L’abuso di processo
Nei primi mesi del 2012, la giurisprudenza amministrativa, riallacciandosi al canone costituzionale di solidarietà ed invocando le regole del nuovo codice (in primis il dovere di buona fede e correttezza tra le parti e il principio del giusto processo), ha rinvenuto l’applicabilità anche nel processo amministrativo del principio generale che vieta ogni condotta integrante abuso del diritto, paradigmaticamente identificabile nel venire contra factum proprium per ragioni meramente opportunistiche.
Nei primi mesi del 2012 i giudici amministrativi hanno fatto applicazione, anche nel processo amministrativo, del principio generale del divieto di abuso di ogni posizione soggettiva, che, come già affermato dalla Corte di cassazione1, in ossequio alla regola della correttezza e della buona fede nello svolgimento della vicenda negoziale sancita dall’art. 1175 c.c. e al dovere di solidarietà sociale garantito dall’art. 2 Cost.2, permea le condotte sostanziali, al pari dei comportamenti processuali.
1.1 L’abuso del diritto
La dottrina e la giurisprudenza hanno individuato come elementi costitutivi della figura – classica – dell’abuso del diritto3, sanzionato con il diniego di tutela: a) la titolarità di una posizione giuridica soggettiva; b) la possibilità che il concreto esercizio di tale posizione possa essere effettuato secondo una pluralità di modalità non rigidamente predeterminate; c) la circostanza che tale esercizio concreto, anche se formalmente rispettoso della cornice attributiva di quella posizione, sia svolto secondo modalità censurabili rispetto ad un criterio di valutazione, giuridico od extragiuridico; d) la circostanza che, a causa di una tale modalità di esercizio, si verifichi una sproporzione ingiustificata tra il beneficio del titolare della posizione e il sacrifico arrecato alla controparte.
La Cassazione ha in particolare efficacemente affermato, nella sentenza sez. III, 18.9.2009, n. 201064 (in materia di esercizio abusivo del diritto di recesso ad nutum), che «l’abuso del diritto, lungi dall’integrare una violazione in senso formale, delinea l’utilizzazione alterata dello schema formale del diritto, finalizzata al conseguimento di obiettivi ulteriori e diversi rispetto a quelli indicati dal Legislatore. È ravvisabile, in sostanza, quando, nel collegamento tra il potere conferito al soggetto ed il suo atto di esercizio, risulti alterata la funzione obiettiva dell’atto rispetto al potere che lo prevede. Come conseguenza di tale eventuale abuso, l’ordinamento pone una regola generale, nel senso di rifiutare la tutela ai poteri, diritti e interessi, esercitati in violazione delle corrette regole di esercizio, posti in essere con comportamenti contrari alla buona fede oggettiva. E nella formula della mancanza di tutela, sta la finalità di impedire che possano essere conseguiti o conservati i vantaggi ottenuti – ed i diritti connessi – attraverso atti di per sé strutturalmente idonei, ma esercitati in modo da alterarne la funzione, violando la normativa di correttezza, che è regola cui l’ordinamento fa espresso richiamo nella disciplina dei rapporti di autonomia privata».
Il principio ha trovato conferma anche nell’ordinamento dell’Unione Europea. La Corte di Giustizia, nella sentenza 5.7.2007, in C-321/05, Kofoed, ha invero espressamente consacrato il divieto d’abuso del diritto nell’ambito dei principi generali dell’ordinamento comunitario ponendolo, ai sensi dell’art. 6 TUE, al vertice delle fonti del diritto dell’Unione. L’art. 54 della Carta di Nizza è poi specificamente dedicato al «divieto dell’abuso del diritto», stabilendo, come norma di chiusura, che: «Nessuna disposizione della presente Carta deve essere interpretata nel senso di comportare il diritto di esercitare un’attività o compiere un atto che miri alla distruzione dei diritti o delle libertà riconosciuti nella presente Carta o di imporre a tali diritti e libertà limitazioni più ampie di quelle previste dalla presente Carta».
