L'Africa islamica: Algeria
di Federico Cresti
I limiti dell'odierna Algeria non racchiudono un territorio storicamente e geograficamente omogeneo, dal momento che furono definiti negli ultimi due secoli in funzione della conquista e degli interessi francesi. Il Paese occupa la maggior parte del territorio che nella geografia arabo-islamica era comunemente chiamato maġrib al-awsaṭ, il Maghreb medio o centrale, compreso tra le altre due regioni maghrebine dell'Ifriqiya, a est, e del Maghreb estremo (maġrib al-aqsā), a ovest, e si estende a sud occupando parte del Sahara occidentale. La linea costiera si estende per più di 1000 km dal Marocco alla Tunisia, a metà circa della quale si trova la città di Algeri, dalla quale deriva il nome dello Stato moderno che si è imposto per designare l'insieme del Paese solamente in epoca coloniale: in precedenza la Reggenza di Algeri era unicamente il territorio sottoposto all'autorità ottomana in questa regione, che prima del XVI secolo appartenne a vari regni e a diverse entità politiche.
Dal punto di vista geografico si può fare una prima distinzione tra la parte fertile del Paese, a nord, dove maggiore è stata la presenza umana, e la regione desertica a sud. All'interno del territorio fertile si distinguono poi una regione litoranea (Tell), con una profondità variabile ma in generale inferiore ai 100 km, e una regione di altipiani, che separa il Tell dai territori desertici. La regione costiera è raramente pianeggiante e vi prevalgono i rilievi. Questa struttura territoriale ha reso difficile, nel passato, l'accesso al mare delle popolazioni autoctone e dà ragione del fatto che la civiltà del Paese sia stata prevalentemente continentale, arroccata nei territori montuosi o aperta verso i grandi spazi degli altipiani e del Sahara: per quanto storicamente e culturalmente importanti, i suoi legami con il Mediterraneo ‒ che si tratti dello stabilimento degli scali punici, dello sviluppo di città portuali in età romana e bizantina per le necessità del controllo e dello sfruttamento del Paese o dell'attività corsara, soprattutto in epoca ottomana ‒ appaiono, in una visione di lungo periodo, episodici e limitati a porzioni ristrette del suo territorio.
La regione degli altipiani, di altezza variabile tra i 1400 e i 700 m, è compresa tra due catene di rilievi che corrono in senso parallelo alla costa e che convergono gradualmente, digradando, verso est: l'Atlante del Tell e l'Atlante Sahariano. Una depressione che corre lungo una linea che va da Batna e Biskra separa il massiccio orientale degli Awras (Aurès) dalle catene atlantiche: occupata dal corso del Wadi al-Qantara, essa ha costituito attraverso la storia un importante asse di comunicazione e di passaggio, a volte di invasione, tra il deserto e le regioni settentrionali. Gli altipiani hanno un aspetto predesertico alquanto marcato, a causa delle ridotte quantità di pioggia che ricevono, e sono caratterizzati da una vegetazione stepposa e dalla presenza di estesi bacini d'acqua (šaṭṭ [o shott, chott], sibḫa, kirā'a, ecc.), asciutti per la maggior parte dell'anno.
I fiumi (widyān, sing. wādī) della regione settentrionale sono raramente a corso perenne, ma hanno costituito attraverso il tempo un'attrazione per il popolamento e lo sviluppo dell'agricoltura stanziale. La popolazione si è storicamente concentrata nella parte più settentrionale, essendo qui il territorio più ricco dal punto di vista agricolo, mentre negli altipiani la popolazione è più sparsa e molto rara nel territorio desertico, dove è presente solamente in alcune concentrazioni di oasi. L'Algeria fertile comprende in sintesi due grandi regioni naturali la cui distinzione è fondamentale tanto per la geografia quanto per la storia: una regione mediterranea dove le coltivazioni dei cereali, grano e orzo, e di alberi rustici come l'ulivo, il fico, il mandorlo, sono possibili senza ricorrere all'irrigazione, e dunque dove la vita è possibile dovunque; una regione di steppe dove la coltivazione non è possibile senza irrigazione o canalizzazione delle acque alluvionali e che sembra votata all'allevamento transumante e al nomadismo.
Prima dell'epoca in cui inizia a manifestarsi la presenza araba (VII sec. d.C.) il territorio dell'Algeria aveva visto giungere dal Mediterraneo diverse civiltà politicamente ed economicamente più avanzate che si erano imposte sulle popolazioni autoctone: Fenici e Cartaginesi, Romani e Bizantini avevano lasciato la loro impronta soprattutto nel Tell. Le regioni più interne erano abitate da tribù autoctone di Berberi che verso il VII secolo erano costituite in confederazioni: queste furono investite dall'invasione araba tentando di resistere alleandosi a volte con i Bizantini.
Le prime colonne arabe provenienti dall'Egitto iniziarono ad apparire nel Maghreb nel 647, ma la conquista assunse un carattere di stabilità solamente a partire dalla fine del VII secolo. Nel 670 fu fondato un primo insediamento arabo, Kairouan (oggi in Tunisia), al centro di una vasta pianura semidesertica della Byzacena, che divenne la capitale dell'Ifriqiya araba e il caposaldo di ulteriori conquiste. Nel 698, con la caduta di Cartagine, ebbe fine la supremazia africana di Bisanzio, che negli anni immediatamente successivi perse il controllo delle piazzeforti costiere più occidentali. La resistenza alla conquista da parte delle popolazioni stanziate nel territorio dell'attuale Algeria durò a lungo e l'Islam si impose soltanto gradualmente tra le tribù berbere che sembravano estremamente restie ad accoglierlo. In un quadro storiografico in gran parte basato su informazioni spurie e leggendarie e su cronache e documenti molto più tardi degli avvenimenti che raccontano, la reticenza all'islamizzazione da parte delle tribù berbere è ricordata da Ibn Khaldun (XIV sec.), secondo il quale i Berberi abiurarono 12 volte prima di essere definitivamente convertiti.
L'islamizzazione andò tuttavia diffondendosi e con essa giunsero nel Maghreb centrale, insieme a gruppi di popolazione orientali, le dispute che avevano diviso la giovane comunità musulmana. In particolare, durante l'VIII secolo si affermò in questa regione il kharigismo, una dottrina minoritaria con connotazioni egualitaristiche, che portò alla formazione di alcune istituzioni statuali con interessanti risultati nell'ambito dello sviluppo di nuove fondazioni urbane. In effetti, in seguito alle lotte tra fazioni religiose nell'Ifriqiya, un kharigita di origine persiana, Abd ar-Rahman ibn Rustam, fuggì verso occidente con un gruppo di seguaci: probabilmente sulle rovine di un sito romano, fondò all'inizio della seconda metà dell'VIII secolo la città di Tahert (oggi Tagdemt), non lontano dal Wadi Mina e dall'odierna Tiaret, al limite tra il Tell e la regione degli altipiani. Qualche tempo dopo, tra il 776 e il 778, a Ibn Rustam fu attribuito il titolo califfale e sotto i suoi successori la città divenne uno dei più importanti centri del kharigismo nell'Occidente islamico, vivendo più di un secolo di prosperità. Circa centotrenta anni più tardi, all'inizio del X secolo, la conquista da parte dell'emiro Abu Abd Allah, che aveva predicato l'avvento del mahdī fatimide Ubaid Allah e aveva trovato l'appoggio armato delle tribù Kutama della Cabilia, costrinse la sua antica popolazione ad abbandonarla.
La storia e il sito della città sono descritti all'inizio dell'XI secolo da al-Bakri, che ne cita le porte e i mercati, soffermandosi sulla moschea congregazionale a quattro navate: G. Marçais, che per primo vi compì una prospezione archeologica nel 1941, ne ha dedotto che si trattava di una moschea a navate trasversali di tipo arcaico, secondo un modello che si incontra più tardi a Fez, mentre i risultati delle sue indagini hanno rivelato nella Tahert rustamide l'esistenza di edifici di grande semplicità e assolutamente privi di elementi decorativi. Una parte della popolazione kharigita di Tahert e del territorio investito dalla conquista fatimide si spostò verso sud-est, stabilendosi a circa 600 km dalla costa in una regione desertica non lontano dall'odierna Wargla (Ouargla). Lì fu fondata Sedrata (o Isedraten, in berbero), che prosperò per quasi due secoli e che fu abbandonata intorno al 1077 per un nuovo esodo della sua popolazione verso un'altra regione sahariana, lo Mzab. Gli scavi condotti a Sedrata dalla fine dell'Ottocento hanno messo in luce un'architettura più complessa ed evoluta di quella di Tahert, con l'uso di volte, archi e pilastri di notevole varietà e di decorazioni a stucco in cui sono stati riconosciuti influssi culturali di diversa origine, in particolare orientale.
A differenza dalle città precedenti, abbandonate e distrutte, le fondazioni kharigite sorte lungo i margini della valle del Wadi Mzab sono ancora oggi fiorenti. Si tratta di cinque nuclei urbani, Al Atteuf, Bou Noura, Beni Izguen, Malika, Ghardaia, gemmati l'uno dall'altro con date di fondazione che è difficile precisare, ma che probabilmente si situano in successione tra la prima metà dell'XI e la metà del XIV secolo: essi costituiscono quella che viene chiamata correntemente "la pentapoli dello Mzab", che oggi sta assumendo gradualmente la forma di una conurbazione continua con l'edificazione degli spazi pianeggianti che all'origine separavano i villaggi. Nel corso del X secolo i Fatimidi si impadronirono di quasi tutto il Maghreb centrale; basando la loro legittimità sull'origine alide e sull'affermazione della dottrina sciita, considerata dalla maggior parte dei musulmani eretica, si proclamarono califfi nel 910. I limiti del loro impero giunsero a ovest fino a Tahert e a Tlemcen, non lontano dai confini dell'attuale Marocco, ma le loro mire di conquista li portavano a oriente: la capitale della loro dinastia fu posta prima ad al-Mahdiyya, sulla costa orientale dell'Ifriqiya, e qualche tempo dopo, con la conquista dell'Egitto, sulle sponde del Nilo, dove fu fondata al-Qahira. Ostacolo alle loro pretese egemoniche nell'Occidente islamico era rappresentato dal califfato rivale degli Omayyadi di Spagna, che si atteggiavano a campioni dell'ortodossia. Inserendosi in un quadro di più antiche rivalità tribali, il territorio fatimide in questa regione si identificò con il territorio delle tribù berbere Sanhagia, che costituivano la milizia armata del califfato di Mahdiyya, mentre più a occidente la confederazione degli Zanata, tradizionale rivale dei Sanhagia, si oppose alla potenza fatimide ricevendo l'aiuto e l'appoggio degli Omayyadi.
Con il beneplacito del califfo fatimide, gli emiri Sanhagia della tribù dei Banu Ziri, investiti del comando nella regione, fondarono nel corso del X secolo centri amministrativi e residenziali che in alcuni casi divennero importanti città nei secoli successivi. Tuttavia la prima capitale dell'emirato ziride, Ashir, sorta come Tahert al limite tra il Tell e gli altipiani ma più a est, nella regione del Titeri, non ebbe lunga vita. Oggi vi sono solo rovine in parte indagate da prospezioni archeologiche su un'estensione di circa 35 ha: la città era circondata da una cinta di mura all'interno della quale sono stati riconosciuti una moschea con un cortile e una sala di preghiera a sette navate (secondo uno schema che si ritrova nella moschea fatimide di Mahdiyya) e un palazzo risalente al 935. Ashir fu abbandonata nel corso dell'XI secolo, quando la dinastia ziride trasferì il centro del suo potere nella regione di Kairouan, vedendosi affidato anche il governo dell'Ifriqiya dai califfi fatimidi che avevano spostato la loro capitale in Egitto. Al-Jazair (Algeri), una seconda al-Mahdiyya (Medea) e Milyana, fondate da Buluggin ibn Ziri intorno al 950, continuarono con diversa fortuna a svilupparsi attraverso il tempo e sono tra i più importanti centri urbani dell'Algeria moderna.
La Qala, un'altra capitale effimera di una dinastia Sanhagia appartenente a un ramo della famiglia ziride che per qualche tempo dominò sul Maghreb centrale, fu fondata nel 1007 dai Banu Hammad e progressivamente abbandonata circa un secolo dopo. La vicenda della Qala si situa in un momento cruciale per la storia del Maghreb: l'invasione dall'Oriente delle tribù arabe dei Banu Hilal e dei Banu Sulaym, iniziata intorno alla metà dell'XI secolo, che sconvolse i precedenti assetti sociali, stabilendo il predominio delle popolazioni nomadi su quelle sedentarie. Secondo la tradizione attestata dagli autori arabi, queste tribù agguerrite furono inviate contro il Maghreb dai Fatimidi del Cairo per punire il tradimento degli emiri berberi che, rendendosi autonomi, avevano abbandonato la loro causa.
L'equilibrio economico del territorio maghrebino subì una profonda mutazione in seguito all'arrivo delle nuove popolazioni arabe: divenute pascolo per il bestiame dei nomadi, molte zone occupate da un'agricoltura stanziale videro regredire le coltivazioni e furono gradualmente abbandonate dalle popolazioni che vi risiedevano in precedenza. Il regresso colpì anche le organizzazioni e le società urbane: le agglomerazioni dell'interno si spopolarono e i loro abitanti si spostarono in parte verso la costa. Il potere hammadita, che sotto la spinta delle tribù beduine cominciava a perdere il controllo dei suoi territori, nell'ultimo quarto del X secolo fondò una seconda capitale sul Mediterraneo a oriente di Algeri, Bigiaya (it. Bugia), dove l'emiro al-Mansur si trasferì nel 1090 e dove la dinastia continuò a regnare per qualche tempo.
La Qala fu progressivamente spogliata di tutto ciò che poteva essere trasportato nella nuova capitale: vi rimasero le strutture dei palazzi e degli edifici civili e religiosi, che ne fanno oggi uno dei più importanti siti archeologici del Maghreb medievale. Interessato da diverse campagne di scavo a partire dalla fine dell'Ottocento (P. Blanchet, L. de Beylié, G. Marçais, L. Golvin, ecc.), il sito conserva la grande struttura del minareto della Grande Moschea, che seppure in parte crollato si eleva ancora fino a un'altezza di circa 25 m. La sala di preghiera di questo edificio era di forma rettangolare (64 × 56 m) e si componeva di 13 navate perpendicolari al muro della qibla (direzione della Mecca). Le rovine della Qala hanno permesso di identificare alcuni edifici residenziali di grande importanza e ricchezza compositiva: si tratta dei palazzi di Dar al-Bahr e di Qasr al-Manar, lo scavo dei quali ha permesso di riconoscere il tracciato principale, che sembrano riprodurre nell'organizzazione dei loro spazi i complessi palaziali coevi dell'Oriente islamico. Pochissime altre vestigia, soprattutto di architetture militari, rimangono di questi primi secoli dell'età islamica ad Ashir, a Bigiaya e alla Qala.
