ultime da parte del giudice: così da determinare un arricchimento, se non addirittura un superamento, dei termini della riflessione su principi e clausole generali, così come la stessa era stata impostata ormai quasi mezzo secolo fa, attraverso la contrapposizione tra formalismo ed antiformalismo, tra valore della certezza del diritto ed esigenza della costruzione di un sistema normativo dotato di meccanismi di adeguamento del medesimo alle modificazioni della realtà economico-sociale19.
Infatti, nel contributo di uno degli autori ai quali, nella civilistica italiana, è più legato il fenomeno della riscoperta, fin dagli anni ’60 del secolo scorso, delle clausole generali, si è attribuita ad esse, da ultimo, una funzione ulteriore e più ricca rispetto a quella che lo stesso Autore aveva assegnato loro nei suoi primi scritti sul tema. Non sarebbe, infatti, più sufficiente a rendere conto della portata operativa assunta dalle clausole generali, e della loro importanza, la giustificazione classica, imperniata sulla «dimensione diacronica, che le vedeva come strumenti che permettevano al diritto di vincere la sua difficile guerra con il tempo ed il suo fluire, dunque con il mutamento che qui si incarna». Le clausole generali, pertanto, non vedrebbero limitata la loro funzione a quella «omeostatica, al mantenimento della sintonia del diritto con il mutamento temporale, incorporando il futuro» configurandosi invece come «strumento per mantenere la coerenza del diritto in una società multietnica, multiculturale, multireligiosa, incorporando questa volta non il futuro, ma la diversità»; e di qui anche la loro collocazione «in un orizzonte che non è più quello tradizionale», caratterizzato non dall’invecchiamento «che investe alla radice una norma o un principio di riferimento», ma da un «mutamento di un sistema di valori, meglio (dal)l’emergere di sistemi di valori compresenti che impone di ‘riempire’, di concretizzare la clausola generale attraverso una pluralità di criteri di riferimento, ovviamente dopo avere accertato la loro coerenza con il sistema costituzionale nel suo complesso»20. Le clausole generali, dunque, verrebbero in considerazione, in questa prospettiva, come tecnica di adattamento della regolamentazione di diritto privato nel tempo della flessibilità e come tecnica di governo della complessità 21 che l’attuale assetto del sistema del diritto privato, ed in particolare della disciplina dell’autonomia privata, esibisce.
In questo stesso ordine di idee, può essere richiamato anche il pensiero di chi, ancora di recente, ha inserito il discorso sulle clausole generali all’interno della individuazione delle strategie cognitive proprie del sistema moderno, la caratteristica delle quali risiederebbe «nel congiungere deliberatamente la capacità di apprendere i mutamenti sociali con quella di adeguare ad essi la risposta normativa»; si tratterebbe, in particolare, di «strategie cognitive di tipo adattivo … perseguite dal sistema giuridico attraverso tecniche che operano non sul piano della struttura delle proposizioni giuridiche ma su quello del contenuto delle disposizioni normative», tendendo il diritto «con tali controlli cognitivi … ad assicurarsi dispositivi di monitoraggio dei fatti concreti e di automatico adeguamento dei propri effetti, in guisa da essere all’altezza della complessità sociale che intende regolare, anche quando questa complessità si presenti indefinibile ex ante e/o in rapida crescita»22.
Si delinea, qui, a ben vedere, un’ulteriore linea di sviluppo del discorso, attinente agli aspetti che assume, nella dimensione della contemporaneità, il rapporto tra il contratto e la realtà economico sociale, i conflitti esibiti dalla quale esso aspira a governare e che, dunque, può consentire, o addirittura sollecitare, uno scrutinio dell’atto di autonomia privata attraverso lo strumento di una, sia pure controversa, come abbiamo avuto modo di vedere, clausola generale, qual è l’abuso del diritto. Ed in quest’ordine di idee può assumere un particolare rilievo la considerazione della dimensione globale che hanno assunto, con intensità crescente proprio nell’ultimo decennio, i fenomeni dell’economia e delle ricadute che ne sono derivate; ricadute apprezzabili, almeno allo stato, non tanto su aspetti di disciplina del contratto quanto sul modo stesso di porsi del medesimo, all’interno di un diritto che appare sempre più liquido e fluido, come tale incapace di assolvere ormai alla «funzione di rafforzamento delle aspettative degli attori giuridici», operando piuttosto «come uno strumento composito e pragmatico di gestione dei rischi connessi a interazioni dominate dall’incertezza»23: un’incertezza, per così dire, strutturale, che non sarebbe, a questo punto, incompatibile con uno strumento fluido, se non, a sua volta, dai contorni (pericolosamente, secondo l’opinione di coloro che criticano la categoria) indeterminati qual è l’abuso del diritto. D’altra parte, e pure in presenza di un fondamento normativo sufficientemente preciso, ormai, per il riconoscimento della categoria dell’abuso del diritto, nei termini in precedenza segnalati, non v’è dubbio che questo strumento, il quale potenzialmente devolve al giudice, come ha ritenuto l’indirizzo dottrinale poc’anzi rammentato, senz’altro il potere di svolgere un controllo di tipo qualitativo della circolazione della ricchezza, rafforza la considerazione del ruolo, orgogliosamente rivendicato dalla giurisprudenza italiana, soprattutto di legittimità, nella prospettiva della costruzione di un assetto «in cui il primato della legge passa necessariamente attraverso l’attività ermeneutica del giudice»24.