1.2 L’applicazione dell’abuso del diritto al processo
Nell’ottica seguita dal riferito indirizzo interpretativo, il divieto di abuso del diritto, in quanto espressione di un principio generale ricollegabile al canone costituzionale di solidarietà, trova applicazione anche in ambito processuale, con la conseguenza che il titolare di poteri, diritti o interessi non può esercitare un’azione giurisdizionale con modalità tali da implicare un aggravio della sfera della controparte.
Il divieto di abuso del diritto si esprime quindi anche come divieto di abuso del processo5, per il quale trova un fondamento normativo, in correlazione agli artt. 24, 111 e 113 Cost. nonché ai principi del diritto europeo, negli articoli 88, 91, 94 e 96 del codice di rito civile e negli artt. 1, 2 e 26 del codice del processo amministrativo.
Affatto significativa per la comprensione della logica che ha ispirato l’estensione dell’istituto all’ambito processuale è peraltro la sentenza delle Sezioni Unite 15.11.2007, n. 23726, con cui la Corte di cassazione, riprendendo e sviluppando un principio affermato dalla I sezione nelle sentenze 14.11.1997, n. 11271 e 23.07.1997, n. 6900, ne ha, a sua volta, riconosciuto l’esistenza nel frazionamento giudiziale (contestuale o sequenziale) di un credito unitario6. Secondo la Corte, in particolare, la disarticolazione, da parte del creditore, dell’unità sostanziale del rapporto (sia pure nella fase patologica della coazione all’adempimento), oltre a violare il generale dovere di correttezza e buona fede, in relazione al dovere inderogabile di solidarietà di cui all’art. 2 della Costituzione, trovando attuazione nel processo e attraverso il processo, si risolve anche in abuso dello stesso e in una violazione del canone del giusto processo sancito dall’art. 111 Cost. Attraverso la parcellizzazione giudiziale del credito, si pone invero in essere una condotta che, pur formalmente conforme al paradigma normativo, viola il limite che impone al titolare di ogni situazione soggettiva di non azionarla con strumenti processuali che infliggano all’interlocutore un sacrificio non comparativamente giustificato dal perseguimento di un lecito e ragionevole interesse. Tale comportamento, implicando un’ingiustificata moltiplicazione di giudizi, contrasta anche con il precetto inderogabile del giusto processo sancito dall’art. 111 Cost., rischiando di determinare la formazione di giudicati contraddittori e delineando in ogni caso la frustrazione dell’obiettivo della “ragionevole durata del processo”.
Il divieto di abuso del processo quale esercizio improprio, sul piano funzionale e modale, del potere discrezionale della parte di scegliere le più convenienti strategie di difesa7 è richiamato anche dalla notissima sentenza dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato 23.3.2011, n. 3, a sostegno dell’assunto che l’obbligo di cooperazione di cui all’art. 1227, co. 2, c.c. (invocato a giustificare i limiti alla risarcibilità degli interessi legittimi in caso di omessa contestazione nei termini del provvedimento – o del comportamento – lesivo8) ha, analogamente, «fondamento proprio nel canone di buona fede ex art. 1175 c.c. e, quindi, nel principio costituzionale di solidarietà».
Nei primi mesi del 2012, il principio ha fatto esplicitamente – e pesantemente – il suo ingresso9 anche nel processo amministrativo.
