L'Africa islamica: Marocco
di Ronald Messier
Il Marocco è per i musulmani il paese del tramonto del Sole (al-maġrib al-aqṣā), la terra più occidentale del mondo islamico.
Uno dei temi centrali della vita politica del Marocco è stata la distinzione geografica tra le terre controllate dal governo centrale, dette bilād al-maḫzan ("terra dei magazzini") e quelle non soggette a tale controllo. Le terre governate direttamente dal potere centrale erano per la maggior parte concentrate a nord-ovest dell'Atlante; le montagne stesse e i territori al di là di queste appartenevano al bilād as-siba, o "terra senza leggi". D.M. Hart chiarisce che la differenza fondamentale tra i due territori si realizzava nel pagamento o meno delle tasse, ipotesi sostenuta peraltro anche dal noto storico arabo medievale Ibn Khaldun.
La fondazione di Kairouan da parte del comandante arabo Uqba ibn Nafi costituisce il punto di partenza della storia islamica del Nord Africa: da questo momento avrà inizio quel processo di islamizzazione e arabizzazione che definirà le due caratteristiche principali che si andranno a sovrapporre al substrato berbero del Maghreb. La campagna di guerra di Uqba ibn Nafi lo porterà in Marocco nel 681. La leggenda racconta che il comandante, gettatosi nelle acque dell'Atlantico, avesse pregato Allah e dichiarato che se non fosse stato fermato dalle acque del mare avrebbe portato la bandiera della verità ancora oltre. Uqba ibn Nafi sarebbe morto qualche anno dopo, nel 683, sulla strada di ritorno in Tunisia. L'allora governatore della Tunisia, Musa ibn Nussair, lanciò la seconda campagna di conquista che portò a una stabile presenza arabo-islamica nel Maghreb occidentale. L'islamizzazione della popolazione fu piuttosto rapida; all'inizio i conquistatori musulmani offrivano alla popolazione locale lo status sociale di ḏimmī che accordava loro il diritto di praticare la propria religione liberamente, status che, ad esempio, gli Ebrei accettarono di buon grado. Il cristianesimo, d'altra parte, non si radicò mai profondamente nel territorio e fu sempre indebolito dalle controversie teologiche, dalle eresie e dagli interventi imperiali di Costantinopoli. Molti cristiani riconobbero negli Arabi dei liberatori e prontamente accolsero l'Islam; essi accettarono però una forma scismatica dell'Islam, quello della setta kharigita, una delle tre forme di Islam che tracciano la propria origine al tempo del grande scisma che seguì alla rottura tra Ali, l'ultimo dei primi quattro califfi, e Muawiya, primo califfo omayyade (metà VII sec.). I musulmani che seguirono il partito di Ali, accettando la successione califfale solo per legame di sangue con la famiglia del Profeta tramite la figlia Fatima e il marito Ali, divennero gli Sciiti; quelli che invece appoggiarono la successione omayyade, credendo nel principio secondo cui ogni membro della famiglia del Profeta può accedere alla successione, furono detti Sunniti. La terza alternativa, quella dei Kharigiti, era rappresentata da coloro che rigettavano la tesi della legittimità arbitraria sostenendo che il giudizio spettasse solo a Dio; essi abbandonarono così il partito di Ali (letteralmente "uscirono", ḫaraja). Credevano infatti che il merito fosse l'unico criterio che giustificasse lo status sociale, anche quello di successione al potere. Si stabilirono prima in Mesopotamia per poi seguire l'ondata della conquista araba in Nord Africa. L'atteggiamento kharigita nei confronti dell'autorità centrale si adattava perfettamente alla comunità berbera nordafricana generalmente resistente a ogni forma di dominio straniero. Lo storico arabo Ibn Abi Zayd riferisce che i Berberi del Nord Africa si ribellarono dodici volte prima di accettare l'Islam. Ibn Khaldun riporta inoltre che quando i Berberi furono convertiti "continuarono a rivoltarsi e adottarono la forma religiosa del kharigismo". Questi Berberi ribelli rigettavano l'idea della legittimità dinastica e ritenevano che ogni credente, "persino uno schiavo nero", potesse accedere alla posizione di imam mediante il voto della comunità. Se le cronache sono affidabili, il primo governatore di Sigilmasa sarebbe stato un uomo di colore, Isa ibn Yazis al-Aswad ("il nero"). Gli Arabi conquistatori del Nord Africa quasi certamente guardavano ai Berberi come a una popolazione di seconda classe: secondo Ibn Khaldun essi mancavano di "classe", qualità che egli riconosceva nell'eloquenza oratoria e nella conformità delle parole al loro significato, in altre parole nel linguaggio, poiché i Berberi non parlavano l'arabo, vale a dire la lingua della cultura e dell'autorità islamica, in modo corretto.
Nell'anno 786 a Fakh, non lontano dalla Mecca, il governatore abbaside di Baghdad tentò di eliminare gli Sciiti. Idris ibn Abd Allah sfuggì al massacro e si rifugiò nel lontano Maghreb. L'Ifriqiya era ancora leale alla dinastia degli Abbasidi e il Maghreb centrale era in mano ai Kharigiti. Lo accolse la tribù berbera degli Awraba nella regione di Volubilis: fedeli all'Islam, i componenti della tribù furono colpiti dall'idea che Idris potesse essere un diretto discendente del Profeta. Essendo inoltre estremamente indipendenti, essi appoggiarono l'opposizione di Idris al califfato abbaside. Nel 788 egli si stabilì a Volubilis, dove esistono numerose evidenze archeologiche dell'occupazione urbana successiva al periodo romano fino al momento della fondazione di Fez, nuova capitale idriside. Idris consolidò il suo potere nel settore settentrionale del Marocco, corrispondente in epoca romana al territorio della Mauretania Tingitana, e sulla costa atlantica a sud di Salé, regione dei Berberi Baraghwata. Alla morte di Idris (791), il figlio Idris II, sebbene ancora infante, fu riconosciuto suo successore, ma non fu ovviamente in grado di esercitare l'autorità fino a età matura. Nell'808 l'ancora giovane Idris II, percependo il pericolo di rimanere a Volubilis, fondò come nuova capitale la città di Fez; essa si trovava in una posizione ideale, al crocevia delle strade che da est (Salé) portavano a ovest (attraverso la valle di Taza verso Kairouan) e da nord (Tangeri e Ceuta) a sud (Sigilmasa, la nuova città kharigita, già un importante centro commerciale ai limiti del Sahara). Fez sarebbe divenuta il nucleo di quell'aggregamento politico che, dopo varie fasi, sarebbe emerso come Marocco.
Quando Idris II morì, nell'826, i domini idrisidi furono suddivisi tra nove membri della famiglia. La successione continuò a passare dall'uno all'altro fino alla presa di Fez da parte dei Fatimidi nel 920. La dinastia degli Idrisidi sopravvisse nelle montagne del Rif, a volte come vassalla dei Fatimidi, altre volte riconoscendo l'autorità degli Omayyadi di Cordova, dinastia rivale dei Fatimidi nel Mediterraneo occidentale. Il califfo abbaside di Baghdad aveva lanciato l'allarme che un pericoloso rinnegato politico di fede ismailita, Ubayd Allah, il futuro califfo fatimide, era fuggito verso il Maghreb. Ubayd Allah e i suoi seguaci giunsero difatti a Sigilmasa, dove riuscirono a rimanere nell'ombra per quattro anni. Quando il figlio di questi, facendo sgorgare una sorgente, operò quello che agli occhi della gente sembrò un vero e proprio miracolo, il loro rifugio fu scoperto e i due furono arrestati e imprigionati. La notizia raggiunse i partigiani di Ubayd Allah rimasti a Kairouan in Tunisia che, partiti con un esercito alla volta di Sigilmasa, liberarono il capo fatimide nel 908/9. Dopo avere imposto un nuovo governatore alla città (che fino ad allora era stata sotto il governo della dinastia berbera dei Midraridi), i Fatimidi tornarono in Ifriqiya con 120 cammelli carichi d'oro. Ibn Hawqal, meglio conosciuto come il geografo autore del Kitāb ṣūrat al-arḍ ("Libro della configurazione della terra"), dove il Maghreb viene descritto con particolare riferimento alle sue potenzialità economiche e produttive, probabilmente lavorò come agente per i Fatimidi che all'epoca valutavano le possibilità di espansione in quest'area. Essi erano particolarmente interessati alla città di Sigilmasa poiché qui si svolgeva il commercio dell'oro che proveniva dalle regioni subsahariane. Ibn Hawqal informa che durante il regno di Mutaz ibn Muhammad, vassallo fatimide a Sigilmasa dal 922 al 934, gli introiti delle tasse delle carovane che partivano dal Sudan (Africa subsahariana), delle decime, delle tasse sulla proprietà terriera e delle tasse doganali sulle merci ammontavano a un totale di circa 400.000 dīnār nella sola regione di Sigilmasa, vale a dire la metà delle entrate che provenivano ai Fatimidi dall'intero Maghreb.
Il commercio dell'oro che giungeva in Marocco era divenuto una tale fonte di ricchezza da essere conteso tra due imperi rivali, quello dei Fatimidi d'Ifriqiya e quello degli Omayyadi di Cordova. L'aspra competizione tra le due potenze egemoni è riflessa nel conio di monete auree. Dopo che i Fatimidi si furono trasferiti in Egitto nel 969, gli Omayyadi colmarono rapidamente il vuoto di potere, governando per mano di vassalli berberi appartenenti alle tribù dei Banu Khazrum o dei Banu Magrawa della confederazione dei Berberi Zanata. I nuovi governatori erano di fede sunnita. Dopo il crollo della dinastia omayyade i Banu Khazrun continuarono a governare Sigilmasa sotto forma di città-stato indipendente. Nel frattempo nelle regioni meridionali dell'antica Mauritania si andava costituendo il movimento degli Almoravidi (da al-murābiṭūn, sorta di monaci guerrieri abitanti dei ribāṭ), costituito da una confederazione di tre tribù (Lamtuna, Gudula e Massufa) del clan dei Sanhagia riunite sotto un carismatico capo religioso, Ibn Yasin, ideatore del nuovo riformismo sociale improntato al malikismo più severo.
Gli ῾ulamā' (gli studiosi della legge islamica) di Sigilmasa, essendo gli ultimi Kharigiti del Marocco, si sentivano oppressi dai governatori sunniti e decisero di richiedere l'aiuto degli Almoravidi scrivendo una lettera al capo spirituale del movimento, Ibn Yasin, in cui gli chiedevano di liberarli dall'oppressione del governo dei Banu Khazrun; la risposta degli Almoravidi fu pronta e decisiva. Quando la lettera raggiunse Ibn Yasin, questi riunì un consiglio dove si decise l'intervento. Occupata la città, gli Almoravidi attuarono riforme molto severe che si basavano strettamente sulle norme religiose previste dal Corano, dichiarando inoltre di non volere imporre nuove tassazioni. A seguito della morte di Ibn Yasin il potere cadde nelle mani degli emiri Abu Bakr e Yusuf ibn Tashufin; quest'ultimo, nel 1063, intraprese una campagna militare che lo portò alla conquista di Fez (1070). La città di Aghmat, oggi in rovina, divenne uno dei centri commerciali più importanti della zona dell'Alto Atlante; era però troppo vicina alle montagne dove vivevano le tribù berbere rivali dei Masmuda. Di conseguenza Abu Bakr e Yusuf fondarono nel 1071 la città di Marrakech. Nel giro di pochi mesi Abu Bakr si ritirò nel Sahara lasciando il potere nelle mani di Yusuf ibn Tashufin. Agli inizi Marrakech era solo un accampamento nomadico, una città di tende improntata ai modelli della tribù Lamtuna. Intorno al nuovo accampamento gli Almoravidi eressero rapidamente alcune fortificazioni temporanee, che difesero la città fino a quando, qualche anno più tardi, non furono edificate le attuali mura. Nel 1085 Yusuf completò la conquista del Marocco e ritenne fosse giunto il momento di rispondere alla richiesta di aiuto dei regni musulmani di Spagna, minacciati dall'avanzata dei re cristiani che nel 1085 avevano occupato Toledo. Nel 1111 gli Almoravidi avevano esteso il loro impero fino al fiume Ebro in Spagna.
Yusuf ibn Tashufin divise l'esteso territorio in quattro province e organizzò un esercito fidato che affidò a uomini a lui imparentati. Due dei figli avuti dalla prima moglie Zaynab, al-Muizz e Tamin, svolsero le funzioni di visir nella capitale Marrakech. Tamin fu inoltre comandante della guarnigione a difesa della capitale imperiale. Il nipote Syr ibn Abu Bakr divenne governatore della provincia di nord-ovest con capitale Meknes, la provincia che oggi comprende anche Tangeri e Ceuta. La guarnigione di Fez, che governava i territori a est del Wadi Bou Regreg fino ad Algeri, era sotto il controllo di Umar ibn Sulayman, della tribù Massufa, e, poiché questa provincia era suddivisa geograficamente in due zone separate dalla valle di Taza, Yusuf aveva quindi posto una seconda guarnigione a est di Taza, nella città di Tlemcen, sotto il comando di un altro componente della tribù Massufa. Un altro figlio di Yusuf divenne governatore di Sigilmasa.
Yusuf ibn Tashufin usava circondarsi di uomini religiosi di origine andalusa, studiosi di teologia e giurisprudenza (sing. faqīh, pl. fuqahā') della corrente malikita. Il malikismo, così come veniva praticato dai fuqahā', non era tanto caratterizzato dalla discussione dei contenuti religiosi, quanto dai processi di legiferazione. Questo gruppo di studiosi di diritto offriva un sistema legale e religioso precostituito molto rigoroso e intransigente che gli Almoravidi, predisposti verso un Islam austero e rudimentale, accettarono favorevolmente.
Ibn Tumart nacque nel piccolo villaggio di Igli, sulle montagne dell'Atlante a sud di Marrakech. Nell'anno 1105 lasciò il suo luogo natio per intraprendere un lungo viaggio con lo scopo di compiere il pellegrinaggio alla Mecca, lo ḥaǧǧ. Nei successivi quindici anni di viaggio egli visse in vari centri di cultura, come Cordova, Alessandria d'Egitto, Baghdad e infine Mecca. Ibn Tumart studiò con alcuni dei più noti ῾ulamā' specializzandosi in particolare nella teologia ashrafita. È probabile che egli abbia incontrato persino il celebre teologo al-Ghazali, i cui testi gli Almoravidi avevano proibito e bruciato nel 1109. Centrale nell'insegnamento di Ibn Tumart fu il concetto dell'unità di Dio (tawḥīd); egli criticava aspramente gli Almoravidi che definiva muǧassimūn, o antropomorfisti, fino a definirli infedeli poiché riteneva che considerassero Dio in forma corporea; li accusava di seguire pedissequamente solo i trattati di legge malikita e di limitarsi alle interpretazioni letterali dei primi musulmani invece di aprirsi all'interpretazione analitica del Corano e della Tradizione del Profeta.
Tornato in patria e giunto nella capitale almoravide di Marrakech, Ibn Tumart cominciò a censurare, spesso e volentieri in modo violento, le abitudini della popolazione. Fu quindi espulso dalla città e dovette rifugiarsi nella sua città natale sulle montagne a sud di Marrakech, oltre la giurisdizione degli Almoravidi. Qui costruì un ribāṭ (edificio fortificato) dove ospitava i seguaci di cui si andava circondando. Durante un sermone in un venerdì di ramaḍān del 1121 Ibn Tumart cominciò la propaganda ufficiale antialmoravide. Il giorno seguente, affiancato dalla cerchia dei suoi seguaci più fidati armati delle loro spade, salì sul minbar e si proclamò imām al-mahdī ("il ben guidato"), l'atteso restauratore del vero Islam che avrebbe conquistato il mondo per la giusta fede. Essenzialmente Ibn Tumart promuoveva principi molto simili a quelli che avevano portato i primi rifugiati religiosi a Sigilmasa più di tre secoli prima. Le tribù della confederazione Masmuda che vivevano sulle montagne dell'Atlante furono le principali sostenitrici di Ibn Tumart: egli divenne il capo della loro comunità, il maestro religioso, il giudice delle dispute, fondando così il movimento degli Almohadi (al-muwaḥiddūn, "gli unitaristi", nome derivato dal loro concetto dell'unicità di Dio, o tawḥīd) e infine guidandoli nella rivolta contro gli Almoravidi. La guerra tra Almoravidi e Almohadi durò oltre venti anni obbligando gli Almoravidi a combattere su due fronti, contro i cristiani nella Spagna settentrionale e contro gli Almohadi a sud. Le spese di guerra costrinsero gli Almoravidi a elevare le tasse e ciò fece perdere loro il consenso della popolazione. Le masse cominciarono a indirizzarsi verso il nuovo movimento degli Almohadi, che soddisfaceva maggiormente le loro aspettative.
Dopo la morte dell'emiro almoravide Ali ibn Yusuf nel 1144 salì al potere l'abile figlio Tashufin ibn Ali, durante il cui regno scoppiarono rivolte in varie parti del Marocco. La fine doveva sopraggiungere presto. Tashufin perse la vita nel 1145 cercando, senza successo, di difendere la città di Orano. Fez fu la seconda città a cadere nelle mani degli Almohadi, mentre Ceuta inviava una delegazione al generale almohade Abd al-Mumin chiedendo protezione. Salé si arrese senza opporre resistenza e nel marzo del 1147 gli Almohadi apparvero davanti alle porte di Marrakech. Ibn Tumart morì nel 1130 e gli succedette Abd al-Mumin (1133-1163), suo fedele seguace. Sotto il suo regno la sconfitta degli Almoravidi fu portata a termine e il movimento degli Almohadi si trasformò in un nuovo impero governato dalla dinastia del nuovo regnante, il quale stabilì la capitale a Marrakech. Nonostante l'instabilità politica, la città mantenne sempre un ruolo di rilevanza culturale e continuò a essere il principale polo artistico e intellettuale del Paese.
Negli anni Cinquanta del XII secolo gli Almohadi sostituirono i loro rivali anche nella Penisola Iberica. Abd al-Mumin nominò suo successore uno dei figli e affidò agli altri i governi delle varie province. I fuqahā' almoravidi furono sostituiti da studiosi di Tinmal che erano divenuti i consiglieri del nuovo regime; nonostante ciò le leggi malikite non furono mai completamente abolite e continuarono a regolare la vita sociale del Maghreb e dell'Andalusia. Il successore di Abd al-Mumin, Abu Yaqub Yusuf (1163-1184), completò la formazione dell'impero almohade assicurando il controllo delle tribù delle montagne del Rif e completando la conquista della Penisola Iberica. Yaqub al-Mansur (1184-1189) sconfisse l'ultimo principe almoravide che si era rifugiato in Tunisia e ad Alarcos, in Spagna, ottenne un'importante vittoria contro i re cristiani che gli valse il titolo di al-manṣūr ("il vittorioso"). La battaglia di Las Novas de Tolosa del 1213 segnò però l'inizio del declino della dinastia. Nello stesso anno al-Mansur morì e venne succeduto dal giovanissimo figlio, dopo il cui regno, durato dieci anni, l'impero si dissolse nella guerra civile.
Gli Almohadi diedero un nuovo assetto alla società maghrebina favorendo un sistema strettamente gerarchico, in particolare per quel che riguarda l'organizzazione governativa e amministrativa. Fu inoltre attuata un'importante riforma monetaria che modificò il peso e il disegno delle monete, creando un sistema che venne mantenuto anche dalle dinastie successive. L'economia e i commerci furono in questo periodo particolarmente fiorenti. Il regno almohade coincise con l'espansione del commercio europeo verso il Nord Africa e alcune città mediterranee, come le repubbliche marinare di Pisa e Genova, ma anche città francesi e catalane, conclusero importanti trattati con gli Almohadi per garantire la sicurezza dei commerci. Un aspetto molto importante nella vita sociale del Maghreb almohade fu la comparsa e l'espansione del sufismo, corrente mistica islamica parallela alla religione ufficiale, che venne in un primo momento osteggiata dal potere centrale, ma poi accettata e permessa.