L'invasione dei Banu Hilal chiude la prima epoca della presenza musulmana nel Maghreb, quella che va dalla fine del VII alla fine dell'XI secolo. Nonostante le fonti storiche e archeologiche forniscano generalmente scarse informazioni, l'arrivo dell'Islam, in un'epoca di regresso economico e di crisi politica delle istituzioni ereditate dall'età romana, appare come l'inizio di un rinnovato ciclo di decadenza. Ciò che restava dell'eredità urbana delle epoche precedenti ebbe sicuramente a soffrirne, come dimostrano la distruzione o l'abbandono di molte delle città che in età bizantina erano state nuovamente fortificate e in parte ricostruite. Già dall'VIII secolo, tuttavia, assistiamo alla nascita di nuclei urbani di nuova fondazione, legati in generale alle fortune di gruppi di potere, a volte effimeri come le dinastie che li hanno fondati: Tahert, Sedrata, Ashir, la Qala dei Banu Hammad vivono un periodo prospero che è quello della loro funzione residenziale per la dinastia che le ha generate e presto si eclissano con la sua fine o con il suo spostamento in altri luoghi.
Nel periodo successivo all'invasione hilaliana il Maghreb centrale vide succedersi diverse istituzioni politiche che man mano si spartirono il suo territorio, suddividendolo in entità amministrative corrispondenti a una logica di controllo esterno. Alla fine dell'XI secolo giunsero dall'Occidente gli Almoravidi (al-murābiṭūn, quelli del ribāṭ, dal nome di un edificio o di un luogo fortificato all'interno del quale gruppi di combattenti musulmani si preparavano alla guerra santa), propagatori di un movimento religioso di rigida matrice ortodossa sorto tra le tribù berbere del Sahara. In età almoravide la parte occidentale del Maghreb centrale, grosso modo fino al territorio di Algeri, rientrò in un vasto impero che comprendeva la Spagna musulmana, il Marocco e le regioni sahariane più meridionali: fu in questo periodo che le influenze andaluse cominciarono a diffondersi nel territorio maghrebino.
Gli Almohadi (al-muwaḥiddūn, quelli dell'unità [divina], dal dogma fondamentale che asserivano nella loro dottrina) tra il 1145 e il 1152 sconfissero gli eserciti dei loro nemici almoravidi, ciò che rimaneva del potere hammadita e una coalizione di tribù hilaliane: il Maghreb centrale rientrò allora in un quadro imperiale ancora più vasto, che si estendeva a oriente fino alla regione di Tripoli e alle Sirti. Il territorio del maġrib al-awsaṭ almohade fu separato in due province: quella orientale aveva il suo capoluogo amministrativo a Tlemcen, quella occidentale a Bigiaya. Gli Almohadi affidarono il controllo militare di queste province ad alcune tribù nomadi, senza tuttavia riuscire a impedire rivolte e instabilità all'interno di una regione le cui popolazioni continuavano a essere alla mercé delle razzie e che, tutto sommato, era considerata periferica e di non grande importanza.
In età almoravide e almohade si assiste a una ripresa della vita urbana, con lo sviluppo di nuovi centri amministrativi destinati a divenire capitali regionali, soprattutto nella regione costiera e nella regione più occidentale. In particolare Tlemcen (Tilimsan) ‒ fondata o rifondata nel 1081 da Yusuf ibn Tashufin con il nome di Takrart non lontano da una città berbera che aveva preso il posto di un insediamento romano ‒, Algeri e Nedroma vedono sottolineata la loro nuova importanza con la costruzione di tre grandi moschee che sussistono ancora oggi. Nell'architettura sacra almoravide algerina si riconoscono influenze decorative andaluse che sembrano derivare dalla Grande Moschea di Cordova, in particolare nell'uso di archi polilobati e di cupole a nervature; inoltre, la moschea di Tlemcen (terminata intorno al 1136) è l'unica ad aver conservato un miḥrāb almoravide intatto. Nell'Algeria occidentale rimangono pochi altri elementi di architettura civile e militare dell'epoca almoravide, mentre nessun edificio particolarmente significativo può essere attribuito alla successiva epoca almohade.
Con la progressiva decadenza dell'impero almohade nella prima metà del XIII secolo i territori maghrebini videro realizzarsi una tripartizione che prefigura in qualche modo la suddivisione del territorio negli stati moderni. Le tre dinastie dei Banu Marin nel Maghreb estremo, dei Banu Abd al-Wad nel Maghreb centrale e dei Banu Hafs in Ifriqiya, frequentemente in lotta tra di loro, dalle loro capitali di Fez, di Tlemcen e di Tunisi guidarono le sorti politiche dell'Occidente islamico per circa tre secoli. I Banu Abd al-Wad, la cui dinastia fu fondata intorno al 1236 dal capo Zanata Yaghmurasan ibn Zayyan (da cui la loro seconda denominazione di Zayyanidi), stabilirono la loro capitale a Tlemcen, che arricchirono di edifici e di santuari importanti, e cercarono di estendere il loro controllo fino a Bigiaya, senza tuttavia riuscirci: di fatto, il loro territorio nel periodo di maggiore estensione fu quello dell'odierna Algeria occidentale, comprendendo nei loro possedimenti come propaggine estrema Algeri e il suo circondario. A più riprese il territorio dei Banu Abd al-Wad fu conquistato dai Banu Marin da ovest e dai Banu Hafs da est, cosicché il regno di Tlemcen si trovò spesso in stato di vassallaggio nei confronti di Fez e di Tunisi.
Nel corso della vicenda movimentata della dinastia abdalwadide (durata fino al 1554, anno della conquista della capitale da parte dei Turchi) Tlemcen dovette la sua prosperità a una posizione strategica sulla grande "strada dell'oro e dell'avorio", che le conferì un ruolo importante nei commerci che univano i paesi dell'Africa occidentale al Mediterraneo: l'oro e i prodotti del Sud la raggiungevano attraverso le piste del deserto, mentre dal suo porto mediterraneo di Hunayn vi arrivavano i mercanti europei, diversi gruppi dei quali risiedevano nel XIV secolo in una qayṣāriyya all'interno delle sue mura. A un episodio della lunga rivalità tra Banu Marin e Abd al-Wad si deve la costruzione a ovest della prima di una Nuova Tlemcen (Tilimsān al-Ǧadīda), meglio conosciuta con il nome di al-Mahalla al-Mansura, di cui restano rovine imponenti. Alla fine del XIII secolo il sultano merinide Abu Yaqub, che non era riuscito a espugnare la città malgrado diversi attacchi, decise di affamarla cingendola con una muraglia che doveva impedirne qualunque contatto con l'esterno: nel corso dell'assedio, che durò otto anni, una nuova città che ospitava il corpo di spedizione (maḥalla) sorse all'interno di una nuova cinta muraria, con mercati e caravanserragli, una moschea, la residenza del sultano e i palazzi dei principi e dei notabili. In parte demolita una prima volta e ricostruita più tardi all'epoca di un ulteriore attacco che pose Tlemcen sotto il potere merinide, Mansura fu dotata in questo periodo di una nuova sala di preghiera, di cui rimane, parzialmente distrutto, uno dei più bei minareti dell'Occidente islamico.
Durante il suo dominio la dinastia merinide arricchì la città e i suoi dintorni di architetture religiose e civili che ne fanno ancora oggi il luogo più ricco dell'Algeria per il suo patrimonio monumentale arabo-islamico. Appartiene a questo periodo, in particolare, il complesso religioso di Sidi Bu Madyan, nel villaggio di al-Ubbad; vi si incontrano, non lontano dalla tomba di un mistico andaluso divenuta meta di pellegrinaggio, una moschea e una madrasa, o scuola religiosa, con un piccolo palazzo che fu forse dimora della famiglia regnante e alloggio dei pellegrini più importanti. Grazie a questo centro e a diverse altre scuole, Tlemcen fu fino al XVI secolo un importante centro di insegnamento e di elaborazione culturale, in cui erano particolarmente presenti gli influssi andalusi, attirando studiosi da tutte le regioni circostanti.
Dal punto di vista architettonico e culturale le altre città del Maghreb centrale non videro prodursi niente di comparabile. La più importante, nell'Algeria orientale, fu Qusantina (antica Costantina), capitale di una regione sottoposta alla sovranità degli Hafsidi di Tunisi, che trasse la sua ricchezza dall'industria laniera e dai commerci transahariani; la Grande Moschea, datata al 1135/6, presenta una semplice sala di preghiera ipostila dall'interessante miḥrāb con copertura a conchiglia. Algeri conservò come suo principale edificio la moschea almoravide ed ebbe un modesto ruolo di scalo marittimo nel commercio dei prodotti agricoli della regione. Bigiaya fu, con Hunayn, il porto più attivo della costa: frequentato da commercianti della sponda settentrionale del Mediterraneo, e in particolare da quelli pisani, dopo la caduta dei Banu Hammad fu al centro delle rivalità territoriali tra i regni berberi e vide decadere la sua importanza commerciale, volgendosi all'attività corsara già a partire dalla metà del XIV secolo.
Ambito dai sultani rivali delle dinastie maghrebine dell'Est e dell'Ovest, a lungo loro sottomesso o vassallo, il territorio del Maghreb centrale vive tra il XIV e l'inizio del XVI secolo un periodo di progressiva disgregazione politica. Il potere reale, nel quadro di un territorio geograficamente frammentato e difficilmente controllabile da un centro lontano, appartiene a organizzazioni di carattere tribale, oppure è gestito in maniera autonoma da piccole comunità che sembrano prefigurare delle repubbliche indipendenti. Hasan al-Zayyati (più conosciuto con il nome di Leone Africano che ebbe in cristianità), percorrendo il paese agli inizi del Cinquecento, offre nella sua Descrizione dell'Africa l'immagine di una società caratterizzata dalla decadenza delle città, dal progressivo sfaldamento dei poteri dinastici, dai soprusi degli Arabi nomadi sulle comunità sedentarie e infine dalla poca sicurezza dei percorsi e dei commerci di terraferma e dall'impoverimento dei traffici marittimi.
La crisi politica si accentuò agli inizi del XVI secolo quando la potenza spagnola, terminata la Reconquista della Penisola Iberica, intervenne nelle lotte dinastiche e sottomise con la sua flotta alcuni dei principali porti della costa maghrebina: i sovrani abdalwadidi di Tlemcen fecero atto di sottomissione ai re cattolici e Marsa al-Kabir, Wahran (Orano), Algeri e Bigiaya videro la costruzione di fortezze spagnole e la presenza di guarnigioni cristiane a controllarne i traffici e i commerci.
Rispondendo all'appello degli abitanti delle città occupate dagli Spagnoli, Aruj e Khayr ad-Din (che le cronache italiane conoscono sotto il nome di Oruccio e Ariadeno e che soprannominano "i fratelli Barbarossa"), corsari turchi originari di Mitilene, riuscirono con un gruppo di armati a impadronirsi di alcuni centri della costa maghrebina. Nel 1518 Khayr ad-Din pose Algeri sotto la sovranità del sultano ottomano di Costantinopoli, che qualche anno prima aveva conquistato l'Egitto sconfiggendo i Mamelucchi: truppe ottomane e volontari turchi giunsero allora ad Algeri, iniziando il periodo del dominio ottomano su quel territorio, destinato a durare fino alla conquista francese del 1830. Le guarnigioni spagnole furono progressivamente cacciate, rimanendo tuttavia ancora a lungo a Orano e a Marsa al-Kabir, e gradualmente il territorio del Tell e degli altipiani algerini venne sottoposto all'autorità ottomana. Il controllo del Paese era assicurato da alcune guarnigioni di Giannizzeri, reclutati periodicamente in Anatolia e dislocati in punti strategici. Alcune regioni algerine, soprattutto le più montagnose e tradizionalmente autonome come la Cabilia e il massiccio degli Aurès, non furono mai dominate realmente dagli Ottomani; in altre, soprattutto sugli altipiani, gli Ottomani imposero un controllo indiretto alleandosi ad alcune tribù locali (dette tribù maḫzān) secondo un sistema tradizionalmente in atto da secoli, a cui demandarono l'amministrazione e la riscossione delle tasse in cambio di privilegi pecuniari.
La milizia turca fu comandata fino al 1587 da un beylerbey nominato dal sultano, che ebbe in un primo tempo giurisdizione anche sui territori della Tunisia e della Tripolitania quando questi entrarono sotto la sovranità ottomana. In seguito il territorio algerino fu governato da un emissario del sultano ottomano con il grado di pascià, che veniva sostituito ogni tre anni; dal 1671 fu la corporazione dei capitani corsari a scegliere il capo della Reggenza, ma qualche anno dopo, nel 1689, furono gli ufficiali superiori della milizia turca a riservarsi questo privilegio, scegliendo un dey come massima autorità. Da allora il sultano ottomano si limitò a investire i dey scelti dalla milizia: il regime politico che dirigeva il paese divenne sempre più autonomo dal centro dell'impero, ma non ricusò mai la sovranità di Costantinopoli. Durante il periodo ottomano alcune città assunsero un nuovo ruolo e nuovo vigore economico e demografico grazie soprattutto alle funzioni amministrative che si trovarono a ricoprire. In effetti, negli ultimi secoli del dominio ottomano la Reggenza fu divisa in quattro province, la cui amministrazione risiedeva in quattro capoluoghi principali. La provincia di Algeri era governata direttamente dal dey in carica, mentre le altre tre erano sotto il governo di militari che avevano il rango di bey: la provincia di Ponente ebbe successivamente come capoluoghi Mazuna, al-Muaskar (Mascara) e, dopo il suo abbandono da parte degli Spagnoli nel 1792 in seguito a un terremoto che l'aveva quasi totalmente distrutta, Wahran (Orano); la provincia del Titeri, a sud di Algeri, aveva come capitale al-Mahdiyya, mentre Qusantina, a est, era il centro principale della provincia che ne prendeva il nome.
La Reconquista e la cristianizzazione della Spagna musulmana costituirono per il Maghreb centrale, scarsamente popolato, un arricchimento importante in termini demografici. I Moriscos, cacciati o fuggiti dalla Penisola Iberica tra il XVI e l'inizio del XVII secolo, trovarono rifugio nei principali centri della regione, stabilendosi soprattutto lungo la costa. Si assistette allora alla rinascita di alcune città in cui la vita urbana era quasi totalmente scomparsa dalla fine dell'epoca romana: così accadde a Sharshal (od. Cherchell), che sorse sulle rovine di Caesarea, l'antica capitale della provincia di Mauretania. Nella Reggenza ottomana ebbero rifugio diverse altre comunità allogene, che trovarono positive condizioni di inserimento e di sviluppo nella società e nell'economia locale: in particolare comunità ebraiche provenienti dai paesi del Mediterranero settentrionale e gruppi di cristiani, profughi o prigionieri ridotti in schiavitù, che abbracciarono la religione musulmana. Tra le città, fu soprattutto Algeri ad avere un notevole sviluppo, trasformandosi da piccolo borgo in una capitale popolosa e ricca. Uno dei primi atti del nuovo potere fu la costruzione di un porto artificiale collegato ad alcuni isolotti che si trovavano non lontano dalla costa: l'economia di Algeri si fondò da allora soprattutto sull'attività marittima e sulla guerra corsara, che forniva mercanzie e schiavi, sviluppando un'attività di scambi molto lucrosa tra le due sponde del Mediterraneo e arricchendo la città nella sua epoca aurea, nei secoli XVI e XVII.