2.1 L’applicazione del principio al processo amministrativo
Con la sentenza 7.2.2012, n. 656, la V sezione del Consiglio di Stato, invocando le regole del nuovo codice (in primis, evidentemente il dovere di buona fede e correttezza tra le parti e il principio del giusto processo) e il surrichiamato divieto di abuso degli strumenti processuali, ha ritenuto l’inammissibilità della contestazione in appello del difetto di giurisdizione da parte dello stesso ricorrente in primo grado, che, avendo optato per quella giurisdizione, pur se soccombente nel merito, era risultato vittorioso, in forza di una pronuncia esplicita o di una statuizione implicita, proprio sulla questione della giurisdizione. Rileva in proposito il Collegio che la sollevazione della auto-eccezione di giurisdizione in sede di appello, per un verso, integra trasgressione del surrichiamato divieto di venire contra factum proprium – paralizzabile con l’exceptio doli generalis seu presentis10 – e, per altro verso, arreca un irragionevole sacrificio alla controparte, costretta a difendersi nell’ambito del giudizio da incardinare innanzi al nuovo giudice in ipotesi provvisto di giurisdizione, adito secondo le regole in tema di translatio iudicii dettate dall’art. 11 c.p.a. Detto sacrificio, prosegue la sentenza, nell’ottica comparativa che informa il giudizio sull’esistenza e sulla consistenza dell’abuso, non trova adeguata giustificazione nell’interesse della parte che disconosce la giurisdizione del giudice in origine evocato, in quanto essa, pur potendo contestare nel merito la sentenza in sede di appello, ha scelto di ripudiare detto giudice in funzione di un giudizio opportunistico circa le maggiori o minori probabilità di esito favorevole a seconda del giudice chiamato a definire la controversia. Il Consiglio di Stato ha invocato inoltre a suo sostegno l’incidenza dell’eccezione sui tempi della definizione del giudizio, con conseguente attentato, per ragioni puramente utilitaristiche, al principio di ragionevole durata del processo, già chiamato in causa dalle Sezioni Unite nella pronuncia n. 23726/2007.
Nello stesso periodo la IV sezione, con la sentenza 23.2.2012, n. 985, nell’affermare l’ammissibilità di un ricorso avverso il silenzio inadempimento, che, pur proposto quando quest’ultimo non era ancora maturato, è arrivato alla decisione quando tale circostanza si era prodotta, ha precisato che, alla stregua delle regole generali, il ricorso avrebbe dovuto essere dichiarato inammissibile, configurando un uso abusivo degli strumenti di tutela.
Ancora, con la sentenza 12.3.2012, n. 1209, la stessa sezione, facendo leva sui richiamati principi di lealtà e correttezza tra le parti, ha rinvenuto un abuso del processo nel caso in cui la p.a., a fronte di un’ordinanza cautelare che imponeva la reiterazione dell’accertamento attitudinale svolto nei confronti del ricorrente (giudicato inidoneo alla prova psico-attitudinale di un concorso), in luogo di darvi esecuzione e di avvalersi dello strumento della rinnovazione del giudizio tecnico, aveva proposto appello contro la successiva sentenza di merito.
Lealtà e probità sono così invocati, anche nel processo amministrativo, come regola fondamentale di conduzione del processo e di esercizio dell’attività di difesa, struttura essenziale del rapporto processuale e del giusto processo, nelle diverse espressioni del rispetto del contraddittorio, della parità delle armi e della ragionevole durata: e sulla loro base è negato spazio ad ogni “strategia” processuale che appaia arrecare una sproporzione ingiustificata tra il beneficio del titolare della posizione e il sacrifico arrecato alla controparte.
Il principio dell’abuso del processo ha trovato applicazione anche nella giurisprudenza di primo grado. Con sentenza 26.6.2012, n. 3000, il TAR Campania, Napoli, sez. II, ne ha rilevato gli estremi nel caso in cui, nell’ambito di un giudizio per il risarcimento del danno derivante dal ritardato rilascio di una concessione edilizia, l’impresa ricorrente, nell’imminenza dell’udienza di discussione, aveva depositato un’istanza di rinvio, asserendo la necessità di trattare tale controversia insieme ad un’altra riferita al medesimo intervento edilizio e pendente dinnanzi allo stesso TAR, mentre la questione sottesa al secondo ricorso non aveva alcun riferimento con la prima, concernendo il mancato pagamento degli oneri di costruzione. La richiesta di rinvio, secondo la valutazione del collegio giudicante, avrebbe avuto unicamente lo scopo di differire l’udienza per tentare di sopperire al mancato assolvimento dell’onere probatorio dei requisiti prescritti dall’art. 2043 c.c. per la sussistenza di un danno ingiusto risarcibile. Come tale, integrerebbe un’ipotesi di abuso del processo, cioè un esercizio improprio, sul piano funzionale e modale, del potere discrezionale della parte di scegliere le più convenienti strategie di difesa.