I Merinidi, dinastia berbera del gruppo degli Zanata, giunsero al potere in Marocco nel 1248 non professando alcun riformismo religioso, come era stato il caso degli Almoravidi e degli Almohadi; per legittimare la loro autorità cercarono un'alleanza tra ortodossia religiosa e sufismo promuovendo ufficialmente l'istituzione della madrasa (plur. madāris), centro d'insegnamento superiore delle dottrine teologiche e giuridiche dove si provvedeva anche all'alloggiamento di insegnanti e studenti. I Merinidi costruirono una gran quantità di madrasa in molte città del Marocco; solitamente a pianta quadrangolare con cortile centrale, erano decorate da mosaici ceramici colorati, stucchi e legni intarsiati con intricati motivi di tipo geometrico e vegetale. Un'istituzione più legata al fenomeno del sufismo che conobbe grande diffusione in questo periodo fu la zāwiya: all'origine probabilmente abitazione di un mistico, filosofo o santo popolare, divenne poi il centro per l'insegnamento di una particolare dottrina ispirata appunto al maestro, detto šayḫ (plur. šuyūḫ) il quale riuniva i suoi seguaci formando una confraternita (ṭarīqa). Si riteneva che questi personaggi possedessero la facoltà della benedizione (baraka) ed erano perciò oggetto di venerazione. A tale struttura era spesso associato il mausoleo dello šayḫ che veniva onorato come quello di un santo. I Merinidi scelsero Fez come capitale del nuovo regno. Uno dei più importanti sovrani merinidi, Abu Sayid Uthman II (1310-1331) concesse al figlio Abu Ali di governare la città di Sigilmasa, cosa che egli fece reclutando al proprio servizio gli Arabi Maaqil, permettendo così l'afflusso dell'ultima ondata di nomadi di origini arabe nel territorio maghrebino.
Dopo un primo periodo di successi militari e politici che durò fino al XIV secolo inoltrato, i Merinidi conobbero un periodo di decadenza. Nel XV secolo furono soprattutto vessati da due problemi: dissensi all'interno della famiglia reale e incursioni portoghesi nel Marocco settentrionale. Importante fu il ruolo della famiglia dei Wattasidi che, imparentati con la famiglia regnante, svolgevano un'azione stabilizzante e controllavano le zone delle montagne del Rif dove si erano installati già in epoca almohade. Quando nel 1420 il sovrano merinide Abu Said morì, il wattaside Abu Zakariyya prese il potere come visir, facendo le veci del legittimo discendente, Abd al-Haqq, allora ancora bambino, e difendendo il potere dei Merinidi dagli attacchi dei Portoghesi. Abd al-Haqq tentò in seguito di svincolarsi dal potere del visir licenziandolo dall'incarico con il risultato che i Portoghesi, approfittando delle contese interne al potere centrale, occuparono la città di Tangeri. Gli šurfā' (sing. šarīf ) idrisidi, capi religiosi e tribali del Marocco settentrionale, delusi dall'atteggiamento dei Merinidi, si rivoltarono occupando nel 1465 la capitale Fez e ponendo fine alla dinastia merinide.
I Wattasidi presero il posto della dinastia precedente e governarono Fez fino al 1549; non riuscirono però a stabilire un vero governo nazionale centralizzato e mantennero autonomie locali in varie parti del Marocco. Per prendere il potere i Wattasidi avevano ceduto la città portuale di Asilah ai Portoghesi in cambio dell'appoggio di questi ultimi per contrastare il potere degli šurfā'. Negli anni successivi permisero la penetrazione dei Portoghesi in varie parti del Paese creando lo scontento della popolazione che li riteneva incapaci di difendere il loro territorio da invasioni straniere. Una nuova famiglia conquistò quindi il potere. I Sadiani, originari del Hijaz, nel XIII secolo migrarono nel Maghreb dove s'installarono nel villaggio di Tagmadart nella valle del Draa, non lontano da Sigilmasa. Il fondatore della dinastia sadiana, Muhammad as-Sadi, stabilì il suo quartier generale ad Afughal nel Sus nel 1509 e si associò alla zāwiya di al-Giazuli, maestro sufi che aveva fondato una confraternita basata sul principio di resistenza all'influenza straniera, in particolare quella portoghese. Muhammad as-Sadi non solo si identificò con il movimento, ma assunse anche lo status di šarīf.
Gli šurfā' si dicevano discendenti del Profeta Muhammad, alcuni rivendicando questa discendenza tramite la linea diretta di Mawlay Idris, fondatore della dinastia degli Idrisidi nell'VIII secolo, o tramite la linea di Mawlay Ali Sharif, fondatore dell'attuale dinastia degli Alawiti. Lo sviluppo che l'istituzione della zāwiya ebbe in questo periodo fu molto significativo; gli šuyūḫ andavano assumendo sempre più una funzione politica, a volte svolgendo anche funzioni di governo. Erano al centro della vita delle comunità, facendosi carico delle attività giuridiche e provvedendo all'educazione dei bambini, tanto che la popolazione cominciò a onorarli, per i loro servigi civili, con doni e visite (ziyāra) alle zāwiya.
Lo status di šarīf poteva facilitare l'ascesa politica come avvenne nel caso di Muhammad as-Sadi. Alla sua morte, la lotta contro i Wattasidi proseguì fino alla loro definitiva sconfitta nel 1536. Le cronache descrivono il regno di Mawlay Ahmad al-Mansur (1578-1603) come il periodo più florido del Marocco. La ricchezza non proveniva solo dal monopolio sul commercio dell'oro, ma anche da una forte ripresa economica interna del Paese. Durante il suo regno l'industria della raffinazione dello zucchero si sviluppò in modo sorprendente, in particolare nella regione a ovest di Marrakech dove le rovine di una grande raffineria sono a tutt'oggi visibili. I Sadiani garantirono il monopolio dello zucchero che veniva venduto in grandi quantità e a caro prezzo all'Inghilterra e alla Francia. I problemi iniziarono quando Ahmad al-Mansur decise di aumentare le tasse creando scontenti da parte della popolazione. Con l'appoggio degli ῾ulamā', che egli faceva riunire annualmente nel suo palazzo, venne approvata la decisione di lanciare una spedizione alla conquista della terra dell'oro: nel 1594 l'impero sadiano si era esteso a gran parte del Sahara occidentale includendo importanti città come Taghaza, Gao e Timbuctu.
La resa di Larache agli Spagnoli nel novembre del 1610 fu la motivazione della insurrezione di Abu Mahalli, ribelle associato a una zāwiya a sud di Rabat, che marciò verso Sigilmasa scontrandosi con un esercito di molto superiore. Sconfitto il nemico Abu Mahalli cominciò la sua opera di riforma sociale, ristabilendo le regole della legge islamica, come avevano prima di lui fatto gli Almoravidi e gli Almohadi. Dopo Sigilmasa fu il momento di conquistare la valle del Draa, in modo da controllare le due vie principali verso il Sahara e tagliare l'introito principale dell'economia sadiana.
Tra il XV e il XVI secolo il movimento dei marabutti, o marabuttismo (dall'ar. murābiṭ, con cui si designavano gli appartenenti a una confraternita), legato a una forma di sufismo magico e popolare, si era molto rafforzato. I conflitti tra i vari marabutti portarono alla caduta della dinastia aprendo un nuovo periodo nella storia del Marocco. Una nuova famiglia, questa volta originaria del Tafilalt (distretto del Marocco meridionale), riuscì a emergere dal caos nel quale si venne a trovare agli inizi del XVII secolo il Marocco. Gli Alawiti cominciarono la loro scalata al potere grazie a Mawlay ar-Rashid che, dopo avere conquistato gran parte del Paese, morì a Marrakech nel 1672; a lui successe il figlio Mawlay Ismail, che alla fine del XVII secolo aveva il pieno controllo di tutto il territorio.
Meknes divenne la capitale del nuovo impero che venne diviso in province affidate ai figli del sovrano. Alla morte di quest'ultimo si aprì però un secondo periodo di instabilità al quale fecero seguito gravi episodi di devastazione. Per ristabilire l'ordine il nuovo sovrano Sidi Muhammad ibn Abd Allah (1757-1790) tentò di indebolire il movimento dei marabutti cercando di farsi carico dell'offensiva ai poteri e alle influenze stranieri, da sempre bandiera di battaglia del movimento religioso. Mentre da una parte imponeva tasse doganali alle potenze straniere, dall'altra stipulava contratti commerciali con esse negoziando trattati di pace e alleanze. Sidi Muhammad fondò la nuova città portuale di Essaouria con l'intento di renderla il primo porto del Marocco: scelse per l'opera un architetto francese, Th. Cornut, che le diede l'aspetto europeo che ancora oggi conserva. Da allora la maggior parte dei commerci cominciò a passare per il porto di Essaouria dove le tasse doganali erano state abbassate.
Nel XIX secolo i rapporti con l'Europa si intensificarono e il potere politico, commerciale e militare della dinastia si venne via via indebolendo. Lo scontro tra forze tradizionaliste e moderniste, legate all'occidentalizzazione, rese il Paese più debole, mentre il colonialismo francese si andava diffondendo nel Nord Africa. Nel 1906 la Francia stipulò con la Gran Bretagna l'Entente Cordiale in cui il Marocco diveniva parte della sfera d'influenza francese. L'anno successivo le forze militari occuparono il Paese e nel 1912, con il Trattato di Fez, il Marocco divenne un protettorato francese. L'indipendenza fu ottenuta nuovamente solo nel 1956.
Bibliografia
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di Maria Antonietta Marino
Il territorio maghrebino era per la maggior parte abitato da popolazioni di origine berbera alle quali si andarono ad affiancare, nel corso di varie ondate migratorie, tribù di origini arabe provenienti da oriente. Tale territorio era già parzialmente costellato da centri urbani sviluppatisi sotto varie dinastie berbere che con l'arrivo dell'Islam erano state arabizzate e islamizzate. Le città di Sigilmasa e di Aghmat sono tra i primi esempi di città berbere divenute in periodo islamico centri di grande importanza. Lontano dal cuore del califfato, il Maghreb occidentale si rese presto autonomo dal potere abbaside. La prima dinastia marocchina indipendente, quella degli Idrisidi, intensificò l'opera di urbanizzazione del territorio, in particolare nel Nord del Paese dove l'elemento arabo era preponderante; il capostipite della dinastia, Idris I, fondò nel 789 la nota città di Fez e si ritiene che ponesse le basi per la fondazione della città santa che ancora oggi porta il suo nome, Mawlay Idris, a pochi chilometri da Volubilis/Walila. Il successore, Idris II, portò avanti l'opera edificatrice del padre, fondando un nuovo quartiere nella città di Fez e le città minori di Asila/Arzila e di Basra, che svolgeva la funzione di residenza estiva dei sovrani. Una tendenza urbanistica particolare, anche se non unica nel panorama mediterraneo, era quella di accorpare più nuclei abitativi in un unico centro urbano, creando città policentriche: questo fenomeno, detto "sinecismo" (Cuneo 1986), trova il suo migliore esempio a Fez che riunisce in un'unica città i due poli di Madinat Fas e Madinat al-Qarawiyyin.
L'opinione che vede negli Almoravidi (1056-1147) principalmente una dinastia combattente poco dedita alle manifestazioni artistiche e culturali, sebbene più volte smentita, è ancora diffusa. Al contrario, con il regno degli Almoravidi s'intensifica particolarmente l'attività urbanistica e architettonica: la conquista del territorio vede la fondazione di nuove città e la costruzione di numerosi insediamenti fortificati, mentre il particolare zelo religioso dei membri del movimento fa sì che edifici religiosi vengano costruiti in ogni centro urbano del Paese.
Uno dei primi atti legati alla dinamica attività urbanistica degli Almoravidi fu la fondazione nel 1070 della nuova capitale Marrakech, voluta dall'emiro Abu Bakr ibn Umar e dal suo braccio destro Yusuf ibn Tashufin. Opera dello stesso Yusuf ibn Tashufin, divenuto nel frattempo capo del movimento, fu la rifondazione di Fez, o meglio, l'unificazione dei due nuclei di epoca idriside realizzata grazie all'abbattimento delle mura che separavano i due quartieri e all'erezione di una nuova cinta muraria che li circondava entrambi. La città di Meknes, già fondazione del gruppo berbero Miknasa risalente al X secolo, venne fortificata e, pur nel rispetto dell'antico schema di insediamento agricolo policentrico, le venne data una struttura più unitaria. Legata alla costruzione di insediamenti fortificati con funzioni di presidio è la nascita della città di Rabat, fondata negli ultimi anni della dinastia tra il 1142 e il 1145, che appunto deve il suo nome al termine ribāṭ (edificio fortificato). Con gli stessi intenti sorse nella seconda metà dell'XI secolo l'imponente qaṣba di Amargu. In questo periodo s'intensificò inoltre l'attività edilizia dei Berberi dell'entroterra marocchino, in particolare nella zona montuosa dell'Alto Atlante.
Le forme più tipiche di insediamento, che, sebbene di antica tradizione locale, si consolidano in quest'epoca per poi continuare a prosperare nei secoli successivi, si distinguono in tre tipologie: la qaṣba, il qṣar e l'igerm o agadir. La qaṣba ‒ che all'interno delle città corrisponde al complesso palaziale del sovrano o governatore ‒ in questo caso indica fondamentalmente la residenza di un ricco proprietario terriero in cui abitavano vari rami della stessa famiglia: era infatti costituita da vari nuclei abitativi e poteva avere quindi dimensioni anche notevoli. Per qṣar s'intende invece un villaggio fortificato in cui coabitano varie famiglie della stessa tribù e che, essendo un vero e proprio insediamento urbano, era provvisto di moschea, hammām e scuola coranica; una delle caratteristiche di questa tipologia di abitato è la regolarità della pianificazione urbanistica e la struttura viaria ad andamento ortogonale. Infine il termine igerm serve a designare il granaio collettivo, una struttura destinata principalmente alla conservazione delle derrate alimentari normalmente isolata e in posizione difendibile. Queste tre forme di insediamento sono tutte circondate da mura turrite e posseggono solitamente un'unica entrata e poche aperture verso l'esterno, fatto da cui risulta l'aspetto di fortificazioni che le accomuna. Le tecniche di costruzione e le decorazioni geometriche rimandano a una tradizione berbera locale di antica origine.
Le prime testimonianze dell'architettura religiosa almoravide si trovano in territorio algerino (moschee di Algeri, Nedroma e Tlemcen), mentre in Marocco la più grande opera realizzata consiste nei grandi lavori di ampliamento della moschea al-Qarawiyyin di Fez del 1135, ascrivibili al mecenatismo di Ali ibn Yusuf (1106-1142): a eccezione della maggior parte delle moschee almoravidi e almohadi, essa ha un impianto a navate parallele al muro qibli (rivolto verso La Mecca), probabilmente eredità dell'impianto idriside. Sono stati rinvenuti nella moschea resti di decorazioni lignee databili all'epoca almoravide che sono oggi conservati al Museo del Batha di Fez. In questo periodo viene fatto grande uso della decorazione a stucco che, solitamente lavorato a intaglio o a stampo e spesso dipinto, riveste gran parte delle strutture. Grande novità di quest'epoca è l'impiego di muqarnas, sistema decorativo ad alveoli utilizzato nelle zone di raccordo che, solitamente di stucco, non ha quasi mai funzioni strutturali. Un esempio di cupola decorata a muqarnas si trova appunto nella moschea al-Qarawiyyin di Fez, che insieme a quello della Grande Moschea di Tlemcen, che lo precede di qualche anno, costituisce uno dei più antichi utilizzi di questo mezzo decorativo nel Maghreb occidentale.
La città di Marrakech, fondata come nuova capitale del regno almoravide, è testimone dell'attivo mecenatismo architettonico di Ali ibn Yusuf. A lui è probabilmente dovuta l'erezione di uno dei più interessanti edifici almoravidi conservati in Marocco, la Qubbat al-Baadiyyin di Marrakech, riscoperto durante gli scavi archeologici intrapresi alla metà del Novecento. Questo padiglione rettangolare, aperto sui quattro lati e sovrastato da una doppia cupola, che racchiude un bacino per l'acqua, doveva far parte del complesso architettonico della moschea, oggi scomparsa, situata al centro dell'allora capitale Marrakech. Una delle rare testimonianze dell'architettura civile almoravide maghrebina è rappresentata dai resti del palazzo suburbano dello stesso sovrano Ali ibn Yusuf, rinvenuti durante gli scavi di D. Jacques-Meunié e H. Terrasse nei pressi della prima moschea al-Kutubiyya, che rivelano un complesso costituito da tre corti circondate da grandi sale: una di queste corti presenta una pianta quadripartita simile a quella che verrà riproposta qualche anno più tardi nel Castillejo di Murcia.
Oltre agli innumerevoli edifici religiosi, gli Almoravidi realizzarono una grande quantità di opere difensive: l'erezione di mura intorno ai centri più importanti e la costruzione di fortezze furono rese necessarie dalle continue ribellioni delle indomite tribù montanare. Le fortezze di Beni Taouda, oggi in rovina, e di Amargu, meglio conservata, con una imponente cinta turrita di forma poligonale, furono costruite con lo scopo di sorvegliare le popolazioni del Rif, mentre la fortezza di Tasghimut, 30 km a sud-est di Marrakech di fronte ai monti dell'Atlante, difendeva la capitale. L'architettura di queste fortezze ricorda quella dei Sanhagia orientali: in particolare, l'apparato esterno delle mura con grandi arcate cieche deriva probabilmente dagli esempi di Ashir e della Qala dei Banu Hammad.
Uno dei maggiori meriti attribuibili a questa dinastia fu quello di svolgere la funzione di ponte tra il Maghreb e la Spagna: i due territori uniti sotto lo stesso dominio furono aperti a un continuo scambio culturale, sebbene il più delle volte questo movimento di scambio provenisse dalla Spagna e fosse diretto verso il Marocco. Molte sono le fonti che attestano il trasferimento di artisti e artigiani spagnoli in Marocco, come, ad esempio, nel racconto tramandato da al-Giaznai in cui si parla di architetti cordovani chiamati da Ibn Tashufin per costruire alcuni edifici di Fez. Questa apertura produsse come effetto principale la diffusione della cultura e dell'arte andaluse nei territori maghrebini.
Legati più alla sfera culturale andalusa che a quella maghrebina furono gli Almohadi, che, vivendo a cavallo dei due Paesi, spesso preferirono indirizzare il loro mecenatismo architettonico alla Spagna. Nonostante ciò anche in Marocco la loro attività edilizia fu particolarmente intensa. Il periodo almohade, in particolare sotto il governo dei primi tre sovrani Abd al-Mumin, Abu Yaqub Yusuf e Yaqub al-Mansur, è caratterizzato dalla rinascita delle città e da una fervida urbanizzazione del territorio. Interventi edilizi vennero attuati in tutte le grandi città del Maghreb: Fez vide il notevole ampliamento della moschea al-Qarawiyyin, mentre Marrakech, dove fu fondata la nota moschea al-Kutubiyya, venne dotata di una nuova qaṣba, nuovi mercati, un ospedale, bagni e giardini; Meknes e Rabat furono soggette a mutamenti urbanistici sostanziali e a ricostruzioni, mentre vennero potenziati i sistemi difensivi di città commerciali e centri strategici come il porto di Ceuta o la città di Taza, considerata la vera porta del Marocco affacciata sul Maghreb orientale.
Alla riconquista dei maggiori centri di potere maghrebini seguì un'importante riorganizzazione del territorio che, in questo periodo, raggiunse la sua massima espansione. L'enorme estensione delle terre almohadi, che riunivano per la prima volta l'intero Maghreb (occidentale, centrale e orientale) e la Spagna, associata alla facilità di transito e scambio, concorse allo sviluppo di un sincretismo culturale che investì molti aspetti della produzione artistica.
Fatta costruire su ordine del califfo Abd al-Mumin, la moschea al-Kutubiyya, con la sua pianta armoniosa e le sue forme eleganti, rappresenta il massimo risultato dell'architettura almohade maghrebina. La tipica pianta a T delle moschee nordafricane viene ancora più accentuata dalla presenza di cupole lungo il transetto parallelo al muro qiblī. Tra gli scavi più importanti intrapresi in Marocco vi sono per l'appunto quelli che hanno rivelato la struttura della prima moschea al-Kutubiyya, fatta edificare dallo stesso sultano qualche anno prima della moschea attualmente visibile: una delle più interessanti scoperte archeologiche fu il rinvenimento di fosse allungate di fronte al miḥrāb (nicchia di preghiera) che probabilmente servivano a un meccanismo levatoio che permetteva l'innalzamento della maqṣūra (spazio quadrangolare circondato da una recinzione, situato di fronte al miḥrāb e riservato al sovrano) quando il califfo si recava in moschea. Contemporanea alla prima al-Kutubiyya è la costruzione dell'importante moschea di Tinmal, edificata nel villaggio dell'Alto Atlante che aveva visto la costituzione della prima comunità degli Almohadi e da dove partì la conquista del Maghreb; qui fu anche sepolto il fondatore della dinastia, Ibn Tumart, la cui tomba divenne un venerato santuario. La moschea di Tinmal conserva uno dei migliori esempi di miḥrāb almohadi, composto da un'apertura ad arco a ferro di cavallo bordato da un'arcatura polilobata e incastonato in una mostra rettangolare; il passaggio tra il miḥrāb e la base della cupola a muqarnas è risolto da un registro ad arcate cieche al di sotto e al di sopra del quale si svolge il tappeto decorativo a motivi geometrici e floreali.