Colpita da diversi attacchi da parte degli eserciti e delle flotte delle potenze cristiane nei tre secoli della sua storia, l'Algeri ottomana si caratterizzò prima di tutto come città-fortezza e luogo di guarnigione, sviluppando un importante sistema di fortificazioni difensive che ne limitarono l'espansione: costretta all'interno di mura che variarono poco la loro estensione in tutto il periodo, la città vide formarsi al suo interno un abitato estremamente denso e verticale che costituisce la sua particolarità nel panorama delle città maghrebine di quel periodo. Altri centri che avevano avuto prima dell'età ottomana una storia illustre conservarono un ruolo modesto nell'amministrazione come luogo di guarnigione e si spopolarono gradualmente: è il caso di Tlemcen, dove all'epoca della conquista francese solamente un quinto della superficie entro le mura era abitato. Bigiaya, l'antica capitale dei Banu Hammad, andò quasi totalmente in rovina e divenne un villaggio di pescatori che ospitava una piccola guarnigione di giannizzeri. Wahran fu ottomana solamente per alcuni decenni, durante i quali si arricchì di due moschee, mentre a Qusantina un'epoca brillante per l'architettura e l'edilizia fu il Settecento, quando, affermata una loro forte autonomia rispetto alla capitale della Reggenza, i locali bey realizzarono alcune opere di notevole valore.
Accanto alle forme tradizionali dell'edilizia privata, costituita soprattutto dall'abitazione unifamiliare (dār) organizzata intorno a un cortile centrale, nelle città principali furono importati anche i modi dell'architettura aulica ottomana, che soprattutto negli edifici religiosi si espresse in organismi cupolati a impianto centrale (in alcuni casi con varianti costruttive originali e commistioni con un'architettura più marcatamente autoctona), come nella moschea di Ali Bitchnin (1623) e nella Moschea Nuova (1660) ad Algeri, e nella moschea al-Basha (fine del XVIII sec.) di Orano. Tra gli edifici pubblici di carattere non religioso sono notevoli, in particolare ad Algeri, alcune caserme dei giannizzeri sopravvissute alle distruzioni dell'età coloniale. Con la conquista coloniale francese, che toccò innanzitutto Algeri ma che investì tutte le province dell'Algeria ottomana, i danni della guerra di occupazione, ma ancor più i processi di trasformazione edilizia e di modernizzazione delle città, portarono alla distruzione di gran parte del patrimonio edilizio e monumentale delle epoche precedenti.
D. de Haëdo, Topographia e historia general de Argel repartida en cinco tratados, Valladolid 1612; Leone Africano, Descrizione dell'Africa, in G.B. Ramusio (ed.), Il viaggio di Giovan Leone e le navigazioni di Alvise da Ca' Da Mosto, di Pietro di Cintra, di Annone, di un piloto portoghese e di Vasco di Gama, Venezia 18372; al-Tanasi, Histoire des Beni Zeiyan, rois de Tlemcen (ed. J.-J.-L. Bargès), Paris 1852; Abu Zakariyya, Chronique d'Abou Zakaria (Livre des Beni Mzab) (ed. E. Masqueray), Alger 1878; az-Zarkashi, Chronique des Almohades et des Hafsides (ed. E. Fagnan), Constantine 1885; H. Delmas De Grammont, Histoire d'Alger sous la domination turque, Paris 1887; al-Tanasi, Complément de l'histoire des Beni Zeiyan, rois de Tlemcen (ed. J.-J.-L. Bargès), Paris 1887; Ibn Idhari, Histoire de l'Afrique du Nord et de l'Espagne intitulée Kitâb al-Bayano'l-Mogrib (ed. E. Fagnan), Alger 1901; G. Colin - G. Mercier, Corpus des inscriptions arabes et turques de l'Algérie, Paris 1901-1902; W. Marçais - G. Marçais, Les monuments arabes de Tlemcen, Paris 1903; Ibn Khaldun, Histoire des Beni ῾Abd al-Wâd (ed. A. Bel), Alger 1904-13; al-Bakri, Kitāb al-masālik wa'l-mamālik (ed. W. Mac Guckin de Slane, Description de l'Afrique septentrionale, Alger 1911-13); Ch.-A. Julien, Histoire de l'Afrique du Nord, Paris 1931; R. Brunschvig, La Berbérie orientale sous les Hafsides des origines à la fin du XVe siècle, I-II, Paris 1940-47; G. Marçais, La Berbérie musulmane et l'Orient au Moyen-Âge, Paris 1946; G. Marçais - A. Dessus-Lamare, Recherches d'archéologie musulmane. Tîhert-Tagdemt (août-septembre 1941), in RAfr, 90 (1946), pp. 24-57; al-Muqaddasi, Description de l'Occident musulman aux IVe-Xe siècle (ed. Ch. Pellat), Alger 1950; Ch.-A. Julien, Histoire de l'Afrique du Nord. Tunisie, Algérie, Maroc, de la conquête arabe à 1830 (ed. R. Le Tourneau), Paris 19522; G. Marçais, L'architecture musulmane d'Occident. Tunisie, Algérie, Maroc, Espagne et Sicile, Paris 1954; J. Despois, L'Afrique du Nord, Paris 1960; Ibn Hawqal, Kitāb ṣurat al-arḍ (edd. J.H. Kramers - G. Wiet, Configuration de la terre, Beyrouth - Paris 1964); J. Despois - R. Raynal, Géographie de l'Afrique du Nord-Ouest, Paris 1967; L. Golvin, Essai sur l'architecture religieuse musulmane, Paris 1970-79; A. Laroui, L'histoire du Maghreb, Paris 1975; C. Donnadieu et al., Habiter le désert. Les maisons mozabites, Bruxelles 1977; Ibn Khaldun, Kitāb al-῾ibar (ed. P. Casanova, Histoire des Berbères et des dynasties musulmanes de l'Afrique septentrionale, Paris 1982); R. Bourouiba, L'architecture militaire de l'Algérie médiévale, Alger 1983; al-Idrisi, Le Magrib au 12e siècle de l'hégire (6e siècle après J.-C.) (ed. M. Hadj-Sadok), Alger 1983; A. Dhina, Le Royaume Abdelouadide à l'époque d'Abou Hammou Moussa Ier et d'Abou Tachfin Ier, Alger 1985; R. Bourouiba, Apports de l'Algérie à l'architecture religieuse arabo-islamique, Alger 1986; P.-L. Cambuzat, L'évolution des cités du Tell en Ifrîkya du VIIe au XIe siècle, Alger 1986; L. Golvin, Palais et demeures d'Alger à l'époque ottomane, Aix-en-Provence 1988; F. Cresti, Il Maghreb centrale agli inizi del XVI secolo: strutture politiche, economie urbane e territorio nella Descrittione dell'Africa di Giovanni Leone Africano, in Africa, 53 (1998), pp. 218-38.
di Francesca Romana Stasolla
Città (fen. 'yksm; lat. Icosium; ar. al-Ǧazā'ir, Ǧazīra) capitale dell'attuale Algeria, situata al centro della costa algerina e nata intorno al VI sec. a.C. come scalo punico; uno dei punti di sosta fondati da Cartagine lungo le coste meridionali del Mediterraneo. Il sito, costituito da quattro isole fronteggiate da un promontorio, forniva un comodo approdo e contemporaneamente era facile a difendersi.
La leggenda 'YKSM ("isola dei gufi" o, meglio, "isola dei gabbiani") si riferisce con ogni probabilità al nome originale; i Romani, infatti, chiamarono la città Icosium, latinizzando il nome punico. Nel 146 a.C. con la conquista romana terminò l'egemonia cartaginese. Rinvenimenti archeologici del periodo coloniale consentono di ricostruire, almeno nelle linee generali, l'urbanistica di età romana. L'estensione della città antica doveva corrispondere all'incirca a quella del successivo centro islamico, tranne che per il lato ovest, sul cui andamento non ci sono certezze. Doveva esserci una cinta di mura, con a nord e a sud le porte costruite durante il periodo arabo-berbero, Bab el-Oued e Bab Azun (oggi presenti solo nella toponomastica delle piazze che le hanno sostituite). Questa fortificazione fu espugnata da Firmus, principe che si ribellò a Roma nel 371 (o 372), e infine distrutta dai Vandali. Alcuni resti furono inglobati nelle mura berbere del X secolo e poi in quelle turche del XVI. La viabilità si presenta molto regolare, con impianto ortogonale. Il cardo massimo doveva congiungere le due porte;
il decumanus doveva corrispondere all'attuale via della Marina. Sono note due cisterne, rinvenute nel 1870; una casa con mosaici e un dolium, noti dalla fine dell'Ottocento; terme sotto la chiesa di Notre-Dame-des-Victoires; mosaici della fine del II - inizi del IV secolo sotto la cattedrale, riferibili presumibilmente a terme romane, i cui resti erano ancora visibili nel XVI secolo; un mulino; un frantoio nel quartiere della Marina. Sono invece assenti gli edifici religiosi, che pure dovevano esserci: fanno eccezione una stele votiva a Saturno e un'iscrizione mitraica. Il perimetro di A. in epoca preislamica era definito dalle necropoli, la principale delle quali è a nord/nord-ovest rispetto alla città.
Nel 647 gli Arabi entrarono in Numidia e nel 698 distrussero Cartagine. I conquistatori, preferendo le rotte dell'entroterra, non dedicarono particolare attenzione ad A. che rimase da questo momento, fino probabilmente al X secolo, un piccolo centro portuale. Le fonti storiche sulla città berbera concordano nel descrivere A. come un centro commerciale fiorente e con molti mercati e una moschea. Attorno alla metà del X secolo, sotto il governo del capo berbero Baluqqin ibn Ziri, si assistette a una rifondazione della città, chiamata allora Giazair Bani Mazghanna ("isole della tribù dei Mezghanna"); sembra però che l'intervento ziride sia stato piuttosto una ristrutturazione delle strutture difensive. Verso la fine dell'XI secolo la dinastia maghrebina degli Almoravidi (1056-1147) allargò i suoi domini verso oriente fino a conquistare la città di A., dove fu eretta nel 1096 la Grande Moschea: l'edificio si presenta a pianta quadrangolare con piccolo cortile rettangolare e sala di preghiera a navate perpendicolari al muro qiblī (rivolto verso La Mecca), caratterizzata da un transetto più ampio delle altre navate che conduce al miḥrāb (nicchia di preghiera). La decorazione è sobria e l'interno è movimentato soprattutto dai profili degli archi a sesto rialzato supportati da pilastri, alcuni dei quali sono polilobati e rivelano un'influenza andalusa. Sotto gli Almohadi, che spodestarono la precedente dinastia da A., venne forse edificata la moschea di Sidi Ramdhan, caratteristica per il minareto situato al di sopra della campata del miḥrāb.
Nel periodo successivo la città fu contesa dalle tre grandi dinastie che governarono il Maghreb alla caduta degli Almohadi: gli Hafsidi di Tunisi, gli Abdalwadidi di Tlemcen e i Merinidi di Fez. In questo periodo la città molto probabilmente ospitò, come molti altri centri, un fondaco europeo e venne fortificata, con ampliamento del suo perimetro occidentale. Nella prima metà del XIV secolo venne costruita in posizione dominante la Qasba al-Qadima, fortezza presso la quale sorgevano il palazzo e il mausoleo del sultano. La città doveva essere ricca di moschee e di mercati, posti nella zona pianeggiante e divisi in settori di specializzazione artigianale, così come descritto da Leone Africano, che visitò A. nel 1514/5. Nel 1510 gli Spagnoli costruirono una fortezza di fronte alla città, il Peñón, a loro concessa per controllare la zona del porto senza dover occupare la città. La dominazione turca del XVI secolo fece di A. la capitale del Maghreb centrale. Il fallimento della spedizione di Carlo V nel 1541 diede ad A. fama di città inespugnabile: le raffigurazioni la presentano ricca di mura e bastioni, con edifici sparsi nella zona superiore, vicino alla qaṣba, mentre molto più affollata è la parte pianeggiante. All'inizio del XVII secolo, A. assunse le caratteristiche di una repubblica marinara corsara; oltre a nuove moschee, venne edificato un forte a controllo del porto, acquedotti e fontane, il tutto però contenuto entro quello spazio urbano che restò inalterato fino all'inizio del XIX secolo.
Bibliografia
A. Devoulx, Les édifices religieux de l'ancien Alger, in RAfr, 14 (1870), pp. 280-92; G. Colin, Corpus des inscriptions arabes et turques de l'Algérie, I. Département d'Alger, Paris 1901; G. Marçais, L'architecture musulmane d'Occident. Tunisie, Algérie, Maroc, Espagne et Sicile, Paris 1954; R. Le Tourneau, s.v. al-Djazā'ir, in EIslam, II, 1965, pp. 533-34; M. Le Glay, À la recherche d'Icosium, in AntAfr, 2 (1968), pp. 7-52; F. Cresti, Note sullo sviluppo urbano di Algeri dalle origini al periodo turco, in StMagreb, 12 (1980), pp. 103-25; Id., Fonti iconografiche e letterarie per una storia urbana di Algeri nel XVI secolo, ibid., 15 (1983), pp. 43-73; Id., Algeri nel XVII secolo. Documenti iconografici e fonti letterarie. I. 1600-1634, ibid., 16 (1984), pp. 55-90; S. Lancel - É. Lipiński, s.v. Icosium, in DCPP, p. 226; L. Golvin, s.v. Algeri, in EAM, I, 1991, pp. 392-93.
di Alessandra Bagnera
Antica città (ar. Ašīr) fortificata del Nord Africa, situata circa 100 km a sud/sud-est di Algeri, sui monti Titeri che dominano da lontano gli altipiani a sud della capitale.
A., posta ai confini occidentali del dominio fatimide, è nominata dalle fonti storiche dalla prima metà del X secolo e deve la sua fondazione a Ziri ibn Manad, capo della principale tribù berbera dei Sanhagia, il quale fu autorizzato a costruirla dal califfo fatimide al-Qaim nel 945. Tale atto corrispondeva a un riconoscimento di prestigio e di autonomia che Ziri ottenne come ricompensa per il sostegno dato contro la rivolta kharigita guidata da Abu Yazid, il quale aveva insanguinato i territori tunisini allora sede del califfato. Al-Bakri e Ibn al-Athir attribuiscono, invece, la fondazione di A. al figlio del capostipite, Balukkin ibn Ziri, riportandola il primo al 974 e il secondo al 977. Al-Bakri inoltre descrive una città in cui furono costruiti palazzi, caravanserragli e bagni, popolata forzosamente con elementi della tribù rivale degli Zanata della pianura dell'Oranie, i quali, fino ad allora legati agli Omayyadi di Spagna, furono sottomessi dai Sanhagia della montagna.
