L'Africa islamica: Tunisia
di Alessandra Bagnera
Tunisia è il nome moderno della regione che occupa la parte nord-orientale del Maghreb: conosciuta semplicemente come Africa in epoca romano-bizantina, nel Medioevo venne chiamata Ifrīqiya dai musulmani che arabizzarono il nome latino. A causa della sua centralità rispetto ai confini della più ampia regione che gli storici e i geografi arabo-musulmani del Medioevo indicano come Ifriqiya, l'attuale territorio della Tunisia non è interessato da quell'ambiguità che per le regioni limitrofe va spesso risolta a seconda dei contesti e delle epoche.
Secondo M. Talbi la più probabile origine etimologica del termine Ifrīqiya sembrerebbe di tipo filologico: il termine latino Africa (e quindi la sua arabizzazione in Ifrīqiya) sarebbe legato alla radice semitica FRQ ("separare"), probabilmente derivata ai Romani dalle popolazioni puniche che abitavano la regione prima della loro conquista. Prova ne sarebbe il fatto che il nome Provincia Africa, con cui si indicò all'inizio esattamente il territorio conquistato da Roma a Cartagine, utilizza un termine sconosciuto tanto ai Latini quanto ai Greci che lo indicavano come Libya.
La conquista musulmana dell'Ifriqiya avvenne nel periodo della prima, rapida espansione dell'Islam, quando, dopo i primi successi e l'occupazione della Siria bizantina (636) e della Mesopotamia sasanide (637), essa si rivolse da un lato verso l'Iran orientale e dall'altro verso l'Egitto (641-646), da dove proseguì verso il Maghreb per poi continuare fino alla Spagna. Decisa dal califfo Uthman (644-656) essa iniziò nel 645, ma non fu rapida né facile e solo dopo circa un cinquantennio il paese poté dirsi durevolmente pacificato. Diversamente dagli altri conquistatori, arrivati sempre dal mare, gli Arabi giunsero da terra attraverso una secolare via di collegamento tra l'Egitto e la Tunisia. A una prima vittoria a Sbeitla-Sufetula nel 647 contro i Bizantini seguì una serie di spedizioni che, anche a causa della tenace resistenza berbera, si rivelarono fallimentari costringendo gli Arabi a ripiegare.
Le lotte per la successione al califfato dopo la morte di Uthman rallentarono le operazioni di conquista, che ripresero sotto la guida del comandante Uqba ibn Nafi e si conclusero con la fondazione di Kairouan nel 670. Questa era una città-accampamento in cui, come già per Kufa e Basra in Iraq (638/9) e per Fustat (641) in Egitto, l'insediamento delle tribù arabe serviva a rendere stabile la conquista e a sfruttarne le risorse economiche, diventando un polo di attrazione per le popolazioni locali e quindi una sede privilegiata in cui avvenivano conversioni e integrazioni etnico-culturali. Gli Arabi, che avevano peraltro un genere di vita simile a quello dei Berberi, a differenza dei popoli che li avevano preceduti in terra tunisina, si stabilirono inizialmente all'interno, lontani dalle coste ancora in mano ai Bizantini.
Secondo alcune fonti arabe, Kairouan fu costruita in un luogo completamente desertico, mentre secondo altre venne edificata in prossimità di un modesto centro abitato preesistente, che era legato a un avamposto fortificato della linea difensiva bizantina e fungeva da luogo di sosta per le carovane grazie a un pozzo (il Bir Omr Amr) che lo riforniva, anche se scarsamente, di acqua (Solignac 1953). La presenza di quest'ultima dovette quindi rappresentare, come nelle altre prime fondazioni islamiche, un elemento importante nella scelta del sito che, impiantato ai margini del deserto, sarebbe stato in seguito arricchito di risorse idriche appropriate al suo progressivo sviluppo. L'organizzazione interna di queste città-accampamento prevedeva, dopo la preliminare individuazione dell'area in cui far sorgere la moschea e il dār al-imāra (sede amministrativa e residenza del capo della comunità), una suddivisione degli appezzamenti di terreno in base alle strutture familiari e di clan delle diverse tribù che formavano l'esercito di conquista. L'inserimento dei nuovi venuti, indigeni o stranieri, vi avveniva con forme aggregative che comportavano l'adesione a un certo clan arabo e l'acquisizione del suo nome in cambio di protezione e di riconoscimento di un preciso status sociale, quello di mawlā.
La stretta connessione che ovunque si registra tra questi primi stanziamenti e la conquista rende plausibile ipotizzare che inizialmente non si occupò totalmente il nuovo territorio, ma si preferì controllare specifiche zone da cui far partire una più lenta azione di diffusione e di conferma dell'egemonia. Solo col tempo da questi avamposti militari si formò gradualmente un modello urbano peculiare, a conferma che il nuovo popolamento arabo-musulmano non fu né traumatico, né capillare. Dalla nuova base di Kairouan continuarono le spedizioni militari. L'ultima pagina della conquista islamica fu scritta dalla vittoria definitiva di Hassan ibn an-Numan che nel 698 sconfisse la resistenza berbera e scacciò i Bizantini dal Paese. Impadronitosi di Cartagine, egli stabilì una città-accampamento nella vicina Tunisi, allora piccola città fortificata della Numidia, che continuò a svolgere ancora per un lungo periodo un ruolo di secondaria importanza rispetto a Kairouan, capitale incontrastata della nuova provincia islamica dell'Ifriqiya.
Da questa che fu la prima città musulmana del Maghreb, l'Ifriqiya, ormai parte dell'impero dei califfi omayyadi di Damasco, venne amministrata con governatori designati dal potere centrale. In nome e per conto del califfo essi iniziarono dalla capitale Kairouan l'opera di islamizzazione e arabizzazione del territorio, con quella tolleranza e con quei criteri di pacifica convivenza che hanno caratterizzato ovunque l'insediamento islamico. Raramente si imposero conversioni forzate mentre, a chi restava cristiano, veniva spesso concesso il diritto di emigrare verso le aree bizantine. Come nel resto del giovane mondo musulmano, pur con norme diverse a seconda dei contesti, in assenza di un nuovo e definito modulo alternativo vennero probabilmente conservate le strutture amministrative locali. In linea teorica, infatti, la differenza tra musulmani e non musulmani veniva sottolineata dalle differenti posizioni fiscali: il non musulmano doveva pagare, oltre al testatico (ǧizya), anche una tassa fondiaria, il ḫarāǧ, per non aver subito alcuna confisca della terra; per il musulmano, come da Corano, era prevista una sorta di decima sui beni mobili, la cosiddetta "elemosina legale", chiamata zakāt, o ῾ušr (decima) se applicata ai prodotti agricoli. La dipendenza dei governi provinciali da Damasco veniva economicamente formalizzata dall'invio di una parte delle imposte alle casse centrali e di un contributo in schiavi, particolarmente apprezzati.
L'Ifriqiya passò nell'orbita del califfato degli Abbasidi che, ascesi al potere dopo il massacro degli Omayyadi nel 750, avevano stabilito la nuova capitale dell'impero musulmano a Baghdad nel 762. Il ruolo centrale che Kairouan continuò ancora per lungo tempo a mantenere come capitale di questa provincia è confermato anche dai dati sul popolamento urbano di cui A. Lézine (1971) ha proposto una ricostruzione in base a una serie di riscontri archeologici e monumentali. Per ciò che riguarda la Tunisia tra la seconda metà dell'VIII e l'XI secolo, Lézine propone una ricostruzione del numero degli abitanti dei centri maggiori in base alla capienza delle moschee congregazionali, agli allargamenti che esse andarono subendo a causa dell'incremento demografico e infine alla presenza della cinta muraria, elemento importante nella definizione degli spazi disponibili all'abitato e quindi della sua densità.
Nella seconda metà dell'VIII secolo, dopo le rivolte kharigite che avevano fortemente scosso l'Ifriqiya, solo Kairouan risulta essersi sviluppata in quella che, secondo i criteri applicati dagli studi di demografia antica all'Europa medievale, può essere definita come città media: la sua popolazione è stimata in un numero leggermente inferiore ai 10.000 abitanti che definiscono il limite massimo di quella categoria urbana. Nel 774 essa possiede una cinta muraria la cui estensione, sviluppando una superficie di circa 65 ha, permette di calcolare una densità dell'abitato interno superiore a quanto si registrerà per i secoli successivi. Completamente diversa la realtà contemporanea relativa a Susa e Monastir, gli altri due centri per i quali disponiamo di dati ricostruiti in base alla capienza della sala di preghiera dei ribāṭ, risalenti rispettivamente al 780 circa e al 796. Susa risulta essere un piccolo villaggio, con un'estensione forse non superiore ai 2 ha e con un agglomerato di circa 35 fuochi. Questo aveva il suo nucleo, anche difensivo, nella costruzione fortificata del ribāṭ, la cui sala di preghiera, secondo al-Makrizi, funzionava anche da moschea per l'abitato sorto nelle vicinanze. Monastir, infine, era un villaggio più modesto, che con i suoi 350 abitanti al massimo, occupava un rango ben indicato dalla sua dipendenza da Susa.
La riorganizzazione delle frontiere da parte di Harun ar-Rashid (786-809) comportò la nomina a governatore dell'Ifriqiya di Ibrahim ibn Aghlab. Questi, traendo profitto dalla lontananza del potere centrale, nell'800 si rese di fatto indipendente fondando la prima dinastia autonoma dell'Ifriqiya, quella degli Aghlabidi. I loro domini arrivavano verso occidente fino a Bona, ai confini del dominio rustemide di Tahert (Algeria), e a oriente fino a Barqa (Libia). Per l'Ifriqiya fu un periodo fiorente in cui i nuovi emiri diedero impulso all'edilizia civile e religiosa: Kairouan, considerata la quarta città santa dell'Islam dopo La Mecca, Medina e Gerusalemme, raggiunse il massimo sviluppo e furono fondate le città residenziali degli emiri nei suoi dintorni, al-Abbasiyya e Raqqada. Più islamizzato e più arabizzato rispetto agli altri territori del Nord Africa, quello aghlabide divenne lo stato più potente del Maghreb. La corte e l'amministrazione seguivano il modello delle istituzioni califfali abbasidi, con l'impiego di cristiani e una guardia pretoriana composta da schiavi neri. Ma soprattutto il governo degli Aghlabidi organizzò in modo sistematico un Paese rimasto di fatto semianarchico dopo la conquista. Nelle città, le popolazioni miste composte da Berberi, discendenti dei Bizantini, autoctoni bilingui (afāriqa), Arabi siriani e iracheni ma anche Yemeniti e Persiani del Khurasan, vedevano la pacifica convivenza della popolazione musulmana, ebraica e cristiana. Se quest'ultima, di lingua latina, era ancora numerosa, fu però la comunità ebraica, in modo particolare quella di Kairouan, a mantenere, anche per parecchi secoli, un ruolo sia economicamente che culturalmente più importante. Gli Ebrei erano giunti in Ifriqiya già nel 70 d.C. dopo la distruzione del tempio di Gerusalemme e le fonti arabe parlano di numerose conversioni all'ebraismo anche tra i Berberi.
Kairouan, dove gli Aghlabidi fondarono una "Casa della Sapienza" (Bayt al-Ḥikma) sul modello di Baghdad, diventò uno dei pochi grandi centri di vita culturale musulmana in Occidente. Vi confluirono letterati e sapienti, tra cui medici che arrivarono dall'Oriente e vi formarono una vera e propria scuola di medicina. Famosa in tutto il mondo islamico era anche la sua scuola di calligrafia, l'arte islamica per eccellenza, che espresse tra i più bei corani miniati di cui resta memoria. Numerosi esemplari in cufico, tra i più antichi manoscritti giunti fino a noi, furono lì eseguiti. In questo clima la dottrina malikita, ovvero la scuola giuridica sunnita più seguita nell'Occidente islamico, espresse in Asad ibn al-Furikita (759-829) e in Sahnun (777-855) ‒ il cui trattato (Al-mudawwana al-kubrā) rappresentò la vulgata del malikismo nordafricano ‒ due dei suoi maggiori rappresentanti.
Il periodo aghlabide fu anche caratterizzato da un risveglio economico che l'Africa settentrionale non conosceva più da tempo. Si rimisero in funzione o si costruirono ex novo importanti sistemi di approvvigionamento di acqua e di irrigazione, per uno sfruttamento agricolo del territorio che comportava piantagioni di ulivi e alberi da frutta accanto a colture di cereali e legumi. Espressione monumentale di questo impegno nel riportare all'antica prosperità le terre dell'Ifriqiya fu la costruzione del grande acquedotto che dalle sorgenti presenti nel sito di Bir al-Adine/Henchir el-Douamis (36 km a ovest di Kairouan) alimentava i più noti bacini di Kairouan (Soulignac 1953), grandi vasche interrate rinforzate da potenti contrafforti interni ed esterni che rappresentano opere utilitarie di grande valore architettonico. Si rivolse inoltre attenzione alle risorse delle residue foreste e dell'allevamento, ma anche allo sfruttamento di miniere di ferro, antimonio, rame, talvolta sconosciute in epoche precedenti, al servizio di industrie i cui prodotti, accanto alla pesca dei coralli, alimentavano le esportazioni sia in Africa sia oltre il Mediterraneo. Kairouan divenne un nodo commerciale importante in cui dai porti tunisini o per le vie carovaniere dal Sudan, si incrociavano gli itinerari commerciali verso il Nord e verso l'Oriente. L'oro, proveniente soprattutto dai paesi del Niger, era alla base di una moneta stabile.
Il risveglio che l'Ifriqiya conobbe con gli Aghlabidi nel IX secolo trova conforto anche nei dati che riguardano il popolamento. Le città si svilupparono, si munirono di cinte fortificate e vi si registrava generalmente una maggiore densità urbana, conseguente a un aumento demografico naturale. Le costruzioni monumentali che le arricchivano attestano la ricchezza e la potenza della dinastia. Lungo la costa si moltiplicarono i ribāṭ (edifici fortificati) con funzione sia difensiva che offensiva.
Tunisi, dall'VIII secolo munita di un arsenale, era il porto principale dell'Ifriqiya e nell'864, quando fu ricostruita la Grande Moschea Zaytuna (Lézine 1966), contava già 9000 abitanti; per l'epoca aghlabide non si può però determinare la superficie della città e quindi la densità urbana. Kairouan risulta essere ormai una grande città (14.000 anime) con una superficie valutabile intorno al centinaio di ettari. Diversamente da Susa e Sfax, essa era priva, nel IX secolo così come nel successivo, dell'antica cinta fortificata, distrutta da Ziyadat Allah nell'824, il che permise all'abitato di crescere consequenzialmente all'aumento demografico (Lézine 1971). Susa registrò un enorme salto in avanti, passando da semplice villaggio alle proporzioni di una città media (ca. 2100 anime), sviluppo calcolato sulle dimensioni della Grande Moschea costruita alla metà del IX secolo (851) e sulla presenza, per quanto minoritaria (ca. 10%) di cristiani e di pochi Ebrei. Il suo ruolo di città portuale era però ancora inferiore rispetto a quello di Tunisi, nonostante una maggiore attenzione da parte del governo per le città del Sahel. Sfax, che nel Medioevo possedeva solo un cattivo ormeggio la cui praticabilità era dipendente dalle maree, probabilmente nel IX secolo doveva contare meno abitanti di Susa, dotata invece di un buon porto ereditato dai Bizantini. La sua popolazione, nell'849, data di fondazione della Grande Moschea e delle fortificazioni, doveva comprendere circa 1750 anime.
Tratto caratteristico del governo degli Aghlabidi fu l'attività con la quale diedero impulso alle spedizioni marittime. La marineria araba da guerra, con cui Bisanzio dovette confrontarsi per il controllo del Mediterraneo a partire dal VII secolo, aveva in Tunisia solide basi, testimoniate, ad esempio, già all'inizio dell'VIII secolo dal grande arsenale impostato a Cartagine da Hassan ibn Numan. Se durante il periodo iniziale dell'impero musulmano fu la flotta imperiale degli Omayyadi a essere strumento del califfato, con gli Abbasidi, la cui politica era più rivolta a Oriente e per vie terrestri, l'Islam si trovò rappresentato nel Mediterraneo dalle potenze musulmane del Nord Africa, tra cui la Tunisia, e della Spagna.
Dopo le grandi battaglie del VII secolo, il duello tra Islam e Bisanzio si combatté soprattutto per mare e con alterne fortune, non arrivando, però, mai a una totale interruzione dei reciproci rapporti economici e culturali. Gli studi storici (Lombard 1971, 1972) hanno da tempo dimostrato come non sia più sostenibile quella chiusura del Mediterraneo quasi completamente in mano all'Islam che secondo H. Pirenne avrebbe portato al ripiegamento su sé stesso dell'Occidente carolingio. Fonti antiche arabe, bizantine e latine testimoniano la continuità dei traffici; le fonti occidentali menzionano un'ambasciata inviata nel 765-768 da Carlo Magno a Baghdad presso la corte di Harun ar-Rashid e di altre presso la corte dell'aghlabide Ibrahim I ad Abbasiyya con relativo scambio di doni preziosi tra i sovrani. Più tardi ancora, al-Khatib descriverà la meraviglia suscitata sugli ambasciatori inviati da Costantino Porfirogenito nel 917 alla corte di al-Muqtadir a Baghdad. Non solo, quindi, le guerre non causarono alcuna interruzione, ma proprio entro le maglie di un secolare conflitto filtrarono in entrambe le direzioni rapporti e influssi commerciali, artistici e culturali.
Islam e Bisanzio si trovarono di fronte anche nella vicenda che portò gli Aghlabidi, ormai stabilizzati nei loro domini, a conquistare la Sicilia (827-902) e a insediarsi, sebbene in modo discontinuo e frammentario, in Sardegna e in Italia meridionale. Nell'827 il comandante della flotta aghlabide Asad ibn al-Furat, con circa 10.000 uomini tra Arabi, Persiani e Berberi, organizzò la spedizione da Susa, da dove la flotta prese il mare e sbarcò a Mazara. Dopo una serie di non facili conquiste i veterani di Asad e nuove forze mandate dalla Tunisia mossero contro Palermo, che fu presa nell'831. Da questa città, divenuta subito residenza del governo civile e militare musulmano, con governatori nominati da Kairouan, riprese lentamente la penetrazione islamica nell'isola; verso l'840 i due terzi dell'isola erano conquistati. Castrogiovanni (Enna) cadde nell'859, mentre nell'870 gli Aghlabidi, con l'aiuto di contingenti siciliani, presero Malta. I governatori che rapidamente si successero a Palermo continuarono a indebolire la resistenza bizantina finché nell'877/8 cadde Siracusa, l'antica capitale bizantina, dopo un lungo assedio. Nonostante i tre quarti dell'isola fossero ormai in mano ai musulmani, la conquista fu portata a termine solo all'alba del X secolo per diretto intervento degli Aghlabidi di Kairouan e con l'insediamento a Palermo di Ibrahim II nel 902. Discusso è il rapporto che si dovette instaurare tra la nuova colonia e la madrepatria tunisina. M. Amari ne accentua il carattere di autonomia; lo storico tunisino M. Talbi tende a sottolineare un effettivo controllo da Kairouan; F. Gabrieli sembra riconoscere alla Sicilia una autonomia parziale, che definisce di certo inferiore a quella che agli Aghlabidi era concessa dal califfato abbaside.