Mecenate delle arti e in particolare dell'architettura fu anche il nipote di Abd al-Munin, Abu Yusuf Yaqub al-Mansur, il quale, specialmente dopo le vittorie ottenute durante la conquista della Spagna, la più importante delle quali fu quella di Alarcos del 1195, commissionò grandi opere architettoniche come la Grande Moschea di Siviglia, la moschea di Hassan a Rabat, la qaṣba con la Grande Moschea a Marrakech. Forse l'edificio più legato alle condizioni storiche del momento fu proprio la moschea di Hassan: nome misterioso con cui si designa oggi la moschea. Sebbene mai completata, la moschea ha dimensioni eccezionali che si possono spiegare solo con la necessità di ospitare un numeroso contingente di uomini che qui a Rabat venivano infatti convogliati per le spedizioni militari. Da notare è la singolarità delle piante di alcune moschee di questo periodo ‒ la moschea di Hassan a Rabat e quella della qaṣba di Marrakech ‒ che presentano eccezionalmente più di un cortile.
Tra le opere architettoniche di questo periodo un'attenzione particolare va riservata ai minareti tra cui quelli delle succitate moschee di Marrakech, Rabat e Siviglia costituiscono gli esempi più grandiosi. La base quadrata li accomuna al tipo di minareto diffuso in Nord Africa, più precisamente nel Maghreb orientale, e si rifanno dunque agli esempi di Kairouan, di Sfax e della Qala dei Banu Hammad. Sono, a differenza dei loro prototipi, caratterizzati da un apparato decorativo che riveste buona parte delle superfici e da un lanternino, spesso coperto a cupola, che ne sormonta la sommità. Sembrerebbe che la città di Fez, rispetto ad altre città importanti, sia stata oggetto di limitate attenzioni, sebbene a questo periodo dati un considerevole ampliamento della moschea al-Qarawiyyin e il restauro dell'antica moschea degli Andalusi. Come per il periodo almoravide scarse sono le testimonianze dell'architettura civile di quest'epoca, mentre si conservano le numerose opere di fortificazione sparse sull'immenso territorio almohade. Tutte le grandi città furono dotate di cinte murarie: Taza, Tinmal, Siviglia, Fez, Marrakech, e soprattutto Rabat. Quest'ultima, data la sua funzione militare, venne dotata di mura fortificate aperte da porte monumentali con entrata a baionetta o a doppia baionetta, come nel caso della porta meglio conservata di Bab ar-Ruah; le facciate presentano uno schema decorativo che si rifà in parte a quello dei miḥrāb delle moschee.
L'arte dell'XI e del XII secolo, che segna l'apogeo dell'arte maghrebina, si ricollega strettamente a quella andalusa del califfato omayyade. Molte sono le caratteristiche architettoniche impiegate, strutturali e decorative, in cui è possibile riconoscere il prototipo andaluso. La pianta delle moschee almoravidi e almohadi riprende la struttura a navate perpendicolari al muro qiblī con copertura a capriate lignee della Grande Moschea di Cordova; così anche il miḥrāb è del tipo profondo e spesso fuoriesce dalla linea del muro posteriore. La presenza delle cupole che segnalano la posizione dell'asse del miḥrāb è anch'essa probabilmente di origine andalusa, sebbene s'incontri pure nella Grande Moschea di Kairouan e venga poi ripresa con ancora maggiore enfasi nelle moschee fatimidi.
Un aspetto caratterizzante di quest'epoca è la volontà estetica di nascondere la funzione strutturale dell'architettura frammentandone le linee: è il caso degli archi polilobati e delle cupole che spesso presentano più nervature di quelle necessarie a sorreggerle, come la cupola della moschea di Taza con le sue 16 nervature; essi sono poi rivestiti di un minuzioso manto decorativo che ne nasconde le strutture portanti con un effetto risultante di grande leggerezza. Nel Maghreb si diffonde enormemente l'uso dello stucco, ideale per la decorazione architettonica che si avvale soprattutto di motivi floreali, ma anche geometrici ed epigrafici. Per quanto riguarda l'apparato decorativo, l'epigrafia ha sempre giocato un ruolo principe nell'arte islamica: una delle grandi innovazioni di quest'epoca fu l'introduzione della scrittura corsiva che sembra essere avvenuta verso l'inizio del XII secolo sia nell'epigrafia monumentale che nella numismatica.
I Merinidi (1196-1549), veri eredi degli Almohadi in Marocco, restituiscono a Fez il ruolo di capitale fondando però accanto alla vecchia città la nuova Fez, Fez al-Jedid. Strategicamente importante in questo periodo è anche il territorio di confine marocchino-algerino dove sorge la città di Tlemcen, ultimo avamposto sulla via per l'Ifriqiya. Proprio nelle due città di Fez e Tlemcen si concentrerà buona parte dell'attività edilizia dei Merinidi. Nonostante le moschee di questo periodo conservino in larga misura la pianta tradizionale delle moschee di epoca almoravide e almohade, alcune innovazioni sono altresì riscontrabili: una di esse è l'impianto quadrato del cortile principale delle moschee, che si ritrova, ad esempio, nelle moschee merinidi di Tlemcen e di Mansura; altre novità possono considerarsi la poca profondità delle sale di preghiera e le entrate monumentali. La politica religiosa dei Merinidi, restauratori dell'ortodossia sunnita, si manifesta nella sponsorizzazione delle madrasa, o scuole teologico-giuridiche, che vengono erette in gran numero grazie a pie donazioni in ogni città, prima fra tutte Fez. La struttura delle madrasa merinidi appartiene a una tipologia ben nota in Maghreb e presenta un cortile centrale, a volte occupato da un bacino d'acqua, su cui affacciano lungo tre lati le cellule abitative, mentre sul quarto si apre la sala di preghiera con miḥrāb. Appartengono per la maggior parte alla seconda metà del XIV secolo e si legano al mecenatismo di tre sultani in particolare: Abu Said Uthman (1310-1331), Abu'l-Hasan (1331-1348) e Abu Inan (1348-1359).
Parallelamente a quest'attenzione per la legalità nel rispetto dell'ortodossia si diffondono le manifestazioni di devozione popolare. Legata al fenomeno del marabuttismo è la proliferazione delle zāwiya di cui quella di an-Nussak, fondata dal sultano Abu Inan alla periferia di Salé, è un tipico esempio. Il misticismo invade la società merinide e le tombe dei santi diventano luoghi sacri e mete di pellegrinaggi. La maggior parte di queste tombe segue la tipologia della qubba, una camera a pianta quadrata sormontata da cupola, le cui antiche origini rimontano all'area siro-egiziana, se non al lontano Iran, di epoca preislamica. Questo è l'impianto dei molti mausolei noti come Qbibat Beni Merin (tombe dei Merinidi) nella località di al-Qulla, non lontano da Fez, dove furono sepolti nella seconda metà del XIV secolo alcuni sovrani merinidi. Una delle più esemplificative dimostrazioni della religiosità merinide è rappresentata dalla necropoli di Chella, santuario (ḫalwa) circondato da mura che racchiudono le tombe dei sovrani merinidi a partire dal fondatore della dinastia, Abd al-Haqq (1196-1217). La scelta del luogo, alle porte di Rabat, è legata alla funzione della città come avamposto per le spedizioni della guerra santa, principio su cui si fonda l'ideologia religiosa merinide.
L'epoca merinide è considerata come l'età classica della vita artistica del Marocco. Non grandi novità caratterizzano quest'epoca, ma il perfezionamento e l'arricchimento delle tecniche decorative raggiungono elevati livelli qualitativi. Lo stucco, che rimane il materiale prediletto della decorazione architettonica, sebbene risulti meno resistente, viene valorizzato da nuovi e più complessi motivi; una trasformazione avviene però nello stile decorativo vegetale che si fa sempre più stilizzato. L'utilizzo della ceramica per il rivestimento architettonico, già noto in epoca almohade, vede in questo periodo una larga e rapida diffusione: le terrecotte smaltate, dette zellīǧ, formano mosaici policromi che rivestono pareti o pavimenti. Gli stucchi, gli zellīǧ e i legni intagliati, che s'ispirano allo stile degli stucchi e che come questi venivano sovente dipinti, sono comunemente accostati gli uni agli altri ‒ come si vede, ad esempio, nel cortile della Madrasa Bu Inaniyya di Fez ‒, formando tappeti decorativi che giocano con gli effetti dati dalla policromia e dal bassorilievo. La standardizzazione che segue questo periodo aureo è la causa della progressiva decadenza artistica che colpisce l'arte maghrebina alla fine della dinastia merinide.
La storia delle manifestazioni artistiche nel periodo delle dinastie sharifite dei Sadiani (1511-1649) e degli Alawiti, detti anche Filaliti, (1631-) si fissa in una sorta di tradizionalismo che cerca nel passato la sua fonte di ispirazione. I Sadiani dedicarono attenzioni particolari alla città di Marrakech dove eressero varie moschee e il noto complesso delle tombe dei principi. Sotto gli Alawiti Meknes divenne una città di primo piano, già arricchita dai Merinidi, che il sultano Mawlay Ismail (1672-1727), fervente costruttore, aveva eletto a sua residenza. I numerosi palazzi che si conservano di questo periodo presentano la tipica struttura del riyāḍ, ovvero un complesso di strutture a padiglioni immerse in giardini con alberi da frutta e bacini d'acqua.
Nonostante si tenda generalmente, e in modo alquanto semplicistico, a vedere la civiltà maghrebina composta da due gruppi etnici diversi, berbero e arabo, non è facile scorgerne la linea di demarcazione culturale. La storia ha mescolato le carte e soprattutto nel campo dell'arte, dove influssi di origini diverse concorrono alla creazione di manifestazioni artistiche complesse, non è possibile, né forse particolarmente proficuo, tentare di individuare le origini etniche delle varie correnti. Pertanto è necessario rilevare quanto sia grande il rischio di semplificazione nell'attribuire l'arte delle città alla civiltà arabo-islamica dei conquistatori del Maghreb e l'arte dell'entroterra montuoso alla tradizione berbera locale. Tuttavia, è innegabile che l'eredità berbera abbia giocato un ruolo fondamentale e abbia concorso ampiamente allo sviluppo della produzione artistica maghrebina, in particolare per quanto riguarda l'architettura tradizionale e le arti decorative come la produzione della ceramica, dei tessuti e dei gioielli, le cui decorazioni prevalentemente geometriche riprendono motivi di antichissima origine. Sebbene legata al substrato autoctono, l'arte del Maghreb occidentale s'innesta in una corrente più vasta che, nel sincretismo tra influssi provenienti dall'esterno ‒ sia dalla Spagna che dall'Oriente islamico ‒ e tradizioni locali, trova la sua realizzazione ideale.
L'investigazione archeologica del Maghreb occidentale di epoca islamica ha suscitato storicamente un minore interesse rispetto al Vicino e Medio Oriente, culla di origine della civiltà islamica. Solo nella seconda parte del XX secolo s'intensifica l'attività di scavo e l'attenzione per gli strati medievali dei siti preislamici. Esempi di città note per il periodo di occupazione romana che hanno lasciato però la testimonianza di una continuità di vita in epoca islamica sono, ad esempio, Volubilis e Lixus. Gli importanti scavi di Marrakech, effettuati a partire dal 1948 ai piedi del minareto della Kutubiyya, hanno riportato alla luce le vestigia dell'antica Grande Moschea e la prima fortezza almoravide edificata da Yusuf ibn Tashufin. A questi scavi sono succedute le investigazioni archeologiche della fortezza di Tasghimut, costruita solo qualche decennio dopo quella di Marrakech. Realizzata in pietra secondo un piano irregolare che segue il ripido andamento collinare del sito, è circondata da un'ampia cinta muraria rafforzata da bastioni; una delle porte sul lato nord-orientale, detta Bab al-Muhaddin, è un'interessante costruzione che presenta una sorta di avancorpo all'interno del quale, nel corridoio d'entrata, si aprono lateralmente due alte nicchie a sezione polilobata: sia la struttura che la decorazione hanno permesso di riconoscere un'influenza architettonica proveniente dal Maghreb orientale che trova il suo esempio più vicino nella Qala dei Banu Hammad. Balyounech, altro interessante sito oggetto di prospezioni archeologiche, è situato nel Nord del Marocco ai piedi del Gebel Musa. Appare nelle fonti nell'VIII e nel X secolo come favorevole sito agricolo ricco d'acqua; diventa col tempo un piacevole luogo di ritiro per gli abitanti di Ceuta (ar. Sabta), città alla quale Balyounech è storicamente legata. Le sue rovine datano al XIV secolo e sono caratterizzate da ville con patio, bagni e torre residenziale. Il mondo rurale marocchino è altresì testimoniato dagli scavi archeologici di Chichaoua, dove sono stati rinvenuti due zuccherifici. Lo studio delle aree rurali ha rivelato interessanti punti di contatto con l'ambiente andaluso. L'attenzione della ricerca archeologica si è concentrata in particolare sul Marocco settentrionale, soprattutto a partire dagli anni Ottanta del Novecento: i siti maggiormente indagati sono quelli di Basra, Nakur, Qsar es-Seghir e Badis.
Non è facile ricostruire la storia della ceramica marocchina poiché gli studi di questa disciplina non sono ancora particolarmente avanzati. La distinzione tra ceramica di uso comune e non, cioè tra vasellame privo di decorazione e invetriatura e vasellame invetriato, quasi sempre a flusso piombifero, e decorato con tecniche di incisione, stampo o pittura, viene resa incerta da tipologie intermedie. Diffusa nel Marocco del XIV secolo, ma utilizzata già nei secoli precedenti, è la tecnica della cuerda seca che evita la colatura dei colori durante la cottura. Nel XVIII-XIX secolo si distinguono le produzioni di centri come Fez, Meknes e Safa dove viene realizzata ceramica dipinta in policromia o in bianco e blu con motivi geometrici, vegetali, epigrafici o di origine tessile.
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di Patrice Cressier
Piccola città (ar. Āġmāt) situata nel Marocco meridionale lungo l'omonimo Wadi Aghmat.
Secondo alcune fonti arabe del Basso Medioevo (ad es., il Bayān), l'insediamento sarebbe antecedente alla conquista arabo-musulmana; tuttavia la prima attestazione materiale della sua esistenza, una moneta coniata in nome di Idris II, non risale che all'813 d.C. Quanto ai riferimenti testuali diretti, essi apparvero intorno alla fine del IX secolo (al-Yaqubi), divenendo più circostanziati nel corso dei due secoli successivi. Quale che sia la data della sua fondazione, quest'ultima sembra essere stata innanzitutto il prodotto della volontà di due gruppi berberi, gli Urika e gli Aylan (che secondo al-Idrisi sarebbero state tribù Masmuda), e di conseguenza la città presenta la particolarità di possedere due distinti nuclei urbani, distanti secondo le fonti da 6 a 8 miglia: A. Urika e A. Aylan. Era verosimilmente il fondo culturale preislamico ciò che traspariva sotto un certo numero di regole politiche e sociali riportate da al-Bakri: reggenza del governo affidata a un āmir (emiro) eletto ogni anno tra i suoi pari, interdizione di una delle due città ai commercianti, ma apertura agli Ebrei (A. Aylan), e al contrario sede del potere politico e del commercio nell'altra (A. Urika). Fu di certo il più vasto dei possedimenti idrisidi, dal momento che, almeno in un certo periodo, esso integrava Tamdult, ai confini del deserto.
Appena prima di essere conquistata dagli Almoravidi, che vi avrebbero fissato la loro residenza nel 1058/9, A. fu la capitale di un regno governato dalla confederazione berbera dei Maghrawi. Il peso politico di tale Stato fu nettamente percettibile anche molto tempo dopo la sua scomparsa: furono infatti gli Aylan a vendere agli Almoravidi le terre dove venne costruita Marrakech e fu Zaynab an-Nafzawiyya, la moglie dell'ultimo emiro (Laqqut ibn Yusuf), che Abu Bakr e poi Yusuf ibn Tashufin avrebbero successivamente sposato; fu infine ad A. che furono confinati i sovrani Taifas da poco sconfitti, al-Mutamid di Siviglia e Abd Allah di Granada. Malgrado il rapido sviluppo di Marrakech, ubicata a poca distanza, A. perdurò per lungo tempo come città attiva e come polo spirituale: l'imam almohade predicava nella sua moschea, i santoni sufi vi risiedevano numerosi, il sultano merinide Abu'l-Hasan vi impiantò una madrasa (scuola religiosa), mentre la zāwiya (edificio adibito alle confraternite sufi) Aghmatiyya emanò una certa influenza fino alle lontane regioni meridionali. Secondo la testimonianza di Ibn al-Khatib si sarebbe dovuto attendere fino alla seconda metà del XIV secolo perché avesse inizio una vera decadenza, ormai consumata quando nei primi anni del XVI secolo Leone Africano ne diede testimonianza. L'economia di A. era fondata su due motori principali. Il primo era costituito dal commercio e dalle attività artigianali associate, di cui la città rappresentava un punto nodale allo sbocco di una delle valli dell'Alto Atlante: da est a ovest tra Sigilmasa e i Berberi eretici Barghwatta, e da sud a nord tra i confini sahariani e Fez; il secondo era l'agricoltura intensiva, in merito alla quale i testi ci assicurano che essa era già produttiva nel corso del X secolo e che era fondata su un sistema idraulico complesso il quale utilizzava l'acqua del wādī. Al-Idrisi segnala a questo proposito che quest'acqua era oggetto di una organizzata ripartizione ebdomadaria tra la città e il suo contesto rurale.
Le vestigia di A. Urika, l'unico dei due insediamenti che sia stato possibile localizzare, si estendono 30 km a sud di Marrakech (provincia di Tahnaout), sulla riva sinistra del Wadi Urika e nel settore a monte del cono alluvionale di questo corso d'acqua. Un piccolo centro amministrativo moderno, Souk Ghmat, vi è stato fondato. I suoi edifici sono progressivamente venuti a ricoprire le vestigia medievali che del resto marcano assai poco il paesaggio, in quanto esse si limitano al tracciato sud-ovest/nord-ovest di un bastione di pisé su fondazioni di pietra, ai resti di un bagno e a diverse strutture idrauliche (bacini, muri di contenimento e mulini); i mausolei che coprono le presunte tombe dei re Taifas sono di recente costruzione. In totale, la città ‒ che forse possedeva anche una cinta muraria interna ‒ doveva estendersi per oltre 50 ha. L'osservazione archeologica ha permesso di chiarire la contemporaneità dell'insediamento urbano e del tracciato di due dei sette grandi canali che consentono ancora oggi lo sfruttamento della pianura circostante: il Tawalt e il Tasultant Qbila che attraversa la città nel suo settore centrale; quest'ultimo è dotato di numerose costruzioni di epoca medievale e ha influenzato il tracciato stesso della cinta muraria urbana. Questa colonizzazione dello spazio fu ultimata nel XII secolo con la costruzione, qualche chilometro a monte, di un altro canale, il Tasultant Makhzan, progettato dagli Almohadi per irrigare il loro grande giardino della Buhayra (l'odierna Agdal) a Marrakech. A. costituisce senza dubbio l'esempio più compiuto del processo congiunto di urbanizzazione e di gestione dello spazio che si sviluppò nel Maghreb occidentale al termine della conquista arabo-islamica coinvolgendo pienamente i gruppi berberi presenti.
Bibliografia
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di Alessandra Bagnera
Città (ar. Baṣra) del Marocco settentrionale fondata agli inizi del IX secolo come residenza estiva degli Idrisidi di Fez. Situata su un altipiano in favorevole posizione di controllo, circa 20 km a sud di Qsar al-Kabir, occupava, secondo Ch.-J. Tissot, l'insediamento della città romana di Traemulae, anche se non esiste alcuna evidenza di tale occupazione.