Si esaminano di seguito alcuni aspetti salienti della tecnica dell’abuso del diritto.
2.1 Abuso del diritto, ragionevolezza del rimedio e giudizio di gravità dell’inadempimento
Una rassegna della giurisprudenza, che, nel periodo più recente, ha fatto uso della clausola generale dell’abuso del diritto, consente di mettere a fuoco le questioni più importanti emerse in materia anche in una prospettiva cd. rimediale.
Si può prendere le mosse da una sentenza che merita di essere qui menzionata per la peculiarità dell’ipotesi di fatto dalla stessa decisa25.
La decisione26 ha risolto un caso nel quale, all’interno di un contratto di locazione, la parte locatrice, a sua volta debitrice nei confronti di quella conduttrice in relazione ad un distinto contratto (avente ad oggetto l’esecuzione di lavori di ristrutturazione dell’immobile oggetto del rapporto di locazione), aveva omesso di detrarre dai canoni di locazione, pure da essa reclamati e dovuti in effetti dalla parte conduttrice, le somme a quest’ultima dovute: condotta che aveva, poi, costituito «il passaggio obbligato per la successiva intimazione di sfratto per morosità, intervenuta con assai peculiare tempismo, e ciò tanto più che l’omessa compensazione, peraltro specificamente opposta dalla controparte, costrinse l’Ente (n.d.r.: il locatore) a esborsi che ben avrebbe potuto evitare, se non avesse avuto il trasparente intento – di cui andrà scrutinata la corrispondenza ad un interesse meritevole di tutela secondo l’ordinamento giuridico – di cristallizzare e rendere irreversibile l’inadempimento del conduttore».
Nella motivazione della sentenza, il problema del fondamento normativo della regola di divieto dell’abuso del diritto è risolto, secondo una modalità argomentativa che abbiamo già visto essere largamente accredita, attraverso il richiamo alla regola di buona fede oggettiva27, osservandosi che quest’ultima comporta «quale ineludibile corollario, il divieto per ciascun contraente, di esercitare verso l’altro i diritti che gli derivano dalla legge o dal contratto per realizzare uno scopo diverso da quello cui questi diritti sono preordinati». Su tale premessa, la sentenza rileva che «l’assenza nel nostro codice di una norma che sanzioni, in via generale, l’abuso del diritto – che costituisce il vero punto critico delle risposte giudiziarie di volta in volta sollecitate sul punto – non ha impedito, a una giurisprudenza attenta alle posizioni soggettive in sofferenza, di sanzionare con l’illegittimità la cosiddetta interruzione brutale del credito, e cioè il recesso di una banca da un rapporto di apertura di credito tutte le volte in cui, benché pattiziamente consentito, esso assuma connotati di arbitrarietà (cfr. Cass., 21.2.2003, n. 2642; Cass., 16.10.2003, n. 15482); ovvero di colpire con l’invalidità la delibera assembleare affetta da eccesso di potere della maggioranza, in quanto adottata ad esclusivo beneficio della stesa ed in danno dei soci di minoranza (cfr. Cass. 11.6.2003, n. 27387), spingendosi al punto da prefigurare, in ambito contrattuale, in nome del dovere inderogabile di solidarietà di cui all’art. 2 Cost., un sindacato – anche in senso modificativo o integrativo – dello statuto negoziale (cfr. Cass., S.U., 15.11.2007 n. 23726; Cass., 20.4.1994, n. 3775; Cass., 24.9.1999, n. 10511; Cass., S.U., 13.9.2005, n. 18128) nonché un controllo di ragionevolezza di singole clausole, in funzione di contemperamento degli opposti interessi dei paciscenti (cfr. Cass. civ., 18.9.2009 n. 20106)». Nella prospettiva fin qui esposta, e con riferimento alla vicenda oggetto del giudizio, la Corte di cassazione ha ritenuto che «l’apprezzamento della slealtà del comportamento della parte che invochi la risoluzione del contratto per inadempimento pur avendo altre vie per tutelare i propri interessi, non possa non ripercuotersi sulla valutazione della gravità dell’inadempimento stesso, che dell’abuso della prestazione del creditore costituisce l’interfaccia. Non par dubbio infatti che il giudizio di pretestuosità della condotta dell’attore in risoluzione si risolve nel riconoscimento della scarsa importanza dell’inadempimento, avuto riguardo all’interesse dell’altra, a un interesse, cioè, che poteva essere preservato senza ricorrere al mezzo estremo dell’ablazione del vincolo».