Alla dinastia aghlabide, che aveva regnato stabilmente in Ifriqiya per circa un secolo, nel 909 successero i Fatimidi, cui passò pure il governo della Sicilia. In quell'anno Ubayd Allah al-Mahdi, che si dichiarava discendente del settimo imam, da cui deriva il nome allo sciismo ismailita o settimano, riuscì a impadronirsi di Kairouan approfittando dei proseliti guadagnati presso le tribù berbere dei Kutama della piccola Cabilia. Queste, seppur non sciite, erano in contrasto con gli Aghlabidi ed erano altresì attratte dall'idea di un regime di cui avrebbero potuto costituire il nerbo militare. Dichiaratosi califfo, in aperto contrasto con quello abbaside sunnita di Baghdad, Ubayd Allah impose il suo governo oltre i territori aghlabidi, nel Maghreb centrale, impadronendosi in particolare delle strade sahariane dell'oro. Diede origine a una potente dinastia che regnò direttamente sull'Ifriqiya fino al 973 quando si trasferì in Egitto dove rimase fino al 1171, lasciando il governo della Tunisia agli Ziridi. Il regime dei Fatimidi, di provenienza orientale e con la ferrea volontà di rovesciare il califfato sunnita degli Abbasidi, seguì due linee fondamentali tra loro interrelate: da una parte la necessaria costruzione di una forza finanziaria e militare in grado di conquistare Baghdad; dall'altra un consolidamento interno che gliene desse tale possibilità. In ambito religioso però, anche a causa del forte radicamento del malikismo sunnita in tutti i grandi centri, non si registrarono tra i sudditi conversioni forzate e massicce all'ismailismo sciita, rimanendo questo il credo della sola élite più vicina al sovrano.
Le ambizioni imperialistiche dei Fatimidi incentivarono la creazione di un forte esercito e di una flotta imponente che li resero padroni del Mediterraneo. La necessità di allontanarsi da Kairouan per motivi di sicurezza, derivati dall'essere quella città la roccaforte dell'opposizione sunnita, insieme alla volontà espansionistica marittima, motivarono nel 912 la fondazione, da parte di Ubayd Allah, di una nuova capitale a Mahdiyya, sulla costa orientale della Tunisia. Contrasti interni di una certa rilevanza provocarono, inoltre, le rivolte kharigite, tra cui quella condotta a partire dal 934 da Abu Yazid, detto "l'uomo con l'asino", membro di una tribù della confederazione berbera degli Zanata. A questa mise fine nel 945 il califfo Ismail che, dopo tale vittoria, assunse il titolo di al-Mansur (il Vittorioso). Nel 948, sul luogo della vittoria, egli fondò la seconda capitale politica ed economica dei Fatimidi, Sabra al-Mansuriyya che divenne sede ufficiale del governo a scapito di Mahdiyya.
Come in Ifriqiya, anche in Sicilia i Fatimidi raccolsero i frutti dello sviluppo avviato dagli Aghlabidi. L'emirato siciliano conciliò la propria autonomia di fatto con una leale collaborazione ai bisogni e ai programmi dei patroni Fatimidi e per una quarantina di anni dopo il loro avvento i due primi califfi al-Mahdi e al-Qaim continuarono a nominare in Sicilia loro rappresentanti fedeli, spesso impegnati contro i tentativi di opposizione alla fede sciita dei nuovi governatori. Al-Mansur, il terzo califfo fatimide, nel 947, delegò il governo della Sicilia, preziosa fonte di approvvigionamento di legname per le sue flotte, a una tribù araba a lui fedele, quella dei Banu Kalb. Con essi iniziò un emirato ereditario, quello dei Kalbiti che, sebbene sottoposto a investitura califfale, si dotò di una certa autonomia. Come in Ifriqiya e poi in Egitto, anche in Sicilia non fu imposto il credo sciita, relegato piuttosto alla élite politica, amministrativa e intellettuale. I Kalbiti conciliarono la propria autonomia di fatto con una leale collaborazione ai bisogni e ai programmi dei patroni Fatimidi. Questi ultimi però, nonostante tale fedeltà, non li appoggiarono nelle loro mire espansionistiche in Italia meridionale, privilegiando piuttosto alleanze politiche e rapporti di tipo commerciale con le città portuali italiane che godevano di un nuovo sviluppo. D'altra parte, consolidato il proprio potere all'interno, ma anche all'esterno contro i Bizantini, i Fatimidi erano principalmente impegnati a contrastare due califfati sunniti rivali, quello degli Omayyadi di Cordova e quello degli Abbasidi di Baghdad.
Alla fine del X secolo, dopo un lungo periodo in cui, nonostante tutto, aveva goduto di pace e prosperità, il paese era al suo apogeo. Secondo A. Lézine (1971), le città, che pure raggiunsero una densità prossima a quella di epoca romana imperiale, dovevano presentare in questo periodo un carattere urbano ancora piuttosto arioso. Kairouan conservò il suo primato economico e intellettuale su un paese che andava ricomponendo le fratture della grande rivolta kharigita. Intorno al 980 risulterebbe una città di notevole estensione (256 ha ca.), con una popolazione stimabile tra i 35.000 e i 36.000 abitanti e con una densità urbana che l'assenza di una cinta muraria ancora alla fine del X secolo porta a ipotizzare non molto diversa da prima. A Susa l'allargamento della Grande Moschea nel 973 testimonierebbe un aumento della popolazione tale, però, da non modificare in modo sostanziale la densità urbana considerando che la cinta fortificata, costruita nell'859, non registra ampliamenti.
Nel 969 una spedizione con a capo Giawhar as-Siqilli inviata dal califfo al-Muizz entrò in Egitto, all'epoca facente parte dei territori abbasidi. Il califfo fatimide fondò qualche chilometro a nord di Fustat la nuova capitale, al-Qahira, e vi si trasferì con la corte nel 973. L'amministrazione dell'Ifriqiya fu affidata, per la prima volta dopo la conquista araba, a governatori berberi del gruppo dei Sanhagia: gli Ziridi in Tunisia e gli Hammaditi più a occidente, nell'attuale Algeria. Gli Ziridi, che avevano aiutato i Fatimidi a sconfiggere la rivolta kharigita e che, sotto il loro patronato, risiedevano dal 947 ad Ashir (Algeria), si stabilirono, assumendo il governo dell'Ifriqiya, prima a Mahdiyya e poi a Sabra al-Mansuriyya. Essi governarono per circa due secoli in autonomia, migliorando i rapporti con i potenti quadri malikiti, fino a rinnegare alla metà dell'XI secolo la loro fedeltà al governo sciita del Cairo.
Con lo spostamento dei Fatimidi in Egitto, si allentarono invece i rapporti con la Sicilia dove gli Ziridi, mai investiti ufficialmente di questo governo, ma interessati alla Sicilia per la loro politica marittima, aiutarono fiaccamente la resistenza musulmana a contrastare la progressiva avanzata dei Normanni. Il governo dei Kalbiti andava avviandosi alla chiusura per crisi dinastiche e per conflitti etnici e sociali che aprirono la via alla riconquista cristiana. Iniziato l'epilogo ai primi dell'XI secolo, l'emirato kalbita nel 1053 era ridotto alla sola Palermo e, in una Sicilia frazionata già da un decennio in piccole signorie locali rette da qā'id indipendenti dalla sede governativa, vide nel 1061 l'arrivo a Messina di Ruggero I e Roberto il Guiscardo. La conquista normanna dell'isola, durata un trentennio, fu anch'essa lunga e difficile per la strenua resistenza dei musulmani e, nonostante la presa di Palermo nel 1072, si concluse solo nel 1091. D'altra parte alla metà dell'XI secolo l'Ifriqiya conobbe le incursioni dei Banu Hilal e dei Banu Sulaym, nomadi arabi originari del Najd che la tradizione storiografica vuole inviati dai califfi fatimidi del Cairo per punire la defezione degli Ziridi che, su pressione degli abitanti di Kairouan, tesero a ristabilire la dottrina malikita e quindi un riavvicinamento al califfato sunnita di Baghdad.
Seppure non sembra che l'invasione hilaliana (ar. taġrība) abbia apportato le distruzioni e i flagelli descritti da Ibn Khaldun (XIV sec.), in Ifriqiya si registra una crescente crisi economica dovuta non solo alla deviazione dei traffici carovanieri verso il nuovo terminale del Cairo, ma anche al passaggio delle campagne da un tipo di sfruttamento agricolo-pastorale a un sistema nomadico-pastorale. Dal canto suo, la consistente presenza numerica degli Arabi hilaliani dovette generare nelle aree rurali una più profonda arabizzazione e una maggiore coesione etnica e culturale, di cui resta traccia nella tradizione e nell'epica popolare. Conseguenza della nuova situazione fu anche una modifica delle città con un sovrappopolamento di alcuni nuclei urbani.
Mentre Kairouan perse il suo ruolo di centro focale e, a quanto sembrano attestare i dati archeologici, altri centri minori sopravvissero ancora per qualche tempo su sé stessi con minore o maggiore difficoltà, nelle città che opposero resistenza si installarono alcuni governi locali a sostituzione della mancanza di un potere centrale. Mahdiyya rimase in mano degli Ziridi fino alla metà del XII secolo, mentre in altri casi si formarono delle piccole entità autonome. Tunisi, in particolare, fu governata per circa un secolo dai Banu Khurasan che le assicurarono una certa stabilità e uno sviluppo economico e commerciale anche con i paesi d'oltremare, preparandone il ruolo di terza capitale dell'Ifriqiya. Questa città, dove il più autorevole dei nuovi emiri, Ahmad ibn Khurasan (1106-1128), costruì un palazzo e una nuova moschea che definirono un nuovo polo urbano a sud-ovest della Zaytuna, vide un accrescimento della periferia e un aumento della popolazione, musulmana ma anche ebrea, per l'arrivo di numerosi transfughi, soprattutto da Kairouan e da Mahdiyya. Tunisi riuscì a sottrarsi anche alla conquista dei Normanni di Sicilia che, approfittando di uno stato di generale anarchia nel Paese, si impadronirono di tutte le città della costa orientale (Susa, Mahdiyya, Sfax e Gerba), anche se il risultato di questi successi non fu duraturo. Dalla seconda metà dell'XI secolo comunque, nei traffici del Mediterraneo era andata crescendo la supremazia di mercanti italiani, franchi e catalani che affluirono nei porti del Maghreb e dell'Oriente fondando solide basi commerciali.
Due dinastie berbere provenienti dal Sud del Marocco, gli Almoravidi e poi gli Almohadi, diedero voce alla reazione contro questa situazione politica con l'intento di riunire il Maghreb sotto il loro governo. I secondi sconfissero i Banu Hilal e dichiararono guerra santa contro i Normanni. Risiedendo a Marrakech, essi affidarono nel 1206 a un grande sceicco almohade della tribù marocchina degli Hentata, Abd al-Wahid ibn Abi Hafs, il governo dell'Ifriqiya con capitale a Tunisi. Così iniziò la lunga dinastia degli Hafsidi che, divenuta autonoma dal potere almohade nel 1233 con Abu Zakariyya ibn Abi Hafs, avrebbe regnato in Ifriqiya per oltre tre secoli con alterne vicende.
Alla metà del XIV secolo le mire espansionistiche di una nuova dinastia formatasi nel Maghreb occidentale, quella dei Merinidi, minacciarono seriamente il potere hafside in Tunisia. Ma, sebbene la capitale Tunisi vedesse una duplice occupazione nel 1349 e nel 1356, gli Hafsidi vi mantennero il potere. L'Ifriqiya conobbe un nuovo periodo di splendore nel corso del XV secolo a opera soprattutto di due sovrani, Abu Faris Abd al-Aziz (1394-1434) e suo figlio Uthman (1435-1494). A Tunisi, divenuta ormai capitale economica e culturale, il palazzo e la moschea della qaṣba costituivano il nuovo centro della città, che vide inoltre l'ampliamento della moschea Zaytuna e la costruzione di un bacino per le abluzioni (miḏā as-sultān), il restauro e l'adattamento dell'acquedotto romano e infine il moltiplicarsi di edifici religiosi di varia entità e tipologia (moschee congregazionali e di quartiere, madrasa e zāwiya). La città inoltre registrò un aumento demografico e ancora un ampliamento dei quartieri periferici, tanto da necessitare di una seconda cinta muraria.
Non altrettanto può dirsi del secolo seguente quando, dopo il completamento della Reconquista cristiana in Spagna con la caduta della Granada nasride nel 1492, gli Spagnoli minacciarono il litorale maghrebino fino a Tunisi e si contesero il dominio nel Mediterraneo con i Turchi che, conquistata Costantinopoli nel 1453, occuparono Siria ed Egitto nel 1517. Nel 1534 due corsari fratelli, Bab Haruj e Khayr ad-Din (conosciuto in Occidente come Barbarossa), occuparono Tunisi, ripresa l'anno seguente dalla flotta di Carlo V che ristabilì il sovrano deposto. Il protettorato spagnolo durò fino al 1574 e il periodo turbolento che lo contraddistinse portò i corsari a chiedere l'intervento della flotta ottomana di Sinan Pasha.
Dal 1574 l'Ifriqiya fu per tre secoli provincia dell'impero ottomano, sebbene la reggenza di Tunisi, lontana da Istanbul, conservò di fatto la propria autonomia nel governo di membri di dinastie locali. La riorganizzazione del paese fu affidata ai pascià nominati nella capitale ottomana e poi ai dey (governanti autonomi) nelle cui mani il potere gradualmente passò intorno alla fine del XVI secolo. La cospicua presenza di Turchi significò, tra l'altro, l'introduzione di nuovi sūq e la comparsa di moschee di rito hanafita. Dall'inizio del XVII secolo andò assumendo sempre maggiore importanza la figura del bey, il comandante dell'esercito incaricato anche della riscossione delle imposte, a scapito di quella del dey, fino all'instaurazione di una vera e propria dinastia, quella dei Muraditi, discendenti in linea dinastica per primogenitura dal bey Usta Murad Corso. Nei 50 anni di questo potere molte città conobbero rinnovamento e sviluppo: così Tunisi, ma anche Biserta, Susa e Sfax.
L'editto di espulsione dei musulmani di Spagna promulgato da Filippo III nel 1609 portò a una vera ondata migratoria di Mori verso l'Ifriqiya. Questi vi introdussero una tradizione orticola secolare e un artigianato che alimentò un prospero commercio marittimo. Le campagne videro invece la fondazione di numerosi villaggi a opera degli Andalusi: al-Aliya, Qalat al-Andalus, Testur e Soliman. La rivalità tra dey e bey sfociò in un periodo di instabilità che terminò nel 1705 con la vittoria del bey Husayn ben Ali, il fondatore della dinastia degli Husainidi, che avrebbe regnato fino al 1957. Dopo un periodo in cui la Tunisia passò sotto il Protettorato francese, sancito nel 1881 dal Trattato del Bardo e poi dalla Convenzione della Marsa e durato fino al 1955, l'autonomia interna e la dichiarazione di indipendenza del 20 marzo 1956 posero fine alla dominazione coloniale. Il 20 luglio 1957 fu proclamata la Repubblica che determinò la definitiva caduta del regime monarchico.
Profondamente urbanizzata in epoca antica, l'Ifriqiya conquistata dai musulmani si presenta come l'erede di un'antica tradizione architettonica, artistica e artigianale. La conquista islamica, in Ifriqiya come altrove, non solo non determinò la fine delle città di antica fondazione, ma significò la creazione di nuovi nuclei di popolamento con caratteristiche peculiari sia nell'impianto urbanistico che nell'occupazione del territorio a essi connesso. Da quanto è possibile ricostruire dalle fonti scritte, il caso emblematico di Kairouan non propone in questo senso diversità rispetto a quanto registrato per il resto del mondo islamico. Questa città-accampamento, prima base stabile degli arabi in Nord Africa, fu fondata nel 670 dal grande condottiero degli Omayyadi di Siria, Uqba ibn Nafi. Qui egli eresse una moschea, di cui oggi non rimane più nulla, che divenne uno dei luoghi più venerati dell'Islam e sulla cui qibla (direzione della Mecca) sono orientate molte altre moschee del Maghreb.
Secondo una modalità corrente nel mondo islamico almeno fino al IX secolo, a essa era probabilmente annesso il dār al-imāra, sede amministrativa e residenziale del governo. Alcuni scavi eseguiti negli anni Settanta del Novecento ne avrebbero individuato le tracce in alcune strutture venute in luce dietro il muro qiblī della moschea, le quali sono state reinterrate prive, purtroppo, anche della sola pubblicazione preliminare. L'assenza di documentazione relativa a tale ritrovamento rende quindi indisponibili dati cronologici e materiali che sarebbero stati di fondamentale importanza per la conoscenza sia delle modalità che caratterizzarono il primo insediamento, sia delle sue eventuali relazioni con gli interventi di ampliamento e ricostruzione che modificarono due volte la Grande Moschea nel corso dell'VIII secolo, ovvero prima della ristrutturazione dell'aghlabide Ziyadat Allah dell'836. A questo proposito non passa inosservata neppure l'assenza di notizie pubblicate circa gli importanti restauri italiani che di quest'ultima hanno interessato anche la sala di preghiera.
Le fonti storiche forniscono comunque altri dati sulla città di Kairouan e sul territorio circostante. Secondo al-Bakri si deve al califfo omayyade Hisham ibn Abd al-Malik (724-743) il primo piano urbanistico della capitale. Questo era impostato sulla divisione della città attraverso un grande asse viario (simāṭ) che, passando per la Grande Moschea e congiungendo le due porte urbiche poste a nord e a sud, si presentava coperto e fiancheggiato da negozi e botteghe artigianali. Agli anni di regno dello stesso sovrano si riportano anche i primi interventi di un'attiva ed efficace politica di rifornimento idrico del territorio. La notizia che alla periferia della città già in questo periodo esistessero una quindicina di cisterne ha trovato, infatti, parziale conferma nella localizzazione, attraverso le foto aeree, di quella nota col nome di Sidi el-Dahmani, posta in prossimità dei più tardi e famosi bacini aghlabidi (Solignac 1953). Composta da due strutture circolari comunicanti, di cui una più piccola per la decantazione dell'acqua destinata a essere conservata in quella più grande, essa rappresenta l'esempio più antico di questo tipo di opere idrauliche la cui tecnica, specifica dell'Ifriqiya, sarebbe stata sviluppata particolarmente dagli Aghlabidi. L'organizzazione del rifornimento idrico in periodo omayyade dovette significare anche lo sviluppo delle attività agricole nelle campagne circostanti Kairouan, nonché la nascita di numerose residenze extraurbane (muniya) costituite da grandi giardini con abitazioni. Menzionate anch'esse dalle fonti, queste potrebbero aver introdotto una tipologia che ebbe particolare sviluppo in tutto il mondo islamico occidentale (Solignac 1953).