Nel X e nell'XI secolo Ibn Hawqal e al-Bakri descrivono B. come una città fiorente, con una cinta di mura provvista di 10 porte, un'importante moschea, bagni, giardini, con alcuni dei terreni circostanti tenuti a pascolo e altri a coltura di cereali e cotone. D'altra parte, anche le poche notizie storiche che possediamo a riguardo tradiscono l'immagine di una città di una certa importanza. Fondata più o meno contemporaneamente ad Arzila/Asila, e quindi probabilmente da Idris II, passò, con la divisione del regno operata dal figlio Muhammad, sotto il diretto controllo dell'altro figlio, al-Qasim, insieme a Tangeri e ai possedimenti da essa dipendenti. Alla metà del X secolo, con la conquista del Maghreb da parte di Giawhar (958-960), generale del califfo al-Muizz, essa entrò nella sfera di influenza fatimide come capitale di un piccolo Stato idriside che, amministrato dal principe al-Hasan ibn Giannun, comprendeva il Rif e il Ghumara; già nel 973 fu però ripresa dall'esercito del califfo omayyade di Cordova al-Hakim II. Durante l'XI secolo fece parte del regno ziride, cui fu annessa da Yusuf Buluggin ibn Ziri che ne distrusse le fortificazioni. Dopo un lento declino, B. viene descritta come una città in completa rovina nel XVI secolo da Leone Africano, ridotta demograficamente e con le mura circondate da giardini abbandonati.
L'investigazione archeologica è stata intrapresa a partire dal 1980 da un'équipe americana e marocchina diretta da Ch. Redman. Gli scavi hanno permesso il rinvenimento di strutture murarie, pavimentazioni e materiali di uso comune di ceramica, metallo e vetro. Il sito è circondato da una cinta muraria di cui si conserva la parte nord-occidentale; sono stati riconosciuti tre livelli di occupazione che si concentravano nella parte centrale del sito diradando verso le mura e che il materiale recuperato, in particolare la ceramica, daterebbe tra IX e XI secolo. Lo studio del vasellame, per la maggior parte locale, ha fatto pensare che a B. potesse esistere una qualche attività industriale di produzione ceramica di antica tradizione.
Ch.-J. Tissot, Recherches sur la géographie comparée de la Mauritanie Tingitane, Paris 1877, p. 160; D. Eustache, El-Baṣra, capitale idrissite et son port, in Hesperis, 42 (1955), pp. 217-38; G. Yver, s.v. al-Baṣra, in EIslam2, I, 1960, p. 1120; Ch.L. Redman, Comparative Urbanism in the Islamic Far West, in WorldA, 14 (1983), pp. 355-77; Id., Survey and Test Excavation of Six Medieval Islamic Sites in Northern Morocco, in BAMaroc, 15 (1983-84), pp. 311-49; N.L. Benco, The Early Medieval Pottery Industry at al-Basra, Morocco, Oxford 1987; J.R. Hallet, Trade and Innovation. The Rise of a Pottery Industry in Abbasid Basra (PhD Diss.), University of Oxford 1999.
di Federico Cresti
Città (ar. Fās; fr. Fés) situata a quasi uguale distanza in linea d'aria dall'Oceano Atlantico e dal Mediterraneo, in una delle regioni più fertili del Marocco settentrionale: la sua felice posizione geografica derivava dall'essere, inoltre, il punto d'incontro di due percorsi naturali di grande importanza storica.
La città si trova non lontano dall'estremità occidentale del corridoio di Taza, che separa la catena del Rif, a nord, da quella del Medio Atlante, a sud; passaggio obbligato che dai tempi più remoti ha messo in comunicazione le pianure costiere della sponda atlantica del Maghreb estremo con la costa mediterranea e i territori del Maghreb centrale. Quanto all'altro asse principale che interessa il territorio della città, si tratta dell'antico percorso che collega i territori sahariani del Tafilalt, attraverso i passi del Medio Atlante, con il Gharb e la regione di Tangeri; in epoca medievale era questa una delle piste attraverso le quali i prodotti dell'Africa subsahariana trovavano sbocco fin nei territori della Spagna islamica (al-Andalus). Fino al XIV secolo il ramo settentrionale di questo stesso percorso fu seguito dai pellegrini che da al-Andalus si recavano ai luoghi santi dell'Arabia e che costituirono uno dei fattori determinanti dello sviluppo culturale e degli scambi intellettuali della città. Lo sviluppo urbano è stato favorito dal territorio ricco di grandi pianure adatte alla produzione cerealicola, di giacimenti minerali (in particolare di ferro), di materiali lapidei da costruzione, di foreste, mentre negli immediati dintorni della città si trovavano argilla per i ceramisti, minerale da gesso e sale.
Il nome di F. è stato diversamente interpretato. Leone Africano nella prima metà del Cinquecento afferma che "il primo dì che si scavarono le fondamenta [della città] fu trovata non so che quantità di oro che nella lingua araba è detto fez" (Leone Africano, p. 63). Quasi sei secoli prima Abu Bakr ar-Razi (m. 955) narra che dagli scavi di fondazione emerse una zappa o ascia, o piccone (fa's), da cui la città prese il nome; secondo un'altra tradizione, da cui probabilmente deriva la più tarda interpretazione di Leone Africano, la zappa sarebbe stata d'oro. Altri vi hanno visto un'abbreviazione dei nomi Fars (Persia) o Faris. Ibn Abi Zar racconta dal canto suo che un anacoreta cristiano rivelò al fondatore idriside l'esistenza di un'antica città chiamata Saf proprio là dove sarebbe sorta la città nuova, predicendogli il destino illustre di quest'ultima; il principe avrebbe allora deciso di battezzarla con un nome che mantenesse il ricordo della città antica, sempli-
cemente invertendone le lettere. Malgrado quest'ultima tradizione e le ipotesi di alcuni studiosi, la mancanza di vestigia archeologiche non permette di affermare che sul sito di F. siano esistiti un'agglomerazione o un qualche edificio di epoca preispanica, anche se nel periodo romano una delle città più importanti della Mauretania Tingitana, Volubilis, si sviluppò più a occidente, in una zona non molto distante da quella che vide nascere F.
Basandosi sull'autorità di alcuni scrittori medievali, la fondazione della città fu a lungo attribuita a Idris ibn Idris (conosciuto come Idris al-Asghar, il Piccolo, ovvero come Idris II), figlio di un alide che aveva trovato rifugio in Occidente scampando al massacro della sua famiglia dopo una rivolta soffocata dagli Abbasidi. Questa tradizione trova eco nel X secolo in Ibn Hawqal e nella seconda metà del secolo successivo in al-Bakri; Ibn Abi Zar, all'inizio del Quattrocento, la riporta con molti dettagli, imitato più tardi da altri autori. Secondo questa tradizione, in seguito all'arrivo di suoi seguaci immigrati dall'Ifriqiya e dall'Andalusia, Idris II decise di abbandonare la residenza reale di Walila (l'antica Volubilis) e di fondare una nuova capitale; dopo alcuni tentativi falliti per la cattiva scelta del terreno, una valle attraversata da un fiume, che prese in seguito lo stesso nome della città, sembrò avere i requisiti necessari. La fondazione sarebbe avvenuta il primo giorno del mese islamico di rabī dell'anno 192 dell'egira, corrispondente al 4 gennaio 808; il terreno a destra del fiume sulla riva che sarà chiamata dagli Andalusi ῾adwat al-andalusiyyīn viene circondato da una cinta muraria in cui si aprono sei porte; al suo interno, vicino all'accampamento reale, si costruisce una moschea. Circa un anno dopo lo stesso re avrebbe iniziato la costruzione di una seconda città a ovest della prima, sulla riva sinistra, che prenderà il nome di ῾adwat al-qarawiyyīn, dagli immigrati originari di Kairouan, in Ifriqiya; anche in questo caso vengono costruiti un muro di cinta e una moschea. Da allora le due città prosperano; vi si stabiliscono Berberi, Arabi ed Ebrei e la popolazione aumenta anche grazie all'arrivo di nuovi immigrati andalusi, espulsi da Cordova dopo una rivolta nell'anno 818, che Idris II accoglie all'interno delle mura orientali.
Sottoposta a un preciso esame filologico, la tradizione della duplice fondazione da parte di uno stesso sovrano ha ceduto il passo a una cronologia differente, oggi generalmente accettata. Sulla scorta di evidenze numismatiche e analizzando una seconda tradizione oscurata dalla precedente anche per ragioni agiografiche (non si deve dimenticare che Idris II, Mawlay Idris, capostipite degli šurfā' [sing. šarīf] del Marocco, si è affermato nei secoli come il santo più venerato del Maghreb estremo), E. Lévi-Provençal ha dimostrato che la fondazione di Madinat Fas, sulla riva destra del fiume, fu dovuta a Idris ibn Abd Allah (Idris al-Akbar, il Grande, o Idris I), nell'anno 789. Ventuno anni più tardi, nell'808/9, suo figlio Idris II iniziò la costruzione di una nuova città, al-Aliya, sulla riva opposta. Nove anni dopo, lo stesso fece stabilire all'interno delle mura di Madinat Fas, fino ad allora abitata quasi esclusivamente da popolazioni berbere, gli Andalusi giunti da Cordova; infine, intorno all'825/6, 300 altre famiglie di emigrati, provenienti questa volta da Kairouan, si aggiunsero alla popolazione della riva sinistra. Al di là della realtà storica della fondazione e delle vicissitudini iniziali delle due città, la complessa vicenda tramandata dalle tradizioni ha permesso interpretazioni diverse. Nello sdoppiamento urbano dei primi Idrisidi è stata riconosciuta la manifestazione di un "antagonismo tutto impregnato di antico dualismo berbero", che, attraverso un'operazione che secondo J. Berque ricorda il sinecismo della tradizione classica mediterranea, il fondatore avrebbe cercato di superare amalgamando, con scarso successo, popolazioni diverse per tradizioni e cultura. In effetti, una rivalità cruenta tra le due città rimase una costante nei primi secoli della loro esistenza, come appare dagli scritti dei geografi musulmani che le menzionano. Scarse sono le notizie storiche e le descrizioni della città e ugualmente rare le informazioni che possediamo sulla sua architettura e sulla sua struttura urbana in questa prima epoca, fino alla conquista almoravide. E. Lévi-Provençal, sulla scorta di un precedente lavoro di L. Massignon, ha potuto schematicamente tracciare il percorso delle mura, con l'indicazione delle due moschee principali al loro interno e l'apertura delle porte il cui nome ci è noto: una di queste, Bab al-Kanisa ("Porta della Chiesa"), fa riferimento a una chiesa cristiana. Altri testi tardivi ci informano che le due città erano costruite di terra e le fortificazioni con la tecnica della terra pressata. Al-Bakri dedica qualche riga ai due principali edifici religiosi musulmani, affermando che la moschea della riva degli Andalusi, o "moschea degli Sceicchi" (ǧami῾ aš-šuyūḫ) aveva sei navate sostenute da colonne di pietra orientate sull'asse est-ovest, mentre la seconda, chiamata "moschea degli Sceriffi" (ǧami῾ aš-šurfa') aveva tre navate orientate nello stesso modo, diversi vestiboli e un grande cortile con olivi e altri alberi. La ricchezza idrica della città è il tema più ricorrente nelle descrizioni; scrive al-Bakri (ed. Mac Guckin De Slane, p. 226) che le case "sono attraversate da una corrente d'acqua" e la stessa acqua fa funzionare più di 300 mulini e 20 bagni. I lavori idraulici che permettono di utilizzare l'acqua per la pulizia delle strade sono ricordati da Ibn Hawqal, che visitò l'Occidente islamico verso il 951; vi fa in seguito cenno anche al-Idrisi (ed. Hadj-Sadok, p. 86), circa due secoli più tardi, quando racconta che il quartiere di "al-Qarawiyyin ha molta acqua che circola per strade e stradine dentro condutture che gli abitanti possono aprire a volontà per lavare i loro quartieri la notte e averli al mattino perfettamente puliti". Le due città conservarono a lungo un carattere semi-rurale, con spazi coltivati all'interno delle mura; ne fa fede al-Bakri (ed. Mac Guckin De Slane, pp. 227-28), che ricorda come nel quartiere della riva destra "ciascun abitante ha davanti alla sua porta un mulino che gli appartiene e un terreno pieno di alberi da frutta attraversato da canali di irrigazione". Al-Bakri cita ancora i numerosi noci e gli altri alberi da frutta che crescono nella città.
Nel corso del X secolo, F. e il suo territorio furono al centro dei conflitti che opposero i Fatimidi dell'Ifriqiya, gli Omayyadi di Spagna, le tribù berbere locali e gli ultimi Idrisidi che cercavano di conservare il regno dei loro padri. Neanche l'affermazione di una dinastia di Berberi Zanata a partire dal 986/7 spense le lotte per il potere, e la città ebbe più volte a soffrire periodi di carestia e di tumulto. Un'epoca di stabilità e di grande prosperità iniziò con la conquista da parte degli Almoravidi, che tradizionalmente viene fatta rimontare al 1069, ma che più probabilmente si realizzò qualche anno più tardi, intorno al 1075; da allora, per circa tre quarti di secolo, la città si trasformò profondamente e si arricchì di nuovi edifici. Yusuf ibn Tashufin, che può per questo essere considerato il terzo fondatore di F., fece abbattere le fortificazioni che dividevano le due città, riunendole all'interno di un'unica cinta muraria. A ovest, sul bordo della pianura del Sais che sovrastava F., fu costruita una fortezza (la qaṣaba di Bu Jlud) e tra questa e la città, all'esterno delle mura, si svilupparono nuovi quartieri. I rapporti culturali e artistici con la più avanzata civiltà andalusa si arricchirono con l'arrivo da Cordova di maestri artigiani chiamati dal primo sovrano almoravide.
All'incremento delle dimensioni della città corrispose l'incremento della popolazione, soprattutto sulla riva sinistra del Wadi Fas. Poiché la moschea al-Qarawiyyin non era più sufficiente a contenere tutti i fedeli, che durante la preghiera collettiva del venerdì si riversavano nelle strade e nei mercati adiacenti, durante il regno del secondo sultano almoravide, Ali ibn Yusuf, ne fu deciso l'ingrandimento. Questa moschea, il principale e il più illustre edificio religioso di F., conserva tuttora l'impronta del rifacimento almoravide. A partire da una prima sala di preghiera costruita secondo la tradizione nell'anno 859, la moschea al-Qarawiyyin fu trasformata e ingrandita due volte, nel 956 e nel 1135-1142, assumendo in quest'ultima data il suo aspetto quasi definitivo; alcuni lavori realizzati in epoche successive non vi apportarono importanti modifiche. La moschea attuale è contenuta all'interno di un perimetro quadrangolare non perfettamente regolare di circa 83 m di larghezza e 67 m di profondità; la sala di preghiera vera e propria occupa una superficie pari a 3700 m2 ed è formata da 10 navate sostenute da pilastri disposte parallelamente al muro della qibla, cioè alla parete in cui si apre il miḥrāb. Una navata centrale sopraelevata, perpendicolare alle precedenti e arricchita da cupole diversamente decorate, mette in comunicazione il miḥrāb con la facciata settentrionale della sala di preghiera; su questa facciata, in corrispondenza della navata centrale, si apre verso il contiguo cortile della moschea la ῾anaza, una seconda nicchia che ha funzione di miḥrāb per chi prega all'esterno. Alla moschea si accede attraverso numerose porte, una delle quali situata quasi sull'asse della qibla; al-Jaznai intorno alla metà del XIV secolo ne contava 18.
Lungo il lato breve occidentale del ṣaḥn (cortile) si trova il minareto costruito nel 960, alla base del quale è posto un padiglione con fontana del XVII secolo. Una piccola sala dalle dimensioni esigue all'angolo nord-orientale dell'edificio costituisce la moschea delle donne; all'angolo opposto, contigua al muro della qibla della sala di preghiera principale, si trova una moschea funeraria (ǧami῾ al-janā'iz) di forma irregolare, costruita anch'essa in epoca almoravide. Altri ambienti con diversa destinazione sono disposti lungo una parte del perimetro. La decorazione originale della moschea almoravide, in particolare quella che ne arricchiva il miḥrāb, scomparsa sotto strati di gesso e di stucco all'epoca della conquista almohade, è stata rimessa in luce nel corso di un restauro moderno: in questa decorazione "è tutta l'arte della Spagna musulmana, come era andata elaborandosi nel corso del V-XI secolo (...) con la sua composizione sapiente e la sua eleganza nervosa, che si rivela in questa moschea marocchina" (Le Tourneau - Terrasse 1965, p. 841).
L'avvento almohade (1145) fu inizialmente disastroso per la città, che alla fine di un lungo assedio subì un'inondazione che abbatté una gran quantità di abitazioni. F. fu punita per la sua resistenza con la distruzione totale delle mura e della fortezza almoravide, perdendo il preminente ruolo militare che aveva contribuito al suo sviluppo nel periodo precedente. L'importanza strategica della città si impose tuttavia anche agli Almohadi, e più tardi una nuova cittadella sorse dove prima si elevava la fortezza almoravide; sotto il califfato di an-Nasir fu costruita, a partire dal 1212, una nuova cinta muraria, aperta lungo il suo tracciato da otto porte, quattro su ciascuna delle rive del Wadi Fas. Appartiene a quest'epoca il tracciato delle mura ancora oggi esistenti intorno a Fas al-Bali. Esso corrisponde alla maggiore estensione raggiunta dalla città medievale, che nell'ultima fase della dominazione almohade visse un periodo di grande prosperità economica, in particolare sotto il califfo Yaqub al-Mansur (1184-1199). All'inizio del XIII secolo risale il maggior intervento almohade nell'architettura religiosa della città, la ricostruzione quasi totale dell'antica moschea degli Andalusi, di cui oggi rimane, dopo avere subito molti rimaneggiamenti, il grande portale di ingresso.
Con l'affermazione dei Banu Marin, che la conquistarono nel 1248, F. divenne la metropoli del regno merinide e la capitale del Maghreb estremo. I Merinidi in un primo tempo fissarono la loro dimora nella cittadella almohade, poi sotto Abu Yusuf Yaqub (1258-1286) fu decisa la costruzione di una nuova città residenziale a ovest dell'agglomerazione precedente: Madinat al-Bayda (la Città Bianca), o Fas al-Giadid (Fez Nuova, contrapposta a Fas al-Bali), come più correntemente si prese a chiamarla. Fondata nel 1267, all'interno di una doppia cinta di mura la città nuova conteneva il palazzo reale, una Grande Moschea con altri santuari religiosi, edifici amministrativi, abitazioni di dignitari, caserme e, a partire dal XIV secolo, un quartiere riservato agli Ebrei. La dinastia arricchì anche la città vecchia di nuovi edifici pubblici, restaurò quelli che cadevano in rovina, incrementò le strutture commerciali e produttive, sparse sulle colline circostanti le sue residenze di piacere. L'impronta architettonica più notevole di quest'epoca, al tempo stesso di carattere religioso e civile, è costituita tuttavia da un insieme di edifici destinati all'insegnamento. Con l'affermazione dei Merinidi, un potere di stretta ortodossia sunnita si sostituiva all'almohadismo, caratterizzato da forti elementi sciiti ed ereticali. Per favorire la formazione di una classe intellettuale e di funzionari fedeli al nuovo regime e per diffondere la dottrina canonica, in particolare la giurisprudenza e il diritto malikiti, i Merinidi fecero costruire numerose madrasa, scuole o, piuttosto, collegi di studi superiori dove potevano trovare alloggio anche gli studenti non originari di F.