Si tratta di argomentazioni di particolare interesse, perché sembrano in effetti prefigurare condizioni d’uso della clausola generale dell’abuso del diritto imperniate su una valutazione di congruità allo scopo, ed in sostanza di ragionevolezza, della condotta del contraente, riguardata anche nel momento in cui questi si avvale del rimedio della risoluzione del contratto, in grado di scansare il rischio che la stessa rappresenti il veicolo per l’inserimento nel singolo rapporto contrattuale di valutazioni del tutto divaricate dall’economia del contratto, così come modellata dagli stessi contraenti nell’esercizio della loro autonomia. Infatti, costituisce all’evidenza un comportamento irragionevole, salva la prova dell’esistenza di un interesse apprezzabile a base dello stesso28, quello del contraente che, pur disponendo di un mezzo per soddisfare il proprio interesse, senza aggravare al tempo stesso la posizione dell’altro contraente (nel caso di specie, portare in detrazione dal proprio credito, il controcredito del partner contrattuale), scelga invece di dare ingresso, in termini verosimilmente strumentali al raggiungimento di altri obiettivi, al rimedio dello sfratto per morosità.
Ne discende, e si tratta di un corollario che – come si è visto – la Suprema Corte ha cura di formulare esplicitamente, che anche il giudizio di gravità dell’inadempimento deve essere svolto nella prospettiva di una valutazione della condotta complessiva del contraente e di un controllo che, utilizzando termini dei quali non si legge, invero, nella sentenza (ma che trovano punti di emersione, come diremo, in altre aree dell’ordinamento nelle quali viene utilizzata la tecnica dell’abuso del diritto), potrebbe essere definito un controllo di ragionevolezza o razionalità del modo di esercizio del potere contrattuale.
2.2 Abuso del diritto e requisiti di forma del contratto
Una sentenza di merito ancora recente fornisce lo spunto per mettere a fuoco una questione di notevole importanza pratica e che, soprattutto, assume un rilievo sistematico davvero significativo.
Infatti, posto di fronte ad un caso nel quale un investitore aveva eccepito la nullità del contratto quadro da lui sottoscritto con l’intermediario finanziario, ma che, nell’originale prodotto in giudizio, non recava invece la sottoscrizione di quest’ultimo, il Tribunale di Torino29, pur rilevando che veniva in considerazione un’ipotesi di nullità relativa ai sensi dell’art. 23 t.u.f., suscettibile, come tale, di essere fatta valere dal solo investitore, ha osservato che «questi però non può farla valere in forma distorta per trarne conseguenze ‘selettive’ (cioè per chiedere le restituzione dei soli investimenti risultati svantaggiosi mantenendo i restanti investimenti che pure costituiscono attuazione del medesimo contratto quadro)», poiché tale comportamento costituisce «un abuso del diritto alla domanda, che urta contro i principi del giusto processo e della correttezza e rende inammissibile tanto la domanda di nullità quanto la consequenziale domanda restitutoria diretta a selezionare solo alcuni degli effetti suoi propri».
Si delinea, in questa prospettiva, il problema se, ed in quale misura, la valutazione della condotta della parte di un contratto, operata alla stregua della clausola generale dell’abuso del diritto, possa rendere senz’altro inammissibile una domanda che, pure, sotto il profilo dell’applicazione delle regole in materia di requisiti di validità del contratto, dovrebbe essere ritenuta fondata.
Il problema era stato da tempo affrontato e risolto dall’angolo visuale dell’operare della clausola generale di buona fede, attraverso l’osservazione che quest’ultima «non può mai essere un criterio che decide dell’esistenza di un rapporto obbligatorio: nell’ambito del principio di forma è rigorosamente esclusa dalla legge l’operatività del divieto di venire contra factum proprium e tale esclusione non può essere neutralizzata ricorrendo tautologicamente alla clausola di buona fede»30.