Per l'Ifriqiya altomedievale manchiamo inoltre di dati sufficienti per parlare decisamente di rottura o di continuità nella cultura materiale rispetto al periodo precedente. Le ampie lacune nelle attuali conoscenze dei materiali, tra cui la ceramica, che costituisce il principale fossile-guida nella definizione delle cronologie, sembrerebbero derivare sia dal disinteresse per le fasi medievali da parte delle ricerche archeologiche mirate al periodo preislamico, sia dal fatto che i pure numerosi sondaggi eseguiti in occasione dei restauri dei più antichi monumenti islamici raramente hanno colto l'occasione di studiare e pubblicare i rinvenimenti. Così è stato, ad esempio, per i ribāṭ di Susa e Monastir, ma anche per la moschea Zaytuna di Tunisi, dove sotto la sala di preghiera sono stati individuati i resti di una chiesa nota dalle fonti e forse vissuta fino alla trasformazione in moschea nel 698 (Daoulatli 1994). Per Kairouan, come già sottolineato, dati probanti non sono giunti né dai restauri della Grande Moschea, né dalle ricerche archeologiche che hanno interessato le strutture del dār al-imāra riconosciuto dietro il suo muro qiblī.
Così, per la ceramica non risultano a oggi individuate con chiarezza produzioni locali databili prima del periodo aghlabide, nonostante l'Ifriqiya, largamente islamizzata, fosse già precedentemente una provincia prospera che risulta difficile immaginare priva di ateliers. D'altra parte non poche lacune riguardano anche le successive produzioni aghlabidi, fatimidi e ziridi, soprattutto relativamente alla ceramica comune ma anche all'invetriata. Le datazioni sono spesso molto generiche e numerose problematiche investono sia l'individuazione certa dei luoghi e dei procedimenti tecnici della fabbricazione, sia gli ambiti e le modalità della circolazione. Meglio noti risultano i materiali di età almohade e hafside attraverso le produzioni della Tunisia settentrionale iniziate nel XII secolo e conosciute come "ceramica di Cartagine" o "a cobalto e manganese" (Vitelli 1981; Cirelli 2002). Tuttavia, anche per questa classe ceramica, che vide un'ampia circolazione in tutto il Mediterraneo e una consistente importazione in Italia centrale e in Sicilia, vengono segnalate difficoltà di attribuzione a età almohade o hafside. È evidente come l'importanza e l'urgenza di sistematici studi basati su corrette sequenze archeologicamente determinate assuma grande rilievo nella comprensione sia delle produzioni interne all'Ifriqiya, sia di quelle a essa direttamente legate. A queste ultime appartiene la ceramica della Sicilia islamica le cui manifatture, ancora lungi dall'essere chiaramente definite, indubbiamente influenzarono la tradizione dei periodi successivi. In questo caso specifico una maggiore definizione degli aspetti tecnici, morfologici e cronologici delle produzioni dell'Ifriqiya, e in particolare di quelle tunisine che senza dubbio costituirono riferimenti essenziali, consentirebbe anche alla giovane archeologia islamica in Sicilia di disporre di più solide basi su cui avviare l'individuazione di corretti termini di confronto e la reale comprensione dei contesti specifici.
Rispetto al problema della continuità con la grande tradizione locale preislamica, che si pone per molti aspetti della cultura architettonica, artistica e materiale, risulta emblematico per la Tunisia il caso rappresentato dal mosaico. Da uno studio effettuato sulle testimonianze della limitrofa regione di Bigiaya (Algeria), la tradizione tardoantica sembrerebbe sopravvivere in Nord Africa fino al VII-VIII secolo (Ennaifer 1987). In Tunisia il repertorio tradizionale risulta arricchito da nuovi elementi ornamentali nelle attestazioni frammentarie registrate sia ad al-Abbasiya, di certa fondazione aghlabide, che a Raqqada, la cui storia potrebbe risalire anche a prima. Mantengono caratteristiche simili anche i più tardi mosaici rinvenuti nel Qasr al-Qaim di Mahdiyya (911), dove i rivestimenti pavimentali di alcune sale, eseguiti con tessere grossolanamente tagliate, di colore bianco, nero e rosso, presentano intrecci di linee rette e curve riempiti da motivi vegetali (palmette e fioroni) e geometrici (Zbiss 1956).
Proprio le attestazioni di epoca fatimide rappresentano un fatto importante, poiché esse testimoniano che l'arte del mosaico non solo non si esaurì in Tunisia con la conquista musulmana, ma vi sopravvisse, con caratteristiche tecniche e decorative proprie, almeno fino all'inizio del X secolo e forse oltre, se si considerano i ritrovamenti, per quanto sporadici e frammentari, di Sabra al-Mansuriyya. La presenza a Kairouan di una comunità cristiana autoctona fino all'XI secolo, come attestato dalle fonti epigrafiche (Mahjoubi 1966), può aver giocato un ruolo importante nella trasmissione e quindi nella continuità di questo tipo di manifattura, adattandola al gusto e alle necessità dei nuovi committenti. In tale ottica si può disporre di notevoli argomenti a favore dell'attribuzione al periodo islamico dei citati mosaici presenti a Raqqada (Solignac 1953; Marçais 1954), messa più di recente in discussione dal rinvenimento in loco di un sito tardoromano e di una necropoli di IV secolo che ne anticiperebbero, secondo alcuni, la cronologia (Doulatli 1994). Se poi si accetta come possibile la datazione alla seconda metà dell'VIII secolo proposta da A. Lézine per la fondazione del palazzo di Raqqada, le testimonianze relative ai mosaici islamici in Ifriqiya salgono ulteriormente nel tempo.
In via più generale, e come già da altri sottolineato, quanto detto rende auspicabile un attento riesame dei numerosi mosaici di VII-VIII secolo rinvenuti in Tunisia, considerati tutti invariabilmente preislamici per quel preconcetto che vedrebbe la fine di tale manifattura decretata dalla conquista musulmana. Dall'eventuale disponibilità di nuovi dati potrebbe inoltre risultare più chiaro se, e con quali modalità, l'Islam perpetrò in Tunisia una radicata tradizione locale oppure si trovò a operare per imitazione o per memoria della Siria omayyade che, come è noto, sviluppò grandemente quest'arte. Tale questione, sollevata nei termini di una impossibilità di soluzione da E. Ettinghausen e da O. Grabar, non solo sottolinea di nuovo il problema della continuità o della rottura con le tradizioni preislamiche locali, ma apre altre questioni relative, più in generale, al ruolo culturale dell'Ifriqiya nell'ambito del dār al-Islām. Meriterebbe infatti una riflessione il fatto che in Ifriqiya sembrano trovare spazio alcuni elementi che, attestati nel Vicino Oriente, subiscono una serie di modifiche tali da diversificarli rispetto a quelli delle zone centrali del califfato, cui una solida tradizione di studi ha sempre attribuito non solo un ruolo dominante nella formazione della cultura artistica e architettonica musulmana, ma anche una sorta di quasi perenne centralità nella diffusione di modelli di riferimento. È il caso del mosaico che, solo sporadicamente attestato a Samarra e nella moschea di Medina, in Oriente non sopravvive alla grande tradizione degli Omayyadi (Creswell - Allan 1989), ma anche di alcuni elementi costruttivi che andremo ad analizzare.
Nonostante per l'Ifriqiya siano lacunose anche le attuali conoscenze relative all'architettura, peraltro nota in gran parte da edifici di committenza ufficiale, alcune caratteristiche indicano in modo piuttosto evidente che nella seconda metà dell'VIII secolo alcune specifiche scelte formali e tecnico-costruttive di un linguaggio pienamente islamico si propongono come riferimenti aggiornati a ciò che ci è noto, nel Vicino Oriente, della contemporanea attività edilizia legata ai califfi al-Mansur e Harun ar-Rashid. Le ulteriori elaborazioni degli Aghlabidi prima e dei Fatimidi poi opereranno a loro volta su un terreno in parte già fecondato, formalizzando, con modalità ed esiti diversi, espressioni artistiche e architettoniche assolutamente peculiari, capaci di produrre nuove elaborazioni anche oltre quel territorio tunisino in cui si erano andate sviluppando.
Se escludiamo l'individuazione della cisterna che M.J. Solignac riporta al periodo omayyade, come si è già sottolineato, mancano per Kairouan evidenze materiali databili con certezza prima degli Aghlabidi. Così, i monumenti islamici più antichi di cui si ha testimonianza in territorio tunisino sono i ribāṭ di Susa e Monastir che risalgono all'ultimo quarto dell'VIII secolo, quando l'Ifriqiya era sottoposta a governatori dipendenti direttamente dal califfato abbaside di Baghdad. Il ribāṭ è un edificio tipico dei territori islamici di frontiera, definibile come una sorta di convento fortificato che ospitava i combattenti della fede (ġāzī), il che ne spiega la fitta distribuzione sulle coste dell'Ifriqiya esposte alle minacce cristiane. Questi edifici hanno l'aspetto di fortini quadrati con torri rotonde, angolari e mediane e sono provvisti di un unico ingresso. Gli alloggiamenti erano formati da piccole celle disposte, su due piani, intorno a una corte centrale, ai quali era annessa una sala di preghiera. Entrambi i ribāṭ citati sono espressione di quella che viene chiamata "scuola di Susa", caratterizzata da un'architettura sobria e austera di tipo militare che usa pietra da taglio nelle murature e pilastri invece di colonne a sostegno delle coperture e nella quale, secondo alcuni, vanno riconosciuti riferimenti al modello siriaco di alcuni castelli omayyadi.
Nel ribāṭ di Susa ‒ la cui datazione al periodo aghlabide (820/1) avanzata da K.A.C. Creswell è stata più di recente anticipata da A. Lézine intorno al 780 ‒ le volte a botte della sala di preghiera, collocata al secondo piano, sono rette da archi trasversi rinforzati da archi oltrepassati, con un sistema costruttivo simile a quello che si trova utilizzato nell'unico monumento abbaside noto in Palestina, ovvero la cisterna di Ramla, risalente al califfato di Harun ar-Rashid. Sulla base della datazione di Lézine, la sala di preghiera del ribāṭ di Susa ne propone anzi una prima testimonianza in Nord Africa dove, nella stessa Susa, troverà ulteriori utilizzazioni in epoca aghlabide, nella moschea Bu Fatata (838-841) e nella Grande Moschea (850/1). Nell'821/2, durante il regno dell'aghlabide Ziyadat Allah, il ribāṭ di Susa avrebbe invece ricevuto, a imitazione di quello della vicina Monastir ‒ costruito secondo le fonti dal governatore abbaside Hartama ibn Ayan nel 796 ‒ la torre d'avvistamento, la quale fungeva anche da minareto della vicina moschea congregazionale. Nella sua forma cilindrica, impostata su uno zoccolo quadrato, tale torre si presenta in linea con il mondo abbaside a lei contemporaneo, dove modalità simili si trovano ampiamente utilizzate, ad esempio, nella poco più tarda Samarra (fondata nell'836).
Nella prima metà del IX secolo l'Ifriqiya registra, nella ricostruzione aghlabide della Grande Moschea di Kairouan (836), la prima attestazione in ambito islamico del cosiddetto "sistema a T", planimetria originale che rappresenta la prima fondamentale modificazione del più antico tipo ipostilo semplice. Nell'impianto a T, che divenne il tipo più diffuso in Nord Africa, due navate ‒ quella in asse con il miḥrāb e quella parallela al muro qiblī ‒ si presentano più larghe delle altre, mentre il loro punto di congiunzione, davanti al miḥrāb, è sottolineato dalla presenza di una cupola. O. Grabar (1973) ha evidenziato nel modo seguente i passaggi che hanno portato alla sua elaborazione. Lo schema ipostilo semplice, caratteristico delle prime moschee in cui predominava l'aspetto di luoghi di riunione politica e sociale, rispondeva alla principale esigenza di avere a disposizione uno spazio sufficientemente grande per riunire tutta la comunità durante la preghiera del venerdì. Mancando di una direzione visiva, esso venne modificato dalla introduzione di una navata assiale per la necessità di ordinare lo spazio in funzione del miḥrāb. Quest'ultimo, secondo lo studioso, rappresenta il solo elemento della moschea con valore di simbolo religioso derivatogli dal suo voler indicare, e quindi onorare, il posto in cui il profeta Muhammad (Maometto) guidava la preghiera o predicava nella sua casa di Medina. Per questo suo significato celebrativo il miḥrāb, elemento assente nelle prime moschee e introdotto dal califfo omayyade al-Walid (705-715) nella ricostruzione della moschea sorta su quella casa, nel corso del tempo vide crescere la sua importanza, spesso enfatizzata da ricche decorazioni. In questo senso quello della Grande Moschea di Kairouan (863) si presenta come elemento fortemente caratterizzato, sia nelle dimensioni che nella decorazione, costituita da pannelli di marmo traforati all'interno della nicchia e, all'esterno di questa, da una serie di mattonelle a lustro metallico forse di provenienza irachena. La centralità del miḥrāb venne ulteriormente sottolineata dalla maggiore larghezza, rispetto alle altre, della navata a esso prospiciente (navata assiale) caratteristica che compare già nelle grandi costruzioni di al-Walid come la Grande Moschea di Damasco. Col tempo anche la stessa parete che ospitava il miḥrāb, o muro qiblī, andò accentuando il suo valore simbolico e per questo venne anch'essa dotata di una maggiore larghezza. Secondo Grabar dunque, lo schema a T è funzionale a un uso sempre più cultuale e devozionale della moschea che, anche per il progressivo crescere della distanza tra il califfo e la comunità, si andava adattando a nuove esigenze. Per quanto noto anche in Iraq (moschea di Abu Dulaf a Samarra, 860-862), lo schema a T verrà però impiegato soprattutto nelle regioni del Nord Africa dove anzi rappresenta, a partire dalla Grande Moschea aghlabide di Kairouan, un aspetto peculiare dell'architettura religiosa. Dopo altri esempi di IX secolo, come la Grande Moschea di Susa (850/1) e la Zaytuna di Tunisi (864), esso trovò ulteriore sviluppo nelle moschee fatimidi prima in Tunisia (ad esempio, nella Grande Moschea di Mahdiyya [912]) e poi in Egitto. In linea con lo spirito di ufficialità cerimoniale e di devozione cui sembra essere stata funzionale la suddetta planimetria della sala di preghiera, nel corso del X secolo comparvero, di nuovo prima in Tunisia (Mahdiyya) e poi al Cairo, anche i monumentali portali di ingresso, elemento tipico dell'architettura fatimide, sia religiosa sia palatina.
L'architettura religiosa di periodo aghlabide registra in Tunisia anche la presenza di una tipologia diversa di moschea, quella cosiddetta "a nove cupole", dove l'interno è suddiviso in nove campate uguali da quattro sostegni centrali. Vengono infatti inserite in questa classe sia la piccola Bu Fatata di Susa (838-841), sebbene coperta da una serie di volte a botte su archi trasversi, sia, secondo la ricostruzione di Creswell, la moschea di Muhammad ibn Khairun, detta "delle Tre Porte", a Kairouan (866), la cui copertura originale è invece scomparsa. Si tratta di un tipo architettonico particolare, raro ma ubiquo nel mondo musulmano, sulla definizione delle cui origini non si hanno a oggi elementi probanti (Ettinghausen - Grabar 1987; Creswell - Allan 1989). Attestato in Oriente alla metà circa del IX secolo dalla Masgid-i Tarikh di Balkh (Afghanistan), è testimoniato in Iraq forse ancora nel IX secolo (Mosul, oratorio di Nabi Girgis). Attestazioni più tarde si registrano in Egitto nel X (Cairo, Sharif Tabataba, 950 ca.) e nell'XI secolo (Aswan, Saba wa Sabain Wali, 1000 ca.) e in Spagna nel X (Toledo, Bib Mardum, 999) e XII secolo (Toledo, Las Tornarias). Numerosi ma più recenti esempi si trovano anche in Yemen, a partire dalla moschea rasulide di al-Farawi (1415; Ventrone Vassallo 1994). La moschea Bu Fatata di Susa è un monumento architettonicamente importante per vari aspetti. Si propone infatti per la sua cronologia non solo come la seconda moschea più antica del Nord Africa, ma anche come uno degli esempi più antichi del tipo "a nove cupole", di cui anzi rappresenta la prima attestazione nell'ambito dell'Islam occidentale, peraltro caratterizzata da una forte individualità. Peculiare è la sua ricca ornamentazione in facciata, precoce esempio della perfetta integrazione di una iscrizione monumentale alla architettura e alla decorazione. Un ulteriore carattere di originalità è costituito dalla presenza di un portico in antis, elemento attestato nel mondo islamico solo in un altro caso, significativo sia per la cronologia posteriore che per la collocazione, ovvero la moschea fatimide di as-Salih Talai al Cairo (1160).
Come evidenziato dal fondamentale lavoro di Grabar sulla formazione dell'arte islamica (Grabar 1973), l'evoluzione di certe caratteristiche può risultare più evidente nelle architetture secolari poiché l'edificio religioso per eccellenza, ovvero la moschea, come creazione originale musulmana con precise caratteristiche funzionali, si presenta in genere molto conservativo. La documentazione che viene dai palazzi, invece, in quanto legata alle esigenze della corte e della rappresentazione simbolica del suo potere, rende maggiormente leggibili le modifiche o la continuità degli apporti e contribuisce in modo più netto a definire le trasformazioni culturali, estetiche, simboliche e tecnologiche, di un determinato contesto. Per la Tunisia medievale è possibile proporre alcuni percorsi di lettura che vanno in questa direzione, partendo da una serie di osservazioni dovute a Lézine, forte sostenitore della indipendenza dell'architettura musulmana dell'Ifriqiya dalle tradizioni preislamiche. Le questioni da lui sollevate su alcune caratteristiche costruttive del palazzo di Raqqada, dalle quali nello specifico dipende il problema, ancora aperto, della sua cronologia, e quindi della corretta identificazione del Qasr al-Fath (Castello della Vittoria) di cui parlano le fonti, da un lato si pongono come emblematiche di una serie di problemi più generali ancora aperti e dall'altro focalizzano alcune interessanti strade interpretative. Nello spirito di quanto anticipato in apertura di questo paragrafo, si cercherà di discutere alcune delle suddette questioni, partendo da un breve riepilogo dei dati storici relativi ai siti interessati.