Balukkin ibn Ziri lasciò A. per Kairouan nel 973 quando fu nominato governatore dell'Ifriqiya dal califfo fatimide al-Muizz, che in quell'anno trasferì la sede del governo dalla Tunisia in Egitto, nella nuova capitale del Cairo. A. continuò a funzionare come residenza della famiglia mentre il governo della regione, ormai divenuta territorio di frontiera del nuovo regno ziride, venne affidato ai consanguinei Banu Hammad (Ibn Balukkin). Nel 1017, dopo la loro secessione dagli Ziridi, questi si impadronirono anche di A. e la città venne disputata tra i vari membri della famiglia, finché nel 1048 non venne presa e saccheggiata dalle truppe di Yusuf ibn Hammad. Altri eventi funesti caratterizzarono la sua storia successiva: nel 1076 fu assediata e occupata temporaneamente dagli Zanata e poi ripresa dai Banu Hammad; nel 1101 se ne impadronì il governatore almoravide di Tlemcen (Tashufin ibn Tinamer), che la devastò. Dopo essere stata nuovamente risollevata dai capi hammaditi, l'ultima notizia che di essa è recuperabile dalle fonti storiche riguarda il suo passaggio verso il 1184 nelle mani di un Sanhagia di nome Ghazi, che era alleato dei Banu Ghaniya.
Le divergenze relative alla fondazione ziride di questo sito posto ai confini occidentali del dominio fatimide troverebbero corrispondenza nei resti archeologici che caratterizzano tre nuclei abitativi localizzati a poca distanza uno dall'altro, i quali secondo W. Marçais (1958) indicano tre momenti diversi della storia di A. Sarebbe precedente la fondazione della città quello chiamato Manzah bint as-Sultan, da interpretare come un avamposto di osservazione dei Sanhagia. È formato da una cinta fortificata che, sulla cima di uno sperone di roccia, include più o meno al centro una costruzione con funzione di corpo di guardia o magazzino; una grande cisterna vi doveva assicurare il rifornimento idrico temporaneo per una guarnigione piuttosto ridotta che vi era di stanza.
In prossimità di una sorgente chiamata Ain Yashir vi sono invece i resti di una cinta fortificata rettangolare che include solo alcuni muri, i quali sembrano delimitare terrazzamenti a diversi livelli. All'esterno di questa cinta, cui secondo il Rodet (1908) va riferito il nome Yashir, gli scavi condotti da L. Golvin hanno portato in luce il più noto castello. Si tratta di un edificio costruito di pietra, all'interno del quale, in una notevole simmetria planimetrica, si distribuiscono in modo peculiare vari ambienti tipologicamente caratterizzati. L'unico ingresso in avancorpo con percorso a gomito mostra una analogia evidente con il palazzo di al-Qaim scoperto a Mahdiyya (Zbiss 1956), allora capitale e residenza del califfo fatimide in Tunisia. Tale confronto, unitamente alla notizia dell'invio da parte di al-Qaim di un architetto dell'Ifriqiya per la realizzazione del castello, porterebbe a identificare nel sito di Yashir la fondazione che Ziri nel 945 ebbe autorizzata dallo stesso califfo fatimide.
Di fronte al castello e a Yashir, a una distanza di circa 2,5 km e separato da una vallata, si trova il terzo sito fortificato, noto col nome di Benia (Banya). È posto su un terreno in pendenza, nella cui parte inferiore si trova una cinta fortificata che si allunga verso un'altura rocciosa alla quale era addossata una città e ai cui piedi si trovava un torrione. La cinta fortificata è provvista di tre porte e al suo interno sono distribuite numerose rovine, tra le quali è ben riconoscibile una moschea con corte e sala di preghiera ipostila, a sette navate e quattro travate. In questi resti, caratterizzati anche dalla presenza di numerose sorgenti, va secondo G. Marçais (1958) riconosciuta la città che al-Bakri descrive con molta precisione e indica come fondazione di Balukkin ibn Ziri (974).
Il monumento meglio noto di tutto l'insieme è senza dubbio il castello di A. Si tratta di un palazzo con sviluppo latitudinale, con un unico ingresso in avancorpo posto su uno dei lati lunghi, della cui similarità con il palazzo fatimide di Mahdiyya, in Tunisia, di poco più antico, si è già detto. L'entrata vera e propria, entro un torrione rettangolare che sporge dalla facciata, conduce a un ambiente a fondo cieco dal quale si accede a due piccole stanze laterali e, verso l'estremità più interna, a due corridoi a gomito che conducono a un portico che occupa un lato dell'ampia corte interna. Intorno a questa, di forma quadrata, si distribuiscono le altre zone del palazzo. Sul lato opposto all'ingresso, in asse con questo, si trova il complesso cerimoniale, formato da una sala d'udienza a tre alcove quadrangolari, cupolata e preceduta da un'antisala oblunga posta trasversalmente. Quest'ultima presenta due nicchie quadrangolari sui lati brevi e tre ingressi sul fronte verso la corte. La sala a tre alcove si estende oltre il perimetro del muro di cinta del palazzo costituendo così un elemento ben visibile all'esterno.
La zona di rappresentanza del palazzo di A. si presenta tipologicamente molto diversa da quelle in uso nel resto del mondo islamico, più spesso improntate ai modelli iranico-sasanidi basati sulla presenza dell'īwān (sala voltata aperta frontalmente); quella di A. si affianca ad esse costituendo un modello a sé stante che, se qui trova la sua testimonianza più antica, verrà utilizzato anche in molti altri edifici del Nord Africa (Qala dei Banu Hammad, XI sec.) dai quali, come diremo più avanti, prenderanno spunto alcune architetture secolari della Sicilia normanna (XII sec.). Nel palazzo di A., ai lati della zona ufficiale e intorno alla corte si dispongono quattro unità residenziali che, con uguali proporzioni, ripetono, ai quattro angoli esterni dell'edificio, lo stesso tipo planimetrico. Tre stanze oblunghe sono distribuite intorno a una corte centrale quadrata sulla quale si aprono separatamente, ognuna con un proprio ingresso sul lato lungo; sul quarto lato, sempre in corrispondenza della parete esterna del palazzo, si trova una sala diversamente caratterizzata per la presenza di una nicchia quadrangolare al centro di ogni lato, tranne ovviamente quello aperto sulla corte centrale. La maggiore complessità e la maggiore ampiezza rispetto alle altre permettono di riconoscervi l'ambiente principale. Come nel caso della sala d'udienza, anch'esso sporge, attraverso l'alcova posta al centro del lato lungo, dal perimetro del palazzo. Come la zona di ricevimento, anche gli appartamenti privati presentano ad A. caratteristiche tanto peculiari da costituire una tipologia indipendente, quella del cosiddetto bayt ziride. Le specificità indicate lo distinguono dagli altri tipi di unità residenziali (ar. bayt = casa) che, con caratteristiche variabili, compongono, insieme alla zona pubblica di rappresentanza, i palazzi islamici. Tipologicamente infatti si distingue sia dal bayt siriaco utilizzato dalle architetture omayyadi sia dal bayt mesopotamico che, di tradizione iranico-sasanide, si diffonde nei territori musulmani a partire dal periodo abbaside.
Planimetria e modalità costruttive del tutto simili a quelle di A. si ritrovano alla Qala dei Banu Hammad, ad esempio negli appartamenti privati del Qasr as-Salam. Anche alcune architetture domestiche mostrano, naturalmente in scala minore, la stessa caratteristica di base, ovvero la disposizione di stanze strette e lunghe intorno a un ampio cortile centrale di forma quadrata: in Algeria a Sétif (seconda metà X - metà XI sec.), a Tahert (secondo le fonti fondata nel 761 e distrutta nel 909) e a Tebessa/Theveste (VII sec.?); in Tunisia a Henchir el-Faouar, forse del periodo della conquista islamica, VII secolo (Fentress 1987). Se è vero che la semplicità planimetrica di queste case di abitazione, completamente diversa da quella di tradizione iranico-sasanide, trova espressioni diverse nel mondo antico, essa mostra indubbi parallelismi con quanto sappiamo del mondo arabo preislamico, mentre il tipo trovò diffusione nel Maghreb proprio a partire dalla conquista arabo-islamica. Oltre alla assoluta simmetria e semplicità della pianta, ulteriore caratteristica del palazzo di A. è una certa severità, ravvisabile nell'uso di pilastri quadrangolari, ad esempio nel portico antistante la zona d'ingresso, e di coperture costituite da volte probabilmente semplici, nonché nella presenza molto limitata della decorazione applicata. Il palazzo, che aveva un solo piano e una pianta rettangolare, si doveva presentare all'esterno come un basso parallelepipedo movimentato solo dalla netta articolazione degli avancorpi.
Il castello di A., proprio per la sua completezza, rappresenta un esempio unico e prezioso per la comprensione delle architetture palaziali del Nord Africa medievale. Caratteri del tutto originali mostrano con evidenza le peculiarità tipologiche della zona di ricevimento e delle unità residenziali (bayt ziride). Di alcuni elementi si ravvisano paralleli nelle architetture califfali elaborate nel cuore dell'Ifriqiya fatimide, in Tunisia. Le sale oblunghe con nicchie quadrangolari sui lati brevi sono presenti, ad esempio, nel contemporaneo "palazzo" di Sabra al-Mansuriyya, dove una "retrosala" trasversa di questo tipo caratterizza il nucleo principale dell'edificio. Il tipo di ingresso a gomito è, come già sottolineato, direttamente ispirato a quello del precedente palazzo di Mahdiyya (912), di cui purtroppo poco altro si conosce. Se in entrambi questi casi è possibile riconoscere alcune rielaborazioni, comunque originali, di elementi che trovano riferimento nel mondo abbaside della seconda metà dell'VIII secolo ‒ il cui cammino fino alle architetture fatimidi è ricostruibile però solo per l'ingresso a gomito, testimoniato dalla versione utilizzata nel palazzo di Raqqada del primo periodo aghlabide o leggermente anteriore ‒ nel castello di A. si è di fronte ormai a un linguaggio del tutto indipendente. Di questo linguaggio, similmente riproposto dalle poco più tarde costruzioni palaziali testimoniate alla Qala dei Banu Hammad, balza agli occhi una caratteristica molto eloquente, ovvero l'assenza dell'īwān, elemento che in diverse formulazioni caratterizza soprattutto, ma non solo, le zone di ricevimento nella maggior parte dei palazzi islamici contemporanei.
Del palazzo ziride di A., nonché delle vicine e per molti versi simili testimonianze hammadite della Qala di poco successiva, si trova eco evidente nelle architetture palaziali della Sicilia normanna (Scerrato 1979). Di committenza quasi esclusivamente regia, questi edifici presentano numerosi punti di contatto con l'architettura islamica del Nord Africa cui fanno riferimento in generale la concezione spaziale e planimetrica, le soluzioni strutturali e la sobrietà degli apparati decorativi. Più in particolare, nonostante la distanza cronologica dal castello di A. (X sec.) e dalla Qala (XI sec.), la Zisa e la Cuba di Palermo (Guglielmo I e II, seconda metà XII sec.), come anche il "castello" di Caronia, ne ripropongono l'aspetto di compatta volumetria movimentata solo dall'articolazione degli avancorpi e dai leggeri rincassi sul liscio paramento murario di pietra da taglio, nonché l'uso di sale di ricevimento a tre alcove. Nella Zisa, dove la disposizione degli ambienti segue un asse di simmetria latitudinale, l'impianto a carattere cerimoniale trova stretti parallelismi con A. nella formulazione del piano terra con una stretta sala oblunga che attraversa tutta la facciata dell'edificio e che per mezzo di tre fornici ‒ di cui quello centrale più grande ‒ immette in una sala quadrata con tre profonde alcove. Sistemazione simile doveva forse avere anche il palazzo dell'Uscibene, anch'esso a Palermo, di cui resta riconoscibile solo il vano centrale a tre nicchie. Diversamente dalla Zisa ‒ con cui invece condivide la presenza di una fontana entro la nicchia di fondo ‒ in questo caso l'ambiente cerimoniale era forse preceduto da un vestibolo affacciantesi su una corte, proponendo quindi un parallelo ancora più evidente con il prototipo di A.
M. Chabassière - A. Berbrugger, Le Kef el-Akhdar et ses ruines, in RAfr, 13 (1869), pp. 116-21; Capitaine Rodet, Les ruines d'Achir, ibid., 42 (1908), pp. 86-104; S. Gsell, Atlas archéologique de l'Algérie, f. 24 Boghar nn. 80, 82, 83, Alger - Paris 1911; G. Marçais, Achir (Recherches d'archéologie musulmane), in RAfr, 63 (1922), pp. 21-38; Id., L'architecture musulmane d'Occident. Tunisie, Algérie, Maroc, Espagne et Sicile, Paris 1954; Id., s.v. Ashīr, in EIslam2, I, 1960, pp. 720-21; L. Golvin, Note sur le décor des façades en Berbérie orientale à la période sanhagienne, in Etudes d'Orientalisme dédiées à la mémoire de Lévi-Provençal, II, Paris 1962, pp. 581-89, tavv. III-XV; Id., Le Palais de Zīrī à Achir (10e sec. après J.C.), in ArsOr, 6 (1966), pp. 47-76; A. Lézine, La salle d'audience du palais d'Achir, in REtIslamiques, 37 (1969), pp. 203-18; U. Scerrato, Arte islamica in Italia. L'architettura, in F. Gabrieli - U. Scerrato (edd.), Gli Arabi in Italia, Roma 1979, pp. 307-42; E. Ettinghausen - O. Grabar, The Art and Architecture of Islam: 650-1250, New Haven - London 1987, pp. 170-72; E. Fentress, The House of the Prophet. North African Islamic Housing, in AMediev, 14 (1987), pp. 47-68.
di Gabriel Camps, Maria Giovanna Stasolla
Città (lat. Saldae; ar. an-Nāṣiriyya, od. Biǧāya, fr. Bougie, it. Bugia) dell'Algeria, all'estremità orientale della Grande Cabilia, occupata ininterrottamente fin dalla preistoria (giacimenti di Pic des Singes e di Aiguades).
Particolarmente importanti nella storia di B. sono l'epoca romana e quella hammadita. La città romana era una colonia augustea e purtroppo non ha conservato che scarse vestigia della sua grandezza: mosaici, colonne, statue, importanti cisterne alimentate da un acquedotto proveniente da Tugia, 25 km a sud-ovest, e soprattutto iscrizioni ufficiali che contribuiscono alla conoscenza della storia della regione. Ma è nel Medioevo che B. conobbe il suo momento di gloria, in particolare nel XII secolo. Fondata per volontà di an-Nasir nel 1067, diventò la seconda capitale del regno hammadita con il nome di an-Nasiriyya; ma fu al-Mansur (1090-1104) a trasferirvi la corte e l'esercito, che continuavano a risiedere nella Qala dei Banu Hammad, ingrandendola e fornendola di splendidi monumenti. Ciò si spiega con lo sviluppo del commercio marittimo e soprattutto con il desiderio di sfuggire alla pressione degli Arabi hilaliani che saccheggiavano l'entroterra. Al-Idrisi (XII sec.) ci ha lasciato una descrizione entusiasta di B. come capitale di un regno che si estendeva da Tenes ad Annaba. Costituitasi come nodo commerciale importante per le materie prime provenienti dalle montagne (ferro, resina, legname per costruzioni navali, cera, spiegando così il nome di "bugia" dato alle candele di cera), B. divenne un centro religioso, culturale e artistico cosmopolita dove s'incontravano giuristi, medici e letterati; la città intratteneva relazioni continue con la Spagna musulmana, di cui accoglieva volentieri gli abili artigiani che introdussero anche l'arte orafa. Dopo la caduta degli Hammaditi e dopo un breve periodo di dominio almohade, divenne la capitale del principato hafside (1234) dipendente da Tunisi, ma la decadenza era cominciata e la città fu piazzaforte spagnola dal 1510 al 1555, prima di cadere sotto la dominazione turca.