Una posizione così rigorosa era tuttavia coerente nell’ambito di un sistema che non conosceva ancora la figura della nullità di protezione; ed invero è solo sulla premessa di una nullità funzionale esclusivamente alla tutela di interessi di rilevanza sovraindividuale che si può escludere il significato delle condotte di chi, pur essendo beneficiario della protezione somministrata dalla norma che sancisca la nullità, tenta di profittarne per appropriarsi di utilità che, al contrario, quella norma non intendeva garantirgli.
Il discorso è invece destinato a mutare all’interno di un sistema normativo che conosce, ormai da tempo, ed anche a livello di esplicita menzione e disciplina normativa, la nullità di protezione (art. 36 c. cons.)31: nel caso in cui il rimedio della nullità sia specificamente destinato a proteggere una parte del contratto, non v’è in effetti ragione di consentire a quella parte di porre in essere condotte che si risolvano in un abuso della protezione che le appresta la norma.
Ciò è appunto quanto accade nel caso della nullità per difetto di forma, a sua volta derivante dalla semplice mancanza della sottoscrizione della controparte, del contratto quadro di prestazione di servizi di investimento, laddove l’investitore profitti del vizio di forma per procacciarsi l’utilità derivante da una selezione, condivisibilmente ritenuta inammissibile dalla sentenza di merito richiamata, tra operazioni di investimento favorevoli, e che si vogliono, dunque, consolidare ed operazioni di investimento svantaggiose, che invece si intendono rimuovere.
Come vedremo infra, § 3, tra le questioni ancora aperte in materia di abuso di diritto, vi è, in effetti, quella che attiene alla verifica dell’ammissibilità di un sindacato attraverso questa clausola generale anche di situazioni giuridiche soggettive pure predisposte a tutela di una parte del contratto, qual è tipicamente il consumatore, ritenuta bisognosa di una protezione accentuata, proprio per la posizione asimmetrica nella quale si trova collocata rispetto alla propria controparte.
2.3 Abuso del diritto ed abuso di dipendenza economica
L’abuso di dipendenza economica sembra anch’esso poter aspirare ormai allo statuto di una clausola generale, non soltanto nel senso che la regola racchiusa nell’art. 9 l.18.6.1998, n.192 sia in effetti strutturata come tale, ma anche dal punto di vista della portata espansiva della norma, sulla quale, proprio nell’anno all’interno del quale è in particolare circoscritta la nostra prospettiva di osservazione, è tornata a soffermarsi la dottrina.
In particolare, è stato osservato32 che «vi sono dati letterali che si oppongono all’idea di confinare il divieto al rapporto di subfornitura: l’art. 9 si riferisce anche alla dipendenza da assortimento (e quindi dal fornitore), e non solo a quella in danno del subfornitore; fa riferimento alla vendita e non solo a rapporti riconducibili alla subfornitura; non impiega mai il termine subfornitore o subfornitura». Nello stesso senso deporrebbe, del resto, l’esperienza straniera, dato che «in Francia ed in Germania sono le leggi antitrust a vietare, oltre all’intese ed all’abuso di posizione dominante, l’abuso di dipendenza economica. Così esse colpiscono in generale anche le condotte dell’impresa che si trova non in una situazione di dominanza sull’intero mercato, ma in una più ristretta posizione di potere nei rapporti con una controparte contrattuale (cd. dominanza relativa) la quale è considerata impedimento significativo allo sviluppo di un mercato concorrenziale», concludendosi nel senso che il dato testuale, il dato di comparazione e la valutazione in termini di efficienza pratica del sistema depongono «contro la restrizione del divieto di abuso di dipendenza economica al solo settore della subfornitura industriale»33.