Gli Aghlabidi, come gli Abbasidi, per ragioni di sicurezza costruirono città residenziali a una certa distanza dalla capitale politica e amministrativa, Kairouan. La prima fu, nell'801, al-Abbasiya da cui Ibrahim II (875-902) si trasferì a Raqqada nell'876/7. Questa rimase la residenza degli emiri fino all'ultimo dinasta Ziyadat Allah III (903-909), soppiantato dai Fatimidi. Anche questi ultimi vi soggiornarono finché nel 920/1 Ubayd Allah (909-934) spostò la capitale e la residenza califfale a Mahdiyya, la nuova città da lui fondata sulla costa in gran parte per ragioni di sicurezza, dovute ai contrasti interni sollevati dall'alleanza tra kharigiti e sunniti con a capo Abu Yazid. Nel 947, sconfitta la ribellione dell'"uomo con l'asino", il califfo al-Mansur spostò la capitale a Sabra al-Mansuriyya, circa 1,5 km a sud di Kairouan. Le fonti ne parlano come di una città molto ricca, di forma rotonda (sul modello di Baghdad), caratterizzata da numerose costruzioni e dalla presenza di ampi bacini d'acqua e di giardini, secondo un costume noto in Ifriqiya già dalle residenze aghlabidi, come, ad esempio, a Raqqada. Quando, nel 973, i Fatimidi lasciarono l'Ifriqiya per l'Egitto, a Sabra al-Mansuriyya si installarono i loro governatori ziridi. L'abbandono della città è da collocarsi nella seconda metà dell'XI secolo, in seguito alla invasione hilaliana.
Del palazzo di Raqqada, Lézine sottolinea i chiari riferimenti all'architettura califfale della Mesopotamia, individuabili sia nella tecnica costruttiva che utilizza il mattone crudo e il "cubito nero" (unità di misura equivalente a 0,504 m) sia nelle caratteristiche tipologiche di alcune componenti: la sala di udienza basilicale confrontabile con quella del dar al-imāra di Kufa in Iraq, molto più antico (670) ma che sappiamo essere stato sede anche dei governatori abbasidi, e la presenza dell'ingresso a gomito. Proprio quest'elemento, che caratterizzava la Baghdad rotonda di al-Mansur (762) ma che risulta assente nel posteriore castello di Ukhaidir (778), potrebbe inoltre indicare la possibilità di circoscrivere la fondazione del palazzo di Raqqada tra queste due date e suggerirne quindi, con una cronologia compresa nella seconda metà dell'VIII secolo, una attribuzione ai governatori abbasidi dell'Ifriqiya precedenti l'avvento degli Aghlabidi. L'ingresso a gomito, di cui conosciamo la più antica utilizzazione in Ifriqiya proprio a Raqqada ‒ sia che se ne accetti la datazione alta di Lézine che l'attribuzione più tarda agli Aghlabidi generalmente accettata ‒ rappresenta un elemento di importazione che, sicuramente estraneo all'architettura bizantina precedente la fondazione di Baghdad (762), trova la sua prima utilizzazione in ambito islamico nelle quattro porte della città rotonda di Al-Mansur. In Nord Africa l'architettura fatimide lo impiega all'inizio del X secolo a Mahdiyya. Ne fa uso per migliorarne le difese della cinta muraria, con una modalità quindi più vicina a quella della Baghdad abbaside, ma anche, in una versione peculiare, nei pochi resti recuperati dallo scavo (Zbiss 1956) di uno dei due palazzi fatimidi che le fonti dicono essere stati costruiti dal mahdī Ubayd Allah ai lati di una grande piazza. Nel complesso di entrata del palazzo occidentale (912) un avancorpo monumentale, simile a quello della Grande Moschea, dà accesso a un'ampia zona di ingresso dove la chiusura sul fondo del primo ambiente assiale obbliga a percorsi a gomito che in maniera indiretta conducono sia a una corte centrale sia ad alcuni vani interni posti lateralmente. La disposizione dell'insieme, di cui sembra improbabile uno scopo difensivo, potrebbe essere funzionale alle elaborate cerimonie che le fonti descrivono, sebbene per il periodo più tardo, come caratteristiche della vita di corte dei Fatimidi (Canard 1952). Simile appare l'elaborato sistema di ingresso applicato poco più tardi nel palazzo che gli Ziridi, loro vassalli, fecero costruire nel 947 ad Ashir, in Algeria centrale, secondo un progetto che le fonti attribuiscono a un architetto inviato dal califfo fatimide. La versione più semplice dell'ingresso a gomito, che ricorda cioè quella presente nel palazzo di Raqqada, appare recuperata più tardi nelle residenze della Qala che i Banu Hammad, dinastia berbera legata per sangue agli Ziridi e anch'essa vassalla dei Fatimidi, iniziarono a costruire nel 1010 sulle montagne dell'Hodna (Algeria). Alla Qala comunque, gli ingressi sono preceduti sempre da un avancorpo monumentale, caratteristica anch'essa introdotta dai Fatimidi (Golvin 1965). Il percorso storico del corridoio a gomito vede, quindi, l'acquisizione di un elemento allogeno nella seconda metà dell'VIII secolo o all'inizio del IX, a seconda della cronologia che si vuole assegnare al primo nucleo del palazzo di Raqqada, l'utilizzo di una versione modificata dalle specifiche esigenze cerimoniali dei Fatimidi e in ultimo la sua ricorrenza, come elemento peculiare, nei palazzi più tardi a noi noti.
Sostanzialmente sconosciuta è l'architettura residenziale dei Fatimidi, poiché di questi conosciamo il solo dispositivo d'entrata del palazzo di Mahdiyya, e problematica risulta l'interpretazione del cosiddetto "palazzo" di Sabra al-Mansuriyya, l'unica altra testimonianza relativa alla loro architettura secolare in Ifriqiya. Ciò nonostante, proprio la zona centrale di quest'edificio può, a nostro avviso, rilanciare in maniera interessante la precedente questione. I numerosi interventi archeologici susseguitisi sul sito a partire dal 1921 (Marçais 1922, 1954; Zbiss 1956; Terrasse 1977) hanno portato alla luce, in prossimità di un tratto della cinta muraria, una costruzione che la letteratura specifica indica come un palazzo. Stando al rilievo pubblicato da M. Terrasse (1977), nella zona principale una sala oblunga con due nicchie quadrate sui lati brevi è posta trasversalmente dietro il blocco centrale, costituito da una sorta di īwān affiancato da due ambienti oblunghi e da un'antisala trasversa. Considerando parte integrante della planimetria di questo nucleo dell'edificio anche la "retrosala" trasversa, si possono ravvisare alcune similitudini con quanto gli scavi hanno reso noto delle zone di rappresentanza di alcuni palazzi abbasidi databili tra la seconda metà dell'VIII secolo e i primissimi anni del IX. Si citano quello di Uskaf Banni Junayd (Iraq) che, datato al califfato di al-Mansur (754-775), ne rappresenterebbe la prima testimonianza, e i palazzi B e D di Raqqa (Siria) risalenti al califfato di Harun ar-Rashid (796-809), con i quali i termini del confronto appaiono più stringenti. Nel primo caso è infatti presente anche l'antisala trasversa, mentre la morfologia degli ambienti provvisti di nicchie quadrangolari sui lati brevi caratterizza il secondo. Questi palazzi abbasidi sono tra loro già stati messi a confronto proprio per la tipologia della zona di ricevimento che, priva di ulteriori utilizzazioni, andrebbe ad affiancarsi alle altre due più diffuse in ambito abbaside, ovvero la sala cruciforme coperta a cupola e l'īwān che precede una sala cupolata, entrambe di origine iranico-sasanide (Creswell - Allan 1989).
Le scarse conoscenze sulle architetture residenziali dell'Ifriqiya medievale non permettono a oggi di seguire il cammino eventualmente fatto dalle planimetrie descritte per arrivare al "palazzo" di Sabra al-Mansuriyya, dove peraltro si colgono significative diversità nel modo di concepire l'ambiente centrale che, nei palazzi di Uskaf e di Raqqa non appare mai caratterizzato come īwān. Lontano cronologicamente da quei presunti prototipi, la disposizione planimetrica di questo nucleo dell'edificio di Sabra al-Mansuriyya sembrerebbe dunque rappresentare un caso isolato, rispetto sia alle precedenti costruzioni dell'Ifriqiya, che alle più o meno contemporanee costruzioni della Spagna islamica (ad es., Madinat az-Zahra) e del Nord Africa (Ashir). In quest'ultimo territorio troviamo, però, largamente impiegate sale oblunghe provviste di nicchie quadrangolari sui lati brevi, morfologicamente simili alla "retrosala" del "palazzo" in questione. Nella residenza ziride di Ashir ma anche nei più tardi Dar al-Bahr e Qasr as-Salam della Qala dei Banu Hammad tale elemento, di cui abbiamo citato un precedente abbaside nel Palazzo D di Raqqa, rappresenta un aspetto peculiare che, nella sala nobile degli appartamenti privati, registra l'aggiunta di una terza "alcova", posta sul lato lungo opposto all'ingresso. Questo tipo di sala costituisce una caratteristica del cosiddetto bayt ziride. Gli antecedenti individuati nella prima architettura residenziale abbaside, precedente la fondazione della seconda capitale Samarra (836) dove sono attestate tipologie palaziali di tutt'altro tipo, sembrano suggerire che, come l'ingresso a gomito dei palazzi o il sistema di copertura con volte a botte su archi trasversi utilizzato in alcune moschee, il tipo planimetrico riscontrato a Sabra al-Mansuriyya possa essere arrivato in Ifriqiya nel periodo di più forte legame con il califfato abbaside, quando cioè, nella seconda metà dell'VIII secolo, tale provincia era da esso direttamente governata. Attualmente sono in corso a Sabra al-Mansuriyya nuove ricerche archeologiche che mirano a una rilettura complessiva del sito (Cressier 2004). Nulla esclude infatti che tipologicamente la zona centrale possa rappresentare l'elaborazione locale di un elemento importato precedentemente, ipotesi che la diversità di alcuni particolari specifici rispetto al prototipo sembrerebbe corroborare. Seppure con le dovute cautele derivanti dal fatto che, per posizione topografica e per dimensioni, questo edificio non sembra certo interpretabile come una residenza califfale e che la sua reale funzione resta ancora da chiarire, si potrebbe ipotizzare che, per i riferimenti proposti dal suo nucleo centrale, a esso si sia voluta annettere una qualche caratterizzazione di rappresentanza. Questo lascerebbero infatti pensare la disposizione dell'insieme, la morfologia degli ambienti che lo compongono e la posizione dell'edificio rispetto a un grande bacino rettangolare prospiciente il suo lato nord, come suggerito dalla interpretazione delle fotografie aeree. Ancora più importante appare quindi la necessità di verifiche archeologiche che, definendone funzione e cronologia, ne permettano una lettura più certa anche in relazione agli elementi considerati, i quali sembrano slegati dal corrente, ma a nostro avviso impreciso, confronto con l'architettura abbaside di tradizione più decisamente iranica (Ukhaidir, Samarra).
Come si è potuto notare dagli argomenti trattati, se l'archeologia islamica in Tunisia va registrando l'intensificarsi delle ricerche, essa risulta ancora caratterizzata da un indirizzo decisamente legato ai contesti califfali, residenziali e urbani mentre del tutto inesplorato rimane l'ambito relativo agli insediamenti rurali e quindi resta del tutto incompleto il quadro storico e sociale ricostruibile per il Medioevo. D'altra parte, anche per quanto riguarda i siti più noti, il numero e la qualità delle questioni ancora aperte mostrano con evidenza, anche alla luce dei dati in continua evoluzione in tutto il mondo islamico, come ancora molto resti da fare non solo alla giovane archeologia medievale tunisina, ma anche alla più consolidata tradizione di studi storico-artistici.
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di Giovanna Ventrone Vassallo
Conosciuta anche con il nome di al-Qaṣr al-Abyad ("il Palazzo Bianco"), questa residenza-rifugio ubicata 5,5 km a sud-est di Kairouan fu fondata nell'801 dal primo emiro aghlabide, Ibrahim ibn Aghlab, il quale chiamò il sito al-῾Abbāsiyya in onore del califfo abbaside del quale era governatore per la provincia dell'Ifriqiya (od. Tunisia).
Divenuta ben presto una città dove si batteva moneta e si producevano tessuti, essa fu però abbandonata nell'877 e doveva essere assai decaduta se al-Bakri nell'XI secolo ne parlava al passato; tuttavia il viaggiatore al-Abderi nel 1289 segnalava che le rovine erano ancora abitate dalle popolazioni locali. Secondo quanto riferiscono gli storici, il primo edificio che venne qui costruito fu il Qasr al-Qadim (il Vecchio Palazzo), che per un certo tempo diede anche il nome alla località, nota anche come Qasr al-Qayrawan (il Palazzo di Kairouan), Madinat al-Qasr (la Città del Palazzo) nonché Qasr al-Aghaliba (il Palazzo degli Aghlabidi). Fu poi munita di fortificazioni e dotata di numerose porte, con una piazza (maydān) per le parate e per lo spostamento delle truppe sulla quale si affacciava il palazzo dal nome evocativo di ar-Ruṣāfa, importante città siriana sulla sponda dell'Eufrate; vi erano inoltre una Grande Moschea con un minareto, sembra, a sezione cilindrica a più piani e in mattoni cotti, bagni, mercati e installazioni idrauliche; tra queste sono ricordati soprattutto serbatoi e bacini a cielo aperto di un tipo assai diffuso in tutta la regione che servivano ad approvvigionare d'acqua anche Kairouan. Di tanto splendore restava sul terreno solo un tell di circa 30 × 50 m, a poco più di 3 m dal suolo dove i pochi lavori archeologici, intrapresi nel 1922 dalla Societé des Fouilles Archéologiques e dal Service des Antiquités della Tunisia, hanno messo in luce fino a oggi solo alcuni ambienti di servizio, come magazzini, cantine, cucine. Da essi sono state tuttavia tratte indicazioni sui materiali di costruzione: così è risultato che il mattone crudo (ṭūb) ‒ 42 × 21 × 10,5 cm ‒ era utilizzato soprattutto per i muri e per la preparazione dei pavimenti, mentre il cotto (al-aġlabī) ‒ di dimensioni variabili: da 21 × 9 e 21 × 11,5 cm a 22 × 8,5 e fino a 25 × 15 cm, ma di spessore costante ‒ era molto più raro e impiegato soprattutto come rappezzo delle parti in crudo o come sostegno dei pavimenti. Poche infine le pietre, sia quelle grezze che quelle squadrate, utilizzate queste ultime soprattutto per i pavimenti. La base delle mura della città e dei muri in genere era invece quasi sempre in pisé (ṭābiyya). L'assenza di decorazioni architettoniche, come stucchi, mosaici e ceramiche, fa supporre siano state riutilizzate per la costruzione della vicina Raqqada, altra residenza aghlabide.
I ritrovamenti di alcuni frammenti ceramici hanno fatto anche ipotizzare una probabile produzione fittile locale di oggetti invetriati sia al piombo che allo stagno, con una paletta di colori nella quale figurano accanto al bruno, verde e giallo, consueti per l'epoca, anche il blu, che risulta piuttosto eccezionale. Tali frammenti andrebbero però oggi riesaminati alla luce delle nuove ricerche e ritrovamenti sul litorale dell'Ifriqiya, sì da far avanzare l'ipotesi che possa trattarsi di materiale alquanto più tardo, relativo quindi a un periodo anche di qualche secolo successivo all'abbandono "ufficiale" del sito, e nel quale sia molto evidente anche l'influenza della Spagna musulmana (al-Andalus).
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di Enrico Cirelli
Isola (ar. Ǧirba) di fronte alla costa meridionale della Tunisia.
L'isola di G., secondo le poche testimonianze scritte che possediamo, fu conquistata nel 667 dal governatore di Tripoli Rawayfa ibn Thabit dopo un violento combattimento. In età romana, dopo aver fatto parte dell'Africa proconsolare, appartenne alla provincia tripolitana. Il centro principale era Meninx, città di origine punica, situata a sud, nei pressi dell'odierna al-Qantara e della diga-ponte che metteva in comunicazione l'isola con il continente. Non si conosce con precisione la posizione della città conosciuta dalla tradizione con il nome di G. Secondo alcuni, l'insediamento si trova al di sotto del più importante centro dell'isola, Houmt Souq, sulla costa settentrionale, anche se la sua posizione non sembra coincidere con quella indicata dal geografo Tigiani agli inizi del XIV secolo. All'interno dell'abitato di Houmt Souq sono ben conservati alcuni funduq (ostello) e altri edifici settecenteschi come la zāwiya (edificio adibito alle confraternite sufi) di Sidi Zitouni e quella di Sidi Ibrahim al-Giamni. Di particolare interesse risultano anche alcuni ḥanūt (camere funerarie ricavate nella roccia) tradizionali, riconoscibili dalla forma triangolare delle facciate fiancheggiate da contrafforti.
La produzione tessile era una delle maggiori risorse dell'artigianato medievale gerbino e i suoi prodotti godevano di notevole successo in tutto il Mediterraneo e nell'Africa settentrionale. Nelle vicinanze si trova il Borj Kebir, una fortificazione databile, in base ad alcuni recenti scavi, al XIII secolo. Il castello, restaurato interamente nella metà del XV, fu teatro della tragica esecuzione della guarnigione spagnola che vi si era rifugiata nel 1560. Con le teste dei soldati venne costruita, nella parte anteriore, una macabra torre, distrutta nel XIX secolo. Nella parte occidentale dell'isola si trova invece il villaggio di Aghir, in età medievale dotato di fortificazioni, e, sulla parte estrema del litorale, il Borj Kastil, un castello costruito da Ruggero di Lauria alla fine del XIII secolo. A sud si trova il villaggio artigianale di Guellala, che sorge a poca distanza dal sito dell'antica Haribus. Attivo anche in età romana, fu probabilmente uno dei centri per la produzione ceramica più celebri del Mediterraneo. La sua attività venne notevolmente incrementata a partire dall'età medievale e in età ottomana si specializzò nella produzione di ceramiche smaltate su fondo giallo o verde con decorazione policroma, che avrebbero goduto di una diffusione considerevole in tutto il Maghreb. Molto più vasta e di origine anteriore la distribuzione delle giare gerbine, contenitori di grandi dimensioni (fino a 0,8 × 1,5 m) che raggiunsero i porti di numerose città del Mediterraneo, da Cipro alla Sicilia, dalle coste dell'Adriatico alla Francia meridionale.
A partire dall'VIII secolo, G. è abitata in prevalenza da una comunità berbera di tradizione ibadita sotto la guida religiosa di Abd al-Wahhab o di Abu'l-Khattab. Secondo al-Idrisi, in alcuni villaggi si parlava esclusivamente berbero. Due moschee risalgono probabilmente alla prima età islamica: quella di Tagit, costruita forse nel IX secolo, e la Grande Moschea, la cui costruzione fu avviata da Abu Miswar e terminata dal figlio Fasil. Di particolare interesse le moschee di al-May e di Fadloun, due edifici di età medievale con spiccate caratteristiche dell'architettura ibadita. L'isola ospita, nel villaggio di Hara Sghira, una comunità ebraica che vanta origini antichissime, risalenti alla prima o alla seconda diaspora. Al suo interno si trova anche una sinagoga, detta Ghirba, dove è conservata una tra le Torà più antiche del mondo.