Le antichità islamiche di B. risalenti al periodo hammadita sono in gran parte state inglobate in edifici successivi. Le caserme di B. coprono il palazzo hammadita detto "della Perla" (Qaṣr al-Lu'lu'), costruito al momento della fondazione da an-Nasir, del quale Ibn Khaldun vantò la ricchezza; il forte spagnolo di Barral sorge probabilmente sul sito del palazzo hammadita "della Stella" (Qaṣr al-Kawkab), fatto edificare dal sovrano al-Mansur; il forte del mare o Abd al-Kader fu ricostruito dagli Spagnoli su un precedente edificio hammadita e hafside. Tra i resti di costruzioni medievali ancora oggi visibili sono da annoverare alcune cisterne e la parte orientale della cinta muraria, dove le mura spesse 4 m, e fiancheggiate da torrioni, possono essere attribuite al XII secolo; altro monumento forse di periodo hammadita è la cosiddetta Porta Saracena, una grande arcata che permetteva alle navi di penetrare nel porto: oggi scomparsa, se ne conserva testimonianza iconografica nelle stampe europee del XIX secolo. Conosciamo il nome di sette od otto porte, alcune delle quali possono essere localizzate: Bab Arusiwan a est, Bab al-Burud, sul posto della Porta Fouka, Bab al-Lawz sullo stesso lato ma più in basso. Si ritiene che i palazzi hammaditi di B., che tanto avevano entusiasmato al-Idrisi e soprattutto il poeta siciliano Ibn Hamdis, abbiano ispirato l'architettura dei palazzi normanni di Palermo. Nel quartiere nord si trova la moschea turca di Sidi Sufi, del XVI secolo, con minareto quadrato e rivestimento di ceramiche: fu costruita in onore di un saggio marocchino che creò a B. il sūq (mercato) della lana. Il Museo Archeologico conserva, oltre a numerosi reperti romani, una collezione di epigrafi sepolcrali arabe su marmo di epoca hammadita e hafside.
G. Marçais, Les poteries et faïences de Bougie, Constantine 1918; R. Planchenault, Les fortifications de Bougie, in Beaux-Arts, 7 (1930), pp. 11-12; R. Brunschvig, La Berbérie orientale sous les Ḥafṣides des origines à la fin du XV siècle, I, Paris 1940, pp. 377-84; L. Golvin, Le Maghrib central à l'époque des Zirides, Paris 1957; F. Gabrieli, Il palazzo ḥammādita di Biǧaya descritto da Ibn Ḥamdis, in Aus der Welt der islamischen Kunst. Festschrift für Ernst Kühnel, Berlin 1959; G. Marçais, s.v. Bidjāya, in EIslam2, I, 1960, pp. 1240-241; R.H. Idris, La Berbérie orientale sous les Zirides (X-XII siècles), Paris 1962, I, pp. 267-71, II, pp. 499-503; D. Urvoy, La structuration du monde des Ulémas à Bougie aux VIIe-XIIe siècles, in StIslamica, 43 (1976), pp. 87-108; M. Cote, s.v. Bejaia, in EBerbère, IX, 1991, pp. 1401-415.
di Maria Antonietta Marino
Cittadina (ar. Nadrūma) situata nel Nord-Ovest dell'attuale Algeria, non lontano da Tlemcen e dal confine marocchino, in un'area da sempre ben irrigata e dall'agricoltura fiorente.
Le origini della città sono ancora sconosciute, ma è certo che un centro urbano doveva già esistere in periodo idriside (789-926) sotto il governatorato di Muhammad ibn Sulayman, cugino di Idris II, che risiedeva ad Agadir (futura Tlemcen). Il geografo arabo al-Yaqubi nel IX secolo attesta l'esistenza di un centro abitato proprio nell'area di N., mentre certa è la menzione della città da parte di al-Bakri (XI sec.).
Conquistata dagli Almoravidi, N. divenne un centro importante dei loro domini orientali situandosi sulla via che collegava il Mediterraneo all'Atlante. Alla fine dell'XI secolo venne fondata la Grande Moschea: un frammento ligneo del minbar (pulpito) originale, rinvenuto nel 1900 nella moschea, porta la data del 1090. La moschea presenta una pianta simile a quella della Grande Moschea di Algeri, sebbene le dimensioni siano ridotte: la sala di preghiera ha navate perpendicolari al muro della qibla (direzione della Mecca) suddivise in tre sezioni parallele; anche in questo caso, come è consuetudine nelle moschee almoravidi, la navata centrale che conduce al miḥrāb (nicchia di preghiera) è più larga di quelle laterali. Il tetto è supportato da archi a ferro di cavallo su pilastri. L'austerità nella decorazione di questa moschea rispecchierebbe la volontà dei primi Almoravidi che consideravano l'arte un allontanamento dal rigore religioso. Il minareto a base quadrata, ricostruito poi nel XIV secolo, risale nell'impianto all'XI secolo e, con la sua decorazione a mattoni a facciavista, presenta strette similarità con i coevi minareti di Tlemcen.
In epoca almohade la città mantenne un ruolo importante nelle direttrici commerciali della regione. Nel 1160 l'almohade Abd al-Mumin fece erigere una cinta muraria, di cui sono ancora visibili i resti della porta principale. La qaṣba doveva essere già allora divisa in quattro quartieri che si incontravano nel centro cittadino, occupato dal mercato della lana e dalla Grande Moschea. Successivamente N. divenne un luogo di ritiro per i sovrani che governavano la città di Tlemcen, della cui orbita faceva parte; rovine di un palazzo dal nome di Qsar as-Sultan sono ancora rintracciabili a sud dell'antico centro urbano.
Bibliografia
R. Basset, Nedromah et les Traras, Paris 1901; al-Bakri, Kitāb al-masālik wa'l-mamālik (ed. W. Mac Guckin de Slane, Description de l'Afrique septentrionale, Alger 1911-13); al-Yaqubi, Kitāb al-buldān (ed. G. Wiet, Les pays), Le Caire 1937; G. Marçais, L'architecture musulmane d'Occident, Paris 1954; G. Grandguillaume, Nedroma. L'évolution d'une medina, Leiden 1976; D. Sari, Les villes précoloniales de l'Algérie occidentale. Nédroma, Mazouna, Kalaa, Alger 19782; A. Bel - D. Sari, s.v. Nadrūma, in EIslam2, VII, 1993, pp. 875-76.
di Alessandra Bagnera
Città (ar. Qal῾at Banī Ḥammād) medievale situata sui monti dell'Hodna, nell'Algeria centro-settentrionale.
Chiamata nelle fonti anche Qal῾at Abi Tawīl, fu ‒ probabilmente insieme a Bigiaya sulla costa ‒ la capitale dei Banu Hammad (1015-1052), una dinastia berbera della tribù dei Sanhagia il cui fondatore fu Hammad ibn Buluqqin ibn Ziri ibn Manad. Della Q. resta un importante complesso di rovine comprese entro una cinta fortificata a un'altitudine media di 990 m s.l.m. Addossata a nord all'arida montagna del Taqarbust (1418 m), la Q. si sviluppava, come la città ziride di Ashir, su un altipiano inclinato. A ovest è delimitata dalla montagna di el-Gorein (1190 m) ai piedi della quale si apre un passaggio verso Msila. A est/sud-est è fiancheggiata dallo Wadi Fraj, il cui percorso da nord a sud supera, entro strette gole, alcune montagne comprese tra 1000 e 1400 m di altezza, per poi continuare entro una stretta vallata che conduce verso la piana dell'Hodna e lo šaṭṭ (o chott) omonimo. Data la sua posizione di controllo rispetto alla piana e di prossimità a naturali vie di comunicazione da est verso ovest, il sito fu probabilmente abitato da sempre. La presenza romana, di cui non risultano definite né la natura né l'ampiezza, vi è attestata da alcune rovine tra cui si riconoscono solo i resti di un bagno. Altre vestigia sono presenti anche sulla cima del monte Taqarbust nel quale va forse identificato il monte Kiyana, dove nel 947/8 avrebbe trovato la sua fine tragica Abu Yazid, "l'uomo con l'asino" che aveva guidato in Tunisia la rivolta kharigita sconfitta dal califfo fatimide Ismail al-Mansur.
La posizione strategica del sito determinò probabilmente la decisione di Hammad, il capostipite della dinastia, di lasciare l'antica capitale di Ashir per fondare la Q. La costruzione di un luogo fortificato aveva il duplice scopo di assicurarsi una solida base particolarmente ben protetta contro le ambizioni degli Zanata della pianura e di servire alla sua volontà di indipendenza dallo ziride Badis. Questi, a Kairouan, aveva assunto il governo dell'Ifriqiya lasciatogli dal fatimide al-Muizz che, nel 973, trasferì la sede del califfato in Egitto, nella nuova capitale del Cairo. Nel 1015 Hammad proclamò la sovranità dei califfi abbasidi e la Q. divenne capitale di uno Stato indipendente, nonostante essa rappresentasse, a questa data, ancora una città secondaria rispetto ad Ashir di cui Hammad si era impadronito dopo la secessione dagli Ziridi (Golvin 1978).
L'apogeo, di breve durata, della capitale hammadita si registra sotto i regni di al-Nasir ibn Alannas (1062-1089) e di suo figlio e successore al-Mansur (1089-1105). La rottura anche dello ziride al-Muizz con l'omonimo califfo fatimide, e soprattutto la crisi che in Ifriqiya seguì alla invasione hilaliana, fece infatti confluire alla Q. la ricca attività economica di Kairouan e di Sabra al-Mansuriyya. Alla fine dell'XI secolo al-Bakri descrive la Q. come "un centro di commercio che attira le carovane dall'Iraq, dall'Higiaz, dall'Egitto, dalla Siria e da tutte le parti del Maghreb". Ciò nonostante, dall'inizio del suo regno an-Nasir per ragioni di sicurezza e di sbocco verso il mare, attrezzò il piccolo porto di Bigiaya. Le notizie riportate dalle fonti, e soprattutto da Ibn Khaldun, portano a pensare che durante il regno di an-Nasir e al-Mansur, e forse anche durante quello più breve di Badis ibn al-Mansur, gli Hammaditi ebbero, per circa 37 anni, due capitali, la Q. e Bigiaya, collegate da una strada "reale" di cui il geografo al-Idrisi enumera le numerose tappe.
L'invasione dei Banu Hilal rese difficile la sopravvivenza della Q., che durante il XII secolo registrò un progressivo declino a vantaggio di Bigiaya. Nel 1152 fu presa dagli Almohadi e l'esercito di Abd al-Mumin vi si stanziò per qualche tempo, restaurando alcuni edifici e installando un piccolo oratorio sui resti della Grande Moschea. L'ultima menzione della Q. riguarda un breve assedio con il quale gli stessi Almohadi nel 1185 la riconquistarono dopo una temporanea occupazione da parte dei Banu Ghaniya. Secondo una pratica testimoniata anche per altre città di fondazione berbera ‒ ad esempio la stessa Ashir ‒ la Q. fu costruita e popolata inizialmente attraverso trasferimenti forzati che, secondo Ibn Khaldun, interessarono gli abitanti di Msila e di Suq Hamza (Bouira). Oltre che dai Sanhagia, che probabilmente rappresentavano la classe privilegiata, parte della popolazione era costituita dai Giarawa che abitavano un quartiere a est della città dalla quale risulta isolato per mezzo di una cinta muraria. Per la corrispondenza di una serie di elementi, è possibile che questi ultimi vadano identificati con i cristiani che Paolo Diacono, nella Cronaca di Monte Cassino, indica come fondatori di una chiesa dedicata alla Vergine (Golvin 1978). Verso la fine dell'XI secolo si aggiunsero inoltre i nuovi apporti, molto eterogenei, da Kairouan, tra i quali erano presenti anche degli Ebrei.
La Q., in cui Méquesse nel 1886 riconobbe l'antica capitale hammadita, è stata oggetto di prospezioni da parte di P. Blanchet e A. Robert tra la fine dell'Ottocento e i primi del Novecento. I primi importanti lavori di scavo, condotti dal generale L. de Beylié (1907), furono concentrati sul donjon del Qasr al-Manar ("Palazzo del Faro") ‒ situato nel quartiere dei Giarawa in posizione dominante ‒, sul Qasr al-Bahr ("Palazzo del Lago") e sulla moschea, localizzati entro la cinta fortificata della città. Ulteriori dati, relativi soprattutto al Qasr al-Manar e al Qasr as-Salam ("Palazzo del Saluto"), provengono dalle campagne dirette da L. Golvin tra il 1951 e il 1962. I lavori più recenti, diretti da R. Bourouiba (1962-65), hanno portato in luce interamente il Qasr al-Manar e hanno condotto a una diversa ricostruzione della pianta della moschea rispetto a quella restituita dal de Beylié.
Il tracciato irregolare della cinta fortificata verso sud ingloba la città costruita sulle pendici del monte Taqarbust, che ne costituisce il limite settentrionale. Nonostante quest'ultimo sia provvisto di fianchi scoscesi e fornisca, quindi, una difesa naturale, le mura ne risalgono la cima e ne discendono dal lato orientale fino a raggiungere il quartiere dei Giarawa. In modo simile, sul fianco occidentale la cinta attraversa il monte el-Gorein per scendere a sud verso un wādī oltre il quale si apre la porta detta Bab al-Gianan, in direzione di Msila. Più o meno in asse con essa, a nord-est della città, si trovava la Bab al-Aqwas, mentre una terza porta, la Bab al-Giarawa, in prossimità del quartiere omonimo, si apriva a sud-est verso la piana dell'Hodna. All'esterno del tratto meridionale della cinta muraria sono situate due aree cimiteriali, in prossimità delle vie di collegamento verso Msila e verso Sidi Aissa e Burj Redir.
Nella zona sud della città si trovava la grande moschea, la cui sala ipostila a pilastri quadrangolari era provvista di una notevole maqṣūra (spazio quadrangolare circondato da una recinzione, situato di fronte al miḥrāb e riservato al sovrano), di una corte porticata e di un minareto posto al centro del lato opposto alla sala di preghiera. Questo, che si conserva per una notevole altezza, è a pianta quadrata e presenta la facciata sud ornata da una serie di rincassi a nicchie decorati con inserti di ceramiche policrome, da archi lobati intrecciati a volte terminanti in semicatini a conchiglia e da nicchie ad alveoli (muqarnas). Quest'ultimo elemento, che registra alla Q. la testimonianza più antica dell'Occidente musulmano, insieme ai semicatini a conchiglie, trova notevoli paralleli con l'architettura fatimide dell'Egitto.