I surrichiamati interventi giurisprudenziali hanno, indubitabilmente, aperto la strada all’applicazione anche nel processo amministrativo di una regola ormai acquisita nel processo civile.
C’è però da chiedersi se essa non rischi di tradursi in una riduzione del diritto di difesa, inteso necessariamente anche come diritto di scegliere le strategie processuali ritenute più opportune. Il confine tra l’esercizio di tale diritto e il suo abuso è invero troppo incerto per poter essere lasciato ad una valutazione a sua volta discrezionale, facilmente travalicabile in un diniego di giustizia (o in un eccesso di potere giurisdizionale).
Proprio l’esame delle pronunce sopra richiamate offre utili spunti di riflessione a tale riguardo.
Non sembra a mio avviso ingiusta la prima decisione, posto che il ricorrente che abbia individuato un giudice e non abbia sollevato tempestivamente alcun dubbio sulla giurisdizione non può correttamente invocarne il difetto per contestare i contenuti della pronuncia. Affinché il sistema “tenga”, ovvero affinché il limite non si traduca in una lesione del principio di effettività della tutela in un sistema in cui i criteri di riparto delle giurisdizioni non sono sempre di facile applicazione11, l’ordinamento deve però prevedere la possibilità che anche il ricorrente proponga regolamento preventivo di giurisdizione. Tale possibilità è allo stato ammessa dal c.p.a., che, all’art. 10, si limita a ribadire la proponibilità del ricorso per regolamento preventivo di giurisdizione previsto dall’art. 41 c.p.c. In seno alla Commissione preposta alla redazione del secondo correttivo era stato però avanzato qualche dubbio sull’opportunità di limitare tale proponibilità alle altre parti, che comunque (a mio avviso opportunamente) non ha avuto seguito.
Condivisibile anche la posizione del TAR Campania, che, come sopra accennato, ha qualificato come abuso di processo, la richiesta di rinvio, peraltro formalizzata pochi giorni prima dell’udienza di discussione (ed a distanza di circa undici anni dalla proposizione del gravame), a fini evidentemente strumentali, con chiara violazione del principio generale che vieta l’abuso del diritto, riallacciandosi al canone costituzionale di solidarietà, che si applica anche in ambito processuale, ostando a che il titolare di una posizione giuridica soggettiva possa esercitare un’azione con modalità tali da implicare un aggravio della sfera della controparte.
Desta invece maggiore perplessità la sentenza della IV sezione, in cui si riconduce all’abuso del processo la scelta di non ripetere il giudizio attitudinale imposto dal remand cautelare di primo grado, ammettendo il candidato con riserva, per appellare poi la sentenza di merito. A prescindere dalle particolarità di quella vicenda fattuale e processuale (e dalla correttezza della ricostruzione operatane nella decisione di appello, che omette di rappresentare che l’ammissione con riserva era stata disposta dal Consiglio di Stato in sede di appello cautelare ed è attualmente sub judice per revocazione), non sembra che la scelta di non eseguire il remand cautelare per evitare di trovarsi di fronte ad una cessazione della materia del contendere e vanificare così la fase di merito e di attendere invece l’esito di quella fase per eseguire la decisione del TAR o appellarla in Consiglio di Stato, purché il destinatario dell’ordine curi comunque di conservare la res adhuc integra, possa essere correttamente considerata come un esercizio improprio del diritto di difesa. Diversamente argomentando, si finirebbe con l’attribuire sempre all’ordinanza cautelare che impone un riesame (effetto comunque di una valutazione sommaria) un valore sostanzialmente definitivo, in contrasto proprio con la nuova logica del processo amministrativo che, pur valorizzando la fase cautelare, si preoccupa di garantire l’effettività della tutela nel merito; a fortiori quando, come nel caso di un concorso, il riesame con esito positivo (anche attraverso una nuova valutazione di merito insindacabile da parte del giudice) possa danneggiare un altro candidato12. Ovvero, qualora la rivalutazione fosse ritenuta una mera esecuzione dell’ordinanza cautelare, suscettibile di caducazione automatica nel caso in cui quest’ultima fosse smentita dalla sentenza di merito, si imporrebbe un facere (magari dispendioso) che rischierebbe di essere inutile. Con conseguente coerenza della scelta di rinviare l’adempimento alla conferma della statuizione cautelare.