Tra il 1995 e il 2000 si è svolto nell'isola di G. un progetto di survey coordinato dall'Institut National du Patrimoine, dall'Università di Pennsylvania e dall'American Academy of Rome, che si proponeva lo studio dell'evoluzione del paesaggio dall'età antica all'età moderna, prima della sua trasformazione definitiva a causa delle nuove costruzioni di stabilimenti turistici. Sono stati effettuati ricognizioni sistematiche e numerosi sondaggi di verifica all'interno di siti significativi di ogni arco cronologico e di varie tipologie: nel foro di Meninx, nei pressi del mausoleo libico di Bourgou, nella moschea di Gmir, nel sito fortificato di Gasr Tala e nella Haouch insediata a ridosso della piccola Jama Zaid. L'interesse si è anche soffermato sul funzionamento dei menzel, le fattorie di età ottomana che popolano il paesaggio rurale dell'isola. La pubblicazione di queste ricerche porterà nuove informazioni indispensabili alla conoscenza di questo territorio, chiuso in sé stesso e allo stesso tempo così aperto verso la società mediterranea.
Bibliografia
J.-L. Combès - A. Louis, Les potiers de Djerba, Tunis 1967; R. Bourouiba, L'île de Djerba de la conquête musulmane à la conquête almohade, in Actes du Colloque sur l'histoire de Djerba (Avril 1982), Tunis 1986, pp. 55-73; L. Golvin, Djerba à la période des Zirides, ibid., pp. 35-43; E. Fentress, The Jerba Survey: Settlement in the Punic and Roman Periods, in Africa Romana XIII, pp. 73-85; E. Cirelli, La circolazione delle giare gerbine nel Mediterraneo occidentale: continuità e discontinuità nel commercio di derrate alimentari africane in età tardoromana e islamica, ibid. XIV, pp. 437-50; A. Drine - E. Fentress - R. Holod, Studies on Jerba, in c.s.
di Federico Cresti
Città (ar. al-Qayrawān) della Tunisia, ubicata 50 km circa a sud-ovest di Susa.
Secondo la tradizione trasmessa dagli scrittori arabi del Medioevo la fondazione di K. fu opera di Uqba ibn Nafi, uno dei comandanti delle armate islamiche che nella seconda metà del VII secolo conquistarono progressivamente i territori costieri dell'Africa mediterranea avanzando verso Occidente; an-Nuwayri (XIII-XIV sec.) narra come Uqba nel 670 decise di creare una città che potesse servire da accampamento (tra i diversi significati di qayrawān, oltre a quello di "accampamento-guarnigione", va annoverato anche quello di "stazione di carovana") e da "punto di appoggio all'Islam fino alla fine dei tempi" (Kitāb nihāyat al-arab fī funūn al-adab). Alla fondazione della città e dei suoi primi edifici sono legati nella tradizione diversi prodigi compiuti da Uqba: poiché il sito prescelto era occupato da una fitta boscaglia abitata da serpenti e belve feroci, Uqba avrebbe ingiunto a questi animali di allontanarsi ed essi avrebbero obbedito pacificamente; inoltre, per ispirazione divina, Uqba trovò la giusta soluzione per l'orientamento della moschea di cui aveva deciso la costruzione. Secondo quanto appare da un'analisi dei documenti relativi alle prime spedizioni musulmane nel Maghreb, tuttavia, l'idea di costruire una città in questo luogo venne a formarsi progressivamente nel corso delle diverse campagne che portarono gli eserciti arabi a impadronirsi delle province bizantine della Byzacena e dell'Africa Proconsularis e vi contribuirono i diversi generali che comandarono le spedizioni. È possibile che già nel 647 l'esercito condotto da Abd Allah ibn Sad ibn Abi Sarh avesse raggiunto i territori dell'odierna Tunisia centrale; successivamente, nel corso delle tre campagne condotte da Muawiyya ibn Hudayj nel 654/5 e nel 665, egli stabilì l'accampamento del suo esercito non lontano dalla zona in cui sorse poi la K. di Uqba, mentre ad al-Qarn (un sito identificato in una collina a 12 km circa a nord-ovest dell'odierna città) costruì un insieme di abitazioni a cui dette il nome di K.
Agli inizi dell'epoca omayyade, Uqba ibn Nafi, a cui era stato affidato il governo della regione, non contento della scelta fatta dal suo predecessore, fondò una nuova K. in un sito di fondovalle, più a sud, iniziando la costruzione di una moschea e di un palazzo del governo (dār al-imāra) vicino a questa. Alla fine del mandato di Uqba, il suo successore Abu' l-Muhagir Dinar spostò la residenza del governo più a nord, in un luogo che prese il nome di Takirwan (o Kirwan). An-Nuwayri narra che Abu'l-Muhagir per disprezzo ordinò di distruggere la città fondata da Uqba e che quest'ultimo a sua volta, ottenuto nuovamente il governo della regione nel 681/2, fece incarcerare il suo predecessore, distruggere Takirwan e condurre i suoi abitanti a K., che da allora si sviluppò e rimase per quasi quattro secoli la capitale dell'Ifriqiya islamica. Le fonti documentarie, che peraltro affermano concordemente che K. sorse sulle rovine di una città antica di nome Quniya o Qammuniya, non permettono di avere un'idea precisa della sua popolazione in questo primo periodo; secondo M. Talbi (1978), che basa la sua ipotesi su un perimetro urbano di 13.600 cubiti (pari a 7,5 km ca.) attestato da Ibn Idhari (XIII-XIV sec.) nel Kitāb al-bayān al muġrib fī aḫbār al-andalus wa'l-maġrib, gli abitanti iniziali della città di Uqba non dovettero essere meno di 50.000. Un'altra ipotesi, basata sulle scarse informazioni degli scrittori arabi, vuole che anche a K., come nelle altre grandi città fondate nel primo periodo dell'espansione musulmana, la popolazione fosse ripartita per origine geografica o appartenenza tribale: sembrano indicarlo, tra l'altro, i nomi di alcuni quartieri e luoghi che nei secoli successivi conservavano ancora il ricordo di un'appartenenza etnica o confessionale dei loro abitanti, come, ad esempio, raḥbat al-qurašiyyīn ("mercato all'aperto dei Coreisciti") e sūq al-yahūd ("mercato degli Ebrei").
Sorta inizialmente come luogo di residenza degli Arabi che erano giunti nella regione al seguito dell'esercito musulmano, K. si sviluppò gradualmente accogliendo al suo interno Berberi, Latini, Persiani ed Ebrei. I non musulmani vi godevano libertà di culto e, a partire dalla fine dell'VIII secolo, i cristiani furono autorizzati a elevarvi una chiesa, conservando l'uso del latino nelle loro iscrizioni funerarie fino all'XI secolo, come hanno dimostrato alcuni ritrovamenti archeologici. Il primo secolo di vita non costituì tuttavia un periodo di pace per la città, che seguì le vicende della travagliata sottomissione delle popolazioni berbere del Maghreb e della loro progressiva islamizzazione. Dopo la sconfitta di Uqba e lo sterminio dei suoi armati a opera dei Berberi condotti da Kusayla, K. fu per qualche anno la capitale del regno di quest'ultimo (684-689). Ripresa da un esercito arabo sotto la guida di Hassan ibn an-Numan, la capitale del Maghreb fu di nuovo minacciata intorno alla metà dell'VIII secolo e si trovò per qualche decennio al centro delle lotte che videro opporsi da un lato al potere centrale le popolazioni berbere che avevano aderito all'Islam kharigita e dall'altro le diverse sette del kharigismo tra di loro. Conquistata da tribù berbere che avevano aderito al kharigismo nella sua versione sufrita, la città vide lo sterminio della sua aristocrazia araba nel 757/8; presa alla fine dello stesso anno dai Kharigiti Ibaditi di Tripoli, fu riportata sotto l'obbedienza califfale quattro anni più tardi. Per ordine del califfo abbaside al-Mansur la città fu allora fortificata (761/2) con la costruzione di una muraglia che, come riportato da al-Bakri nel Kitāb al-masālik wa'l-mamālik (XI sec.), aveva uno spessore di 10 cubiti. Nel corso di un nuovo assalto berbero nel 771 venne aperta una breccia nelle mura e le porte furono date alle fiamme; dopo questo episodio un imponente esercito giunto dall'Oriente pose definitivamente fine alle rivolte kharigite nella regione.
Nell'800 un comandante militare che si era particolarmente distinto nel riportare la pace in Ifriqiya, Ibrahim ibn al-Aghlab, fu investito dell'emirato dal califfo Harun ar-Rashid; mediante un tributo annuo di 40.000 dirhām (moneta d'argento), il nuovo emiro ottenne una notevole autonomia, che gli consentì di trasmettere la carica all'interno della sua famiglia. Iniziò così il periodo in cui K. fu la capitale della dinastia aghlabide; 11 emiri di questa dinastia si succedettero al potere per tutto il IX secolo, fino al 909, quando la città fu presa dalle truppe dello sciita Ubayd Allah al-Mahdi. Durante l'emirato aghlabide K. si arricchì di edifici monumentali e di opere pubbliche che si sono in parte conservati. Il più importante di questi monumenti, e senza dubbio il più insigne degli edifici religiosi del Maghreb per antichità e santità, è la Grande Moschea, o moschea di Sidi Uqba. Secondo la tradizione, Uqba ibn Nafi si preoccupò prima di tutto di elevare una moschea nella città che aveva iniziato a costruire, ricorrendo, come si è detto, all'ispirazione divina per definirne l'orientamento; in realtà, l'orientamento della sua qibla (direzione della Mecca) mostra una deviazione di 31° circa rispetto all'esatto allineamento con la Mecca (Golvin 1974). Della primitiva moschea fondata da Uqba, distrutta da Hassan ibn al-Numan alla fine del VII secolo, non rimane nulla: Hassan costruì una seconda moschea nel 703, ma neanche di questa, sostituita con un altro edificio poco meno di 70 anni dopo, rimangono elementi di qualche interesse. Anche la terza moschea ebbe breve vita: nell'836 Ziyadat Allah I, terzo sovrano aghlabide, ne ordinò la distruzione, per iniziare nel corso dello stesso anno i lavori dell'edificio ancora oggi conservato nella sua sostanziale integrità. Alcuni rifacimenti e interventi dei secoli successivi non modificarono infatti profondamente la struttura della sala di preghiera del IX secolo. Lo spazio occupato dalla Grande Moschea è delimitato da una muraglia perimetrale irta di contrafforti, di forma quadrangolare, dai lati non perfettamente ortogonali, con una delle diagonali disposta quasi precisamente sull'asse nord-sud. Le dimensioni esterne dei lati del muro perimetrale variano da 125 a 127 m circa per i lati lunghi e da 72 a 78 m circa per i lati brevi. Più della metà della superficie così delimitata è occupata da un ampio cortile circondato da portici lungo i suoi quattro lati; la parte rimanente è occupata dalla sala di preghiera, un vasto spazio ipostilo di 70 m circa di larghezza nella sua dimensione maggiore in corrispondenza del muro della qibla e di 37 m di profondità.
Il miḥrāb (nicchia di preghiera) ha una decorazione di ceramica dipinta a lustro metallico (la più antica tra quelle note di questo tipo che siano rimaste in situ), formata da circa 140 mattonelle quadrate. Si tratta di mattonelle la cui provenienza (produzione locale o importazione da Samarra) rimane incerta, poste in opera all'epoca di Abu Ibrahim Ahmad nell'862/3, decorate con motivi geometrici e vegetali, e che costituiscono una rara testimonianza della tecnica del lustro metallico e dell'uso decorativo della mattonella in un contesto architettonico (Curatola - Scarcia 1990). La sala di preghiera appare come una vasta selva di colonne, i cui limiti, nelle condizioni normali di accesso, restano indistinti data la penombra che vi regna: pochissime sono in effetti le aperture nei muri perimetrali e la luce del giorno penetra all'interno soprattutto dalle porte che si aprono verso il cortile. La moschea fu costruita con materiali di recupero e costituisce una delle più straordinarie raccolte di colonne e capitelli di epoca romana e bizantina provenienti da edifici in rovina dei dintorni della città o portati espressamente da molto lontano, in particolare da Cartagine. Lo spazio della sala di preghiera è caratterizzato da navate perpendicolari al muro qiblī; una navata centrale, più larga e più alta delle altre, conduce dalla porta d'ingresso principale al miḥrāb, mentre otto navate per parte, scandite da arcate su colonne, completano lo spazio coperto interno. Contigua al muro della qibla e con le stesse dimensioni della navata centrale, una navata trasversale compone con questa un dispositivo a forma di T.
I dati cronologici forniti dalle fonti arabe, unitamente alle osservazioni degli studiosi (Marçais 1954; Creswell 1958; Golvin 1974), permettono di affermare che l'architettura dell'edificio è il risultato di diversi interventi: al primo, di Ziyadat Allah I, cui si deve, per testimonianza concorde delle fonti arabe, la costruzione della sala di preghiera, seguì l'intervento di Ibrahim II (875-902). La discordanza delle fonti a proposito dei lavori dei due sovrani non permette di definire con certezza a quale dei due sia dovuto l'ampliamento della sala di preghiera dal lato del cortile; questa estensione fu realizzata mediante l'aggiunta di una galleria-nartece al centro della quale, in corrispondenza della navata della qibla, fu posta una cupola nota come qubbat bāb al-bahū (ricostruita in epoca relativamente recente). All'epoca di questo ampliamento, secondo K.A.C. Creswell (1958), le arcate della navata centrale furono rinforzate con la costruzione di altre due arcate parallele, contigue alle prime, cosicché oggi la navata centrale, a differenza delle altre, appare fiancheggiata da una doppia fila di colonne; nella stessa epoca fu costruita in fondo a questa navata, di fronte al miḥrāb, una cupola a nervature. Alcuni elementi lignei strutturali o accessori della Grande Moschea, appartenenti al periodo che va dal IX all'XI secolo, sono conservati presso il Museo d'arte islamica della città. Tra questi, oltre ad alcuni elementi della maqṣūra (recinzione dell'area antistante il miḥrāb), si segnala il minbar (pulpito) ligneo, uno dei più antichi del mondo islamico, databile intorno all'862/3 e composto da pannelli rettangolari con decorazioni geometriche e floreali eseguite a traforo. Fanno parte probabilmente di un restauro delle coperture realizzato nel periodo ziride (X-XI sec.) alcune mensole lignee sagomate e travi con disegni geometrici policromi.
Pur se i riferimenti documentari non sono concordi (al-Bakri afferma che esso fu costruito per ordine di Hassan ibn an-Numan), si attribuisce generalmente al periodo aghlabide anche il minareto della Grande Moschea, che si eleva, in posizione diametralmente opposta al miḥrāb, al centro del lato nord del muro perimetrale. Si tratta di un minareto a base quadrata (il lato misura 11 m ca.) dalle forme massicce, costituito da tre corpi sovrapposti: quello inferiore, di forma leggermente troncopiramidale, alto 19 m circa e ornato di merlature, è sormontato da un secondo blocco di 5 m di altezza, anch'esso merlato, a sua volta coronato da un terzo elemento di uguale altezza. Quest'ultimo elemento, sui quattro lati del quale si aprono le porte, termina con una cupoletta emisferica a nervature. La decorazione esterna del minareto, oltre alle merlature, presenta ai livelli superiori alcune nicchie a fondo piatto sormontate da archi; nella parte troncopiramidale, dal lato del cortile, si aprono la porta di ingresso e, a essa sovrapposte, tre finestre rettangolari di diversa dimensione sormontate da archi di scarico. La Grande Moschea assunse quasi definitivamente l'aspetto attuale in epoca hafside (in particolare nella seconda metà del XIII sec. e agli inizi del successivo), quando, dopo un periodo di abbandono piuttosto lungo, subì importanti lavori di restauro: fu ricostruito il tetto della sala di preghiera; le mura esterne vennero rinforzate con contrafforti e arricchite da alcune porte monumentali (tra cui, molto bello, il Bab Lalla Rayhana); dal lato interno furono costruiti i portici che circondano il cortile; alla sommità del minareto venne aggiunta una grande lanterna; infine il cortile fu pavimentato con lastre di marmo bianco.
Dell'epoca aghlabide rimangono ancora a K. alcune opere idrauliche e i resti di qualche edificio sacro. Della Moschea delle Tre Porte (Ǧam'i talātha bībān), di cui si conosce il nome del costruttore, Muhammad ibn Khayrun al-Maafiri al-Andalusi e che secondo Ibn Idhari risale all'866, esiste ancora oggi la facciata originaria, riccamente ornata, al di sopra delle porte che le danno il nome, da decorazioni vegetali e da un'iscrizione in caratteri cufici scolpite nella pietra a fasce parallele. Il minareto e la sala di preghiera della moschea sono invece ricostruzioni successive, probabilmente del XV secolo. Delle grandi opere idrauliche del IX secolo, descritte come una delle meraviglie della città negli itinerari medievali del Maghreb, non lontano dalle mura rimangono due ampie cisterne comunicanti, note appunto con il nome di "cisterne degli Aghlabidi". La più grande ha la forma di un poligono di 48 lati (diam. 128 m), mentre la più piccola, che costituiva la vasca di decantazione del complesso, è un poligono di 17 lati (diam. 38 m ca.). La grande cisterna non era utilizzata soltanto per il rifornimento idrico, ma costituiva anche un luogo di piacevole frescura dove probabilmente si intrattenevano gli emiri aghlabidi nella stagione calda: al-Bakri ricorda che al centro del bacino principale si elevava una torre ottagonale sormontata da un padiglione con quattro porte. Non lontano dalla città, gli emiri aghlabidi e i loro successori crearono in diversi periodi grandi palazzi, abbandonando la residenza urbana situata accanto alla Grande Moschea che fino ad allora era stata la sede del governo. Come ha fatto notare G. Marçais (1954), in questo modo seguirono il costume della dinastia califfale, che rappresentavano in Occidente: in effetti gli Abbasidi, qualche tempo dopo la creazione della città-palazzo di Baghdad, fecero costruire lussuose residenze a Samarra e a Raqqa.