Precedentemente l'insegnamento era impartito all'interno delle moschee (la al-Qarawiyyin è considerata tra le più antiche università del mondo, con la al-Azhar del Cairo e la az-Zaytuna di Tunisi); queste continuarono a svolgere il loro compito formativo e, a volte, la madrasa costituiva unicamente un'appendice residenziale delle moschee più importanti. In altri casi la madrasa merinide era nel contempo residenza e luogo di insegnamento, potendo anche assumere ruoli maggiori di interesse religioso. La più antica tra quelle ancora esistenti, è la madrasa as-Saffarin, fondata nel 1271 da Abu Yusuf Yaqub non lontano dalla Grande Moschea al-Qarawiyyin. Vi si accede dalla strada degli ottonai, che le hanno dato il nome, attraverso un ingresso a gomito che sbocca su un cortile rettangolare a cielo aperto; lungo tre lati del suo perimetro si aprono le stanze degli studenti, mentre sul quarto lato, orientato secondo un asse di simmetria leggermente diverso, si trova una sala di preghiera a pianta quadrata. Accanto all'oratorio, un insieme di latrine disposte intorno a un secondo piccolo cortile è l'ultimo elemento costitutivo del collegio. Le altre madrasa di F. risalgono al secolo successivo: in ogni edificio, con qualche variante, si incontrano gli stessi elementi, distribuiti diversamente volta per volta secondo le esigenze del terreno e dell'orientamento della sala di preghiera. Tra le madrasa trecentesche, le più interessanti da un punto di vista architettonico furono costruite da tre sovrani merinidi che si succedettero sul trono nella prima metà del secolo. Al primo sovrano, Abu Said Uthman, si deve la costruzione delle madrasa di Fas al-Giadid (1320), as-Sahrij e as-Sbaiyyin (1321-1324), al-Attarin (1323-1325). I quattro collegi sono molto simili dal punto di vista dell'organizzazione degli spazi; sui lati di un cortile a pianta rettangolare, al centro del quale sono posti una fontana o un bacino d'acqua, si aprono portici sostenuti da pilastri o colonne, oltre i quali sono allineate le stanze degli studenti. Su uno dei lati del rettangolo (in genere su uno dei lati brevi) è la porta di ingresso; una sala di preghiera di forma rettangolare, di più o meno grande dimensione secondo l'importanza dell'edificio, fa parte degli ambienti che attorniano il cortile. A questo schema di base si aggiungono alcune varianti, come la distribuzione su più livelli delle stanze, la presenza o l'assenza di un minareto, la diversa posizione delle latrine. Ad Abu'l-Hasan si deve la fondazione della Misbahiyya (1346), una delle più grandi (vi sono state contate 117 stanze disposte su 3 piani), situata in prossimità della moschea al-Qarawiyyin; per adornarne il cortile fu trasportata da Almería una grande vasca di marmo lavorato da cui prese un secondo nome, ar-Rukkam. Rispetto agli edifici di Abu Said Uthman, oltre che da una diversa disposizione degli elementi già incontrati, che qui si organizzano intorno a tre cortili, la madrasa Misbahiyya è caratterizzata da una sala di preghiera a pianta quadrata.
La più monumentale delle madrasa di F., e anche la più ricca per le sue decorazioni e per i materiali usati, fu costruita tra il 1350 e il 1357 e appartiene al regno di Abu Inan. La Bu Inaniya riunisce insieme le funzioni di scuola di studi superiori, di collegio e di moschea congregazionale; la sua sala di preghiera è fornita di un pulpito (minbar) per la predica del venerdì, e il complesso possiede un alto minareto. Il cortile centrale dell'edificio, a cui si accede direttamente da una delle vie principali della città antica, ha su tre lati un portico dietro il quale si aprono le stanze degli studenti disposte su due piani; il quarto lato, opposto a quello di ingresso, è occupato dalla facciata della sala di preghiera. Lungo quest'ultimo lato scorre un canale, largo circa 2 m, usato per le abluzioni come il bacino posto al centro del cortile. La sala di preghiera è costituita da due navate trasversali separate da cinque archi sostenuti da quattro colonne di onice; questo schema si riproduce sulla facciata, aperta da cinque arcate su pilastri. Un'altra particolarità della Bu Inaniya è costituita da due sale coperte da cupole di legno a nervature intrecciate che si aprono al centro dei lati lunghi del cortile; si tratta di sale che erano riservate all'insegnamento, e la loro disposizione, secondo uno schema che ricorda analoghi edifici orientali, ha fatto pensare a un'influenza o almeno a una conoscenza da parte dell'architetto dei modelli creati nell'Oriente islamico alla stessa epoca. La ricchezza della decorazione si concentra in particolare nel cortile, nella lavorazione delle porte, delle balaustre e delle altre strutture lignee, negli stucchi a motivi floreali o epigrafici, nelle mattonelle e nei mosaici di ceramica (zellīǧ), infine nelle cupole a stalattiti (muqarnas), finemente scolpite e dipinte; l'armonia dell'insieme ha fatto giudicare questo edificio come l'ultimo capolavoro dell'arte ispano-maghrebina nel suo periodo classico.
All'epoca merinide appartengono anche i più antichi esempi di architettura civile medievale della città. La datazione di queste abitazioni, alcune delle quali distrutte in epoca recente, è stata fatta sulla base di analogie stilistiche con i partiti decorativi delle madrasa trecentesche; interessanti resti di questo genere di decorazione con materiali diversi (legno, stucchi e ceramiche), da una casa studiata da A. Bel all'inizio del XX secolo e distrutta in quello stesso periodo, sono oggi conservati al museo di Dar Batha. L'armonia e la raffinatezza della lavorazione, che dunque non era riservata agli edifici di maggiore significato monumentale, testimoniano l'alto livello raggiunto dagli artigiani di F. Le abitazioni presentano lo schema, consueto nella cultura urbana maghrebina, dell'edificio ad atrio centrale, attorno al quale sono distribuiti gli ambienti della casa. Di uno o più livelli, spesso conquistano in altezza lo spazio di cui mancano al suolo: è il caso di un edificio studiato da B. Maslow e H. Terrasse nel darb Sharratin, dove attorno a un patio piuttosto esiguo si organizza una costruzione della ragguardevole altezza di oltre 14 m. Quello merinide fu il periodo di massimo splendore della città medievale; per quasi due secoli F. fu il principale centro politico, economico e intellettuale all'interno di un territorio che comprendeva il Marocco e la parte occidentale dell'Algeria attuali, irraggiando la sua influenza attraverso il Sahara occidentale fino all'ansa del Niger. Il quadro che ce ne offre Leone Africano ancora all'inizio del XVI secolo, quando già altre dinastie erano scese in campo o apparivano sulla scena, è quello di una città estremamente vitale e orgogliosa della sua cultura, ricca di popolazione e di arti, centro di produzione e di commercio, anche se intaccata dai segni di una decadenza politica incipiente; una città dove "la civiltà e l'ornamento di Barbaria ovvero di tutta l'Affrica si contiene e [si] rinchiude" (Leone Africano, p. 84).
Dell'arredo architettonico medievale rimangono poche vestigia. Tra queste, il pulpito ligneo (minbar) della Grande Moschea degli Andalusi, costruito nel 980 e in seguito parzialmente trasformato, è per antichità il secondo ancora oggi conservato nel mondo islamico. Un secondo pulpito di legno scolpito e intarsiato è quello della al-Qarawiyyin, risalente all'epoca almoravide. Poche altre suppellettili almohadi e merinidi negli edifici religiosi testimoniano di un'arte che attraverso uno stretto contatto con la Spagna musulmana fu partecipe, anche con caratteristiche peculiari, di una cultura che per alcuni secoli unificò le due sponde del Mediterraneo più occidentale.
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di Patrice Cressier
Città (ar. Marrākuš) situata 60 km circa a nord del massiccio dell'Alto Atlante, a 453 m s.l.m., al centro di un palmeto, nato insieme alla città e irrigato da un vasto reticolo di gallerie (ḫaṭṭāra) che drenano le acque provenienti dal vicino massiccio montuoso. Il nucleo urbano contava nel Medioevo da 20.000 a 60.000 abitanti, secondo le diverse stime.
M. venne fondata intorno al 1060-1070 dagli Almoravidi, tribù Sanhagia delle regioni mauretane, nell'ambito della loro progressiva espansione nel Marocco e poco dopo la conquista della più antica città di Aghmat, situata 40 km circa verso sud-est. Sotto questa dinastia la città divenne la capitale di un impero che inglobava gran parte dell'Africa settentrionale e della Penisola Iberica. Le fonti arabe utili per ricostruire la storia della città sono numerose, ma raramente esaurienti; vanno citati i testi di al-Bakri (XI sec.), al-Idrisi (XII sec.), al-Baydhaq (XII sec.), Ibn al-Athir (XIII sec.), al-Marrakushi (XIII sec.), al-Umari (XIV sec.), Abu'l-Fida (XIV sec.), oltre ovviamente a quelli di Ibn Khaldun (XIV sec.) e infine di Leone Africano (XVI sec.). Tra le fonti cristiane vanno ricordate le opere di Luis de Marmol y Carvajal (XVI sec.) e di Damião de Goes (XVI sec.).
L'accanimento degli Almohadi, che tra varie vicissitudini governarono la città tra il 1147 e il 1230, nel cancellare ogni traccia visibile del potere dei loro predecessori almoravidi determinò la scomparsa di un cospicuo numero di monumenti della prima epoca di M. La costruzione della fortezza, sorta accanto al luogo del primitivo accampamento, intorno al 1070, è forse da ricollegare ad Abu Bakr ibn Umar, ma fu completata dal suo successore Yusuf ibn Tashufin (1061-1106). Di questo edificio, noto come Dar al-Hajar ("Casa di Pietra") o Qasr al-Hajar ("Palazzo di Pietra"), sono stati ritrovati solamente resti del muro meridionale e del portale, ad accesso rettilineo semplice, posto sull'asse del complesso. Si ritiene che l'impianto generale fosse quadrato (200 m di lato) e che ciascun tratto di cortina fosse dotato di una porta assiale analoga a quella conservata. La tecnica muraria utilizzata per la sua costruzione è assai particolare e consiste in cortine interne ed esterne di pietra, legate a cloisonné e con gli spazi di risulta riempiti di pisé; le torri erano rettangolari e poco aggettanti (3 × 7 m). In una fase di poco successiva, a sud di questo campo fortificato si sviluppò una vasta zona palaziale che attraverso portici si apriva su cortili monumentali con vasche e una fontana semicircolare. Decorazione e organizzazione architettonica richiamano le creazioni di Abu Mardanish della zona dell'Andalus, coincidente con la Murcia. La costruzione della prima cinta muraria della città (1126-1132) si deve al figlio di Yusuf, Ali (1106-1142). Le dieci porte, di cui è sicuramente attestata l'esistenza nel corso della conquista da parte degli Almohadi, vennero tutte rimaneggiate da questi ultimi. Occorre notare che l'accesso a gomito semplice di Bab ar-Raha e Bab al-Makhzan doveva essere la soluzione più frequentemente adottata prima dell'epoca almohade ma, essendo le ricostruzioni almohadi di poco successive agli impianti originali, le proporzioni dei grandi archi di Bab ad-Dabbaghin e di Bab Fas (oggi Bab al-Khamis) non permettono una chiara attribuzione cronologica a l'una o all'altra delle dinastie.
Per quel che concerne l'architettura religiosa, nulla resta della grande moschea in mattoni crudi che Yusuf ibn Tashufin contribuì a costruire con le proprie mani; sorte pressoché analoga toccò anche alla moschea edificata da suo figlio Ali al centro della città e più volte totalmente ricostruita nei secoli successivi. Paradossalmente è il suo elemento funzionale più modesto, la sala per le abluzioni, oggi nota come Qubbat al-Barudiyyin, che ha trasmesso quello che è l'esempio più ricco di decorazione architettonica almoravide, comparabile solo alle creazioni della stessa epoca nella moschea al-Qarawiyyin di Fez. Questo piccolo edificio a pianta rettangolare (7,4 × 5,4 m), con due livelli di arcate e coperto da una cupola ottagonale e da nervature, si ricollega nelle sue forme alle tradizioni dell'Andalus (Grande Moschea di Cordova e Bab Mardum di Toledo), ma la sua decorazione a stucco coprente segna una vera rinascita dei modelli classici, in particolare dell'acanto. Le iscrizioni aiutano a datare questo edificio al primo quarto del XII secolo. L'immagine dell'arte almoravide maghrebina viene completata e i suoi forti legami con l'Andalus vengono confermati da un elemento di arredo, il minbar della moschea almoravide, capolavoro dell'arte dell'intarsio, scolpito a Cordova agli inizi del XII secolo e recuperato in una fase successiva dagli Almohadi per essere riutilizzato nella moschea al-Kutubiyya (Museo Dar Si Said). Con la presa di M., nel 1147, gli Almohadi avviarono una politica di ostentazione monumentale dell'universalità del loro potere e della volontà di restaurazione religiosa: ne è testimonianza la costruzione da parte di Abd al-Mumin (1130-1163) di una moschea per la ḫuṭba, denominata in seguito al-Kutubiyya, sul luogo ove sorgevano i palazzi almoravidi, abbattuti a questo scopo. Ancora prima che la costruzione del suo minareto fosse terminata nel 1186, per volere di Yaqub al-Mansur (1184-1199) la moschea venne ricostruita, in forma identica ma con un differente orientamento della qibla, senza dubbio per cercare, peraltro senza successo, di correggere l'evidente errore originario; questa seconda moschea, che è quella conservatasi fino a oggi, era già in funzione nel 1158.
Caso unico di "sdoppiamento" di un monumento, la Kutubiyya è una delle maggiori testimonianze, prima ancora della moschea funeraria del mahdī ("profeta") Ibn Tumart a Tinmal, della duplice volontà unificatrice e riformatrice degli Almohadi. La sua sala di preghiera, articolata in 17 navate perpendicolari al muro della qibla e 7 campate (90 × 60 m), offre, insieme alla maggiore larghezza della navata posta sull'asse del miḥrāb e alla presenza di cupole allineate su quest'ultima e sulla campata antistante il muro qiblī, una caratteristica organizzazione a T e costituisce dunque un punto di arrivo dell'architettura religiosa islamica di Occidente. La decorazione a stucco, di grande sobrietà come richiesto dal rigore religioso dei costruttori, trova tuttavia nei quasi 200 capitelli l'occasione per variazioni infinite, sulla base delle quali può essere individuato un desiderio di legittimazione del movimento almohade, a partire da tre punti di riferimento: l'antichità classica (elemento minoritario), l'Oriente abbaside e il califfato omayyade di Cordova (in particolare per il reimpiego di pezzi importati). Il minareto della Kutubiyya, di pietra locale del Gilliz, introduce la policromia e annuncia le torri della moschea di Hassan a Rabat e della Grande Moschea di Siviglia, in seguito inglobata nella Giralda.
Abu Yaqub Yusuf I (1163-1184) ampliò la città verso sud, ma fu suo figlio, Yaqub al-Mansur, che eresse intorno al 1188, al di fuori del perimetro urbano ma accanto alla cinta difensiva, la qaṣba, un vasto complesso militare, palatino e religioso, dalla stretta gerarchizzazione degli spazi, di cui si conservano la principale porta di accesso, Bab Agnaw, e la moschea. Bab Agnaw, di struttura più semplice rispetto alle grandi porte almohadi di Rabat, assume tuttavia al pari di queste le molteplici funzioni di rappresentanza del potere politico e giurisdizionale. La moschea della qaṣba, con il suo originale impianto con quattro corti angolari supplementari, perpetua tradizioni orientali (moschea di Ibn Tulun al Cairo, 876-897), tratto per il quale essa si apparenta con la moschea incompiuta di Hassan a Rabat, ma conserva un suo riferimento occidentale (reimpiego di pezzi cordovani). Il suo slanciato minareto, rivestito con ceramica, annuncia peraltro l'architettura merinide del XIII-XIV secolo. All'epoca almohade vanno infine assegnati anche alcuni elementi superstiti dell'edilizia civile e dell'arredo urbano della città: in particolare le grandi vasche destinate all'irrigazione e allo svago e i vasti parchi alberati periferici, Agdal e Manara, dotati diversi secoli dopo di padiglioni.
I Merinidi, successori degli Almohadi, che governarono la regione tra il 1269 e il 1525 trasferendo la capitale a Fez, non manifestarono alcun interesse per M., dove vennero costruite una sola moschea importante, senza dubbio in virtù di una committenza privata, e una madrasa, oggi sostituita da quella del sadita Abd Allah al-Ghalib, datata da un'iscrizione al 1564/5 e nota anche come madrasa di Ibn Yusuf. Con la dinastia dei Sadiani (1511-1659), M. tornò a essere capitale del Marocco; tra le maggiori testimonianze di quest'epoca sono il complesso delle tombe dei sovrani sadiani e il contemporaneo palazzo Badia, fatto costruire da Ahmad al-Mansur tra il 1578 e il 1593: sebbene ambedue siano stati oggetto del saccheggio dell'alawita Mawlay Ismail (1672-1727), che li spoliò dei materiali pregiati da riutilizzare a Meknes, costituiscono i migliori esempi dell'architettura sadiana, caratterizzata dal tradizionalismo e da una certa influenza andalusa (dovuta probabilmente all'immigrazione causata dalla Reconquista), ma anche da un'attenzione particolare alle grandi dimensioni.
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di Simona Artusi
Città (ar. Miknās, Miknāsat az-Zaytūn) settentrionale del Marocco, situata 130 km a est di Rabat e 60 km a sud-ovest di Fez su un altopiano che si estende tra il Medio Atlante e il corso del fiume Sebou.
Crocevia tra le altre città imperiali del Marocco, M. deve la sua ricchezza all'abbondanza di corsi d'acqua e alla fertilità del suolo, che l'hanno resa il capoluogo di una delle regioni agricole più produttive del Paese. La città è costituita da due parti nettamente distinte tra loro: la madīna, un insieme compatto di case strutturate secondo uno schema caratterizzato da vie strette e tortuose, e la città moderna a est, costruita su una terrazza rocciosa al di là della valle del Wadi Bu Fekran. Al momento della penetrazione islamica, la piana era abitata da popolazioni berbere della tribù Zanata, le Miknasat az-Zaytun, che opposero una viva resistenza contro gli attacchi degli Idrisidi (X sec.) i quali dovettero desistere dal cercare di prendere il controllo sul territorio dopo una numerosa serie di campagne militari fallimentari. A quel tempo M. non corrispondeva a una città vera e propria, bensì a una coabitazione di piccoli agglomerati agricoli il cui capo risiedeva in un castello a nord della città attuale. Verso il 1060 la regione fu presa da Yusuf ibn Tashufin (1060-1106) appartenente alla dinastia degli Almoravidi (XI-XII sec.) i quali decisero di raggruppare i borghi in un unico abitato fortificato. La città prese, quindi, l'aspetto di un centro islamico fornito delle sue strutture principali, quali una cinta muraria, una moschea congregazionale, la moschea an-Naggiarin, impianti termali, abitazioni di varie dimensioni con giardini e sistemi idraulici di irrigazione. Nel 1150 circa, dopo un assedio prolungato (le fonti parlano di sette anni), gli Almohadi (XII-XIII sec.) con a capo Yahya ibn Yaghmur si impadronirono definitivamente della città, saccheggiandola e distruggendone alcune parti. Gli anni di pace che seguirono le diedero nuovo vigore: il sovrano almohade Muhammad an-Nasir (1199-1214) fece ricostruire la Grande Moschea aggiungendovi una sala per le abluzioni e introdusse sei porte di entrata alle mura di cinta. Dopo un periodo di lotte dinastiche e ribellioni berbere, nel 1244 M. si sottomise ai Merinidi (1248-1549), i quali si prodigarono in opere di costruzione: Abu Yusuf Yaqub (1258-1286) fece erigere a sud dell'impianto urbano una cittadella destinata al governatore, mentre all'interno della città fece costruire una madrasa. Abu'l-Hasan (1331-1348) diede incarico del restauro del minareto della Grande Moschea e di parte della cinta muraria, si occupò del sistema di derivazione dell'acqua e fece costruire dei ponti sulla strada per Fez; inoltre, fece edificare una zāwiya e iniziò la costruzione di una nuova madrasa (Bu Inaniyya). L'edificio fu abbellito e terminato dal figlio Abu Inan (1351-1358) da cui prese il nome e quindi omonima della coeva madrasa costruita a Fez. Il declino dei Merinidi segnò anche quello della città; i sultani wattasidi (1505-1553) e saditi (1553-1654), pur non tenendola in grande considerazione, assicurarono stabilità lungo le rotte commerciali che passavano per M.
Dopo alcuni anni di guerra civile e dopo essere stata sottomessa, seppure per un breve periodo, al potere della zāwiya dei Dila, la regione fu presa, tra il 1666 e il 1668, dal secondo sultano alawide Mawlay ar-Rashid (1664-1672), il quale decise di investire suo fratello Mawlay Ismail della carica di governatore di M. Mawlay ar-Rashid si interessò alla città operando lavori di restauro nella qaṣaba, ma è al fratello minore di quest'ultimo che M. deve la sua grandezza: alla morte del sultano egli si proclamò tale e fece di M. la capitale del suo regno (1672-1727). Tutte le fonti, sia quelle europee che quelle islamiche, sono concordi nell'affermare che Mawlay Ismail, benché impegnato in numerose campagne militari contro i Berberi del Sud del Paese, quelli del Medio Atlante e contro la minaccia turca nel Marocco orientale, non cessò mai di sovrintendere ai lavori di costruzione della sua capitale. È nella zona a sud-est della madīna, sul luogo della presunta qaṣaba almohade, che Mawlay Ismail decise di fare iniziare la costruzione della sua città distruggendone l'abitato preesistente. I primi edifici eretti dal sultano furono le dimore del Grande Palazzo (Dar al-Kabira) terminato nel 1090, il quale si estendeva nella parte settentrionale della città reale ed era separato dalla madīna per mezzo di una triplice cinta muraria e di una vasta spianata conosciuta con il nome di Piazza delle Macerie; esso era analogamente provvisto di mura divisorie nei lati che si affacciavano sugli altri palazzi della città reale. La cinta esterna, che si interponeva tra i due complessi urbani, possedeva bastioni, torri di difesa e merlature; la seconda, quasi completamente andata distrutta, si ritiene sia stata più larga e più bassa della precedente e sprovvista di strutture difensive; quella situata nella parte più interna era invece simile alla prima.