Entro la cinta muraria sono compresi pure un ḥammām, una serie di palazzi privati e di case e tre gruppi palatini. Disposti su alcune alture abbastanza isolate l'una dall'altra, essi annoverano, oltre al Qasr al-Kawkab ("Palazzo della Stella"), l'esteso insieme del Qasr al-Mulk ("Palazzo del Governo"), meglio conosciuto come Qasr al-Bahr, nome derivatogli dalla presenza, fra i vari elementi di cui è costituito, di un enorme bacino artificiale (67 × 47 m) in cui si tenevano spettacoli nautici. A questo grandioso specchio d'acqua, circondato da un portico, si accedeva da est attraverso un portale monumentale, posto entro una facciata a nicchie e una volta coperto a cupola, oltre il quale si trova un elaborato complesso di stanze trasversali, alcune biabsidate. Sul lato opposto, in asse con l'ingresso, un'ampia sala (o piccola corte) affiancata da due ambienti biabsidati ora in rovina, conduce a una corte occidentale. All'esterno dell'angolo nord-ovest del grande bacino, dal portico che lo circonda si accede a un ḥammām.
Numerose costruzioni, ridotte alle fondazioni e non tutte identificabili, compongono la parte del complesso che si svolge a nord del bacino, alle spalle della zona di rappresentanza a esso connessa. Tra queste, l'edificio in cui de Belyé ha riconosciuto il palazzo privato degli emiri si presenta costituito da due unità differenziate: in quella meridionale, su due lati di una grande corte si dispongono a sud quattro file di sale strette e larghe mentre a ovest è situato il complesso cerimoniale. Formato da una sala cruciforme, probabilmente coperta a cupola, dietro un'anticamera trasversa provvista di due nicchie quadrangolari sui lati brevi, esso presenta evidenti affinità con il palazzo che gli Ziridi avevano fondato nel 947 ad Ashir. Come in quel caso la sala del trono sporge dal perimetro, anche se qui essa si svolge entro una corte esterna. A nord di questa parte di rappresentanza, dietro a un portale monumentale, si trova l'appartamento privato degli emiri con lo ḥarīm (quartiere delle donne). Qui, intorno a una corte di forma più o meno quadrata, si dispone una serie di sale lunghe e strette con un ingresso che vi dà accesso solo dalla corte stessa. Fra di esse si riconosce una sala principale caratterizzata dalla presenza di tre nicchie, due sui lati brevi e una sul lato lungo opposto all'ingresso, con cui è in asse, sporgente dal muro d'ambito. Le sale larghe, provviste di due o tre nicchie, e la disposizione planimetrica degli ambienti ricordano di nuovo il palazzo degli Ziridi ad Ashir. Questo tipo di unità abitativa, diversa dagli altri moduli che caratterizzano le architetture residenziali del resto del mondo islamico, costituisce il cosiddetto bayt ziride. Sale strette e lunghe distribuite intorno a una corte quadrata caratterizzano anche la più comune architettura domestica del Nord Africa dove, naturalmente in tono minore, questo tipo di pianta appare utilizzato a partire dal periodo della conquista musulmana sia in Algeria che in Tunisia e trova continuità ancora tra la seconda metà del X secolo e la prima metà dell'XI a Sétif (Fentress 1987). Apparentemente estraneo alla locale tradizione abitativa dei Berberi, e significativamente privo dell'īwān (sala voltata aperta frontalmente) di tradizione iranico-sasanide ‒ caratteristica invece ricorrente in varie formulazioni nell'architettura residenziale islamica del Vicino e Medio Oriente, ma anche dell'Egitto tulunide e della Spagna omayyade ‒, esso appare più strettamente legato all'architettura domestica del mondo arabo che già dovette conoscerlo prima dell'Islam e che lo diffuse nel Maghreb insieme alla nuova fede. A questo impianto si aggiunge, negli edifici della Q. e nel precedente palazzo di Ashir, la caratteristica morfologica delle sale larghe con nicchie quadrangolari, particolare che ulteriormente sottolinea l'individualità e l'autonomia di linguaggio dell'architettura palaziale nordafricana.
Caratteristiche planimetriche e costruttive del tutto simili a quelle descritte per il Qasr al-Bahr presenta anche il terzo complesso palaziale, il noto Qasr as-Salam. Di nuovo, sul lato di una corte su cui si apre la zona di rappresentanza con sala di udienza cruciforme preceduta da un'antisala trasversale, è disposta una unità residenziale del tutto simile a quella che costituisce gli appartamenti privati dell'emiro. A essa dà accesso un ingresso in avancorpo attraverso un percorso a gomito. Sia quest'ultimo sia la nicchia centrale della sala a tre alcove, che si dispone sul lato opposto, sono inseriti entro avancorpi sporgenti dal perimetro. Da notare che alla Q. gli ingressi a gomito, rispetto alle versioni più elaborate che caratterizzano sia il palazzo fatimide di Mahdiyya (911) che quello ziride di Ashir (947), sembrano in qualche modo recuperare le più semplici caratteristiche del palazzo di Raqqada in Tunisia ‒ generalmente attribuito agli Aghlabidi (876/7) ma forse, secondo A. Lézine, della seconda metà dell'VIII secolo ‒ dove questo elemento trova la più antica testimonianza del Nord Africa islamico. Come a Mahdiyya e ad Ashir, alla Q. gli ingressi a gomito sono comunque sempre connessi ad avancorpi monumentali, particolare architettonico introdotto dai Fatimidi in Ifriqiya, probabilmente per esigenze di tipo cerimoniale.
Il rinvenimento alla Q. di numerosi silos, tra cui alcuni localizzati in una zona del Qasr as-Salam, restituisce una conferma archeologica a quanto ci è tramandato da al-Idrisi sulla possibilità di questa città di conservare, anche per lungo tempo, grandi quantità di grano entro magazzini di eccellente qualità (Golvin 1978). Nel quartiere dei Giarawa sono localizzate le rovine del Qasr al-Manar, tra le quali risulta particolarmente evidente il donjon che ancora domina la zona. Si tratta di una massiccia costruzione rettangolare articolata da due corpi avanzati, le cui facciate esterne sono mosse da profonde nicchie. Al centro dell'edificio, al secondo piano, si trova una sala cruciforme in origine coperta da una cupola su alto tamburo, alla quale si accede mediante rampe inclinate interne. Gli apparati decorativi della Q. mostrano anch'essi una notevole originalità. La scultura di marmo, sia bianco che grigio, e di pietra, non scevra di riferimenti all'arte abbaside di Samarra forse attraverso una mediazione dell'Egitto tulunide, annovera numerosi frammenti di cornici, fusti di colonne, mensole, pannelli arricchiti da intarsi di colori differenti o da frammenti di ceramica invetriata, nonché una serie di belle lastre con funzione di scivolo per l'acqua (šadirwān) che sgorgava da apposite fontane per allietare e impreziosire gli interni più prestigiosi, secondo un uso testimoniato anche in Egitto, nelle case nobili del Fustat.
Un posto importante aveva anche la scultura di stucco, tecnica che, verosimilmente importata dalla Mesopotamia, era già in uso a Kairouan dal IX secolo e aveva trovato largo impiego in Ifriqiya durante il X e l'XI secolo. Come a Sabra al-Mansuriyya, ad esempio, anche alla Q. un gran numero di frammenti di stucco scolpito si presenta arricchito da pittura. Lo stucco vi risulta poi utilizzato anche per rivestimenti ‒ il cui spessore a volte supera i 10 cm ‒ per pannelli decorati ad arabeschi, per i fusti delle colonne angolari, per i capitelli, per le cupolette costolonate, per merli decorativi e infine per claustra arricchiti da vetri colorati. Risultano poi diffusi anche i più tipici elementi di transizione a muqarnas, anch'essi spesso arricchiti da una decorazione dipinta. È ancora questione aperta se essi rappresentino una creazione autonoma del Nord Africa dell'XI secolo oppure una importazione, poiché esempi più antichi sono testimoniati nei territori orientali del dār al-islām nel mausoleo di Arab Ata a Tim (regione di Samarcanda), datato al 977/8. In ogni caso i reperti della Q. dimostrano chiaramente che nell'XI secolo i muqarnas facevano parte del vocabolario architettonico anche di quest'area, da dove passarono non solo al Marocco ma anche all'architettura normanna di Sicilia, il cui esempio più straordinario è a Palermo nel soffitto della navata centrale della Cappella Palatina fondata nel 1132 da Ruggero II e consacrata nel 1140 (il soffitto daterebbe, però, al 1143). Anche la ceramica compare tra i materiali usati per la decorazione architettonica. Gli scavi della Q. hanno infatti restituito numerose mattonelle invetriate o dipinte su ingobbio, di forme varie, dal cui incastro si ottenevano rivestimenti di diverso tipo. Degna di particolare menzione è poi una serie di lunghi parallelepipedi di ceramica provvisti di fori nella parte terminale, i quali venivano probabilmente appesi al soffitto o alle cornici in modo simile a stalattiti. Altri numerosi ritrovamenti testimoniano l'esistenza alla Q. di manifatture di alto valore e di un artigianato vario e talvolta piuttosto colto che, secondo Golvin, tradiscono una doppia influenza dall'Oriente e dalla Spagna. L'abbondante ceramica eseguita nelle tecniche più diverse, gli oggetti di bronzo lavorato, i gioielli d'oro e d'argento, i cristalli intagliati e i vetri colorati che si aggiungono alle numerose sculture su marmo, su pietra e su stucco sono i frutti di una fioritura artistica che trova spiegazione nell'opulenza della città descritta dagli storici e dai geografi.
Difficile la collocazione cronologica di tutti gli aspetti che riguardano il complesso della Q. poiché gli Hammaditi spesso alternarono la loro residenza tra questa città sulle montagne e Bigiaya, sulla costa. D'altra parte, con la rovina di Kairouan e di Sabra al-Mansuria a opera dei Banu Hilal, la Q. divenne un ricco centro per un certo periodo, finché non fu essa stessa travolta dall'invasione, ma è anche probabile che al suo interno la vita sia continuata fino alla distruzione finale operata dagli Almohadi nel 1152. Se risulta di difficile comprensione anche il significato cerimoniale o simbolico di molti dei suoi edifici, nell'insieme la Q. appartiene tipologicamente a un tipo di insediamento sparso che trova particolare diffusione nel mondo islamico soprattutto a partire dall'esempio abbaside di Samarra. Fu probabilmente dagli esempi di questo tipo diffusi nel Nord Africa, caratterizzati da una particolare enfasi nelle sistemazioni di piacere e svago, che trasse ispirazione nel XII secolo l'architettura palatina della Sicilia normanna, dove i cosiddetti "sollazzi" della Cuba e della Zisa a Palermo testimoniano dell'uso di padiglioni e palazzi di piacere posti al centro di giardini esotici. Le costruzioni arabo-normanne (XII sec.) presentano, nonostante la distanza cronologica, anche numerosi altri punti di contatto con quelle della Q. (XI sec.) e del precedente palazzo ziride di Ashir (X sec.): la netta stereometria dei volumi articolati dall'aggetto degli avancorpi, la movimentazione delle lisce facciate in calcare ben squadrato attraverso grandi archeggiature cieche e rincassi duplici o triplici per inquadrare le finestre. Anche le planimetrie delle sale di rappresentanza della Zisa e della Cuba come quelle del palazzo dell'Uscibene costituiscono un punto di contatto tra le citate realtà architettoniche. Il confronto appare ulteriormente sottolineato dall'uso, ad esempio nella Zisa e nella Cuba, di šadirwān attraverso cui l'acqua che sgorgava da una fontana posta sul fondo della nicchia centrale scivolava entro le apposite strutture di canalizzazione che attraversavano la sala nobile. Quello della Zisa, ancora in situ, era, secondo le fonti, rivestito da un mosaico che rappresentava pesci, motivo che scolpito in pietra decora una delle lastre recuperate alla Q.; queste ultime sono spesso ornate da un rilievo a zig-zag che serviva a dare movimento al velo d'acqua, come quella che troviamo rappresentata in una delle scene dipinte nel soffitto della Cappella Palatina di Palermo. L'architettura normanna impiegò quindi diffusamente questo particolare sistema che dovette derivare dalle costruzioni islamiche, come quelle testimoniate alla Q., fatto che troverebbe ulteriore conferma anche in quanto è stato ipoteticamente ricostruito per l'edificio termale di Cefalà Diana (Palermo), databile alla seconda metà del XII secolo. Alcuni dati acquisiti durante le recenti indagini archeologiche condotte all'interno di questa costruzione, con funzione diversa da quella residenziale ma in qualche modo connessa al piacere, permetterebbero di ipotizzare che il passaggio dell'acqua, dalla zona "nobile" in prossimità della sorgente calda alla grande piscina per le immersioni, potesse avvenire attraverso un piano inclinato.
Méquesse, Notices sur la Kalaa des Beni-Hammad, in RAfr, 30 (1886), pp. 249-311; P. Blanchet, Rapport sur les travaux exécutés à la Kalaa des Beni-Hammad, in RecConstantine, 32 (1889), pp. 97-116; A. Robert, Ruines berbères hammadites. La Kalaa et Tihamanine, in Revue de la Société Archéologique de la Province de Constantine, 1903, p. 217 ss.; H. Saladin, Description des monuments de la Kalaa des Beni-Hammad, in Nouvelles Notices des Missions scientifiques, 17 (1904-1905), pp. 1-21; L. de Beylié, La Kalaa des Beni-Hammad, Paris 1907; A. Robert, La Kalaa des Beni-Hammad, in RAfr, 6 (1907), p. 291 e ss.; G. Marçais, La Kalaa des Beni Hammâd, in RecConstantine, 42 (1908), pp. 161-87; Id., Les poteries et faïences de la Qal'a des Benî Ḥammâd (XIe siècle), Constantine 1913; Id., Album de pierre, plâtre et bois sculptés, Alger 1916; Id., Manuel d'Art musulman, I, Paris 1926, pp. 95, 202; P. Lojacono, L'organismo costruttivo della Cuba alla luce degli ultimi scavi, in Palladio, n.s., 3 (1953), pp. 1-6; G. Marçais, L'architecture musulmane d'Occident. Tunisie, Algérie, Maroc, Espagne et Sicile, Paris 1954, pp. 63, 127; L. Golvin, Le Magrib central à l'époque des Zirides, Paris 1957; Id., Note sur quelques fragments de plâtre trouvés à la Qal'a des B. Ḥammad, in Mélanges d'Histoire et d'Archéologie de l'Occident musulman, II. Hommage à G. Marçais, 2, Algers 1958, pp. 75-94; R. Bourouiba, Rapport préliminaire sur la campagne de fouilles de Septembre 1964 à la Qal'a des Bani Hammad, in Bullettin d'Archéologie d'Alger, 1 (1962-65), pp. 243, 261; L. Golvin, Recherches archéologiques à la Qal'a des Banu Ḥammad, Paris 1965; Id., s.v. Ḳal'at Banī Ḥammād, in EIslam2, IV, 1978, pp. 499-503, tavv. XXI-XXV; U. Scerrato, Arte islamica in Italia. L'architettura, in F. Gabrieli - U. Scerrato (edd.), Gli Arabi in Italia, Roma 1979, pp. 307-42; E. Ettinghausen - O. Grabar, The Art and Architecture of Islam: 650-1250, New Haven - London 1987, pp. 171-72; E. Fentress, The House of the Prophet: North African Islamic Housing, in AMediev, 14 (1987), pp. 47-68; A. Bagnera, Le cosiddette "Terme arabe" di Cefalà Diana (Palermo). Relazione preliminare sulle indagini archeologiche, in Atti delle III giornate internazionali di studi sull'area elima (Ghibellina - Erice - Contessa Entellina, 23-26 ottobre 1997), Pisa 2000, pp. 57-78; Ead., L'Islam e le Terme di Cefalà Diana. Nuovi dati archeologici e questioni aperte, in M.V. Fontana - B. Genito (edd.), Studi in onore di Umberto Scerrato per il suo settantacinquesimo compleanno, I, Napoli 2003, pp. 35-76.
di Federico Cresti
Sito archeologico (ar. Sadrāta) nel Sahara algerino e oggi interamente in rovina. Sviluppatosi agli inizi del X secolo, fu uno dei principali centri kharigiti del Maghreb centrale, in un'epoca che tra la seconda metà dell'VIII e l'XI secolo vide in questo territorio la diffusione di emirati locali o la costituzione di vere e proprie dinastie islamiche di obbedienza scismatica.