Al-Abbasiyya deve il suo nome alla dinastia regnante a Baghdad; situata alcuni chilometri a sud-est di K., fu fondata in seguito a una ribellione militare nell'800/1 dal primo sovrano aghlabide, Ibrahim ibn al-Aghlab, che vi visse circondato dagli elementi più fidati del suo esercito e da un'imponente guardia formata da schiavi neri. Nel periodo in cui svolse la funzione di residenza principale della dinastia (circa tre quarti di secolo) al-Abbasiyya si trasformò da campo fortificato in dimora principesca; fu arricchita di monumenti, edifici pubblici e palazzi sontuosi che hanno lasciato il loro ricordo negli scritti degli autori arabi dei secoli successivi ma di cui non rimangono che poche tracce archeologiche. Al-Bakri, che riporta anche il nome di tutte le sue porte, ne ricorda la Grande Moschea, il minareto "costruito di mattoni e ornato di colonne disposte su sette piani", numerosi bagni, caravanserragli e bazar, grandi cisterne "da cui [si trasportava] l'acqua a Kairouan nella stagione più calda, quando le cisterne della città [erano] esaurite", una grande piazza (maydān) usata come ippodromo e, non lontano da questa, il palazzo di ar-Rusafa, principale sede del governo. All'interno di al-Abbasiyya esistevano inoltre una zecca in cui si coniavano monete d'oro e d'argento con il nome della città e una fabbrica di tessuti preziosi (ṭirāz). Sul tell che oggi rimane al posto della città sono stati eseguiti scavi parziali a partire dagli anni Venti del Novecento, mettendo in luce strutture di terra compattata o di mattoni essiccati al sole (probabilmente locali di servizio o magazzini) e frammenti di ceramica invetriata con decorazioni in nero, verde e blu ispirate a esempi egiziani e iracheni.
Nell'877 l'aghlabide Ibrahim II spostò la sua residenza più a sud, fondando una nuova città che prese il nome di Raqqada. Al-Bakri (secondo cui il nome della città significa "la dormiente") afferma che il sovrano, sofferente di insonnia, l'avrebbe fondata in un luogo in cui si era addormentato profondamente durante una passeggiata. Secondo un'altra tradizione il nome della città avrebbe fatto riferimento ai corpi giacenti in quel luogo dopo una terribile battaglia tra gli Ibaditi di Tripoli e le tribù berbere che si erano impadronite di K. alla metà dell'VIII secolo. Dopo la sua fondazione la nuova città si arricchì di magnifici palazzi, di una moschea congregazionale, di mercati, bagni e caravanserragli e rimase la residenza del potere aghlabide fino all'arrivo dell'esercito fatimide guidato da Ubayd Allah al-Mahdi (909-934), il primo califfo fatimide, che vi dimorò fino alla fondazione della nuova sede di Mahdiyya, dove si trasferì nel 920/1. Al-Bakri (secondo il quale a Raqqada era consentita la vendita di bevande fermentate, proibita invece nella capitale) riferisce che gran parte della superficie della città, difesa da un circuito di mura di 24.000 cubiti circa, era occupata da giardini; soltanto questi furono risparmiati quando il fatimide al-Muizz ibn Ismail al-Mansur (953-975) decise di radere al suolo tutto quel che ne rimaneva, facendo passare l'aratro sulle terre che la città aveva occupato.
Al precedente sovrano fatimide, Ismail al-Mansur (946-953), nel 948/9, si deve la creazione di una terza città poco a sud di K., Sabra al-Mansuriyya, il cui sito è ben conosciuto ed è stato parzialmente indagato dagli archeologi a partire dagli anni Cinquanta del Novecento. Al-Muqaddasi, nel X secolo (Kitāb aḥsan-al-taqāsīm fī ma῾rifat al-aqālīm), ne parla come di una città di forma circolare, dalle mura di mattoni crudi aperte da quattro porte: ciò ha fatto pensare a qualche analogia o a un riferimento diretto alla Baghdad abbaside. Al-Bakri tuttavia afferma che la città aveva cinque porte, citandole per nome. Altre fonti riportano i nomi di alcuni palazzi costruiti all'interno della città dal fondatore e dai suoi successori; di questi e degli altri edifici (le cui rovine divennero nei secoli successivi una cava di materiali da riutilizzare nella vicina K.), tuttavia, non sono noti che pochi elementi costruttivi e decorativi e il tracciato di alcune sale che sembra ricordare schemi orientali, già incontrati nella Fustat tulunide. Secondo al-Bakri, il successore di al-Mansur (al-Muizz) vi fece trasferire tutti i mercati e tutte le manifatture di K.; la nuova città divenne in tal modo un centro produttivo e commerciale di grande importanza, al punto che i diritti di entrata di una sola delle sue porte ammontavano a 26.000 dirhām. In quell'epoca nessun commerciante poteva introdurre a K. mercanzie soggette a imposta senza prima passare per Sabra al-Mansuriyya. In seguito la città, che a partire dal 1045 prese il titolo di ῾izz al-Islām ("gloria dell'Islam"), fu residenza degli emiri ziridi. Questi ultimi, che nella seconda metà del X secolo e nella prima metà del successivo governarono il Maghreb di obbedienza fatimide, vi fecero costruire altri sontuosi palazzi; nel 1052 Sabra al-Mansuriyya e K. furono collegate da un percorso protetto da due muraglie parallele.
Le mura costruite a difesa di K. dallo ziride al-Muizz (1016-1062) all'avvicinarsi delle tribù hilaliane nel 1052 avevano, secondo al-Bakri, un perimetro di 22.000 cubiti. Erano queste le ultime di una serie di mura di volta in volta demolite e ricostruite dai sovrani che, succedutisi nel governo dell'Ifriqiya, avevano dovuto domarne ribellioni e sommosse. La prima cinta muraria fu costruita da Muhammad ibn al-Ashath ibn Uqba nel 761/2; l'aghlabide Ziyadat Allah I la fece demolire nell'824 dopo una rivolta della città. Nella cinta muraria dell'XI secolo si aprivano 14 porte e, da quella meridionale di Abu ar-Rabia fino alla porta di Tunisi, si estendeva lungo tutto il percorso (per circa un miglio e mezzo) un mercato coperto da un tetto, con due file ininterrotte di botteghe a destra e a sinistra: vi si trovavano tutti i depositi delle mercanzie e gli opifici della città. Secondo al-Bakri era stato il califfo omayyade Hisham ibn Abd al-Malik (724-743) a ordinare che il mercato di K. fosse costruito in questo modo. Nella città si contavano 48 bagni pubblici e la popolazione, anche se è difficile da definire con precisione, era sicuramente molto numerosa: al-Bakri afferma che in un solo giorno della festività della ῾āšūrā' furono sgozzati 950 buoi per il consumo dei suoi abitanti. Era già tuttavia iniziata, a partire dal X secolo, una progressiva decadenza che culminò con l'invasione delle tribù nomadi Banu Hilal.
K., "cittadella del sunnismo" secondo la definizione di M. Talbi (1978), non era certamente stata favorita dall'avvento fatimide e dall'affermazione dello sciismo nel Maghreb nel corso del X secolo. Riuscì tuttavia, a quanto sembra, a superare le calamità che si abbatterono in quel periodo (l'iniziale saccheggio da parte delle truppe fatimidi, un terremoto, l'incendio del quartiere dei mercati, un'inondazione, un periodo di carestia e diverse epidemie): in effetti, nella descrizione di al-Muqaddasi la città, attraversata da 15 strade principali, sembra avere aumentato la sua estensione e il suo rifornimento d'acqua grazie a nuove opere idrauliche. Nel 972 il trasferimento della capitale fatimide a oriente, al Cairo, da poco fondato sulla sponda del Nilo, costituì un grave colpo per l'economia e la popolazione di K.: insieme con la corte califfale partì gran parte delle ricchezze e i governatori ziridi, che assunsero il controllo della regione, ne aggravarono il dissesto economico con le continue guerre. Il trasferimento delle attività commerciali a Sabra al-Mansuriyya e una terribile pestilenza scoppiata nel 1004/5 contribuirono allo spopolamento della città, che probabilmente si ridusse allora a un terzo circa della superficie e della popolazione raggiunta nel momento della sua più grande prosperità. L'arrivo dei Banu Hilal, inviati in Ifriqiya alla metà dell'XI secolo dai Fatimidi del Cairo per punire il tradimento degli Ziridi che li avevano rinnegati, fu il segnale definitivo del crollo della potenza e della ricchezza di K.: la città fu abbandonata dall'emiro ziride al-Muizz, che si era ritirato con i suoi armati e la sua corte a Mahdiyya vista l'impossibilità di resistere agli attacchi dei nomadi arabi, e la sua popolazione (a eccezione di alcuni gruppi tra i più poveri) fu deportata. Il primo giorno di ramaḍān del 1057 (1° novembre), due giorni dopo la partenza di al-Muizz, le tribù beduine iniziarono il saccheggio e la devastazione della città.
Circa un secolo più tardi, all'epoca in cui al-Idrisi componeva il suo Nuzhat al-muštāq fī ῾ḫtirāq al-āfāq, noto anche come Kitāb Ruǧār (Il libro di Ruggero), la popolazione della città appariva ormai rovinata dalla "tirannia degli Arabi" che le imponevano pesanti tributi: della magnifica capitale dell'Ifriqiya nella descrizione di al-Idrisi non restano che le rovine, in parte circondate da una muraglia di terra, abitate da una popolazione poco numerosa formata da piccoli commercianti che vivevano di scarsi profitti. La costruzione più notevole era la grande cisterna, "curioso edificio di forma quadrangolare, ciascuno dei cui lati misura duecento cubiti, pieno d'acqua, al centro del quale si eleva una specie di torre". Sabra al-Mansuriyya e Raqqada apparivano in rovina e disabitate e i loro ricchi palazzi erano distrutti. Perduto il suo antico splendore, popolata da Beduini urbanizzati e divenuta un centro di commerci e di lavorazione artigianale dei prodotti delle regioni circostanti, K. assunse nei secoli successivi il ruolo di capoluogo provinciale e di centro religioso. Le rimasero la fama del suo grande passato e la memoria di Sidi Uqba e di altri santi personaggi in onore dei quali (o intorno alle cui tombe) si crearono sedi di confraternite e luoghi di residenza per i pellegrini; alla metà dell'Ottocento vi si contavano 50 zāwiya, sedi di confraternite religiose, e 20 moschee circa. Le sue mura furono ricostruite un'ultima volta nella seconda metà del XVIII secolo, circondando l'agglomerato nuovamente sorto e ciò che rimaneva della città antica. Da allora la Grande Moschea perse la sua centralità all'interno delle mura e si trovò relegata verso la periferia settentrionale; un grande cimitero si sviluppò non lontano da essa, ma all'esterno delle mura urbane, che quasi ne toccavano il perimetro.
Fonti:
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In generale:
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di Gabriella Di Flumeri Viatelli
Cittadina (ar. al-Mahdiyya) della Tunisia che occupa il promontorio del Capo d'Africa, piccola penisola rocciosa unita al continente da uno stretto istmo di terra, posta 200 km circa a sud di Tunisi.
La località venne abitata già in epoca fenicia e romana, ma la costruzione della città fu opera di Ubayd Allah (909-934), detto al-Mahdi ("il ben guidato"), fondatore della dinastia fatimide, che pose la prima pietra nel 916. Inaugurata l'8 šawwāl 308 a.E./20 febbraio 921, M. divenne la nuova capitale perché rispondeva a quelle esigenze di sicurezza e di forza richieste dalla dinastia dei Fatimidi, di religione sciita ismailita, i quali avevano deciso di sferrare da qui l'attacco al califfato abbaside di Baghdad, di fede sunnita. I Fatimidi risiedettero a M. fino al 948, quando la dinastia si trasferì nell'Egitto appena conquistato, e gli Ziridi, loro successori, vi si rifugiarono intorno alla metà dell'XI secolo per sfuggire alle invasioni dei nomadi Banu Hilal. Da allora in poi M. divenne teatro delle lotte fra i popoli nordafricani e cristiani, fino alla metà del XII secolo, quando fu occupata dai Normanni di Sicilia, che posero fine alla dinastia degli Ziridi (1148). Quindi la città entrò a far parte del dominio degli Almohadi (1160-1199); vi fu un breve periodo d'indipendenza (1199-1205) seguito dalla rioccupazione almohade con il califfo an-Nasir. In seguito, sotto gli Hafsidi (1228-1574), M. fu assalita dalle flotte genovesi e francesi (1390) e alla caduta della dinastia, Turchi e Spagnoli si disputarono la città.
Dal punto di vista difensivo M. poteva contare non solo sulla sua posizione naturale, ma anche sulle possenti mura (largh. 8 m ca.) ‒ i cui resti sono ancora visibili sul lato settentrionale della città ‒ che seguivano tutta la costa, sbarravano l'istmo ed erano rinforzate da sei torri e precedute da un antemurale. L'accesso alla città era possibile attraverso due porte, quella detta "della Vittoria" verso il sobborgo di Zawila, ove risiedeva gran parte della popolazione, e quella detta "di Bakr". Della prima è rimasto un lungo passaggio voltato ‒ oggi chiamato as-Saqifa al-Kahia ‒ che, secondo al-Maqrizi, era in origine tanto ampio da poter contenere 500 cavalieri. Sulla costa meridionale del promontorio si trovava il porto, un bacino rettangolare scavato nella roccia, che comunicava con il mare per mezzo di un passaggio (largh. 15 m). L'ingresso al porto era protetto da due torri tra loro raccordate da un arco, di cui restano ancora alcune tracce, sotto il quale passavano le navi. Dalla descrizione di al-Bakri è noto che il porto era chiuso da una catena, tesa fra le due torri, che veniva allentata solo per far passare le navi desiderate. La città accoglieva anche il palazzo del Mahdi e quello del figlio e successore al-Qaim (934-946); come attesta al-Bakri, essi dovevano essere posti uno di fronte all'altro con le facciate rivolte rispettivamente verso est e verso ovest. Del palazzo del Mahdi sono rimaste tracce nel basamento del forte turco Burj ar-Ras (Marçais 1954); nel sito del palazzo di al-Qaim sono stati recentemente condotti scavi archeologici che hanno restituito materiale ceramico di epoca fatimide e ziride. A M. è stato rinvenuto un interessante bassorilievo, forse proveniente dal palazzo fatimide, che mostra una scena di banchetto con due figure umane: un principe intento a bere da una coppa allietato da un flautista.
L'edificio più importante della città è la Grande Moschea, fondata da al-Mahdi nel 916 su una piattaforma artificiale sul mare. Ricostruita filologicamente negli anni Sessanta del Novecento sotto la direzione di A. Lézine (1965), ha l'aspetto di una fortezza rinforzata agli angoli da due torrioni quadrangolari e con un ingresso monumentale al centro della facciata. Quest'ultimo è protetto da un avancorpo che si apre con un grande arco a ferro di cavallo. La sala di preghiera, preceduta da un nartece-galleria, è scandita in nove navate perpendicolari al muro della qibla (direzione della Mecca), fra le quali spicca quella centrale, più larga, che forma una T con la navata trasversale che corre di fronte al muro del miḥrāb (nicchia di preghiera). Quest'ultimo, databile all'XI secolo ed eseguito in stile ziride, probabilmente sostituisce quello originale del 916, che fu demolito da una mareggiata insieme al muro d'ambito della moschea. L'introduzione del portale monumentale costituisce un'importante innovazione che evidenzia l'assialità della moschea sottolineando un percorso ideale che dall'entrata conduce al miḥrāb: questa novità sarebbe da connettere alle pratiche cerimoniali e processionali dei califfi fatimidi. La facciata monumentale, presente già nell'architettura civile, ma qui utilizzata per la prima volta in una moschea, rivela una nuova attenzione dell'architettura religiosa che non è rivolta solo verso l'interno, ma verso l'esterno, instaurando una connessione tra l'edificio e il tessuto urbano in cui è inserito.
Fonti:
L. de Mármol y Carvajal, Primera parte de la descripción general de Affrica, Granada - Malaga 1573-99; Ibn al-Athir, Annales du Maghreb et de l'Espagne (ed. E. Fagnan), Alger 1898; al-Maqrizi, Muqaffa, in E. Fagnan (ed.), Centenario di Michele Amari, II, Palermo 1910, pp. 35-115; al-Bakri, Description de l'Afrique septentrionale (ed. W. Mac Guckin de Slane), Paris 1965, pp. 67-68.
In generale:
G. Marçais, L'architecture musulmane d'Occident. Tunisie, Algérie, Maroc, Espagne, Sicile, Paris 1954; S.M. Zbiss, A travers les monuments musulmans de Tunisie, in JAs, 244 (1956), pp. 79-93; R.H. Idris, La Berbérie orientale sous les Zirides, Xe-XIIe siècles, Paris 1962; C.A. Julien, Histoire de l'Afrique du Nord, Paris 1964; A. Lézine, Mahdia. Recherches d'archéologie islamique, Paris 1965; D. Hill - L. Golvin, Islamic Architecture in North Africa, London 1976; M. Talbi, s.v. al-Mahdiyya, in EIslam2, V, 1986, pp. 1236-238. M. Ennaifer, La mosaïque africaine à la fin de l'Antiquité et au début de l'époque médiévale, in P. Johnson - R. Ling - D.J. Smith (edd.), Fifth International Colloquium on Ancient Mosaics (Bath, 5-12 September 1987), Ann Arbor 1994, p. 315; A. Louichi, Recherches archéologiques fatimides à Mahdia "Qasr al-Qaïm". Les premiers résultats du Sondage IV, in Bullettin des travaux de l'Institut National du Patrimoine, 4 (1991), pp. 161-77; K. Maodoud, Fouille de Qasr al-Qaim à Mahdia, ibid., pp. 139-159; A. Daoulatli, La céramique des Xe et XIe siècles. Mahdiya et la Qala'a des Banu Hammad, in Couleurs de Tunisie. 25 siècles de céramique (Catalogo della mostra), Paris 1994; Id., La céramique fatimide et ziride de Mahdia d'après les fouilles des Qsar al-Qa'im, in La ceramique médiévale en Méditerranée. Actes du VIe Congrès de l'AIECM2 (Aix-en Provence, 6 novembre 1995), Aix-en-Provence 1997, pp. 301-30.
di Gabriella Di Flumeri Viatelli
Città (ar. Munastīr) e porto della Tunisia, ubicata sul promontorio meridionale del Golfo di Hammamet, vicino all'antica città fenicia di Ruspina.
Dopo la conquista araba dell'Africa settentrionale, nel corso della seconda metà del VII secolo, M. acquistò notevole importanza in quanto fu provvista di un ribāṭ (convento fortificato) fatto costruire, secondo al-Bakri, dal governatore abbaside Harthama bin Ayan nel 796. Quella di M. fu la prima di una serie di fortificazioni disseminate su tutta la costa dell'Ifriqiya e destinate a svolgere un ruolo di punti di avvistamento e di stazioni di un sistema semaforico di segnalazione. Il nome M. deriva probabilmente dalla presenza sul luogo di un antico monastero cristiano, di cui però non rimane alcuna traccia; è tuttavia possibile anche una persistenza presso la popolazione locale di un termine di origine greco-romana passato a designare un'istituzione islamica analoga (Soucek 1993). Nell'XI secolo, M. era già stata dotata di altri due ribāṭ e di un convento riservato alle donne anacorete, di cui rimangono ancora tracce nella città attuale. In conseguenza di ciò crebbe la fama religiosa di M., in quanto si riteneva che chiunque avesse soggiornato nel ribāṭ per tre giorni avrebbe conquistato il diritto al paradiso; per la stessa ragione, sotto la dinastia ziride (X-XII secc.) M. fu scelta come luogo di sepoltura privilegiato dagli stessi sovrani che risiedevano nella vicina Mahdia (al-Idrisi, Nuzhat al-muštāq).