Lo spazio creatosi tra una fortificazione e l'altra venne occupato da diversi edifici quali, ad esempio, la cosiddetta Moschea dei Fiori, la Biblioteca Reale, il Padiglione degli Ambasciatori e il quartiere commerciale Sayyidi an-Naggiar. Una serie di porte fu disposta lungo le mura: Bab al-Mansur, tra la prima e la seconda cinta, è tuttora la porta più famosa di M. e anche la più grande; la facciata, riccamente decorata, reca un'iscrizione in cui si legge la data 1144, da ricollegare all'epoca di Mawlay Abd Allah (1729-1757), sebbene la studiosa M. Barrucand sia più propensa a ricondurla al regno di Mawlay Ismail. L'entrata, dalla pianta a gomito, è costituita da una serie di ambienti collegati tra loro mentre la facciata interna presenta una decorazione poco elaborata. La porta del Grande Palazzo (Bab ad-Dar al-Kabira) è l'entrata monumentale del complesso abitativo, la più antica del palazzo e la sua facciata si distingue per la bellezza della decorazione. Altre porte sono Bab ar-Rais, tra il quartiere Sayyidi an-Naggiar e il Grande Palazzo, su tre piani con un passaggio verso l'Asarag ‒ un lungo corridoio a cielo aperto che serviva i diversi palazzi ‒ e la Bab al-Hagiar situata nell'angolo nord-est tra la prima e la seconda cinta muraria. Le abitazioni (quṣūr) del Grande Palazzo furono costruite per ospitare la famiglia reale e i parenti del sultano: un insieme di edifici comunicanti tra loro, ciascuno provvisto di cortili interni, giardini, sale di intrattenimento, appartamenti privati, bagni, cucine e depositi. Il primo grande santuario costruito da Mawlay Ismail, la moschea congregazionale di Lalla Awda, era parte integrante del Dar al-Kabira. L'iscrizione sulla sua porta di entrata indica l'anno 1090 E. (1678/9 d.C.), quella della maqsūra reca la data 1088 E. (1676/7 d.C.) e quella della meridiana situata nella corte indica il 1689. La moschea, con pianta del tipo a T, aveva tre entrate, due sul lato nord-ovest e una sul lato del muro qiblī; il cortile d'ingresso si affacciava su una sala affiancata da una madrasa, mentre un corridoio in direzione sud-ovest portava al minareto. Il centro della moschea era occupato da un cortile aperto, porticato su tre lati, due dei quali composti ciascuno da una doppia galleria con una sala al centro; sul lato sud-est si apriva la sala di preghiera vera e propria caratterizzata da quattro navate parallele al muro qiblī (quella prossima a quest'ultimo di maggiori dimensioni) con tetti a doppio spiovente a eccezione dell'area assiale al miḥrāb provvista di quattro coperture piramidali.
L'area a sud del Grande Palazzo, tra la seconda e la terza cinta muraria fu adibita a mausoleo reale; il luogo fu scelto poiché sede della tomba di un santo locale del XVI secolo Abd ar-Rahman al-Majdub. Il complesso funerario, più volte rimaneggiato e ingrandito, oggi si presenta con un'entrata a sud che dà accesso a un ambiente rettangolare fiancheggiato a nord-ovest da un'ulteriore sala che, tramite una scala inserita all'interno di due corridoi, conduce a una corte centrale rettangolare. Essa, fornita di un portico su ciascuno dei suoi lati corti, è affiancata da due ambienti oblunghi di simili dimensioni; all'angolo sud-ovest di quello settentrionale si innalza un piccolo minareto. A sud-est della corte centrale si aprono tre sale: un peristilio con miḥrāb, la sala funeraria e una sala per la lettura coranica. Un piccolo padiglione, situato all'interno della parte meridionale della prima cinta muraria e conosciuto con il nome di Padiglione degli Ambasciatori per la funzione che svolgeva, era un modesto edificio periferico adiacente alla grande piazza reale dove il sultano passava in rassegna le sue truppe. La cosiddetta Prigione dei Cristiani era, invece, un sotterraneo costituito da una serie di ambienti con arcate sorrette da massicci pilastri e utilizzato all'occasione come prigione, benché la sua funzione originaria fosse probabilmente da ricondurre a quella di deposito.
Due ulteriori complessi palaziali, Dar al-Madrasa ("Palazzo della Scuola") e Qasr al-Muhannasha ("Palazzo del Labirinto") che si estendevano a nord della città reale, sono allo stato attuale gli edifici che si sono meglio conservati: il primo, circondato da un'alta muraglia, era formato nella parte centrale e occidentale da unità abitative raggruppate secondo uno stretto schema ortogonale, mentre l'ala orientale era occupata da residenze, che si affacciavano su una lunga corte rettangolare, destinate alle mogli e concubine del sultano. Il Palazzo del Labirinto deve il suo nome a un elemento decorativo di marmo simile a un labirinto che ornava la corte dei ricevimenti, parte centrale dell'apparato; la pianta del palazzo presenta una struttura più razionale rispetto a quelle precedenti, poiché si tratta di un rettangolo circondato da mura difensive (rinforzate sul lato nord) suddiviso in otto sezioni attraverso mura e camminatoi sopraelevati; una piazza (mašwar) di forma triangolare era situata davanti alle mura orientali del complesso.
La città era inoltre fornita di una serie di strutture distribuite principalmente nel settore meridionale, quali scuderie, depositi, granai e bacini per la raccolta dell'acqua. L'angolo sud-ovest era occupato dalla madīnat ar-riyāḍ al-anbarī, luogo di piacere ove erano presenti sontuosi edifici destinati alle alte personalità della corte; Bab al-Kamis, datata al 1667, è ciò che rimane di questo quartiere distrutto nel 1731 dal figlio di Mawlay Ismail, Mawlay Abd Allah (1729-1757). L'intero regno diede il suo contributo alla costruzione della città: materiali di spoglio vennero portati dalla vicina Volubilis, da Chella e Marrakech, mentre la manodopera si compose principalmente di schiavi cristiani provenienti da ogni parte del Paese. I successori di Mawlay Ismail non apportarono numerosi cambiamenti all'impianto della città poiché dovettero affrontare i Berberi rivoltosi e impegnarsi in numerose campagne militari per ristabilire l'ordine nel Paese; nonostante ciò, Mawlay Muhammad (1757-1790) vi fece costruire la Dar al-Bayda, una porta, alcune moschee e portò a termine una serie di lavori lasciati in sospeso dai suoi predecessori; Mawlay Sulayman (1792-1822) riprese il lavoro di restauro della qaṣaba.
M., nel 1996 dichiarata dall'UNESCO patrimonio universale dell'umanità, deve la sua fortuna al grande sultano alawide Mawlay Ismail il quale, dandole il ruolo di capitale nei secoli XVII e XVIII, le fece raggiungere altissimi livelli artistici che le valsero il soprannome di Versailles del Marocco.
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di Patrice Cressier
Città situata sulle alture del Rif nel Nord del Marocco, sarebbe stata fondata nel 709 d.C. da un personaggio che rivendicava un'origine himyarita, Salih ibn Mansur. Quest'ultimo avrebbe ricevuto la regione in iqtā' dal califfo omayyade di Damasco. Se questa cronologia è attendibile, si tratterebbe del più antico Stato islamico autonomo del Maghreb occidentale, addirittura anteriore al regno idriside (788).
L'aiuto offerto dall'emiro di N. al futuro Abd ar-Rahman I di Cordova, che fuggiva la repressione abbaside, sancì il destino del regno, che fu un alleato fedele dell'emirato e successivamente del califfato omayyade di Occidente, fino a divenire, intorno alla fine del X secolo, una sorta di protettorato (vi furono d'altra parte coniate monete in nome di Hisham II). Nel Maghreb, all'epoca percorso dalle correnti spirituali più diverse, N. mantenne sempre una stretta ortodossia sunnita. Circondato dai territori idrisidi, il regno di N. sembra avere mantenuto frontiere assai stabili, da Melilla a est fino alla tribù dei Masttasa a ovest, mentre pone problemi la localizzazione del suo confine meridionale. Una mezza dozzina di porti (tra i quali quelli di Badis e di al-Mazimma) commerciava attivamente, in particolare con al-Andalus. Non si sa nulla della capitale originaria, se non che essa doveva trovarsi non lontano dall'imboccatura del Wadi al-Bakar (od. Wadi Amakran), nel territorio di Timsaman. Fu verso la metà dell'XI secolo che Said ibn Idris, nipote di Salih ibn Mansur, decise di costruire una nuova capitale in un luogo in cui egli aveva precedentemente stabilito un sūq intertribale, sulle rive del wādī eponimo, il Nakur.
In senso generale occorre sottolineare il duplice e originale equilibrio sul quale riposarono il regno e la città di N. nel corso dei loro appena tre secoli di esistenza: equilibrio innanzitutto sociale e culturale, tra specificità berbere molto forti (sottolineate dai modelli di stanziamento, dalla lingua, dalle strutture sociali e da gran parte della cultura materiale) e un apporto arabo-musulmano che permise un'integrazione profonda nel territorio mediterraneo occidentale; equilibrio politico, in secondo luogo, dal momento che l'emirato fu uno Stato tampone durante lo scontro tra i due califfati rivali d'Occidente, quello omayyade di Cordova e quello fatimide dell'Ifriqiya (dopo essere stata saccheggiata dai cosiddetti "uomini del Nord" intorno all'858, la città di N. fu occupata in due riprese dalle armate fatimidi, nel 917 e nel 935). La sola descrizione un po' più dettagliata di N. è fornita, come spesso per il Maghreb occidentale, da al-Bakri. La città sarebbe stata dotata di una cinta muraria di terra attraversata da quattro porte i cui nomi forniscono informazioni sull'organizzazione urbana e sui gruppi umani presenti: Sulayman a sud, Banu Waryaghal ‒ la principale tribù, insieme ai Timsaman ‒ a est, Musalla a ovest e Giudei a nord; i bagni sarebbero stati numerosi e la moschea principale sarebbe stata costruita "sul modello di quella di Alessandria", con colonne di legno di tuia; sarebbe esistito almeno un quartiere extra muros, quello dei Saqaliba, e l'intero complesso sarebbe stato circondato da campi agricoli in cui si trovavano numerosi mulini. Le vestigia della capitale decaduta sono state identificate su un'altura (alt. 152 m) che domina la riva sinistra del wādī nel punto in cui la valle di questo si allarga in un vasto cono alluvionale coltivabile, 12,5 km in linea d'aria dal mare (provincia di al-Hoceima). Le ricerche archeologiche hanno portato all'identificazione di una struttura urbana originale: due cinte murarie ellissoidali, quasi concentriche, circoscrivevano un complesso di circa 40 ha. La muraglia interna conchiudeva un probabile spazio destinato all'élite, in cui sono stati effettivamente localizzati i resti di un edificio ipostilo, con muri di adobes (mattoni crudi) e pilastri di legno; sebbene suggestiva, non è stata a tutt'oggi comprovata la sua identificazione come moschea. Sulla riva orientale sono visibili le tracce di un vasto quartiere artigianale per la lavorazione del ferro.
Lo studio della ceramica ha rivelato, oltre alla presenza numericamente importante di esemplari di importazione (provenienti da al-Andalus ‒ Bajjana e Cordova ‒ e dal Maghreb centrale o dall'Ifriqiya), l'esistenza di una produzione locale modellata non invetriata e quella di una produzione regionale, proveniente da ateliers diversi, modellata o lavorata al tornio (molto diversa dalle odierne ceramiche tradizionali, malgrado la stabilità nel corso del tempo dei gruppi tribali presenti): profondamente ancorata nel suo substrato berbero, N. si trovava comunque al crocevia delle rotte commerciali marittime e terrestri, lungo le direttrici nord-sud ed est-ovest. Soppiantata dal suo porto più vicino, al-Mazimma, la capitale dell'emirato himyarite era senza dubbio già scomparsa al tempo della conquista della regione a opera degli Almoravidi, nell'XI secolo. Le sue ultime vestigia giacciono per la gran parte sotto il villaggio fondato sulla collina nel 1980, all'epoca della costruzione di un grande sbarramento idroelettrico, le cui acque hanno sommerso i terreni a monte della città.
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di Simona Artusi
Antica città (ar. al-Qaṣr as-Ṣaġīr) in rovina situata sulla costa settentrionale del Marocco, a sud dello stretto di Gibilterra nella regione di Anjera, 25 km a est di Tangeri e 20 km a ovest di Ceuta. Per la sua posizione strategica, la città è stata, nel corso dei secoli, "roccaforte" delle dinastie islamiche, luogo di imbarco in difesa dei territori spagnoli minacciati dall'avanzata della Reconquista cristiana e centro costiero impiegato in numerose attività commerciali.
Il sito fu probabilmente occupato al tempo dei Cartaginesi e dei Romani, ma è con l'invasione islamica che la città iniziò ad avere una sua precisa configurazione storico-geografica. Prima dell'avvento dell'Islam, comunque, la regione era sotto il controllo di Berberi cristiani vassalli dei Visigoti i quali però, nel 711 d.C., decisero di aiutare l'esercito islamico a imbarcarsi su navi alla conquista della Spagna. La città, secondo quanto lo storico Ibn Khaldun (1332-1406) afferma, venne nominata dai musulmani Qasr al-Masmuda in nome della tribù che abitava quella regione costiera. Q.es-S. divenne parte integrante del mondo islamico sotto diretta influenza spagnola. Verso la fine dell'VIII secolo gli Idrisidi, con capitale a Fez, governarono su tutta la parte settentrionale del Marocco, ma le varie lotte dinastiche e il conflitto tra Omayyadi di Spagna e Fatimidi di Ifriqiya, portarono alla caduta del regno. Sotto gli Omayyadi di Spagna non sembra che Q.es-S. abbia avuto un ruolo rilevante, se non come porto di attracco e di partenza per le truppe impiegate nella lotta contro i Fatimidi e le dinastie locali.
Gli Almoravidi (XI-XII sec.) utilizzarono la città come caposaldo militare di approvvigionamento poiché, a differenza della vicina città di Sebta/Sabta (od. Ceuta) luogo che aveva sempre avuto la supremazia navale ed economica, Q.es-S. si prestava a un più facile accesso da parte delle truppe provenienti da sud. Anche gli Almohadi (XII-XIII sec.) dovettero fare fronte a svariate campagne contro l'esercito cristiano: Abu Yusuf Yaqub, soprannominato al-Mansur bi-llah (1184-1199), al suo ritorno dalla Spagna soggiornò per una settimana a Q.es-S. in attesa del rientro definitivo delle sue truppe; il figlio an-Nasir (1199-1214) continuò la politica di difesa condotta dal padre contro la Reconquista servendosi della città per il medesimo scopo. La flotta almohade divenne una delle più potenti al mondo e, dal momento che la parte settentrionale del Marocco era ricca di foreste, si suppone che Q.es-S. fosse stata scelta anche come luogo in cui le navi venivano costruite. È in questo periodo che la città crebbe di importanza assumendo il carattere di comunità stanziaria arrivando a superare la vicina Sebta. Con l'avvento della dinastia dei Banu Marin, il suo nome venne cambiato da Qsar Masmuda in Qsar Magiaz e, a causa dell'intensa attività militare lungo lo stretto di Gibilterra, ricevette considerevoli investimenti imperiali sia in ambito economico-militare che in quello architettonico-artistico. La situazione cambiò durante il regno del merinide Abu'l-Hasan (1331-1348), il quale preferì rivolgere la sua attenzione verso la città di Sebta. Nel XIV secolo il nome venne cambiato in Qasr as-Saghir "il piccolo castello".
Tra il 1450 e il 1550 la città, con il nuovo nome di Alcacer Ceguer, divenne colonia portoghese. Il sorgere della dinastia dei Sadiani (1553-1654) portò, quindi, alla cacciata dei Portoghesi dal Marocco e nel 1550 l'ultima guarnigione portoghese, abbandonando definitivamente Q.es-S., distrusse molti edifici e fortificazioni in modo da evitarne il riutilizzo da parte delle forze nemiche. Da allora la città non è stata più abitata ed è nelle stesse condizioni in cui nei primi anni Settanta del Novecento gli archeologi della missione marocchino-americana, incaricati di svolgere indagini sul sito, la trovarono.
Q.es-S. corrisponde perfettamente al modello di città classica islamica: la città, a pianta radiale, era cinta da mura di difesa (fine del XIII sec. ca.) intervallate da 29 torri circolari ciascuna a due piani. Il piano inferiore, il cui accesso era possibile tramite una porta che comunicava con la città, era costituito da una stanza voltata probabilmente usata come deposito; dal piano superiore, invece, si accedeva direttamente al parapetto delle mura. Tre porte di entrata alla città si estendevano lungo il perimetro delle mura: Bab al-Bahr, la più grande e in parte ancora esistente, era situata nel lato nord-occidentale della città ed era provvista di un passaggio a gomito con torri rettangolari ai lati della porta di ingresso, a sua volta caratterizzata da un arco lobato circondato da un pannello in muratura e stucco decorato con il motivo del fiordaliso. Tale ingresso conduceva in una sala con soffitto emisferico sostenuto da pennacchi, mentre una scala portava al piano superiore e al parapetto; un arco a ferro di cavallo in direzione nord-est introduceva a un'altra stanza, questa volta sprovvista di tetto, mentre nel lato sud-est un arco lobato si affacciava sulla città. La porta situata nella zona orientale era simile in pianta, nonostante fosse di dimensioni ridotte, alla Bab al-Bahr, ma presentava una suddivisione interna caratterizzata da tre stanze anziché due. L'ultima entrata, posta in direzione sud, era approssimativamente equidistante dalle altre due porte; la pianta sembra avere subito, in tardo periodo islamico, un rifacimento che comportò il cambiamento da un passaggio in asse attraverso due stanze di piccole dimensioni a un'entrata a gomito. Anche per ciò che riguarda la decorazione si sono riscontrate modifiche e aggiunte; un esempio ne è la placca con iscrizione montata sopra l'arco all'interno della prima stanza e sistemata, secondo lo studioso Ch. Redman, nel periodo di rinnovo tra il 1415 e il 1458. I principali edifici istituzionali e l'area commerciale erano situati nel quadrante nord-occidentale in prossimità del centro della città. I due più importanti edifici portati alla luce dagli scavi sono la moschea congregazionale e il complesso dello ḥammām, i quali, durante il periodo portoghese, furono sottoposti a rinnovi strutturali (ad es., la moschea fu inglobata all'interno della chiesa della Misericordia) e parziali distruzioni architettoniche.
La moschea di Q.es-S. era suddivisa in tre aree, la prima delle quali, vicina al muro della qibla (rivolto verso la Mecca), era la zona di preghiera vera e propria. Un'arcata di due file di quattro pilastri ottagonali su base quadrata reggenti il soffitto creava cinque navate perpendicolari al muro qiblī, tra le quali quella mediana, in asse con il miḥrāb, era la più ampia. Il miḥrāb era costituito da una nicchia poligonale a cinque lati ma era privo di decorazione. La corte non si presentava in posizione centrale e solo due lati, compreso quello qiblī, erano porticati. Il pavimento era lastricato da mattoni disposti con un motivo a spina di pesce. Nell'angolo nord della corte si trovava un piccolo ambiente con un pozzo e con una struttura rettangolare che presentava al suo interno una scala, presumibilmente il minareto della moschea. La parte nord-ovest dell'edificio era occupata dall'ingresso principale che conduceva a un ambiente, sorretto da due pilastri, attraverso il quale si aveva accesso alla corte. Così come per la cinta muraria, l'ipotesi più accreditata in riferimento alla datazione della moschea è da far risalire alla fine del XIII secolo.