La conclusione appena richiamata, senz’altro condivisibile, rende tuttavia opportuna, se non altro al fine di assicurare al ragionamento giuridico ed alla prassi applicativa il maggior tasso di chiarezza argomentativa possibile, una distinzione operativa tra clausola generale di abuso del diritto (fondata normativamente sull’art. 54 della Carta dei diritti dell’Unione Europea34) e clausola generale di divieto di abuso di dipendenza economica, desumibile in via di applicazione estensiva dell’art. 9 l. n. 192/1998: ed infatti, come è stato rilevato da ultimo in dottrina, «la dipendenza economica non è la dipendenza contrattuale (da potere contrattuale). La dipendenza è connotato di un rapporto economico (di integrazione verticale tra imprese, e che la legge qualifica genericamente come ‘commerciale’, il quale acquista senso e determinazione soltanto se calato in uno specifico contesto (mercato rilevante); dove potrebbero esservi o mancare alternative concretamente praticabili»35. Da questa premessa ricostruttiva si sono tratti altresì corollari di rilievo per quel che concerne la fisionomia del vizio della nullità nel nuovo diritto dei contratti, sottolineandosi – per quel che può rilevare ai fini della nostra ricognizione – che «anche nei contratti asimmetrici d’impresa resta determinante il contesto abusivo in cui avviene la contrattazione e, al suo interno, il fatto storico dell’abuso della libertà contrattuale con lesione della libertà contrattuale della parte debole e, dunque, con violazione dell’ordine pubblico del mercato»36.
2.4 Abuso del diritto, razionalità dell’agire sul mercato e rimedi
La giurisprudenza della Sezione Tributaria della Suprema Corte, accreditatasi nel corso dell’ultimo biennio, consente di cogliere un aspetto del tema dell’abuso del diritto che può essere fonte di spunti preziosi anche per l’area del diritto civile. Infatti, sempre più di frequente è stato chiarito, nel corso dell’anno oggetto della nostra riflessione, che l’abuso del diritto in materia tributaria non sussiste quando l’operazione, pur tale da far conseguire al contribuente che la pone in essere un vantaggio d’imposta si presenti anche sorretta da «ragioni economicamente apprezzabili che giustifichino l’operazione, diverse dalla mera aspettativa di quei benefici»37, ovvero si palesi coerente ad una normale logica di mercato38. Tali indicazioni si prestano ad essere trasposte anche nell’ambito civilistico, operando anche qui come guida al fine di una corretta amministrazione della clausola generale dell’abuso del diritto. In altre parole, così come l’abuso del diritto in materia tributaria non può venire in considerazione in presenza di un’operazione comunque sorretta da una razionalità di mercato, allo stesso modo non potrò dirsi abusiva, sul versante dei rapporti contrattuali, la condotta conforme al canone della ragionevolezza; ed in questo senso, come si è già accennato, può essere apprezzata anche la motivazione di Cass. n. 13208/2010, poc’anzi esaminata.
D’altra parte, un’accezione “laica” della buona fede non può andare disgiunta da una considerazione della medesima nella prospettiva della ragionevolezza dei comportamenti delle parti del contratto, proprio perché, in tal modo, l’opera di concretizzazione della clausola generale si può innestare all’interno della singola dimensione relazionale e contrattuale in cui essa è chiamata ad operare.
Un’altra prospettiva di rilievo che si apre, all’interno del discorso sull’abuso del diritto, attiene alla possibilità di utilizzare questa clausola generale anche al fine di scrutinare comportamenti, in ipotesi abusivi, di soggetti pure destinatari di un grado di protezione normativa particolarmente rilevante, quali i consumatori ovvero i lavoratori subordinati, secondo una prospettiva rimediale che potrebbe apparire, a prima vista, rovesciata.
La risposta, al problema, con il quale ci si è confrontati anche supra sub § 2.2, deve essere di segno affermativo, come è stato riconosciuto dalla dottrina, formatasi anche nel corso dell’anno oggetto di esame o in quello immediatamente precedente.
Possono essere richiamati, in questa prospettiva, i casi di abuso del diritto del consumatore, in particolare, l’abuso del diritto di recesso da parte del consumatore39, non potendosi ritenere che ad una valutazione secondo ragionevolezza debba sfuggire l’esercizio di una situazione giuridica soggettiva pure posta a protezione di colui in favore del quale la stessa è riconosciuta. E nello stesso ordine di idee, può essere rammentato che anche in altro settore normativo tipicamente caratterizzato dalla tutela della parte collocata in una posizione debole, o asimmetrica, nel rapporto, e cioè il lavoro subordinato, è da tempo ammessa la possibilità di sindacare l’abusività, o meno, dell’esercizio del diritto da parte del medesimo40.
L’esposizione dello stato della elaborazione giurisprudenziale e dottrinale sul tema dell’abuso del diritto, che si è inteso mantenere su un registro volutamente ricognitivo, consente comunque di formulare qualche breve notazione conclusiva, che è di metodo, in effetti, più che di merito.