Un giusto equilibrio è peraltro rinvenibile nella citata sentenza della stessa IV sezione, n. 985/2012, che, pur dando atto che, alla stregua delle regole generali, il ricorso avverso il silenzio inadempimento, proposto anteriormente alla relativa maturazione, deve essere dichiarato inammissibile, configurando un uso abusivo degli strumenti di tutela, ne ha nella specie ritenuto l’ammissibilità, in considerazione della circostanza che nelle more della camera di consiglio il termine era spirato e della difficoltà incontrata in quel caso dal ricorrente di individuare il termine entro il quale effettivamente l’amministrazione doveva provvedere.
In estrema sintesi, pur nella consapevolezza dell’opportunità di dare ingresso anche nel processo amministrativo al divieto di abuso del diritto di difesa, la delicatezza e la rilevanza degli interessi coinvolti in tale giudizio e il già difficile equilibrio tra poteri del giudice, chiamato altresì ad assicurare la «giustizia nell’amministrazione», e tutela effettiva delle diverse parti (caratterizzate da una “diversa” forza sostanziale e da una “diversa” agilità processuale) rende assolutamente necessario un uso massimamente prudente dello strumento, ad evitare il facile insorgere di ulteriori conflitti con la Corte di cassazione e con la Corte europea dei diritti dell’uomo.
1 Cass., S.U.,15.11.2007, n. 23726.
2 Gazzoni, F., Manuale di diritto privato, ed. XV, Napoli, 2011, 57.
3 Ex multis Rotondi, M., L’abuso del diritto, in Riv. dir. civ., 1923, 105 ss.; Natoli, U., Note preliminari ad una teoria dell’abuso del diritto nell’ordinamento giuridico italiano, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1958, 37 ss.; Romano, S., Abuso del diritto, in Enc. dir., I, Milano, 1958, 168 ss.; Patti, S., Abuso del diritto, in Dig. civ.,I, Torino, 1987, 2 ss.; Messinetti, D., Abuso del diritto, in Enc. dir., Aggiornamento, II, Milano, 1998, 1 ss.; Salvi, C., Abuso del diritto. I) Diritto civile in Enc. giur. Treccani, Roma, 1988, 5 ss.; Gambaro, A., Abuso del diritto. II) Diritto comparato e straniero, in Enc. giur. Treccani, Roma, 1988, 1 ss.; AA.VV., L’abuso del diritto, in Diritto privato 1997, Padova, 1998; Rescigno, P., L’abuso del diritto, Bologna, Il, 1998; e, più recentemente, Restivo, C., Contributo ad una teoria dell’abuso del diritto, Milano, 2007, 81; Bonanzinga, R.T., Abuso del diritto e rimedi esperibili, in www.comparazionedirittocivile.it.
4 Cass., 18.9.2009, n. 20106, con nota critica di Nigro, C.A., Brevi note in tema di abuso del diritto (anche per un tentativo di emancipazione dalla nozione di buona fede), in Giust. civ., 2010, 11, I, 2547.