Lo ḥammām è l'edificio che si è meglio conservato e grazie al quale, pur avendo subito varie modifiche sia durante il periodo islamico che durante il dominio dei Portoghesi (all'epoca l'edificio principale venne utilizzato come prigione), si è potuto risalire al suo aspetto originario. La struttura, in mattoni, segue il modello della maggior parte dei complessi termali islamici: l'entrata si apriva nel muro nord-orientale dell'edificio principale a pianta rettangolare che comprendeva quattro ambienti in asse tra loro. L'atrio aveva una seconda uscita, in direzione nord-est, comunicante con l'esterno tramite tre gradini che raggiungevano il livello della strada, ma probabilmente si tratta di un'apertura eseguita in epoca successiva. Nel primo ambiente dell'edificio si è riconosciuto un apodyterium (ar. marslaḫ), luogo di svago e di riposo, corredato da una piscina posta al centro della stanza e probabilmente alimentata da un sistema idraulico in terracotta che correva al di sotto del pavimento. Un corridoio laterale lungo la parete del muro meridionale della stanza conduceva alle latrine. Dallo spogliatoio si entrava nel primo dei tre ambienti voltati, il frigidarium, sul quale si aprivano quattro vani rettangolari voltati a botte. Questo si immetteva nell'ambiente più grande, il tepidarium, la cui parte centrale, un'area quadrata, era coperta originariamente da una bassa cupola. Un'altra entrata conduceva al calidarium coperto da una volta a botte; al centro del muro di sud-ovest era stato aperto un grande arco dietro al quale sono stati ritrovati i resti di una fornace. All'interno dello ḥammām i muri erano completamente rivestiti di intonaco e le volte dipinte con motivi geometrici in rosso ancora oggi visibili in alcuni punti. Non si hanno informazioni precise su quale potesse essere la funzione esatta dell'ampia area che si estende a sud-est dell'edificio centrale del bagno. Si trattava di un edificio aperto con un portico, sorretto da quattro pilastri, che correva lungo il muro sud-ovest; nel lato ovest è stata rinvenuta una solida costruzione in mattoni che veniva utilizzata come passaggio tra i due edifici oppure come area riscaldata. Quasi al centro dell'edificio sono stati portati alla luce un grande pozzo e, nelle sue immediate vicinanze, numerosi frammenti di brocche. L'ultimo ambiente, situato all'estremità nord-est dell'edificio, è costituito da una grande stanza, delimitata da due archi trasversi in mattoni, adibita a forno. La funzione di questa vasta area era certamente quella di garantire il rifornimento d'acqua all'adiacente complesso termale, ma non si esclude l'ipotesi che sia stato contestualmente un centro di produzione della ceramica. Nella zona nord del centro della città, vicino allo ḥammām, era situato il sūq o zona commerciale composta da un'ampia strada sulla quale si affacciavano unità rettangolari prive del muro prospiciente al marciapiede, in tre delle quali sono stati rinvenuti i resti di grandi forni. Gli scavi di Q.es-S. hanno fornito utili informazioni sulla disposizione interna delle strutture residenziali del luogo. I resti di 18 case evidenziano elementi comuni: un'entrata a gomito che impediva la vista, dall'esterno, degli ambienti abitativi veri e propri, una corte centrale, il principale elemento, dal punto di vista architettonico e decorativo, dell'abitazione, solitamente con pozzo e circondata sui tre lati da stanze da letto, una cucina, una sala di intrattenimento, un deposito e una latrina. Una grande quantità di oggetti, per lo più frammentari e dislocati in spazi differenti, è stata rinvenuta all'interno dell'insediamento urbano. Il materiale più cospicuo è dato dalla ceramica, per lo più sotto forma di vasellame comune parzialmente decorato, ma anche da esemplari di metallo (spade, pugnali, armature), di legno, di cuoio o tessuti; tra le monete, notevole è il ritrovamento di una moneta d'oro, presumibilmente del periodo almohade, e di tre monete d'argento almoravidi.
La ceramica rinvenuta nei livelli di età portoghese si presenta con caratteristiche di maggiore raffinatezza (a cuerda seca, dipinta a lustro). L'assetto della città, in quel periodo, subì drastici cambiamenti: le mura islamiche vennero parzialmente distrutte e sostituite da un'imponente fortificazione fatta di bastioni ed entrate monumentali; la Bab al-Bahr venne inglobata nella nuova cittadella, da cui si dipartiva un lungo passaggio (couraca) che, attraverso la spiaggia, giungeva al mare; la moschea venne inserita nella chiesa della Misericordia e lo ḥammām fu usato come prigione e deposito.
L'esempio di Q.es-S., quale "roccaforte" militare e insediamento commerciale, è riconosciuto essere fonte necessaria per la comprensione dell'architettura islamica in Marocco legata, in particolar modo, a periodi cruciali dell'epoca medievale islamica quali quello almohade e merinide.
Leone Africano, Descrizione dell'Africa, in G.B. Ramusio (ed.), Il viaggio di Giovan Leone e le navigazioni di Alvise da Ca' Da Mosto, di Pietro di Cintra, di Annone, di un piloto portoghese e di Vasco di Gama, Venezia 18372; E. Michaux-Bellaire - A. Peretie, El-Qçar eç-Ceghir, in Revue du Monde Musulman, 16 (1911), pp. 329-76; G. Marçais, L'architecture musulmane d'Occident. Tunisie, Algérie, Maroc, Espagne et Sicile, Paris 1954; Ibn Khaldun, Discours sur l'histoire universelle (al-Muqaddima) (ed. V. Monteil), Beyrouth 1967; Ch.-A. Julien, History of North Africa, New York 1970; J.M. Abun-Nasr, A History of the Maghreb, Cambridge 1975; M. Terrasse, Recherches archéologiques d'époque islamique en Afrique du Nord, in CRAI, 1977, pp. 590-611; Ch.L. Redman - R.D. Anzalone, Qsar es-Seghir. Three Seasons of Excavations, in BAMaroc, 11 (1978), pp. 151-95; G. Yver, al-Ḳaṣr al-Ṣa‒‒ghīr, in EIslam2, IV, 1978, p. 759; Ch.L. Redman, Medieval Archaeology at Qsar es-Seghir, in JFieldA, 6 (1979), pp. 1-16; Id., La céramique du Moyen-Âge tardif à Qsar es-Seghir, in BAMaroc, 12 (1980), pp. 291-305; Ch.L. Redman - J.L. Boone - J. Emlen Myers, Fourth Season of Excavations at Qsar es-Seghir, ibid., pp. 263-90; J.L. Boone - Ch.L. Redman, Alternate Pathways to Urbanism in Medieval Maghreb, in Comparative Urban Research, 9 (1982), pp. 28-38; Ch.L. Redman, Qsar es-Seghir. An Archaeological View of Medieval Life, Orlando 1986.
di Federico Cresti
Città (ar. Ribāṭ al-Fatḥ) situata sulla costa atlantica del Marocco, alla foce e sulla riva sinistra del Wadi Abu Raqraq (Bou Regreg), sulla riva destra del quale si stende l'agglomerato urbano di Salé.
La città si sviluppò in epoca almohade, nella seconda metà del XII secolo, quando prese il nome di Ribat al-Fath. Essa deve probabilmente la sua origine a un campo fortificato, o a una fortezza (ribāṭ), già in precedenza esistente e occupato da volontari dediti alla guerra santa contro le popolazioni eretiche in un periodo in cui l'ortodossia islamica non si era ancora imposta nel Maghreb estremo. La zona in cui sorse la nuova città aveva già conosciuto anticamente un insediamento umano: la Sala punica, poi romana, si trovava anch'essa sulla riva sinistra del fiume, leggermente a monte della città, dove oggi si trova la necropoli merinide di Chella.
Il fondatore della dinastia almohade, Abd al-Mumin, intorno al 1150 scelse questo luogo come punto di raccolta delle truppe destinate a imbarcarsi alla volta della Penisola Iberica per la guerra santa contro i re cristiani; il luogo dell'accampamento divenne gradualmente un campo permanente, rifornito d'acqua grazie a un acquedotto, con una moschea e una residenza per i sovrani. Fu in occasione della vittoria ottenuta contro Alfonso VIII di Castiglia ad Alarcos (1195) ‒ o, secondo un'altra ipotesi, come augurio per tale vittoria ‒ che la città assunse il nome di Ribat al-Fath ("Fortezza della Vittoria"); durante il regno di Abu Yusuf Yaqub al-Mansur (1184-1199) fu racchiusa da una cinta fortificata della lunghezza di oltre 5 km che delimitava una superficie di circa 450 ha.
Delle mura almohadi, ancora oggi in gran parte conservate, sono notevoli soprattutto, da un punto di vista architettonico e artistico, due porte monumentali: Bab ar-Ruwah ("Porta dei Venti") e la porta di accesso al quartiere posto sulla punta più elevata della città, oggi noto come la Qasba degli Udaya. Quest'area, divenuta successivamente il luogo di acquartieramento della tribù degli Udaya, era in origine la dimora dei sovrani almohadi: la sua porta, di proporzioni maestose e con un ricco apparato decorativo di archi polilobati e intrecciati, palmette, conchiglie e volute floreali scolpite nella pietra ocra, sembra avere avuto una funzione decorativa (come porta del palazzo), più che difensiva. I diversi spazi che compongono il percorso di ingresso potrebbero essere stati usati come sale di ricevimento o di tribunale. Ugualmente decorata sulla sua facciata esterna è Bab ar-Ruwah, che tuttavia nel suo dispositivo interno a doppia baionetta mostra una concezione più direttamente dettata da ragioni di difesa.
La moschea principale della città almohade, sulla data di inizio della cui costruzione le fonti non concordano (1196 secondo il Rawḍ al-qirṭās di Ibn Abi Zar; durante il regno del califfo Abu Yaqub Yusuf, 1163-1184, secondo il Kitāb al-istibṣār), porta oggi il nome di Moschea di Hasan. È uno dei più vasti edifici religiosi del mondo islamico: di forma rettangolare, il suo muro perimetrale misura 139 m di larghezza e 183 m di lunghezza. La sua costruzione non fu mai portata a termine e si suppone che essa sia stata interrotta alla morte di al-Mansur. Ne rimangono oggi il minareto (anch'esso incompleto), alcuni tratti del muro esterno e un gran numero di colonne che sono state in parte risollevate dopo campagne di scavo e di restauro dell'edificio: dopo il suo abbandono il cantiere fu usato come cava di materiali per la città e il terremoto del 1755 senza dubbio contribuì alla sua ulteriore rovina. Secondo le ricostruzioni che ne sono state fatte, che permettono però di avere un'idea abbastanza precisa soltanto della pianta della moschea, essa doveva essere formata da una sala di preghiera suddivisa in 21 navate perpendicolari al muro della qibla (direzione della Mecca), posto a sud; la navata centrale (alle cui opposte estremità si trovavano, in asse, la nicchia di preghiera e il minareto) e le 2 estreme erano leggermente più larghe delle altre. Secondo un'altra ricostruzione, le navate sarebbero state 19, mentre 2 riwāq (portici) avrebbero separato la sala di preghiera dai muri perimetrali a est e a ovest. Lo spazio terminale verso il muro della qibla era costituito da 3 navate disposte parallelamente al muro stesso, formando un "triplice transetto", secondo la definizione di G. Marçais (1954). La selva di colonne e pilastri che doveva costituire lo spazio coperto (se ne sarebbero contati più di 350) era interrotta da 3 spazi aperti, sorta di cortili rettangolari, destinati a dare luce e aria alla sala. Il cortile principale (ṣaḥn), posto non lontano dalla base del minareto e circondato da portici su colonne, copriva con il suo pavimento una serie di cisterne destinate a raccogliere l'acqua per le abluzioni.
Il minareto (cd. "torre di Hasan"), a pianta quadrata con il lato di circa 16 m, costruito con blocchi ben squadrati di pietra di colore rosato, misura 44 m di altezza. Una rampa di 2 m di larghezza, che con debole pendenza gira attorno a un nucleo centrale costituito da sale quadrangolari sovrapposte, permette di salire alla sua sommità. Se fosse stato completato avrebbe probabilmente superato i 60 m, e sarebbe stato il più grande minareto mai costruito nel Maghreb. Esso costituisce, con le altre due torri almohadi della moschea Kutubiyya di Marrakech e della Giralda di Cordova, uno dei più alti risultati dell'architettura dell'Occidente islamico.
Le dimensioni colossali della moschea sono in genere giustificate dal fatto che essa doveva poter contenere per la preghiera del venerdì gli eserciti che periodicamente soggiornavano a R.; L. Golvin, tuttavia, ha ipotizzato che essa facesse parte di un programma di costruzione destinato a creare una nuova capitale dell'impero almohade, in sostituzione della troppo periferica Marrakech. Di fatto, le lunghe mura della città almohade non racchiusero mai la numerosa popolazione che avrebbe potuto risiedere al loro interno e l'agglomerazione iniziò un rapido declino dopo la caduta della dinastia.
In epoca merinide (a partire dal 1248) la città fu una piazzaforte militare di media importanza, mentre la vicina Salé si andava trasformando, grazie al suo porto, in uno dei più importanti centri di commercio della costa marocchina. Al sultano merinide Abu Faris Abd al-Aziz (1366-1372) si deve la costruzione di una fontana, di cui alcuni elementi sono ancora oggi esistenti, e probabilmente di una Grande Moschea, che ha tuttavia perduto il suo aspetto originale nel corso di una ricostruzione degli ultimi decenni del secolo scorso. Sempre all'epoca merinide appartiene lo ḥammām (bagno pubblico) costruito verso il 1355 e studiato da H. Terrasse. L'intervento più importante del periodo merinide a R., tuttavia, fu la creazione della necropoli della famiglia regnante, che incluse, oltre alle tombe, un gruppo di edifici religiosi, giardini, bagni e fontane. Il luogo prescelto si trovava a poca distanza dal muro meridionale della cinta almohade, sul sito in cui si elevava anticamente la Sala preislamica. Tra il 1310 e il 1319 l'insieme degli edifici della necropoli fu circondato da un'alta muraglia, divenendo esso stesso un ribāṭ: con questo nome viene definito, in effetti, in un'iscrizione a caratteri cufici che ne sovrasta la porta principale. A eccezione della necropoli e di un oratorio (ḫalwa), oggi non rimane più nulla degli edifici sorti nel corso del XIV secolo all'interno del muro di cinta; la stessa necropoli, studiata da H. Basset e da E. Lévi-Provençal all'inizio del XX secolo, presenta una cronologia complessa e non perfettamente chiara.
Descrivendo la città nei primi decenni del Cinquecento, Leone Africano, dopo averne ricordato la storia gloriosa dell'epoca almohade, così racconta: "Dopo la morte di Mansor (Abu Yusuf Yaqub al-Mansur) red'io che con fatica si trovano quattrocento case abitate; del resto ne sono state fatte vigne e possessioni" (Leone Africano 1837, p. 59). Il periodo del declino continuò fino agli inizi del XVII secolo, quando, con la definitiva cacciata dei moriscos dalla Spagna, R. e soprattutto Salé videro rinnovarsi e aumentare la loro popolazione con l'arrivo dei profughi andalusi.
Leone Africano, Descrizione dell'Africa, in G.B. Ramusio (ed.), Il viaggio di Giovan Leone e le navigazioni di Alvise da Ca' Da Mosto, di Pietro di Cintra, di Annone, di un piloto portoghese e di Vasco di Gama, Venezia 18372; Ibn Abi Zar al-Fasi, Rawḍ al-qirṭās (ed. C.J. Tornberg, Annales Regum Mauritaniae a condito Idrissarum imperio ad annum fugae 726, II, Upsaliae 1846, p. 179); Kitāb al-Istibṣār (ed. E. Fagnan), Constantine 1899; H. Basset - E. Lévi-Provençal, Chella, une nécropole mérinide, Paris 1923; J. Caillé, La ville de Rabat jusqu'au Protectorat français. Histoire et archéologie, Paris 1949; H. Terrasse, Trois bains mérinides du Maroc, in Mélanges offerts à William Marçais par l'Institut d'études islamiques de l'Université de Paris, Paris 1950, pp. 311-20; H. Terrasse - J. Caillé, Le plan de la mosquée de Hassan, in CRAI, 1951, pp. 25-29; Ch.-A. Julien, Histoire de l'Afrique du Nord de la conquête arabe à 1830, Paris 1952, pp. 111, 115, 122-27; J. Caillé, La mosquée de Hassan à Rabat, Paris 1954; G. Marçais, L'architecture musulmane d'Occident. Tunisie, Algérie, Maroc, Espagne, Sicile, Paris 1954, pp. 207-24, 244-54, 281-84, 315-17; A. Laroui, L'histoire du Maghreb. Un essai de synthèse, I, Paris 1975, pp. 159-206; J.D. Hoag, Architettura islamica, Milano 1978, pp. 51-53; L. Golvin, Essai sur l'architecture religieuse musulmane, IV. L'art hispano-musulman, Paris 1979, pp. 257-60, 276-92; P. Cuneo, Storia dell'urbanistica. Il mondo islamico, Roma - Bari 1986, pp. 207-10, 216; E. Lévi-Provençal - J.-F. Troin, s.v. Ribāṭ al-Fatḥ, in EIslam2, VIII, 1994, pp. 524-26.
di Ronald Messier
Città (lat. Sigillum Massae; ar. Siǧilmāsa) situata nell'oasi di Tafilalt nel Marocco sud-orientale; fu in periodo islamico medievale uno dei maggiori centri commerciali al confine con il Sahara settentrionale. Era la stazione dove venivano organizzate le grandi carovane che attraversavano il deserto in direzione di Timbuctu e di altre città dell'Africa occidentale dove si svolgeva il redditizio commercio dell'oro.
Una tradizione locale riportata da Leone Africano suggeriva che la città fosse stata fondata in epoca romana, ma le indagini archeologiche non hanno evidenziato tracce di tale occupazione. Esistono invece motivi per ritenere che la città fosse un luogo di accampamento stagionale per pastori e commercianti seminomadi berberi, come confermato da al-Bakri nell'XI secolo: egli racconta che S. fu fondata nel 758 da emigrati di Kairouan fuggiti a causa della loro fede religiosa kharigita e accolti favorevolmente dalla popolazione locale dei Banu Midrar.
Gli scavi americani, svoltisi dal 1988 al 1998, hanno ampliato le conoscenze sul sito che prima era noto soprattutto grazie alle fonti scritte. La città presenta una cinta muraria che racchiudeva la madīna in cui si alternavano quartieri edificati a orti e giardini. Gli scavi hanno portato alla luce varie strutture residenziali e la Grande Moschea. Al-Bakri (m. 1094) ci racconta che dopo cinquant'anni dalla sua fondazione: "al-Yasa costruì le mura nel 199 [814/5 d.C.] ... la moschea, anch'essa edificata da al-Yasa, è una salda costruzione, mentre i bagni sono piuttosto spolii" (ed. Mac Guckin de Slane). Ci informa poi che la cinta muraria, aperta da 12 porte, era costituita da un basamento di pietra sormontato da uno strato di mattoni crudi. All'interno si trovavano splendide abitazioni, molte delle quali provviste di giardini, e magnifici edifici pubblici. Durante gli scavi è stata presa in esame una torre sulla riva orientale del Wadi Ziz dove si trovano alcuni resti delle mura occidentali. La torre presenta due fasi costruttive: l'ultima fase è relativa alla fortificazione realizzata dagli Alawiti durante la metà del XVII secolo; le fondazioni relative alla fase più antica potrebbero invece essere state edificate già nel IX secolo ed essere quindi datate all'epoca di al-Yasa (790-823). Inoltre, sono stati rinvenuti a ovest della Grande Moschea bagni databili al XIII secolo.
Le evidenze più consistenti dell'occupazione midraride furono rinvenute nello strato più basso della Grande Moschea. I frammenti di stucco dipinto e i rivestimenti in legno sono decorati con semplici disegni di tipo geometrico su un fondo bianco. Nella parte sud-orientale del complesso sono stati oggetto di scavo alcuni ambienti con fondamenta di pietra dove è stato rinvenuto un frammento di stucco con un'iscrizione coranica (Corano, II, 286). L'intero verso così reciterebbe: "Su nessun'anima Dio pone un fardello più grande rispetto a quanto essa può sopportare. Riceve il bene che si merita e soffre le pene che si merita". Non essendo un verso molto diffuso nell'epigrafia monumentale è possibile ritenere che esprima il rigetto della dottrina kharigita della giustificazione della fede non seguita da opere di bene. Il frammento di stucco doveva appartenere a una residenza di alto livello, forse proprio al dār al-imāra, la residenza del governatore; è stato, infatti, trovato sul lato sud-orientale di una struttura in cui sono state rinvenute le basi di colonne circolari, struttura che facilmente può essere ricondotta a una moschea ipostila. Il dār al-imāra si sarebbe trovato quindi accostato al lato della qibla, seguendo il modello consueto delle prime città islamiche.