Le ragioni, sopra illustrate sub § 1, infine, che rendono sempre più frequente, soprattutto in materia di diritto dei contratti, la tecnica argomentativa e decisoria per clausole generali, unitamente alla circostanza che il divieto di abuso del diritto abbia in effetti da ultimo trovato un riconoscimento all’art. 54 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, permettono di formulare il pronostico nel senso di un uso anche nel prossimo futuro via via più incidente pure della tecnica di decisione che si affida al principio dell’abuso del diritto: il quale, nella utilizzazione concreta che ne è stata anche da ultimo fatta, e che si è cercato di documentare, appare sempre più strutturato come una clausola generale.
Questa linea di tendenza rende tuttavia necessario, come è stato rilevato da una dottrina poc’anzi diffusamente richiamata41, individuare il tratto specifico del principio (o della clausola generale) dell’abuso del diritto, se non altro al fine di evitarne una pericolosa in distinzione dalla clausola generale della buona fede; e le concretizzazioni giurisprudenziali, che si sono illustrate, senza alcuna pretesa di completezza (già per il circoscritto arco temporale assunto come termine di riferimento) suggeriscono la possibilità di tradurre il divieto di abuso del diritto sul piano del controllo di ragionevolezza dell’esercizio delle situazioni giuridiche soggettive, restando invece affidata alla clausola di buona fede la verifica dei comportamenti delle parti del contratto o del rapporto nella prospettiva della lealtà e della solidarietà.
1 Si tratta di una sentenza che ha dato luogo a numerosi commenti, collocati temporalmente soprattutto nel 2010.
2 Le citazioni sono addirittura superflue: basti pensare, in luogo di molti altri, a di Majo, A., La tutela civile dei diritti, 3 ed., Milano, 2003;di Majo, A., Le tutele contrattuali, Torino, 2009.
3 Il riferimento è a Galgano, F., Qui suo iure abutitur neminem laedit?, in Contr. e impr., 2011, 311 ss.
4 Cfr., per questo elenco di questioni – sul quale non ci si sofferma in dettaglio, perché oggetto di interventi giurisprudenziali ben più risalenti rispetto a quelli dell’anno oggetto del nostro scritto – Galgano, F., Qui suo iure abutitur neminem laedit?, cit., 312.
5 Gli svolgimenti contenuti nel testo si riferiscono alla posizione di Galgano, F., , op. cit., 314.
6 Sono ancora, e nella loro sostanza, gli svolgimenti della tesi di Galgano, F., op. cit., 314.
7 Così, di nuovo, Galgano, F., op. cit., 314 s.
8 Sul punto, Galgano, F., op. cit., 318, nota 18.
9 Si tratta della posizione di D’Amico, G., Recesso ad nutum, buona fede e abuso del diritto, cit.
10 Così conclude Galgano, F., op. cit., 319.
11 Di D’Amico G., Ancora su buona fede e abuso del diritto. Una replica a Galgano, in Contratti, 2011, 653 ss.
12 Il riferimento è a Sacco, R., in Diritto privato 1997, III, L’abuso del diritto, Padova, 1998, 217 ss., 234; Sacco, R., Il diritto soggettivo. L’esercizio e l’abuso del diritto, in Tratt. dir. civ. Sacco, Torino, 2001, 373.
13 Così D’Amico, G., Ancora su buona fede e abuso del diritto, cit., 654.
14 Così ancora D’Amico, G., op. cit., 655.
15 In particolare, rammenta D’Amico, G., op. ult. cit., 655, ed avendosi riguardo all’epoca dei fatti, oggetto della decisione della più volte menzionata sentenza, dal Reg. 1475/95/Ue, in vigore sino al 30.9.2002.
16 Questa è la conclusione di D’Amico, G., op. loc. cit..
17 Una recentissima definizione del controverso concetto di clausola generale è quella che si legge in Velluzzi, V., Le clausole generali. Semantica e politica del diritto, Milano, 2010, il quale afferma che «la clausola generale è un termine o sintagma di natura valutativa caratterizzato da indeterminatezza, per cui il significato di tali termini o sintagmi non è determinabile … se non facendo ricorso a criteri, parametri di giudizio, interni e/o esterni al diritti tra loro potenzialmente concorrenti»; il libro di Velluzzi ha suscitato un ampio dibattito nella dottrina civilistica più sensibile al problema delle clausole generali, che come si osserva più ampiamente nel testo, costituisce, a ben vedere, il quadro generale di riferimento all’interno del quale si inserisce il dibattito sull’abuso del diritto (cfr., in particolare, sull’opera sulle clausole generali di Velluzzi, Mazzamuto, S., Il rapporto tra clausole generali e valori, in Giur. It., 2011, 7, nonché Cuffaro, V., Giudizio di buona fede e ruolo del precedente, ibidem).