S. nacque dalla rovina di Tahert, dove per più di un secolo aveva regnato la dinastia di origine persiana dei Rustamidi, distrutta nel 908/9 dalle truppe dell'emiro fatimide Abu Abd Allah: una parte della popolazione cercò rifugio presso i Berberi Isedraten, dando origine a un nuovo insediamento non lontano da Wargilan (od. Ouargla), in un territorio desertico circa 600 km a sud del litorale mediterraneo. S. fu distrutta a sua volta nel 1074 (o 1077) dagli emiri della Qala dei Banu Hammad e la sua popolazione si spostò a ovest, nella valle dello Mzab; la distruzione non fu tuttavia totale, se si da credito a un manoscritto arabo, oggi perduto, secondo il quale l'abbandono definitivo sarebbe avvenuto nel corso del XIII secolo. All'epoca della sua fioritura S. raggiunse dimensioni notevoli: le sue rovine si estendono per oltre 2 km di lunghezza. Sembra tuttavia che si trattasse di un insieme discontinuo di costruzioni, come tra l'altro afferma una tradizione locale, che parla di un'agglomerazione formata da più di 100 villaggi. Gli edifici noti di S., oggetto di scavi tra il 1881 e il 1952, sono per la maggior parte abitazioni civili, alcune delle quali riccamente decorate; sono costruiti in muratura di blocchi di pietra e timchent, un legante ancora oggi in uso nella regione, costituito da gesso grigio locale e sabbia, intonacato da uno strato di quest'ultimo materiale. Sembra che fosse piuttosto diffuso l'uso della volta a botte per la copertura degli ambienti, in generale disposti nel senso della lunghezza intorno a un cortile che costituiva il centro dell'abitazione. Ugualmente diffusi erano l'arco a ferro di cavallo e l'arco rialzato su pilastri rettangolari o cilindrici. Molti degli elementi architettonici di S. si ricollegano ai modi di costruire del IX secolo in Ifriqiya, mentre altri si incontrano in alcuni edifici del Cairo (moschea di Ibn Tulun e moschea fatimide di al-Hakim) o in edifici civili di al-Fustat e di Samarra.
L'esame della decorazione architettonica, costituita nella quasi totalità da stucchi scolpiti con uno strumento di legno o di metallo a formare figure geometriche, ornamenti floreali o iscrizioni beneagurali, ha fatto trarre diverse conclusioni agli studiosi che vi hanno di volta in volta riconosciuto echi dell'arte bizantina (Blanchet 1898), sopravvivenze orientali dell'area persiana e mesopotamica (Van Berchem 1952b) o apporti culturali diversi e sopravvivenze di un'arte rurale propriamente africana di più lontana origine (Marçais 1954).
Abu Zakariyya, Chronique d'Abou Zakaria (Livre des Benî Mzab) (ed. E. Masqueray), Alger 1878; H. Tarry, Excursion archéologique dans la vallée de l'oued Mya, in Revue d'Ethnographie, 2 (1883), pp. 21-34; Id., Les villes berbères de la vallée de l'oued Mya, ibid., 3 (1884), pp. 1-44; P. Blanchet, Notes sur les fouilles de Sedrata, in CRAI, s. IV, 26 (1898), pp. 520-21; Id., L'oasis et le pays de Ouargla, in Annales de géographie, 9 (1900), pp. 141-58; G. Marçais, Art chrétien d'Afrique et art berbère, in AnnOrNap, n.s., 3 (1949), pp. 63-75; Ch.-A. Julien, Histoire de l'Afrique du Nord. De la conquête arabe à 1830, Paris 19522 (ed. or. 1931), pp. 33-39; M. Van Berchem, À la recherche de Sedrata, in G.C. Miles (ed.), Archaeologica Orientalia in memoriam Ernst Herzfeld, Locust Valley 1952, pp. 21-31; Id., Deux campagnes de fouilles à Sedrata en Algérie, in CRAI, 1952, pp. 242-46; Id., Sedrata. Un chapitre nouveau de l'histoire de l'art musulman. Campagnes de 1951 et 1952, in ArsOr, 1 (1954), pp. 157-62; G. Marçais, L'architecture musulmane d'Occident. Tunisie, Algérie, Maroc, Espagne, Sicile, Paris 1954, pp. 55-59; R. Bourouiba, Note sur une vasque de pierre trouvée au Palais du Manar de la Qal'a des Bani Hammad, in BAAlger, 5 (1971-74), pp. 235-45; Id., L'architecture militaire de l'Algérie médiévale, Alger 1983, pp. 51-52; Id., Apports de l'Algérie à l'architecture religieuse arabo-islamique, Alger 1986, p. 5; G. Curatola - G. Scarcia, Le arti nell'Islam, Roma 1990, p. 67.
di Elisabeth Fentress
Cittadina (lat. Sitifis; ar. Saṭīf), in origine colonia romana, capitale della provincia tardoromana della Mauretania Sitifensis, poi rioccupata in periodo islamico.
L'imponente fortezza costruita dal generale Solomon intorno al 530 d.C. dimostra che la città fu una roccaforte bizantina. Sebbene sicuramente occupata nel VII secolo, le fonti che si riferiscono ai primi due secoli dopo la conquista islamica non menzionano la città di S. Possiamo comunque supporre che il forte fosse rimasto occupato in qualche modo. Nella zona a nord del forte, gli scavi del 1977-81 hanno portato alla luce tracce discontinue di occupazione tra le rovine di un bagno romano: focolari, buche e superfici interrate. Nel X secolo l'area venne utilizzata per la costruzione di larghi silos, profondi fino a 2 m, che potrebbero essere connessi con una zona di mercato o forse con un granaio collettivo, sebbene durante gli scavi non siano state trovate mura difensive.
La fase costruttiva iniziale appartiene alla fine del X secolo, quando le prime abitazioni furono edificate nella zona meridionale, circostanza che rafforza l'ipotesi che l'occupazione si fosse diffusa a partire dall'area della fortezza bizantina. Accanto a esse furono edificate altre case, orientate in senso est-ovest e collegate da un tessuto urbanistico irregolare che prevedeva lo sviluppo di strade nella stessa direzione. Le abitazioni presentavano tutte una pianta simile: ali laterali, che comprendevano due o tre lunghe camere, circondavano cortili con pavimentazione irregolare che solitamente avevano un pozzo e un piccolo silos domestico. Ogni casa poteva avere da una a quattro ali laterali ed estendersi per 400 m2. Dove è stato possibile osservare la struttura delle entrate, queste risultano essere del tipo a baionetta, in modo che il cortile non fosse visibile dalla strada. Le stanze non erano comunicanti l'una con l'altra e tendevano solitamente ad avere la stessa pianta: a volte presentavano un basso gradino rialzato che demarcava l'area del dīwān e che veniva utilizzato per sedersi o per dormire. Focolari esterni suggeriscono che gran parte dell'attività legata alla cucina avvenisse all'esterno, sebbene due delle abitazioni li avessero all'interno delle stanze. Altre stanze venivano scaldate per mezzo di bracieri che hanno lasciato lievi tracce di bruciato sui pavimenti. Una delle abitazioni possedeva una latrina con un sistema di scarico che defluiva nella strada. Di norma gli edifici erano composti da un solo piano, sebbene in un caso una scala esterna possa suggerire l'esistenza di un accesso a un tetto piano o a un secondo piano.
Le tecniche di costruzione erano generalmente simili e prevedevano mura in pisé su fondazioni di pietra. Le prime abitazioni tendevano a usare per le fondazioni materiale di spoglio proveniente dalla città romana, ma le mura costruite in un periodo più tardo utilizzavano una muratura a corsi irregolari. La pavimentazione interna era intonacata con una mistura di calce e argilla che rendeva la superficie levigata e di un colore giallino. Lo stesso intonaco era applicato ai muri in pisé con l'intento di proteggerli dalle piogge relativamente frequenti. Nelle prime fasi dell'occupazione islamica il 40% del vasellame era costituito da terracotte da cucina. Anfore realizzate con il tornio erano molto comuni e a esse si aggiungono alcune brocche non invetriate di buona qualità che presentano dei filtri al di sotto dell'orlo; solamente due frammenti ceramici invetriati appartenenti a questa fase sono stati recuperati. Durante l'XI secolo l'importanza del vasellame realizzato a mano decrebbe sostanzialmente e la ceramica invetriata si diffuse più ampiamente. D'altra parte nell'ultima fase del sito le brocche con filtri sembrano scomparire. Poco materiale importato è stato rinvenuto: due esemplari di ceramica dipinta a lustro metallico, alcuni frammenti ceramici invetriati che per tipologia possono essere comparati a quelli rinvenuti nella Qala dei Banu Hammad e ceramica dipinta figurata di tipo fatimide, probabilmente importata dall'Ifriqiya. Nei ritrovamenti di origine organica si intravvede una certa evoluzione: i semi associati ai grani rinvenuti nei silos testimoniano l'allargamento progressivo di una vegetazione stepposa. Ciò potrebbe essere connesso a un decisivo aumento delle ossa di caprovini. Un altro chiaro segno di cambiamento è rappresentato dall'uso di grano duro che ampiamente sostituì l'orzo più comunemente usato nel periodo romano.
Poco sappiamo della pianta del resto della città. Alcuni disegni del XIX secolo mostrano le rovine di un grande edificio situato accanto alla torre nord-orientale della fortezza: questa struttura, vicina al centro cittadino, potrebbe essere interpretata come la moschea congregazionale in cui avvenivano le riunioni per la preghiera collettiva del venerdì. Un sondaggio fatto nella zona meridionale dell'area dello scavo ha messo in luce il muro perimetrale di un largo bacino (diam. 30 m ca.) bordato con larghi blocchi di pietra. Questa struttura può essere messa in relazione con altre opere idrauliche dello stesso periodo, come, ad esempio, i "bacini degli Aghlabidi" di Kairouan fatti edificare dall'emiro aghlabide Abu Ibrahim Ahmad nell'862 circa. La città continuò a espandersi per tutta la prima metà dell'XI secolo. L'allargamento fu a questo punto interrotto dalla costruzione di un bastione di difesa che circondò la città partendo dal forte bizantino e includendo un'area di circa 15 ha. La sua edificazione potrebbe essere avvenuta in modo precipitoso, dato che tre abitazioni sul perimetro settentrionale del sito furono abbattute appunto per creare lo spazio necessario. Il registro inferiore delle mura era rivestito da pietra tagliata recuperata da edifici romani, mentre la parte superiore utilizzava con ogni probabilità il pisé de terre, un composto di terra, ciottoli e fibre vegetali. Torri a sezione quadrangolare si alternavano a intervalli regolari e la cinta muraria era circondata da un fossato scavato a 2-3 m di distanza. La datazione di queste mura è ancora incerta. Lo storico al-Bakri, che scrive nel 1068, sostiene che la città fosse priva di mura, sebbene la sua informazione potrebbe anche non essere aggiornata.
Nell'area interessata dagli scavi fu rinvenuta anche una piccola tomba addossata al bastione. Relativamente ben costruita, consisteva di un ambiente quadrato al cui interno era presente una superficie d'intonaco che rivestiva probabilmente la sepoltura. In essa furono rinvenuti alcuni oggetti che apparentemente facevano parte del corredo funerario: uno specchio, una cintura metallica e un pugnale. Si trattava evidentemente della tomba di un santo, o marabūt, addossata alle mura con funzione simbolicamente protettiva. La distruzione del bastione avvenne, pare, poco tempo dopo la sua costruzione. Il fossato fu riempito dal collasso delle mura, mentre la caduta regolare dei blocchi di pietra potrebbe suggerire un crollo intenzionale, forse procurato da un ariete. Leone Africano ci racconta che le mura furono distrutte dagli Arabi, nel qual caso si tratterebbe forse degli Arabi della tribù dei Banu Hilal che irruppero nel Maghreb nell'XI secolo. Sembrerebbe che gli edifici abbandonati siano lentamente andati in rovina e che la parte settentrionale del sito sia stata occupata da un cimitero dedicato a sepolture di infanti e da alcune tombe disseminate nell'area. Un dato è rappresentato dal fatto che nessun tipo di ceramica rinvenuta può essere datato a un periodo posteriore al XII secolo.
al-Bakri, Kitāb al-masālik wa'l-mamālik (ed. W. Mac Guckin de Slane, Description de l'Afrique septentrionale, Alger 1911-13); A. Mohamedi, Information sur les découvertes récentes en céramique médiévale effectuées à Sétif (Algérie), in G. Démains d'Archimbaud - M. Picon (edd.), La céramique médiévale en Méditerranée occidentale. Xe-XVe siècles, Paris 1980, pp. 219-20; al-Idrisi, Kitāb nuzhat al-muštāq fī'ḫtirāq al-āfāq (ed. M. Hadj-Sadok, Le Magrib au 12e siècle de l'Hégire (6e siècle après J.-C.), Paris 1983); E. Fentress, The House of the Prophet. Islamic Housing in North Africa, in AMediev, 14 (1987), pp. 47-69; Ead., Fouilles de Sétif 1997-1983, in BAAlger, suppl. 5 (1991); Ead., Sétif. Evolution d'un quartier, in A. Bazzana (ed.), La maison hispano-musulmane. Les apports de l'archéologie, Granada 1991, pp. 163-76; Ead., The Mirror and the Knife. Ambiguity in an Eleventh Century Tomb, in BAParis, 20 (1993), pp. 227-33.
di Elisabeth Fentress
Città (ar. Tāhart) situata nel Sud dell'Algeria; fu fondata nel 761 da Abd ar-Rahman ibn Rustam, personaggio di origini persiane e di fede musulmana kharigita che vi si rifugiò dopo essere stato per un periodo governatore di Kairouan.