Tra il 1054 e il 1056, S. cadde nelle mani degli Almoravidi. Questi edificarono una cittadella fortificata all'interno della cinta muraria. Sondaggi stratigrafici hanno rivelato che sin dai primi tempi della storia di S. la vite era tra le colture più abbondanti e diffuse. Gli acini di uva però cominciano a scomparire dai rinvenimenti archeologici proprio in concomitanza con l'occupazione almoravide nella metà dell'XI secolo, fatto che concorderebbe con la rigida politica sociale che andava contro l'abuso di bevande alcoliche. La città conobbe in questo periodo la sua maggiore fioritura. Le fonti la ritraggono come una città a impianto longitudinale che si estende dal Qsar al-Mansuriya fino a Tabouassamt e copre una distanza di circa 12 km. Il viaggiatore del X secolo al-Masudi racconta che per percorrere la maggiore arteria di S. occorreva mezza giornata di cammino. Gli studi hanno rilevato la presenza di una lunga arteria centrale, ma l'area urbanizzata era concentrata nella zona sopraelevata estesa per circa 1 km2 al centro del sito. A nord e a sud della zona sopraelevata le zone edificate consistevano in piccoli insediamenti, ville e aree produttive. Le zone agricole (g'maman) intorno alla città si estendevano per circa 115 km2 ed erano circondate da basse mura di fango. Circa 4 km a ovest di S. si trova un sito chiamato Souk ben Akla. Una raccolta sistematica di materiali di superficie ha rivelato la presenza di frammenti ceramici databili dall'XI al XIV secolo; la percentuale di materiale importato è più alta di quella riscontrabile al centro di S. facendo dunque presupporre che questo sito fosse il luogo di incontro delle carovane.
Le evidenze archeologiche relative all'occupazione almohade cominciata nel 1147 sono di particolare importanza. Uno dei primi interventi architettonici degli Almohadi fu l'ampliamento della Grande Moschea che venne allargata di quasi il doppio della sua grandezza. L'allargamento implicò la creazione di un nuovo muro qiblī (rivolto verso la Mecca) con relativo nuovo miḥrāb (nicchia di preghiera). La soluzione più interessante fu il cambiamento dell'orientamento di tre gradi della struttura originaria, similarmente a come era avvenuto per la moschea Kutubiyya di Marrakech. Accanto al miḥrāb furono installati dei binari che permettevano al minbar (pulpito) su ruote di scivolare in avanti, al momento del suo utilizzo durante la preghiera, e indietro, per essere poi riposto nella sua nicchia. Il pavimento della moschea fu rivestito di intonaco e, come era stato già fatto nella moschea al-Qarawiyyin a Fez, le raffinate decorazioni di stucco delle pareti furono ricoperte. Quest'atteggiamento rifletteva l'austerità della concezione estetica di questo primo periodo almohade ed era simbolico di un atteggiamento religioso più severo.
Nella prima metà del XIV secolo gli scrittori arabi ancora descrivono una città ricca e fiorente. Leone Africano ci parla di una guerra civile avvenuta nel 1393, dicendo che "delle mura, una volta così imponenti, rimane solo una parte in rovina e coperta di erba. La popolazione è divisa in clan rivali che vivono attorno ai loro capi in villaggi fortificati vicino alle rovine della vecchia Sigilmasa". Le ricerche archeologiche però smentiscono in parte questa descrizione, dimostrando che la parte centrale della città sopravvisse ai disordini sociali. Resti architettonici e ceramici del periodo probabilmente successivo alla guerra del 1393 furono rinvenuti in diverse unità di scavo disseminate nel sito. La più chiara attestazione di un'occupazione della città nel XV secolo si trova nella stessa moschea: analisi al 14C indicano che durante la metà del XV secolo avvenne un importante intervento di restauro.
Per i due secoli e mezzo successivi, S. mantenne una certa autonomia, permessa d'altra parte dal potere centrale in cambio di una pacifica intesa che assicurasse il commercio dell'oro con le regioni subsahariane. La dinastia degli Alawiti emerse dalla regione di Tafilalt intorno al 1630. Questi fortificarono nuovamente la cittadella di S. ampliandola al fine di incorporare all'interno la Grande Moschea e la zona residenziale lungo il Wadi Ziz. L'ultimo restauro della moschea di cui abbiamo documentazione archeologica avvenne nel tardo XVIII secolo a opera del sultano alawita Sidi Muhammad ibn Abd Allah. Oggi la città di Rissani ha preso il posto dell'antica S. come principale città commerciale della regione. I monumenti e i santuari che ancora si trovano nei suoi dintorni testimoniano dell'importanza che il sito ancora mantiene come luogo di origine e centro spirituale dell'attuale dinastia degli Alawiti.
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di Patrice Cressier
Città del Marocco presahariano; sin dall'Alto Medioevo fu uno dei tre grandi "porti carovanieri" del Marocco assieme a Sigilmasa, ubicata più a oriente, e a Nul Lamta, che invece si trovava più a occidente.
La città di T. controllava la pista occidentale del grande deserto che passava per Awdaghost (nell'attuale Mauritania), insediamento distante 40 giorni di viaggio dalla città stessa. Citata a partire dal IX secolo da al-Yaqubi, che la colloca erroneamente nella regione del Dra, T. è menzionata con maggiore precisione ‒ e soprattutto con più dettagli ‒ nel corso del X e dell'XI secolo, da Ibn Hawqal e al-Bakri. Secondo queste fonti, T. sarebbe stata fondata da Abd Allah ibn Idris (solo Ibn Hazm ne attribuisce la fondazione a Ubayd Allah ibn Idris), in ogni caso nel IX secolo; proprio per questo la città, almeno in un primo tempo, sarebbe stata alle dipendenze dell'emirato idriside di Aghmat, e ciò malgrado la grande distanza che separava le due città.
All'origine dei primi insediamenti umani presso T. ‒ e comunque all'origine del dominio dell'autorità idriside su questo territorio ‒ vi fu probabilmente la presenza di importanti giacimenti di argento e di rame ubicati nel vicinissimo Gebel Addana (anche se le fonti parlano piuttosto di oro e di argento: così al-Yaqubi, secondo il quale l'oro spunta sul suolo come le piante). Tuttavia un'altra ragione importante all'origine di tale insediamento deve essere stata la presenza di acqua perenne in abbondanza, che permise la creazione di un paesaggio artificiale di oasi le cui palme da dattero, culture e molini sono evocati da al-Bakri. Così, T. partecipò al duplice processo di accaparramento avviato in quel periodo dai piccoli Stati autonomi del Maghreb occidentale: quello delle ricchezze minerarie (col controllo sia del flusso dell'oro africano verso il Nord che della produzione locale d'argento legata alla monetizzazione) e quello della rivoluzione agricola, verificatasi in quel periodo mediante la creazione di spazi irrigui dedicati a culture specializzate a rendimento elevato. T. sembra scomparire del tutto dalla storia alla fine del periodo merinide (metà del XV sec.), anche se le cause precise della sua distruzione ‒ che alcune tradizioni locali si limitano ad accennare ‒ non sono molto chiare.
È opinione comune che T. fosse ubicata su un'altura ancora oggi esistente, che domina da un'altezza di una ventina di metri la pianura alluvionale dinanzi alla lunga catena del Gebel Bani e a una dozzina di chilometri a sud-ovest del piccolo centro amministrativo e del palmeto di Akka (prov. di Tata). L'altura stessa conserva, infatti, le vestigia di due cinte di mura fortificate trapezoidali, distanti l'una dall'altra 80 m; una di queste è completamente distrutta, mentre dell'altra (ca. 145 × 100 m) si conservano alcune porzioni in mattoni crudi con paramenti di pietra alla base. L'abbondante materiale archeologico inserito tra i mattoni fa pensare che questa fortificazione sia una costruzione recente. È stato ultimamente dimostrato che nello spazio situato tra le due cinte di mura ‒ altrimenti destinato a restare vuoto ‒ era stata costruita una moschea sprovvista di minareto. Sul fianco meridionale dell'altura si erge tuttora il mausoleo di Sidi Shanawil, santone ebreo venerato anche dai musulmani. L'abitato, composto da case costruite in adobe (mattone crudo) e pietra locale, si estendeva all'interno e attorno alla fortezza; sono state inoltre rinvenute alcune vestigia di queste abitazioni: si tratta dei resti di soffitti realizzati con travi di legno di oleandro, intrecciate e dipinte. Ovunque, e su una superficie di parecchi ettari, sono visibili tracce di metallurgia del rame (anche se ciò non esclude la presenza di forme di lavorazione dell'argento): materiale sparso al livello del suolo, scorie di lavorazione, frammenti di crogioli, ecc. È molto probabile che sul posto venisse realizzato un processo di purificazione del metallo, il cui minerale era soggetto a una prima fase di lavorazione presso i luoghi di estrazione.
Tuttavia la recente scoperta, la più spettacolare, è quella di un'estesa zona con appezzamenti di terra agricola. Grande più di 370 ha, quest'area è associata alla città ed è ubicata a ovest e a nord di essa; grazie a una serie di indizi, è stato possibile stabilire che l'abitato e i terreni risalgono allo stesso periodo. Tanto i limiti delle particelle di terra quanto le aiuole interne sono rimasti intatti nei minimi dettagli. Questa zona era irrigata da cinque o sei canali, costruiti in terra e lunghi circa 11 km; i canali erano alimentati dall'acqua del Wadi Akka che confluiva in essi grazie a dighe ubicate in punti specifici dell'antico corso del fiume oggi asciutto.
Le ripetute scoperte di monete del periodo almohade confermano che il complesso irriguo formato da città e zona agricola era già esistente nel XII secolo. Tuttavia l'assenza, almeno sino a oggi, di resti archeologici chiaramente attribuibili a epoche più remote e l'ubicazione del sito in rapporto all'oasi di Akka, della quale costituisce in qualche modo un'appendice, pongono inevitabilmente il problema della cronologia relativa dei due siti, e impongono di cercare il probabile insediamento primitivo nell'attuale palmeto. Questo fatto, a dire il vero, può sembrare a prima vista un paradosso, se solo si pensa che il toponimo di Akka appare nelle fonti ‒ con la forma Aqqa ‒ soltanto in epoca moderna; ma è possibile che non sia davvero tale: infatti casi simili di dislocazione di un centro urbano, o di espansione seguita da un progressivo ripiegamento, non sono rari anche altrove nel mondo islamico.
al-Bakri, Kitāb al-masālik wa'l-mamālik (ed. W. Mac Guckin de Slane, Description de l'Afrique septentrionale, Alger 1911-13); F. de La Chapelle, Esquisse d'une histoire du Sahara occidental, in Hesperis, 11 (1930), pp. 35-95; L.-V. Justinard, Notes sur l'histoire du Sous au XVIe siècle, in Archives Marocaines, 29 (1933); Ibn Hazm, Ǧamharat ansāb al-῾arab (ed. Abd as-Salam Muhammad Harun), Le Caire 1962; al-Yaqubi, Description du Maghreb en 276/889. Extraits du "Kitâb al-Buldân" (ed. H. Pérès, trad. G. Wiet), Alger 1962; Ibn Hawqal, Kitāb ṣurat al-arḍ (edd. J.H. Kramers - G. Wiet, Configuration de la terre, Beyrouth - Paris 1964); B. Rosenberger, Les vieilles exploitations minières et les anciens centres métallurgiques du Maroc. Essai de carte historique, in Revue de Géologie du Maroc, 17 (1970), pp. 71-108; 18 (1970), pp. 50-102; Id., Tamdult. Cité minière et caravanière pré-saharienne (IXe-XIVe s.), in Hespéris-Tamuda, 11 (1970), pp. 103-40; Ibn Khaldun, Kitāb al-῾ibar (ed. P. Casanova, Histoire des Berbères et des dynasties musulmanes de l'Afrique septentrionale, Paris 1982); P. Cressier, Du sud au nord du Sahara: la question de Tâmdult, in A. Bazzana - H. Bocoum (edd.), Du Nord au Sud du Sahara: bilan et perspectives de cinquante ans d'archéologie française. Colloque sur l'archéologie en Afrique et au Maghreb (Paris, 13-14 mai 2002), Paris 2004, pp. 263-72.
di Elisabeth Fentress
Villaggio (berbero Tinmallal) sito su un'altura fortificata naturalmente che domina la valle del fiume N'fis nell'Alto Atlante.
Luogo di raduno frequentato dalle tribù berbere in epoca medievale, T. fu strettamente legata alla storia degli Almohadi e servì da base alle campagne militari di Ibn Tumart contro gli Almoravidi di Marrakech. Dopo la sua morte, Ibn Tumart fu sepolto in questo posto e la sua tomba divenne un luogo sacro oggetto di pellegrinaggio; tra il 1153 e il 1154, il primo califfo almohade vi costruì una splendida moschea, forse sulle rovine di quella eretta in precedenza da Ibn Tumart, benché questo sia ancora da dimostrare. T. continuò a essere usata come cimitero dai califfi almohadi fino al 1275, quando fu saccheggiato dai Merinidi. La città fu rioccupata e, per qualche tempo, continuò a godere di una relativa prosperità; la moschea fu definitivamente abbandonata nel XVIII secolo.
L'insediamento era circondato da fortificazioni con bastioni quadrati e una porta. Le mura erano costruite in pisé (impasto di fango, sassi e paglia) rinforzato con pietre e travi sopra una base in muratura di circa 2 m di altezza. L'accesso alla città era limitato a un unico ponte levatoio che sovrastava un burrone scosceso. L'area dove un tempo si ergeva la città è oggi coltivata e non vi si scorge più alcuna costruzione, a parte i resti della moschea che fu edificata accanto alle mura. Le sue merlature suggeriscono che, come per le moschee del XII secolo di Gerba, l'edificio avesse anche una funzione difensiva. Nel 1981 l'edificio è stato oggetto di una intensiva campagna di ricerca, scavo e documentazione, condotta dal Deutsche Archäologische Institut e dall'Istituto Nazionale del Patrimonio del Marocco.
La moschea di tipo ipostilo è tuttora in gran parte intatta; edificata subito dopo la Kutubiyya di Marrakech, essa fu costruita servendosi di una tecnica mista che usava muratura di pietrisco e fango, con intervalli di fasce marcapiano in mattoni cotti; le sezioni superiori erano realizzate in mattoni. I quadri delle porte e delle finestre erano anch'essi di mattoni, usati infine anche nella costruzione dei pilastri. I pilastri del ṣaḥn (corte) furono costruiti attorno a canali di scolo verticali che permettevano il deflusso dell'acqua dal tetto. La moschea misura 48 × 43,6 m e ha una pianta simile a quella della Grande Moschea di Marrakech, con una corte rettangolare, che conduce a una sala di preghiera longitudinale divisa in nove navate, ciascuna a cinque campate. Le navate laterali e centrali sono leggermente più larghe delle altre evidenziando così l'asse del miḥrāb; esse conducono a un transetto ubicato lungo il lato meridionale della costruzione, nel quale tre volte, decorate allo stesso modo del miḥrāb con elaborati muqarnas di stucco, coprono le giunzioni con le campate più larghe. Le cupole sono caratterizzate da pannelli coperti da iscrizioni in stile cufico, realizzate in stucco. Le arcate rispettano un'elaborata gerarchia, che culmina nel raffinato doppio arco polilobato, che caratterizza il miḥrāb stesso. Il minareto quadrato, eretto contro il muro meridionale dove viene attraversato dal miḥrāb, evidenzia all'esterno questa concentrazione architettonica sulla nicchia di preghiera. Il minareto ha perso la sua metà superiore e l'unica decorazione visibile consiste nelle arcate cieche del secondo piano.
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di Elisabeth Fentress
Città (lat. Volubilis, ar. Walīlā) le cui rovine si trovano 3 km a ovest della città santa di Mawlay Idris Zerhoun.
Quando, alla fine del III sec. d.C., la riorganizzazione dell'Impero da parte di Diocleziano vide inesplicabilmente ritirare l'amministrazione dalle zone interne della Mauretania Tingitana, Volubilis era una ricca e prospera città. Nei secoli successivi continuò a essere abitata, sebbene la storia di questo periodo rimanga alquanto oscura. Sembrerebbe che a un certo momento, verso la fine del V secolo, la popolazione si sia concentrata sul pendio orientale della collina, a una certa distanza dal centro della città romana. Questo potrebbe essere avvenuto a causa della rovina dell'acquedotto che avrebbe portato la popolazione a dipendere per il rifornimento idrico dal Wadi Khomane e dai pozzi che si trovavano nella pianura che veniva inondata dalle sue acque. Dopo il V secolo fu costruita una nuova cinta muraria che separava quest'area dall'antico centro cittadino. Le mura circondavano un'area di 18 ha che si trovava all'interno della città romana. All'esterno è stata rinvenuta un'area cimiteriale, particolarmente concentrata nella zona dell'arco di trionfo. Iscrizioni funerarie cristiane provenienti da quest'area dimostrano che la popolazione utilizzava ancora il latino e usava una cronologia basata sulla data della fondazione delle province romane. Secondo la tradizione medievale, il conquistatore arabo Uqba ibn Nafi, conclusa la pace con il conte berbero romano Giuliano a Tangeri, continuò la sua opera di conquista verso W., dove combatté contro le tribù berbere. Più tardi, in epoca abbaside, fu costruito un ribāṭ e vennero coniate delle monete in cui compariva il nome del sito, W. Risulta molto probabile che, quando Idris I vi giunse nel 788, una popolazione romano-berbera ancora occupasse il sito. Il controllo abbaside della città era, tuttavia, debole e Idris fu benevolmente accolto dalla tribù degli Awraba e dal suo capo e dichiarato imam. Il sito fu ampliato e riorganizzato come capitale del nuovo regno. Idris fu assassinato nel 791 e a lui successe il figlio, Idris II, il quale nell'806/7 spostò la capitale a Fez. Ciò nonostante W. continuò a essere abitata come capitale del piccolo principato di al-Awdiya. Ribelli esiliati provenienti da Cordova arrivarono qui nell'818; pare che i loro discendenti abitassero ancora il sito quando al-Idrisi vi passò nel XII secolo, sebbene egli stesso vi si riferisca come a una città in rovina.
Gli scavi della città medievale sono stati perlopiù casuali fino allo scorso decennio. I cimiteri medievali sono stati identificati da Aomar Akerraz, il quale intraprese negli anni Novanta del Novecento gli scavi della casa medievale sullo strato superiore della Maison du Compas e studiò le evidenze materiali rinvenute dalla città medievale. All'esterno della cinta muraria, sulla piana del Wadi Khomane, gli scavi non ancora pubblicati di B. Rosenberger degli anni Sessanta rivelarono un piccolo edificio termale costituito da una sala con panche in muratura e piscina (frigidarium), un vestibolo (tepidarium) e due sale coperte a volta riscaldate dagli ipocausti che si trovavano al di sotto della pavimentazione (calidarium); l'ultima delle due sale era ulteriormente riscaldata da due bacini di acqua calda. Lo studio del complesso intrapreso da Abdelaziz el-Khayari ha rilevato la presenza di una moneta sotto il pavimento che data con certezza l'edificio al periodo di Idris I. Questo importante ritrovamento e la conseguente datazione fanno dell'edificio il più antico ḥammām del Maghreb occidentale.
Dal 2000 una missione congiunta anglo-marocchina diretta da E. Fentress, G. Palumbo e H. Limane conduce gli scavi sia all'interno che all'esterno della città medievale. All'interno della città gli scavi hanno riportato alla luce una struttura domestica che risulta essere stata occupata dal VI al IX secolo. Durante le sue varie fasi l'abitazione, da una semplice struttura costituita da due ambienti, si è trasformata in un complesso di ambienti dalla struttura più articolata, sebbene abbia comunque mantenuto un aspetto di abitazione rurale. Alla fine dell'VIII - inizi del IX secolo sul lato meridionale del complesso fu creata una strada. Dopo un periodo di abbandono il sito fu occupato da un'altra abitazione, forse edificata nell'XI secolo in periodo almoravide.
All'esterno della cinta muraria furono intrapresi gli scavi dell'area dei bagni islamici che hanno rivelato una zona circoscritta sul lato settentrionale occupata da fosse. Sul lato meridionale un ampio cortile è circondato da tre ali costituite da stanze allungate con pavimentazione di pietra o di intonaco dipinto di rosso. Questo edificio misura 26 m2 e la presenza di un cortile pavimentato e l'accesso diretto sulla strada suggeriscono d'interpretare la struttura come un ḫān (caravanserraglio), struttura adibita a ospitare i mercanti viaggiatori che giungevano in città per vendere le proprie mercanzie. La stessa area fu più tardi occupata da rilevanti architetture domestiche la cui vita potrebbe avere abbandonato la zona a partire dalla metà del IX secolo dato che né la monetazione, né la produzione ceramica possono essere datate posteriormente a quest'epoca.
Bibliografia
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