18 Ci si permetta il rinvio, per svolgimenti più ampi, a Scognamiglio, C., Principi generali, clausole generali e nuove tecniche di controllo dell’autonomia privata, in Annuario del contratto 2010, Torino, 2011, 17 ss.
19 I termini del dibattito sono espressi, in maniera particolarmente chiara, nelle due posizioni di Ferri, G.B., Antiformalismo, democrazia e codice civile, in Riv dir. comm., 1968, I, e, successivamente, in Persona e formalismo giuridico. Saggi di diritto civile, Rimini, 1985, 11 ss., e di Rodotà, S., Ideologie tecniche della riforma del diritto civile, in Riv. dir. comm., 1967, I, 83 ss. La struttura delle disposizioni normative modulate secondo la tecnica delle clausole generali era stata indagata, ormai venticinque anni fa, in termini ancora pienamente attuali, da Mengoni, L., Spunti per una teoria delle clausole generali, in Riv. crit. dir priv., 1986, 5 ss. (del cui pensiero sul punto ha offerto un’intelligente lettura, in anni ancora recenti, Nivarra, L., Clausole generali e principi del diritto nel pensiero di L. Mengoni, in Europa dir. priv., 2007, 411 ss.); inserito nello stesso contesto temporale, si veda anche lo scritto di Castronovo, C., L’avventura delle clausole generali, in Riv. crit. dir. priv., 1986, 21 ss.
20 Cfr. Rodotà, S., op. cit., 107 e, ivi, l’esemplificazione, secondo la quale «è legittimo valutare il grave pregiudizio all’educazione della prole e l’indirizzo della vita familiare ricorrendo a criteri diversi a seconda che si tratti di matrimonio civile, religioso o di un’unione di fatto».
21 È ormai ricorrente l’affermazione secondo la quale il diritto privato, nel tempo presente, evoca questioni, e sollecita dinamiche di regolamentazione, suscettibili di essere descritte attraverso la cifra della complessità: cfr., ad esempio, la rassegna di opinioni raccolta Macario, F. - Lobuono, M., Il diritto civile nel pensiero dei giuristi. Un itinerario storico e metodologico per l’insegnamento, Padova, 2010, 378 ss. ed ivi, in particolare, la notazione secondo la quale «l’osservazione odierna della nostra società pone in chiara evidenza la crescente complessità dell’esperienza umana, che finisce per sollecitare l’intervento del diritto, nelle sue multiformi manifestazioni, in territori fino a qualche tempo fa addirittura impensabili»; mentre «nell’ambito specifico del diritto privato il processo di ‘complessificazione’ implica, tra l’altro, la necessità di coniugare i concetti tradizionali con gli interessi derivanti dalla profonde trasformazioni in atto nella realtà contemporanea».
22 Si tratta dell’impostazione di Barcellona, M., Clausole generali e giustizia contrattuale. Equità e buona fede tra codice civile e diritto europeo, Torino, 2006, 15 ss.
23 Il punto è colto da Bauman, Z., La solitudine del cittadino globale, 8 ed., Milano, 2006.
24 Cfr., in questi termini, Vettori, G., Dialogo fra le corti e tecnica rimediale, in Persona e Mercato-Saggi, 2010, 281, che pone giustamente l’accento sul valore di manifesto sull’apporto della giurisprudenza di legittimità nella fase attuale del nostro ordinamento assunto dalla sent. Cass. 21.5.2009, n. 10741, la quale, sia pure con riferimento ad un’area di problemi affatto diversa da quella oggetto della nostra riflessione in questa sede – si trattava, in quel caso, della risarcibilità del danno subito dal nascituro per la negligenza del medico curante la madre – ha rivendicato senz’altro alla giurisprudenza di legittimità il ruolo di fonte del diritto; e può essere interessante rammentare, come indice della sempre maggiore consapevolezza avvertita dalla giurisprudenza in ordine alle operazioni valutative cui il giudice è chiamato attraverso l’utilizzazione della regola di buona fede nel governo del contratto, anche il fatto che una recentissima Relazione tematica dell’Ufficio del Massimario e del Ruolo della Corte di Cassazione (la n. 116 del 10.10.2010), è appunto dedicata alla Buona fede come fonte di integrazione dello statuto negoziale: il ruolo del giudice nel governo del contratto.
