di Eugenia Ferragina
In Medio Oriente le precipitazioni scarse e irregolari, la limitata portata dei corsi d’acqua, l’esigenza di soddisfare il fabbisogno idrico e alimentare di popolazioni in aumento, rendono l’acqua una risorsa strategica per il controllo dei territori e delle popolazioni. Nei tre grandi bacini idrici regionali, Giordano, Tigri ed Eufrate e Nilo, la posizione geografica e i fattori di supremazia militare o economica influenzano i rapporti di forza tra paesi, creando una serie di aree ‘idroconflittuali’ in cui l’acqua diventa uno strumento di pressione politica, un catalizzatore d’interessi e un elemento di amplificazione delle tensioni politiche regionali.
Nel caso del bacino del Giordano, la contesa tra arabi e israeliani sulle acque del Giordano e dei suoi affluenti è parte integrante del conflitto più ampio per la terra e per la sua valorizzazione a fini agricoli e insediativi. L’inaugurazione nel 1964 del National Water Carrier, l’acquedotto che porta le acque del Giordano al di fuori del bacino, verso l’arido Negev, segnò l’inizio da parte di Israele di una strategia di controllo sulle fonti idriche destinata a influenzare le fasi successive del conflitto arabo-israeliano. La Guerra dei sei giorni nel 1967 fu preceduta da una serie di bombardamenti condotti da Israele contro i progetti di sfruttamento degli affluenti del Giordano avviati dalla Siria e
dalla Giordania, considerati da Israele un attentato ai propri interessi strategici. La conquista del Golan, da cui nascono gli affluenti del corso superiore del Giordano, e della Cisgiordania, dove sono localizzate le ricche falde acquifere di montagna (Mountain Aquifer), rafforzò il ruolo egemonico di Israele all’interno del bacino. L’occupazione israeliana introduceva forti vincoli ai consumi idrici palestinesi – quali il divieto di scavo di nuovi pozzi senza una preventiva autorizzazione da parte dell’autorità militare – e si accompagnava allo sfruttamento delle risorse idriche dei Territori da parte di Israele, sia per alimentare le colonie, sia per integrare il bilancio idrico del paese. La cattiva manutenzione delle reti e la deliberata interruzione del servizio idrico come misura di ritorsione contro la resistenza palestinese contribuirono, inoltre, al deterioramento delle condizioni di vita all’interno dei Territori Occupati.
Nuove prospettive di composizione della contesa sull’acqua sembrarono aprirsi con gli Accordi di Oslo del 1993 che sancirono l’importanza di una ripartizione equa delle risorse idriche tra israeliani e palestinesi. Nel 1995, con gli Accordi di Oslo II, Israele riconobbe il diritto dei palestinesi allo sfruttamento delle falde acquifere della Cisgiordania, ma rinviò il piano di spartizione alla fase finale dei negoziati, poiché la quota di acqua da attribuire al nascente stato palestinese era legata alla fissazione dei confini e al riconoscimento del diritto al ritorno della diaspora palestinese, questioni spinose che hanno segnato il fallimento delle trattative.
L’interruzione del processo di pace e lo scoppio della seconda intifada, del 2000, hanno reso l’acqua ancora una volta uno strumento di pressione e una posta in gioco all’interno del conflitto più ampio che contrappone i due popoli. La realizzazione da parte di Israele nel 2002 della barriera di separazione, eretta dal paese per isolare i Territori Occupati e fronteggiare il terrorismo, ha avuto nello stesso tempo un obiettivo strategico di controllo sulla terra e sull’acqua. Il tracciato del muro non segue la green line – la linea di confine fissata in seguito all’armistizio del 1967 – ma si spinge all’interno della Cisgiordania, inglobando sia una quota di colonie israeliane, sia una serie di pozzi in precedenza utilizzati dalla popolazione palestinese. L’aggravarsi della penuria idrica ha indebolito l’economia palestinese, basata essenzialmente sull’agricoltura, e ha reso sempre più remota l’ipotesi della creazione di due stati indipendenti e più lontane le prospettive di pace.
Altro bacino a elevato tasso di conflittualità legato al controllo delle fonti idriche è quello del Tigri e dell’Eufrate, che coinvolge Turchia, Siria e Iraq. Il rapporto di forze tra i paesi co-rivieraschi è stato alterato dal varo nel 1977 da parte della Turchia del Progetto del Sud-Est anatolico (GAP), che prevede la costruzione di 22 dighe e 19 centrali idroelettriche sul Tigri e sull’Eufrate. Tale progetto di sviluppo integrato, che interessa la parte del paese a maggioranza curda, ha come obiettivo l’ampliamento delle aree irrigate, la creazione di zone industriali e il potenziamento delle infrastrutture in una zona tra le più arretrate e instabili del paese. Sul piano geopolitico, il GAP costituisce un forte strumento di pressione sui paesi a valle e rappresenta uno dei punti di forza della strategia egemonica turca nella regione. L’aumento delle superfici irrigue ha rafforzato il ruolo della Turchia come grande potenza agricola, aumentando il volume di esportazioni verso l’Europa e soprattutto verso le economie arabe che hanno registrato un crescente deficit agroalimentare. Il controllo sulle acque del Tigri e dell’Eufrate, grazie al sistema di dighe e di centrali idroelettriche, è destinato, inoltre, ad aumentare il potenziale idroelettrico del paese e candida la Turchia a diventare un esportatore di acqua sia verso i paesi del Medio Oriente afflitti da penuria idrica, sia verso le ricche monarchie del Golfo.
Nel bacino del Nilo le relazioni tra i paesi co-rivieraschi sembrano contraddire l’assunto che vede i paesi a monte in posizione di vantaggio su quelli a valle. Il Nilo sfocia in Egitto dopo aver attraversato altri nove paesi, cui si è aggiunto nel 2011 il Sud Sudan. Storicamente, l’Egitto ha esercitato un controllo quasi esclusivo su questo corso d’acqua, facendo leva su diritti storici considerati non negoziabili e precludendo agli altri paesi la realizzazione di progetti in grado di limitarne i prelievi. Unico accordo di ripartizione quello siglato con il Sudan all’epoca del dominio britannico, nel 1929, e rinegoziato nel 1959, che esclude tutti gli altri attori a monte del fiume. La contesa sulle acque del Nilo è rimasta per anni sopita a causa dell’arretratezza di molti paesi co-rivieraschi e della loro instabilità politica, ma negli ultimi decenni alcuni fattori hanno aumentato la pressione umana sulle fonti idriche, alterando gli equilibri all’interno del bacino. La crescita demografica che interessa l’Etiopia e il Sudan, l’esigenza di alcuni paesi della fascia equatoriale di aumentare la produzione di energia idroelettrica per migliorare le condizioni di vita delle popolazioni e avviare processi di sviluppo, il deterioramento del quadro climatico che espone l’area a sempre più frequenti periodi di siccità e aumenta l’insicurezza alimentare, sono tutti fattori che accrescono il potenziale di destabilizzazione legato al controllo delle acque del Nilo. Il progetto della Nuova Valle in Egitto e la realizzazione da parte dell’Etiopia della Millennium Dam sul Nilo Azzurro sono indicative del mancato decollo di una strategia di cooperazione all’interno del bacino. I grandi progetti idrici nazionali alimentano un gioco a somma zero, in cui tutta l’acqua prelevata da un paese viene sottratta agli altri, con il risultato di aumentare la pressione sulle risorse e la tensione tra i paesi dell’area.