Il grande ribāṭ, descritto da al-Bakri come una fortezza chiusa all'interno della qaṣba, ha subito nei secoli varie modifiche: ciò che rimane della struttura più antica sono la torre rotonda (chiamata nador, sinonimo locale di manār), situata nell'angolo sud-orientale del recinto murato, alcuni tratti delle mura originali e la sala per la preghiera; quest'ultima, suddivisa in sette navate, è situata al piano superiore ed è oggi adibita a museo. Al fianco del ribāṭ sorge la Grande Moschea, eretta nel IX secolo e ampliata dagli Ziridi nell'XI secolo, che conserva, al pari della piccola moschea funeraria Sayyida (IX sec.), un mihrāb dai tratti propri dell'architettura ziride.
H.H. Abdul Wahab, Contribution à l'histoire de l'Afrique du Nord et de la Sicile, in Scritti per il centenario di Michele Amari, II, Palermo 1910, pp. 427-94; B. Roy, Inscriptions arabes de Monastir, in RTun, 25 (1918), pp. 85-91; G. Marçais, Note sur les ribāts en Berbérie, in Mélanges René Basset, II, Paris 1925, pp. 395-430; Id., L'architecture musulmane d'Occident. Tunisie, Algérie, Maroc, Espagne, Sicile, Paris 1954; A. Lézine, Le ribāt de Sousse, suivi de notes sur le ribāt de Monastir, Tunis 1956, pp. 35-43, tavv. XXXI-XLI; R.H. Idris, Le Berbérie orientale sous les Zirides, Xe-XIIe siècles, Paris 1962; al-Bakri, Description de l'Afrique septentrionale, (ed. W. Mac Guckin de Slane), Paris 1965, pp. 78-80; A. Lézine, Architecture de l'Ifriqiya. Recherches sur les monuments aghlabides, Paris 1966; al-Idrisi, Nuzhat al-muštāq fī ῾ḫtirāq al-āfāq [La gioia di chi desidera viaggiare nel mondo] (ed. E. Cerulli et al.), Napoli - Roma 1970-84; D. Hill - L. Golvin, Islamic Architecture in North Africa, London 1976; H. Sethom - A. Kassab, Les régions géographiques de la Tunisie, Tunis 1981; S. Soucek, s.v. Monastir, in EIslam2, VII, 1993, pp. 229-31.
di Mourad Rammah
Seconda capitale (ar. Raqqāda) degli Aghlabidi dopo al-Abassiyya, fondata nel 263 dell'Egira (876 d.C.) e ubicata 9 km a sud-ovest di Kairouan.
Di carattere malinconico e orgoglioso, il principe Ibrahim II voleva fare della sua nuova città, rinomata per la sua aria salubre, un luogo di piacere e renderla testimone della potenza della dinastia che aveva appena concluso la pacificazione del paese. Secondo le fonti letterarie, vi eresse parecchi palazzi fastosi tra i quali si distinguono il Palazzo della Vittoria (Qasr al-Fath), il Palazzo della Corte (Qasr as-Sahn) e il Palazzo del Mare o del Lago (Qasr al-Bahr). Furono costruiti numerosi bacini sopraelevati all'aperto per alimentare la città di acqua potabile e permettere l'irrigazione dei frutteti che l'avevano resa famosa. Molto presto R. cominciò ad attirare un folto numero di persone costituito per lo più da cortigiani e dalla guardia del principe, trasformandosi in una opulenta città mercantile. Fu dunque dotata di una Grande Moschea, di numerosi bagni, sūq e caravanserragli. R. raggiunse il suo apogeo durante il regno di Ziyadat Allah III che la circondò, nel 908, di una cinta muraria di circa 10 km di circonferenza, per ostacolare il pericolo sciita che si profilava all'orizzonte. Dopo la caduta degli Aghlabidi nel 909, R. fu saccheggiata dagli abitanti di Kairouan che la depredarono per tre giorni prima dell'arrivo dell'esercito fatimide. Nel 910 l'ascesa al potere di al-Mahdi permise a R. di riprendersi e di restare capitale del califfato fatimide sino alla fondazione di Mahdiyya, nel 916. La partenza del califfo al-Mahdi e dell'apparato amministrativo fu fatale a R. che, da allora in poi, perse la sua importanza economica e politica e si accontentò del ruolo di città periferica a carattere residenziale, sebbene il principe ziride al-Mansur vi risiedette nel 985 prima di stabilirsi nel suo nuovo palazzo di Sabra al-Mansuriyya. Nel corso dell'XI secolo le invasioni delle tribù hilaliane provenienti dall'Alto Egitto devastarono e distrussero completamente la città.
Le alluvioni dei widyān e gli scavi clandestini finirono per portare via gli ultimi resti monumentali presenti sul sito, di cui solo una minima parte è giunta sino ai giorni nostri. Tra i resti ancora conservati si può distinguere la presenza di un grande bacino quadrangolare sostenuto da contrafforti a sezione semicircolare, simili a quelli delle cisterne aghlabidi di Kairouan; il bacino è di dimensioni spettacolari per l'epoca (125 × 59 m) e ha una capienza che supera i 5000 m3. Alcuni edifici adiacenti a questo serbatoio sembrano essere i resti del Qasr al-Bahr, il palazzo edificato da Ziyadat Allah III nel 905 che suscitò l'ammirazione del califfo fatimide al-Mahdi: "Ho visto, in Ifriqiya, due cose delle quali non c'è niente di simile in Oriente: lo scavo che è vicino alle porte di Tunisi (scil bacini degli Aghlabidi) e il Qasr al-Bahr (Palazzo del Mare) a R.". L'ala occidentale di questa parte del sito è pavimentata con un mosaico di piccoli cubi di pietra. La sua decorazione geometrica, composta da trecce e spirali policrome e databile molto probabilmente tra il III o il IV secolo, attesta la sua appartenenza all'epoca tardoromana; questo è confermato dalla presenza, in situ, di una necropoli romana il cui corredo funerario rinvenuto è databile al II-III secolo. Il sito è coperto di impianti idraulici importanti: si tratta di cisterne per la raccolta delle acque piovane e di bacini di medie dimensioni, che erano probabilmente alimentati dall'acqua di una derivazione proveniente dalla regione di Cherichera, ubicata a 30 km a ovest di Kairouan.
Le prime campagne di scavi furono condotte a partire dal 1962 e si protrassero in modo irregolare fino al 1988. Durante gli scavi furono rinvenuti i resti di due terzi di un palazzo, probabilmente attribuibili al Qasr as-Sahn: di forma quasi quadrata, non si distingue molto dai castelli omayyadi dell'area siro-palestinese (quali Khirbat al-Mafgiar e Qasr al-Mshatta) o dai castelli abbasidi dell'Iraq (ad es., Ukhaydir). Il palazzo è protetto da 7 torri semicilindriche equidistanti e possiede più di 109 stanze, cortili e numerosi portici e annessi; costruito in pisé, sembra essere stato edificato in tre fasi costruttive. Il nucleo iniziale è costituito da un quadrato di 53 m di lato. L'entrata con sistema a baionetta è protetta su ambedue i lati da torri. Durante gli scavi furono rinvenuti stucchi con le loro matrici e ciò ne conferma la fabbricazione in situ. Tutto il repertorio decorativo scolpito su pietra tipico della città di Kairouan come, ad esempio, quello presente nella Grande Moschea e nella Moschea delle Tre Porte, è rappresentato qui in gesso: foglie di vite ripiegate o aperte a tre o cinque lobi, palmette, grappoli di uva, melagrane, rosoni sono talvolta dipinti in rosso, blu e verde. Questa decorazione scolpita su gesso di periodo aghlabide, malgrado la finezza nella sua lavorazione, non raggiunge ancora la perfezione e la maturità delle decorazioni fatimidi e ziridi; tuttavia, gli stucchi di R. (così come quelli di Sabra al-Mansuriyya) permettono di completare gli anelli mancanti tra gli stucchi omayyadi di Siria (VIII sec.) e quelli dei Nasridi dell'Andalusia (XII sec.). Sono anche presenti alcune decorazioni geometriche (triangoli, linee spezzate, rettangoli, ecc.) accanto a iscrizioni cufiche scolpite in rilievo. Nell'insieme degli stucchi è particolarmente degno di nota un fregio di marmo scolpito, sul quale è raffigurato un leone con la testa rappresentata frontalmente e il corpo visto di profilo.
Oltre ad abbondanti resti di ceramica comune (anfore, giare, lampade, scodelle, coppelle) ‒ senza dubbio in attesa di essere classificati e studiati ‒ gli scavi di R. hanno permesso di rinvenire numerosissimi frammenti di una tipologia ceramica in cui il marrone, il verde e il giallo sono i colori più largamente usati. Il verde serve a riempire il motivo, il marrone a delineare il contorno, mentre il giallo ocra ne costituisce il fondo; il decoro risulta forte e vivace. La maggior parte dei frammenti ceramici è decorata da motivi floreali semplici, stereotipati e geometrici; il ceramista dà libero sfogo alla sua immaginazione e al suo genio e colpisce l'esuberanza e la varietà della decorazione. Su una parte delle coppe è rappresentata una fauna stilizzata, quasi sempre gallinacei. Al contrario di quanto accade per la coeva ceramica orientale, l'epigrafia in quanto elemento decorativo è molto poco usata: i ceramisti preferiscono l'uso ripetitivo della parola al-mulk ("la sovranità", sottintendendo "appartiene a Dio") e rare sono le iscrizioni in versi di carattere beneaugurale o indicanti il nome del ceramista. In realtà ciò che caratterizza la ceramica di R., più ancora del colore, è la disposizione generale della decorazione e soprattutto i motivi che conservano un vago ricordo dell'eredità berbera: le decorazioni a raggiera piene di tratteggi o linee spezzate, i motivi sfrangiati, a scacchi, i rombi, i motivi punteggiati presentano infatti molte analogie con le decorazioni berbere presenti sulle ceramiche modellate, sui tessuti e sui tatuaggi. Le officine di R. produssero due tipi di mattoni cotti: il primo tipo, di colore crema e di notevoli dimensioni (47 × 21 cm); il secondo di colore rosso e di dimensioni più ridotte (22 × 11 cm). A R. fu scoperta una rara raccolta di pesi di piombo; databile tra la fine dell'epoca aghlabide e l'inizio del regno di al-Mahdi (fine IX - inizi X sec.), essa fornisce un documento di grande importanza scientifica sulla metrologia in Ifriqiya durante il Medioevo. I pesi sono incisi con una iscrizione cufica che menziona il nome del principe regnante o del suo giudice, il qāḍī, e invitano all'equità.
Bibliografia
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di Mourad Rammah, Patrice Cressier
Sito archeologico (ar. Ṣabra al-Manṣūriyya) le cui vestigia si sono parzialmente conservate a 1,3 km circa dalla città di Kairouan e sono oggi inglobate nel tessuto urbano di questa città; esse sorgono su una lieve altura che domina di qualche metro appena la circostante pianura alluvionale.
Il nome del sito dà conto degli eventi che condussero alla sua fondazione: durante un combattimento tra i rivoluzionari kharigiti di Abu Yazid, l'"uomo con l'asino", il califfo fatimide (sciita) al-Mansur avrebbe esortato alla pazienza le sue truppe allo sbando; in questo luogo, chiamato da allora Sabra a memoria di tale pazienza, egli avrebbe deciso qualche mese più tardi di fondare una città destinata a essere la sua capitale e che, ovviamente, adottò il qualificativo di al-Mansuriyya. La costruzione della città venne affidata a uno schiavo affrancato, Quddam, e la prima fase edilizia dovette limitarsi all'edificazione della cinta muraria e del palazzo califfale; lo sviluppo urbano subì un'accelerazione in epoca successiva, una volta riportata la vittoria definitiva sui ribelli, nel 947/8. Essendo al-Mansur deceduto poco tempo dopo, nel 953, si può supporre che la fisionomia urbana di S. al-M. non sia stata realmente raggiunta che sotto il regno del suo successore e figlio, al-Muizz.
L'insediamento, avvenuto nel 948, del califfo e dei suoi congiunti nella nuova città, dove quest'ultimo avrebbe anche stabilito una densa popolazione di Berberi Kutama, suoi alleati nei conflitti che avevano appena terminato di scuotere il Paese, costituì un gesto politico altamente significativo. Il potere fatimide abbandonò la marginalità delle regioni costiere per insediarsi nel cuore storico dell'Ifriqiya; la localizzazione scelta, tra la città oggetto di venerazione di Kairouan e la fondazione aghlabide di Raqqada, segnalava la volontà di continuità storica della nuova dinastia; ma, se questo ritorno nelle vicinanze di Kairouan poteva forse simboleggiare un riavvicinamento con gli ῾ulāma' sunniti, la situazione rispettiva dell'una e dell'altra città sottolineavano tanto la sfiducia prodotta dall'antagonismo sempre presente tra sciiti e sunniti, quanto la volontà dei Fatimidi di controllare il più efficacemente possibile le attività religiose, politiche ed economiche dell'antica capitale. S. al-M. non subì ripercussioni dalla partenza dei Fatimidi per il Cairo, avvenuta nel 972; al contrario, essa continuò a essere sede dei governanti ziridi posti lì dal potere centrale fatimide, quindi divenne capitale del loro regno; essa fu a quel tempo sottoposta ad altri importanti interventi di ristrutturazione. Fu verosimilmente come conseguenza delle invasioni hilaliane che la città venne abbandonata e distrutta poco dopo la metà dell'XI secolo, periodo a partire dal quale essa fu utilizzata come cava di materiali edilizi per la ricostruzione di Kairouan.
Gli autori arabi medievali che hanno riportato notizie su S. al-M. non sono tanto numerosi come ci si potrebbe aspettare in considerazione dell'importanza storica della città. Tra di essi figurano geografi (al-Muqqadasi, al-Idrisi), storici (al-Bakri), cronisti della dinastia (Ibn Hammam), oltre a testimoni del tempo (Qadi an-Numan) e, ovviamente, poeti. Poste a confronto con le fonti testuali, le ricerche archeologiche intraprese in forma discontinua dopo gli anni Venti del Novecento (e a stento pubblicate) ci permettono di ricostruire per grandi linee l'immagine di quello che fu nel corso di un secolo questo polo dell'Islam occidentale. Una particolarità di S. al-M., che è stata segnalata solo da al-Muqqadasi, ha stranamente focalizzato la riflessione degli storici del mondo islamico: secondo questo autore, essa sarebbe stata "tonda come una coppa", a somiglianza di Madinat as-Salam (l'odierna Baghdad). Sebbene le fotografie aeree e le immagini satellitari restituiscano piuttosto l'immagine di un ellissoide i cui assi misurano rispettivamente 1350 e 1050 m (vale a dire una superficie di circa 110 ha), si hanno ragioni per supporre un influsso urbanistico orientale. Altri dati forniti dal telerilevamento potrebbero lasciar supporre l'esistenza di una seconda cinta muraria, interna e quasi perfettamente circolare, che avrebbe potuto circoscrivere una zona più esclusivamente palaziale.
Se il bastione identificato nel corso degli scavi su due tratti era stato accuratamente costruito con mattoni crudi, come affermano le fonti, esso doveva comunque essere sensibilmente meno massiccio di quanto esse segnalino (3,7 m in luogo di 6-6,5 m) e si sa oggi che presentava alternativamente torri semicircolari e quadrangolari. Dei due muri paralleli e distanti mezzo miglio che, secondo al-Bakri, al-Muizz avrebbe fatto costruire per collegare le muraglie di Kairouan a quelle di S. al-M., nulla si è conservato. Occorre segnalare che, più che una simbiosi tra le due città, questi due muri sancivano la definitiva presa di controllo dell'una sull'altra. Nessuna delle porte di S. al-M. è stata a tutt'oggi localizzata e la determinazione del loro stesso numero appare problematica (sarebbero state tre secondo al-Muqqadasi, quattro secondo Ibn Hammad e cinque secondo al-Bakri): Bab al-Futuh (Porta della Vittoria, che assolveva un importante ruolo durante il cerimoniale califfale), Bab Kutama (localizzata forse a nord), Bab Zawila (forse a est), Bab al-Qibla (a sud) e Bab Wadi al-Qassarin. Un'iscrizione ziride di grande qualità, riutilizzata nell'antichità a Bab Tunis di Kairouan e attualmente rimossa, dovette essere stata scolpita per una delle porte di S. al-M., sebbene non sia purtroppo possibile precisare se si trattasse di quella della cinta muraria urbana o di un palazzo. Non si sa nulla della Grande Moschea di S. al-M., se non che essa fu fatta costruire da al-Muizz nel 953 e che si ergeva in mezzo ai sūq. Dei palazzi ci sono pervenute alcune descrizioni suggestive ma anche molto frammentarie. Essenzialmente sono due le difficoltà che si presentano alla lettura dei testi: la cronologia dei complessi architettonici citati e la loro entità spaziale. Sembra comunque che il palazzo di al-Mansur, denominato Dar al-Bahr, sorgesse proprio al centro della città, mentre al-Muizz avrebbe fatto edificare il palazzo di al-Iwan per i suoi figli. Vengono citati anche altri nomi, come il Salone della Canfora o il Palazzo di Khawarnaq (altro riferimento orientale), localizzato al centro del bacino di al-Bahr.
Un complesso palaziale è stato portato alla luce nel corso degli scavi realizzati da S.M. Zbiss ma, in ragione della sua localizzazione decentrata e delle sue modeste dimensioni, esso non sembra essere stato quello di al-Mansur. Il corpo dell'edificio presentava la forma di un rettangolo di 86 × 22 m e doveva essere preceduto da una spianata di dimensioni simili dinanzi alla quale si estendeva un vasto bacino rettangolare (140 × 70 m ca.). Uno spazio centrale, la cui complessa organizzazione derivava da uno schema a T di tradizione orientale, doveva assolvere la funzione di luogo di ricevimento e rappresentanza. Esso era fiancheggiato da due complessi non simmetrici, ciascuno dei quali organizzato intorno a un cortile dotato di una cisterna. La costruzione di mattoni crudi, come nella maggior parte degli edifici della città, doveva essere coperta da volte. I muri erano rivestiti di calce, ma quelli delle strutture d'élite dovevano presentare decorazioni di stucco, elementi delle quali sono stati rinvenuti frammentati e accumulati all'interno di una fossa. Tali stucchi dipinti attestano chiaramente l'esistenza di tre stili diversi, gli ultimi due dei quali postfatimidi, mentre il primo è caratterizzato dal ricorso a un repertorio antropomorfo e zoomorfo di eccezionale livello artistico e a tutt'oggi unico nell'arte maghrebina. Personaggi decoravano anche i rivestimenti murari di ceramica policroma. In senso generale, le ricche decorazioni dei monumenti di S. al-M. ci sono pervenute estremamente frammentate, quasi allo stato di tracce (claustra, vetri colorati con armatura di gesso, intarsi di marmo, mosaici). Alcuni elementi, in particolare supporti come colonne e capitelli, erano costituiti quasi esclusivamente da materiali romani e bizantini reimpiegati (essi vengono frequentemente riutilizzati negli edifici di Kairouan risalenti al basso Medioevo).