5 Taruffo, M., Elementi per una definizione di abuso del processo, in AA.VV., L’abuso del diritto, cit., 435 ss.; Dondi, A., Abuso del processo (dir. proc. civ.), in Enc. dir., Annali, III, 2010, 1 ss., Comoglio, L.P., Abuso dei diritti di difesa e durata ragionevole del processo: un nuovo parametro per i poteri direttivi del giudice?, in Riv. dir. proc. 2009, 1686; Ghirga, M. F., Abuso del processo e sanzioni, Milano, 2012.
6 La sentenza è pubblicata e annotata su molte riviste: tra le altre, cfr. Foro it., 2008, I, 1514, con nota di A. Palmieri e Giur. it., 2008, I, 929, con nota di A. Ronco. Negli stessi sensi, tra le più recenti, Cass., sez. III, 22.12.2011, n. 28286.
7 Cfr. Cass., sez. I, 3.5.2010, n. 10634, che applica il principio del divieto di abuso del processo ai fini della liquidazione delle spese giudiziali.
8 Come sanzione delle condotte processuali opportunistiche che, in violazione del duty to mitigate che grava sul creditore, abbiano prodotto o dilatato un danno che, more probably that not, sarebbe stato evitato in caso di tempestiva impugnazione del provvedimento dannoso o di esperimento degli altri strumenti di tutela previsti.
9 Si è significativamente parlato di “irruzione”: Carbone, V., L’abuso del diritto e l’abuso del processo irrompono nella giustizia amministrativa come limiti alla proposizione in appello della questione di giurisdizione, in Nuovo dir. amm., 2012, 1, 17 ss.
10 Su cui cfr. Cass., sez. I, 7.3.2007, n. 5273.
11 La problematica è stata recentemente risollevata dal Primo Presidente della Corte di cassazione nell’Introduzione alla Tavola rotonda del convegno L’Europa del diritto: i giudici e gli ordinamenti, svoltosi a Lecce il 27 e 28 aprile 2012, i cui Atti sono in corso di pubblicazione.
12 Si ricorda in proposito che il d.l. 30.6.2005, n. 115, conv. in l. 17.8.2005, n. 168 ha specificamente disposto l’irreversibilità degli effetti del superamento delle prove (scritte e orali) degli esami di abilitazione all’esercizio della professione forense in esito a provvedimento giurisdizionale, pure cautelare, che abbia disposto l’ammissione alle medesime o la relativa ripetizione, confermando un principio già espresso in ordine agli esami di maturità e valido a maggior ragione per gli esami universitari sostenuti in seguito all’ammissione con riserva alle facoltà a numero chiuso. La riferita previsione legislativa, se da un lato può essere intesa come conferma dell’eccezionalità del principio, dall’altro ne costituisce per la prima volta chiara affermazione, dimostrandone la compatibilità col sistema. È decisivo in questo senso il giudizio di compatibilità costituzionale espresso dalla Corte costituzionale con la nota sentenza 9.4.2009, n. 108. L’argomento dirimente è stato che l’interesse pubblico all’accertamento, una volta soddisfatto, supera quello della definizione del processo. La Corte ha fatto in particolare leva sul bilanciamento dei contrapposti interessi, sull’importanza dell’affidamento di coloro che, comunque, avevano superato le prove e sulla salvaguardia, attraverso tale superamento, dell’interesse pubblico sostanziale, per affermare la possibilità di giustificare, in nome dei suddetti interessi sostanziali, una dissimmetria tra le parti del giudizio di merito. La sentenza ha avuto peraltro cura di puntualizzare (quasi a sgombrare il campo da possibili estensioni del principio) che la legge n. 115/2005 non si applica ai concorsi pubblici, anche se prima facie la prevalenza del pubblico interesse all’accertamento potrebbe forse valere anche per la fase di preselezione a questi ultimi, si pone invero per gli stessi la questione dei controinteressati, che potrebbero essere irreversibilmente pregiudicati dall’esito di un giudizio che resta, in ogni caso, meramente sommario.