25 Cfr., sulla sentenza di cui si dirà infra, nella nota successiva, Riccio, A., Abuso del diritto di sfratto del locatore inadempiente, in Contr. e impr., 2011, 297 ss.
26 Si tratta di Cass., 31.5.2010, n. 13208, inedita per quel che consta.
27 Non si fa menzione, invece, della disposizione dell’art. 54 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, che pure, come si è osservato supra, pare costituire ormai un riconoscimento normativo sufficientemente chiaro del divieto dell’abuso del diritto nel nostro ordinamento.
28 Nel caso che si è appena menzionato, lo scrutinio sul punto è stato affidato, ovviamente, dalla Corte di Cassazione al giudice di rinvio, all’esito dell’accoglimento del corrispondente motivo di ricorso per cassazione
29 Cfr. Trib. Torino, sez. I civ., sent. 7.3.2011, in www.ilcaso.it.
30 Così Mengoni, L., Spunti per una teoria delle clausole generali, cit., 9; si tratta, del resto, di una posizione che fa pendant con l’affermazione, dello stesso Autore, secondo la quale la violazione della regola di buona fede non può mai costituire un criterio per decidere della validità di un atto, potendo fondare soltanto una pretesa risarcitoria: così Mengoni, L., Autonomia privata e Costituzione, in Banca borsa. 1997, 9.
31 Sul tema della nullità di protezione si veda, da ultimo, il recentissimo contributo di Di Marzio, F., Contratto illecito e disciplina del mercato, Napoli, 2011, in particolare 215 ss.
32 Da Villa, G., Abuso, buona fede ed asimmetria nei contratti tra imprese, in Annuario del contratto, cit., 55 ss.
33 Per tale conclusione, Villa G., Abuso, buona fede ed asimmetria nei contratti tra imprese, cit., 57.
34 Riconduce espressamente all’art. 54 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea il divieto di abuso del diritto, nella produzione giurisprudenziale dell’anno oggetto della nostra trattazione, l’interessante sentenza del Tribunale di Torino, sez. lavoro, del 16.7/14.9.2011, in un’ipotesi di fatto – estranea all’area tematica del diritto civile , rientrando piuttosto in quella del diritto del lavoro – di un abuso di diritto di negoziazione del datore di lavoro
35 Cfr. Di Marzio, F., Contratto illecito e disciplina del mercato, cit., 206.
36 Così Di Marzio, F., Contratto illecito e disciplina del mercato, cit., 215.
37 Così (si tratta in tutti i casi di decisioni emesse dalla Sezione Tributaria della Suprema Corte), Cass., 27.7.2011, n. 16431; nello stesso senso, Cass., 20.5.2011, n. 11236 e, sostanzialmente, anche Cass., 12.5. 2011, n. 10383 nonché Cass., 18.2.2011, n. 3947. Precisa che l’ipotesi di abuso del diritto può ritenersi verificata quando «l’unico motivo dell’aggiramento della norma tributaria sia il conseguimento di un vantaggio fiscale» e che «una volta che si sia in presenza di un atto che appaia di abuso del diritto l’onere di provare la sussistenza di valide ragioni economiche per compierlo ricade sul contribuente» la sentenza, ancora più recente, di Cass. 30.11.2011, n. 25537. Il particolare interesse che presenta, per il civilista, l’elaborazione della giurisprudenza tributaria è confermato dal recentissimo volume di Perlingieri, G., Profili civilistici dell’abuso tributario. L’inopponibilità delle condotte elusive, Napoli, 2012, in particolare, 38 ss.
38 Così, di nuovo nell’ambito della giurisprudenza della Sezione Tributaria, Cass. 21.1.2011, n. 1372.
39 Cfr., sul punto, i contributi di Pagliantini, S., La forma informativa degli scambi senza accordo: l’indennità di uso del bene tra recesso ed abuso del consumatore (a proposito di C. Giust. CEE 3 settembre 2009, C – 489/07); Pagliantini, S., Spigolature sulla c.d. svolta personalista della sentenza Messner ed il canone di ragionevolezza della tutela consumerista, entrambi in Pagliantini, S., a cura di, Abuso del diritto e buona fede nei contratti, cit., rispettivamente 165 ss. e 193 ss.
40 Cfr., sul punto, nell’ambito della giurisprudenza della Sezione Lavoro della Suprema Corte, Cass., 25.1.2011, n. 1699 e, in nota, Tatarelli, M., Guida al diritto, n. 9/2011, 24 ss.
41 Il riferimento è, ovviamente, a D’Amico, G., Ancora su buona fede e abuso del diritto, cit., 654.