La città divenne la capitale di uno Stato di una certa importanza che sopravvisse in misura relativa fino alla conquista da parte dei Fatimidi nel 909. Successivi attacchi nel 973 e nel 984 completarono la distruzione della città. T. fu fondata su un territorio a circa 8 km dall'antica città romana. La leggenda tramanda che Ibn Rustam scelse per la fondazione una radura in mezzo a una foresta, che ancora oggi occupa parte del territorio intorno alla città. Nonostante ciò, alcuni ritrovamenti di materiale di epoca romana fanno sorgere alcuni dubbi sulla verginità del suolo.
La città occupava due altipiani paralleli separati da una vallata attraverso cui oggi passano una strada moderna e la ferrovia. Grandi quantità d'acqua erano prodotte da abbondanti sorgenti e da un fiume perenne dalla portata sufficiente a far funzionare i mulini che, dal nome di una delle porte della città, sappiamo esistevano a T. La città era nota per l'austerità caratteristica degli insediamenti ibaditi. Ciò nonostante essa cominciò ad attrarre una popolazione numerosa, incrementando gradatamente la sua ricchezza tramite il commercio e un'agricoltura fiorente. La città era divisa in quartieri occupati da gruppi tribali o provenienti dalla medesima regione: i suoi abitanti venivano dalla città di Kairouan, da aree ibadite come Basra e il Gebel Nefusa, mentre una parte era costituita da tribù berbere. Ognuno di questi gruppi aveva una propria moschea e bagni. Esisteva inoltre una cittadella, sebbene non sia stato possibile individuare la zona in cui si trovava. I cittadini delle classi più ricche possedevano fattorie nelle campagne, fatto noto anche per altri insediamenti ibaditi di periodo più tardo come quello di Mzab.
La parte settentrionale dell'insediamento è ben visibile dalle foto aeree: occupa 8 ha ed era difesa da una cerchia di mura di pisé de terre con bastioni di sezione quadrangolare. Sull'altipiano meridionale si trova un ampio edificio a pianta rettangolare che G. Marçais, il quale vi condusse gli scavi nel 1941, identificò come la qaṣba, o fortezza. D'altra parte, P. Cadenat, che riprese gli scavi del sito nel 1958, identificò con certezza l'edificio con la fortezza costruita dal ribelle Amir Abd al-Kader nel XIX secolo. Resti di strutture appartenenti al primo periodo islamico sono ancora visibili sulla collina meridionale, sotto la città moderna. Per certo le dimensioni della città, che le fonti attestano a 88 ha, implicano che ambedue i lati dell'altipiano fossero occupati. Sull'altura settentrionale, dove foto aeree mostrano la presenza di abitazioni separate da strade regolari, i sondaggi di Cadenat hanno rivelato stretti ambienti pavimentati con un misto di intonaco e frammenti di piastrelle ceramiche. L'intonaco si era conservato anche sulle pareti. I tetti erano poi rivestiti di embrici, mentre nella costruzione erano usati alcuni mattoni. In quest'area i rinvenimenti di materiale furono estremamente esigui e vennero di fatto recuperati solo alcuni frammenti di ceramica invetriata. Un altro sondaggio effettuato nella vallata ha rivelato la presenza di un cimitero. Le tombe non avevano sovrastrutture o segni d'identificazione e nelle sepolture i corpi erano seppelliti con la testa rivolta verso occidente.
Abbondanti rinvenimenti ceramici suggeriscono che la zona sia stata utilizzata come discarica. Nessun esemplare di ceramica invetriata fu però ritrovato nell'area cimiteriale. Nelle vicinanze G. Marçais identificò un elaborato complesso di cisterne con canali che si immettevano in fontane. Si attendono i risultati degli scavi che le autorità algerine hanno effettuato nei primi anni Ottanta del Novecento e che non sono stati ancora pubblicati.
Bibliografia
al-Bakri, Kitāb al-masālik wa'l-mamālik (ed. W. Mac Guckin de Slane, Description de l'Afrique septentrionale, Alger 1911-13); G. Marçais - A. Dessus-Lamare, Recherches d'archéologie musulmane. Tihert-Tagdempt (août-septembre 1941), in RAfr, 90 (1946), pp. 24-57; Kitāb al-Istibṣār (ed. A.H. Saad Zaghloul, Description de la Mekke et de Médine, de l'Egypte et de l'Afrique septentrionale), Iskandariyya 1958; Ibn as-Saghir, Aḥbār al-a'imma al-rustamiyyīn (ed. A. de Colassanti Motylinsky, Chronique d'Ibn Saghir sur les Imams Rostemides de Tahert, in Actes du XIVe Congrès International des Orientalistes, Paris 1908, pp. 3-132, testo arabo ripubblicato in CahTun, 91-92 (1975), pp. 315-68); P. Cadenat, Recherches à Tihert-Tagdemt, 1958, 1959, in BAAAlger, 7 (1977-79), pp. 393-421; M. Talbi, s.v. Tahart, in EIslam2, X, 2002, pp. 107-108.
di Federico Cresti
Città (ar. Tilimsān) dell'Algeria occidentale non lontana dal confine con il Marocco.
Erede della romana Pomaria, della berbera Agadir, dell'almoravide Tagrart e della merinide Mansura, islamizzata alla fine dell'VIII secolo, T. in epoca abdalwadide (XII-XIII sec.) fu capitale di un vasto regno e fino al XVI secolo fu, in virtù della sua posizione geografica, un grande centro di traffici maghrebini e trans-sahariani, in contatto con l'Europa attraverso il porto di Hunayn, nonché sede di manifatture tessili e di famose scuole. L'edificio più importante di T. è la Grande Moschea, raro esempio di architettura almoravide, dalla pianta irregolare, dovuta probabilmente al rispetto di preesistenze. In effetti, se a sud la sala di preghiera (costituita da 13 navate perpendicolari al muro della qibla, indicante la direzione della Mecca) ha una forma rettangolare, a nord un perimetro trapezoidale racchiude un cortile, con riwāq (portico), e il minareto, a base quadrata, in posizione asimmetrica rispetto all'asse dell'insieme. Tali irregolarità hanno portato gli studiosi (Marçais 1949-50; Golvin 1966; Bourouiba 1973) a interpretare diversamente la storia dell'edificio: l'ipotesi più verosimile riconosce nella sala di preghiera un'opera unitaria terminata nel 1136 sotto Ali ibn Yusuf, con aggiunte successive come il minareto (ca. 1236) e tutta la parte più settentrionale. La sala di preghiera è coperta da tetti paralleli a doppio spiovente che mostrano una carpenteria molto semplice; la navata centrale, più ampia, è sormontata a intervalli regolari da arcature polilobate e da due cupole a nervature incrociate, con lavorazione a traforo e nicchie a muqarnas (nicchie ad alveoli). Il miḥrāb (nicchia di preghiera), con ricche decorazioni geometriche e floreali accostabili a quelle dell'Aljaferia di Saragozza, è l'unico di epoca almoravide conservatosi intatto: costituisce uno dei più antichi esempi di nicchia per preghiera a pianta esagonale. Parti della decorazione lignea almoravide sono conservate nel Museo di T. Nel suo insieme la moschea è stata giudicata un felice connubio tra le arti dell'Iran e della Spagna musulmana.
Stilemi ispano-moreschi si incontrano nella moschea di Sayyidi Abu al-Hasan, costruita nel 1296 sotto l'abdalwadide Abu Said Uthman. Si tratta di una sala di preghiera quadrangolare con tre navate sostenute da colonne di onice: i soffitti artesonados di legno di cedro (danneggiati da un incendio e restaurati all'inizio del Novecento) presentano elaborati intrecci policromi. Pannelli di stucco scolpito e decorazioni di ceramica arricchiscono la sala di preghiera e il minareto, facendone una delle opere più affascinanti rimaste dell'epoca moresca (Marçais 1954). Alle distruzioni coloniali sfuggirono le moschee Ulad al-Imam (1310) e Sayyidi al-Halawi (1353); rimangono inoltre vestigia delle mura di epoca almohade (XII sec.), alcune porte e la grande vasca (ṣahrīǧ al-kabīr) costruita da Abu Tashufin (1318-1337), profonda 5 m circa e con una superficie di 2 ha. Altri importanti monumenti merinidi trecenteschi fuori dalle mura della T. medievale appartengono al sito di Mansura e consistono di parti cospicue di una cinta muraria che si sviluppava per 4 km circa e di una grande moschea di cui rimane la facciata settentrionale del minareto, alta 38 m. Un altro edificio dell'epoca merinide è la moschea di Sidi Bu Madyan presso il villaggio di al-Ubbad (2 km ca. a sud-est di T.), costruita nel 1339, durante il sultanato di Abu'l-Hasan, presso la tomba di un uomo di origine andalusa considerato santo e lì sepolto oltre un secolo prima. Vicino alla moschea si innalza una madrasa, costruita nel 1347, unico edificio di questo tipo rimasto a T.
C. Brosselard, Inscriptions arabes de Tlemcen, in RAfr, 3-6 (1858-62); J.-J.-L. Bargès, Tlemcen, ancienne capitale du royaume de ce nom, Paris 1859; Id., Complément de l'histoire des Beni Zeiyan, Paris 1887; W. Marçais - G. Marçais, Les monuments arabes de Tlemcen, Paris 1903; W. Marçais, Musée de Tlemcen, Paris 1906; A. Bel, Tlemcen et ses environs, Oran 1909; Id., Un atelier de poteries et faïences au Xe siècle après J.C. découvert à Tlemcen, Constantine 1914; G. Marçais, Tlemcen, città reale, in L'Africa Italiana, 54 (1934), pp. 147-56; J.-J.-L. Bargès, s.v. Tlemcen, in EIslam, IV, 1939, pp. 843-47; G. Marçais, Sur la Grande Mosquée de Tlemcen, in AnnInstEtOr, 8 (1949-50), pp. 266-77; Id., Tlemcen, Paris 1950; Id., L'architecture musulmane d'Occident. Tunisie, Algérie, Maroc, Espagne, Sicile, Paris 1954, pp. 192-97, 264-65, 272-77, 290-91; Id., s.v. ῾Abd al-Wādides, in EIslam2, I, 1960, pp. 95-97; L. Golvin, Quelques réflexions sur la Grande Mosquée de Tlemcen, in ROccMusulm, 1 (1966), pp. 81-90; R. Bourouiba, L'art religieux musulman en Algérie, Alger 1973; L. Golvin, Essai sur l'architecture religieuse musulmane, IV, Paris 1979, pp. 181-89; S.A. Bouali, Les deux grands sièges de Tlemcen, Alger 1984; A. Dhina, Le royaume abdelouadide à l'époque d'Abou Hammou Moussa Ier et d'Abou Tashufin Ier, Alger 1985; R. Bourouiba, Apports de l'Algérie à l'architecture religieuse arabo-islamique, Alger 1986.
di Elisabeth Fentress
Il sito di Agadir, prima città islamica di Tlemcen, sorse sulle pendici di una collina che domina una vasta pianura bagnata dal fiume Tafna. Perenni e abbondanti sorgenti fornivano l'irrigazione necessaria a sviluppare una fiorente agricoltura, come suggerisce d'altronde il nome romano di Pomaria, "orti". La città sembra essere sopravvissuta alla fine del periodo romano e nel terzo quarto dell'VIII secolo è sede di governatori kharigiti. Successivamente cade sotto il dominio degli Idrisidi: le fonti tramandano che la Grande Moschea fu fondata da Idris I (789-791) nel 790, sebbene Ibn Khaldun la attribuisca a Idris II (803-828). Al tempo di al-Bakri (XI sec.) ancora esisteva una cospicua comunità cristiana con una chiesa e un acquedotto che riforniva la città. Il sito venne conquistato nel 1081 dall'almoravide Yusuf ibn Tashufin, il quale trasferì il centro cittadino a Tagrart, a ovest di A.
La Grande Moschea di A. s'imposta a cavallo di un robusto muro difensivo di pisé de terre: questo sembra delineare il limite della città romana che occupava la parte settentrionale del ben difeso plateau. È stato proposto che la città islamica fosse stata edificata sulle pendici superiori a sud della cinta muraria. La moschea sarebbe dunque sorta nel punto in cui le due comunità, quella originaria e quella dei nuovi conquistatori, s'incontravano. Gli scavi archeologici condotti negli anni 1973-74 hanno riportato alla luce gran parte delle mura della moschea; sono stati rinvenuti un miḥrāb (nicchia di preghiera) a pianta poligonale e una nicchia predisposta per riporre il minbar (pulpito) dopo le funzioni religiose, come è tipico delle moschee maghrebine antiche. L'edificio a pianta quadrangolare è leggermente irregolare misurando 35,55 × 40,55 m per lato. Venne costruito con pietra tagliata accuratamente, con abbondante utilizzo di materiale di spoglio proveniente dalla città romana. Pilastri di mattoni e tetti rivestiti di piastrelle ceramiche indicano l'attività di manifatture artigiane. La pavimentazione era realizzata con malta e calce. Il minareto quadrato, di buona fattura e tuttora esistente, venne costruito tra il 1236 e il 1283; è costituito da un basamento di pietra su cui s'imposta la struttura di mattoni cotti che presenta una decorazione tipica di questo periodo realizzata in mattoni a rilievo con elaborati motivi intrecciati e inserzioni di terracotta rivestita d'invetriatura verde a motivi floreali; il piano superiore è decorato da nicchie cieche e sormontato da una piccola lanterna. Nella documentazione del sito è riportata la presenza di un piccolo ḥammām, ma nessuno studio specifico è stato finora intrapreso.
al-Bakri, Kitāb al-masālik wa'l-mamālik (ed. W. Mac Guckin de Slane, Description de l'Afrique septentrionale, Alger 1911-13); Ibn Hawqal, Kitāb ṣurat al-arḍ (edd. J.H. Kramers - G. Wiet, Configuration de la terre, Beyrouth - Paris 1964); S. Dahmani - A. Khalifa, Les fouilles d'Agadir. Rapport préliminaire. 1973-1974, in BAAlger, 6 (1975-1976), pp. 243-65; Ibn Khaldun, Kitāb al-῾ibar (ed. P. Casanova, Histoire des Berbères et des dynasties musulmanes de l'Afrique septentrionale, Paris 1982); S. Dahmani, Note sur un exemple de permanence de l'habitat et de l'urbanisme de l'époque antique à l'époque musulmane: Agadir-Tlemcen, in S. Lancel (ed.), Actes du IIe colloque international sur l'histoire et l'archéologie de l'Afrique du Nord (Grenoble, 5-8 avril 1983), pp. 437-49.