Palazzi, bagni e luoghi di culto, per non parlare della vita domestica, implicavano un consistente bisogno di acqua che veniva soddisfatto mediante pozzi e cisterne; l'approviggionamento idrico fu più tardi potenziato grazie a un acquedotto, costruito inizialmente dagli Aghlabidi a partire da una captazione situata una trentina di chilometri a sud-ovest per rifornire Kairouan e caduto poi in rovina; tale acquedotto venne restaurato e deviato verso S. al-M. da al-Muizz, aumentando così il controllo esercitato sulla sua vicina. I mercati di S. al-M. godevano di grande reputazione già all'epoca di al-Mansur, ma la decisione presa da al-Muizz di spostare i sūq di Kairouan verso la nuova città creò forti squilibri negli scambi commerciali in favore di quest'ultima. È possibile valutare la loro importanza sulla base di quanto riportato da al-Bakri sulle porte della città: da una sola di esse e in un solo giorno poteva essere prelevata (in tasse) una somma di 26.000 dinari. Quanto alle produzioni artigianali, numerose, di esse sono documentate archeologicamente, e del resto in forma molto parziale, solo due specializzazioni: la produzione del vetro e quella fittile. Per quello che concerne quest'ultima, l'ipotesi generalmente accettata ‒ ma che resta da dimostrare, in quanto essa attribuirebbe scarsa rilevanza agli ateliers della stessa Kairouan ‒ è che alla produzione suntuaria verde-bruno aghlabide (detta "di Raqqada") ne sarebbe succeduta un'altra, fatimide e prodotta a S. al-M. La sua invetriatura sarebbe stata piuttosto stannifera e il suo repertorio iconografico ricco e immaginifico. Numerosi esemplari esportati sono stati in effetti rinvenuti in tutto il bacino del Mediterraneo, a segnalare l'attrazione esercitata dall'arte fatimide ben al di là del suo raggio naturale di diffusione.
Della città che fu la materializzazione del sogno politico sciita in Occidente e forse il modello della grandezza del Cairo, oltre che testa di ponte di importazioni orientali materiali e intellettuali nel Maghreb e ferro di lancia contro il califfato omayyade di Cordova, non resta oggi che un campo di rovine, giacché oltre i tre quarti della superficie che essa un tempo occupava sono ormai invasi dalle costruzioni moderne.
Bibliografia
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di Federico Cresti
Città (ar. Ṣafāqus), oggi uno dei più importanti centri abitati della Tunisia, affacciata sul Mar Mediterraneo, nella parte settentrionale del Golfo di Gabes (o della Piccola Sirte). Le sue origini rimontano all'epoca fenicia e poi romana: allora si elevava non lontano dalla città attuale un borgo dal nome di Taparura (o Taphura) di cui rimangono poche tracce archeologiche ‒ tra cui i resti di un battistero e di cimiteri ‒ e le cui pietre servirono per nuove costruzioni dopo la conquista araba dell'Ifriqiya.
Secondo la tradizione, all'origine della città musulmana sarebbe stato un edificio fortificato (qṣar o burǧ) sul sito dell'attuale qaṣba: non sono note le funzioni originarie di questa costruzione, che fu probabilmente volta per volta rifugio (ribāṭ) per i combattenti della guerra santa, corpo di guardia (maḥris), stazione di posta o tappa nei percorsi commerciali della regione. La popolazione concentrata nelle sue vicinanze aumentò gradualmente e, grazie alla sua posizione favorevole e in un periodo, tra l'VIII e il IX secolo, che vide lo sviluppo di una rete densa di villaggi nel suo retroterra, S. assunse una notevole importanza come centro di traffici marittimi e terrestri. Con l'avvento degli Aghlabidi al governo dell'Ifriqiya e a coronamento di un periodo di crescita la città fu cinta da una muraglia di fortificazione per volontà di Abu Ibrahim Ahmad, al potere tra l'856 e l'863. Da allora S. assunse una dimensione che rimase inalterata fino agli albori dell'epoca moderna: in effetti, soltanto a partire dal 1775 iniziò a estendersi fuori dal recinto del IX secolo. All'interno delle mura, su una superficie di circa 24 ha, la città mostra ancora oggi una struttura di matrice rettangolare, particolarmente evidente nel quartiere intorno alla Grande Moschea. Se può essere interpretato come un lascito della tradizione urbanistica romana, l'impianto tendenzialmente ortogonale è una caratteristica delle città che si sviluppano in quel periodo in Ifriqiya (Susa, Tunisi, ecc.) e si incontra anche nelle nuove città palatine che la dinastia aghlabide costruì nella regione di Kairouan.
All'epoca aghlabide e all'incirca allo stesso periodo della costruzione delle mura (le fonti, pur con qualche discrepanza, attestano che essa fu terminata intorno all'850) appartiene la Grande Moschea, voluta dal qāḍī (giudice) della città, Ali Ibn Salim al-Jabanyani. È possibile avere un'idea della sua forma originaria, molto mutata nel corso dei secoli, soltanto attraverso le ricostruzioni fatte dagli studiosi, in particolare G. Marçais e L. Golvin. Tenendo conto del fatto che i soli dati sicuri circa la distribuzione degli spazi nella moschea aghlabide riguardano la posizione del minareto e del miḥrāb (nicchia di preghiera) e il tracciato del muro esterno (corrispondente grosso modo al perimetro della moschea attuale), secondo Golvin l'edificio aveva una pianta rettangolare con lati di 47 m di profondità e 40 di larghezza. Il minareto, a base quadrata con circa 4 m di lato, era posto al centro del lato nord-ovest del muro di cinta; al centro del lato opposto si apriva la nicchia del miḥrāb e l'asse che univa minareto e miḥrāb divideva la moschea in due porzioni equivalenti. La maggior parte dello spazio interno era occupato da un vasto cortile (ṣaḥn), che lungo tre lati del suo perimetro era circondato da un portico a colonne. Sul quarto lato, a sud-est, si apriva la sala di preghiera, costituita da una navata contigua al muro della qibla (la direzione della Mecca) e da nove navate perpendicolari a essa. La navata centrale, in asse con il miḥrāb, era leggermente più larga delle altre, costituendo con quella contigua al muro della qibla il classico piano a T che si incontra in molti edifici sacri dei primi secoli dell'Islam. Sull'esempio di altre moschee dello stesso periodo, una cupola avrebbe dovuto trovarsi all'intersezione delle due braccia della T, coprendo così la campata davanti al miḥrāb.
La città visse un periodo di prosperità fino alla seconda metà del X secolo. A quest'epoca la descrizione di al-Bakri ci mostra S. come uno scalo commerciale molto frequentato, da dove soprattutto era esportato in tutto il Maghreb ‒ e fino in Egitto, in Sicilia e nel mondo cristiano ‒ l'olio prodotto nella regione circostante. Anche la tessitura produceva merci da esportazione: in alcune tecniche di lavorazione tessile, afferma ancora al-Bakri, gli artigiani di S. erano superiori a quelli di Alessandria, pur usando gli stessi metodi. Tra l'XI e il XII secolo la città ebbe a subire i contraccolpi delle vicende politiche e belliche che agitarono il Maghreb: le lotte tra tribù e dinastie berbere e l'invasione dei Banu Hilal prima; poi gli attacchi di Pisa e Genova nel quadro della guerra corsara che impegnava tutte le città marinare del Mediterraneo; infine l'occupazione degli scali della costa tunisina da parte di Ruggero di Sicilia, che estese il suo controllo da Tunisi a Tripoli. S. fu prima assediata ed espugnata (1143), poi occupata cinque anni dopo dai Normanni, che vi posero una guarnigione: si liberò dal giogo cristiano nel 1156 e di lì a poco riconobbe la sovranità almohade. Pestilenze e calamità naturali aggiunsero altri motivi alla decadenza della città che già nella descrizione di al-Idrisi (intorno alla metà del XII secolo). In questo periodo turbolento la Grande Moschea subì profondi cambiamenti: la sua estensione fu ridotta a circa la metà, cosicché il minareto si trovò posto all'angolo nord-occidentale del nuovo recinto. Il resto della superficie fu occupato da altre costruzioni e soltanto molto più tardi, nel XVIII secolo, l'edificio riassunse le sue dimensioni originali.
Interventi di restauro moderni (la sala di preghiera fu tra l'altro danneggiata da bombardamenti nel corso dell'ultimo conflitto mondiale) hanno rivelato le diverse fasi costruttive del suo minareto, che rimane il più importante monumento medievale della città. Nel suo aspetto attuale il minareto della Grande Moschea di S. è un'espressione dell'architettura dell'epoca ziride: a quanto appare dalle indagini archeologiche, che hanno messo in luce parti della struttura originaria, esso assunse il suo aspetto attuale in seguito ad alcuni interventi di ricostruzione che, secondo diverse ipotesi, avrebbero avuto luogo alla fine del X (secondo un'iscrizione che si riferisce al 988) e dell'XI secolo. Il rifacimento del minareto fu dovuto probabilmente a problemi di carattere statico: la torre primitiva fu infatti "fasciata" e rinforzata con l'aggiunta di una muratura esterna di pietre squadrate e mattoni che la inglobò al suo interno. La forma del minareto ricorda nelle sue linee generali quello della Grande Moschea di Kairouan ed è costituita dalla sovrapposizione di tre piani. La parte più bassa, di forma troncopiramidale, ha un'altezza di circa 16 m e un lato di base di circa 5,5 m; vi si sovrappone un secondo piano a forma di parallelepipedo, con una base di 3,25 m e un'altezza di 4. Nella loro parte superiore questi due piani sono coronati da una merlatura sovrapposta a diverse fasce con iscrizioni e motivi decorativi. Una lanterna a base quadrata (1,3 m di lato per un'altezza simile a quella del secondo piano) costituisce la parte più alta della costruzione. Particolarmente originale e ricca (a differenza del minareto di Kairouan) è la decorazione esterna, che si concentra in modo maggiore sulla facciata rivolta verso la sala di preghiera: nicchie e rientranze, finestre sormontate da arcature polilobate, iscrizioni epigrafiche, fasce sovrapposte di dentelli coronati da motivi floreali, di ovuli e di motivi geometrici, e infine la lanterna coperta da una cupoletta a lobi e decorata agli angoli da colonnine inserite nella muratura fanno del minareto di S. uno dei più interessanti esempi di questo genere nell'architettura dell'occidente musulmano.
Le rare testimonianze storiografiche non permettono di ricostruire dettagliatamente la vita della città nei secoli successivi: alla fine dell'epoca medievale, poco tempo prima della conquista ottomana dei territori del Maghreb, commerci e guerra corsara costituivano ancora le principali attività di S., ma della prosperità di un tempo rimaneva soltanto il ricordo. Così ne parla Leone Africano all'inizio del XVI secolo nella sua Descrizione dell'Africa: "sono per la maggior parte tessitori di tele, marinai e pescatori [...]: vanno male in arnese: vi sono alcuni d'essi, che con certi legni soglion trafficare in Egitto e in Turchia".
Leone Africano, Descrizione dell'Africa, in G.B. Ramusio (ed.), Il viaggio di Giovan Leone e le navigazioni di Alvise da Ca' Da Mosto, di Pietro di Cintra, di Annone, di un piloto portoghese e di Vasco di Gama, Venezia 18372, p. 124; al-Bakri, Kitāb al-masālik wa'l-mamālik (ed. W. Mac Guckin de Slane, Description de l'Afrique septentrionale, Alger 1911-13); R. Brunschvig, La Berbérie orientale sous les Hafsides. Des origines à la fin du XVe siècle, I-II, Paris 1940-47; G. Marçais, L'architecture musulmane d'Occident. Tunisie, Algérie, Maroc, Espagne, Sicile, Paris 1954, pp. 25, 108-109; J. Despois, La Tunisie orientale. Sahel et basse steppe. Étude géographique, Paris 1955; G. Marçais - L. Golvin, La Grande Mosquée de Sfax, Tunis 1960; H. Roger Idris, La Berbérie orientale sous les Zirides, Paris 1962; L. Golvin, Essai sur l'architecture religieuse musulmane, I, Paris 1970, pp. 47-51; III, Paris 1974, pp. 162-71, 198-200; M. Van der Meerschen, La Médina de Sfax. Enquête préliminaire à sa régénération, in Monumentum, 8 (1972), pp. 3-32; al-Idrisi, Le Magrib au 12e siècle de l'Hégire (6e siècle après J.-C.) (ed. M. Hadj-Sadok), Alger 1983, p. 130; P. Cuneo, Storia dell'urbanistica. Il mondo islamico, Roma - Bari 1986, pp. 158-63; T. Bachrouch, s.v. Safkus, in EIslam2, VIII, 1995, pp. 787-89.
di Federico Cresti
Città ubicata sulla sponda meridionale del Golfo di Hammamet, 140 km circa a sud di Tunisi.
Al pari di molte delle città della costa tunisina sorte ‒ o risorte ‒ dopo la conquista araba del Maghreb, S. islamica deve la sua origine alla presenza di una fortezza (ribāṭ) in cui risiedevano i volontari della guerra santa per difendere la costa dagli attacchi cristiani o nell'attesa delle spedizioni contro gli infedeli. Il ribāṭ di S., ancora oggi conservato, fu edificato durante il governatorato di Yazid ibn Hatim, tra il 755 e il 788: si tratterebbe quindi del più antico edificio di questo tipo nel Maghreb. Sotto l'aghlabide Ziyadat Allah I fu completato, nell'821, con la costruzione, sul bastione sud-orientale, di una torre di vedetta (manār) circolare del diametro di 5 m circa che sovrasta di oltre 15 m la parte rimanente dell'edificio. La fortezza, costruita in muratura di pietra, presenta una pianta quadrata con i lati di circa 40 m; otto bastioni, quasi tutti semicircolari, sono posti agli angoli e a metà di ciascuno dei lati esterni. All'interno il ribāṭ presenta un cortile quadrangolare, circondato da un porticato a pilastri coperto a volte da cui si accede a una serie di vani che si allineano lungo i muri perimetrali dell'edificio. Lo schema, a eccezione del porticato, si ripete al piano superiore, dove tuttavia il lato meridionale è occupato da una sala di preghiera formata da 11 navate coperte da volte a botte e perpendicolari al muro della qibla (direzione della Mecca); ogni navata è delimitata da due archi che poggiano su bassi pilastri cruciformi.
Al pari di Sfax, Kairouan e Tunisi, S. visse una vera e propria rinascita in epoca aghlabide: nell'844 una nuova fortezza (qaṣba) sorse in una posizione non lontana dalla costa e sovrastante il primitivo ribāṭ. Pochi anni dopo l'emiro Ziyadat Allah I (817-838), che fece della città il punto di raccolta e di partenza delle truppe per l'invasione della Sicilia, ordinò la costruzione di una cinta muraria, terminata nell'859, inglobandovi la qaṣba, che ne formò l'angolo sud-occidentale. La qaṣba si trovò così nel punto più elevato della città e fu sormontata da una torre di segnalazione alta circa 30 m, detta Khalaf al-Fata, a due piani sovrapposti, ancor oggi esistente. La fortezza e la cinta urbana subirono in seguito molti restauri, in particolare alla fine del IX e all'inizio del XIII secolo: le mura mantennero l'originario perimetro quadrangolare di 2 km circa, in cui ‒ secondo al-Bakri (XI sec.) ‒ si aprivano otto porte; il lato orientale, battuto dalle onde, subì molti danni: un bombardamento nel 1943 ne distrusse infatti l'estremità settentrionale. Qui, sempre secondo la descrizione di al-Bakri, si trovava l'arsenale marittimo della città, che un'enorme porta aperta nelle mura metteva in comunicazione con il mare.
Nella città attuale rimangono due edifici religiosi, quasi coevi, di epoca aghlabide: la moschea Bu Fatata (dove un'iscrizione in caratteri cufici ricorda Aghlab ibn Ibrahim, che fu al potere dall'838 all'841) e la Grande Moschea, costruita dall'emiro Abu'l-Abbas nell'850/1. I due edifici sono diversi per forma e dimensioni: il primo è un piccolo oratorio a tre navate, a pianta quadrata di 8 m circa per lato; il secondo è un'ampia costruzione con cortile circondato da portici e una sala di preghiera ‒ che in origine misurava 60 × 50 m ‒ con 13 navate perpendicolari al muro della qibla. Essi hanno però in comune tra loro e con la sala di preghiera del ribāṭ il ricorso a un sistema costruttivo di pilastri e volte. La Grande Moschea ha conservato diversi elementi decorativi risalenti al periodo aghlabide: in particolare una cupola a tamburo ottagonale con sfaccettature poligonali esterne, due timpani al di sotto di essa ornati da mattonelle di pietra, mensole e imposte di archi con motivi floreali scolpiti. La cupola della Grande Moschea e una seconda cupola nel ribāṭ, di forma più semplice, risalgono rispettivamente all'851 e all'821 e costituiscono due dei più antichi esempi di questa tipologia nell'architettura islamica del Maghreb.
Nella sua epoca di maggiore splendore S. basava la sua ricchezza sulla filatura e sulla finitura delle stoffe di Kairouan; le attività del porto e i commerci costituivano un'importante fonte di guadagno per la città ed erano oggetto di tassazione da parte del governo centrale. Alla fine del XII secolo, dopo una fase di sommovimenti di carattere religioso che portarono all'invasione dei Banu Hilal, S., sotto gli attacchi dei Normanni che la tennero per breve tempo e, infine, con la conquista almohade dell'Ifriqiya (1160), aveva perduto parte della sua importanza. La decadenza continuò nei secoli successivi, sia per l'insicurezza regnante nell'entroterra, sia per la guerra corsara che rendeva ardue ai commerci le rotte marittime. Del periodo medievale rimangono ancora la piccola moschea di Sidi Ali Ammar ‒ attribuita ipoteticamente al X-XI secolo sulla base di alcuni elementi decorativi esterni ‒ e la spaziosa sala quadrata coperta da una cupola conosciuta con il nome di Qahuat (o Qalaut) al-Qubba, di cui non è nota la destinazione originaria (forse monumento funerario ovvero parte di un hammām o anche sala di udienze di un tribunale), mentre la data di costruzione a essa attribuita (XI e XII sec.) rimane ancora più ipotetica che per la precedente moschea.
Fonti:
Leone Africano, Descrizione dell'Africa, in G.B. Ramusio (ed.), Il viaggio di Giovan Leone e le navigazioni di Alvise da Ca' Da Mosto, di Pietro di Cintra, di Annone, di un piloto portoghese e di Vasco di Gama, Venezia 18372, p. 123; al-Bakri, Kitāb al-masālik wa'l-mamālik (ed. W. Mac Guckin de Slane, Description de l'Afrique septentrionale, Alger 1911-13).
In generale:
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di Federico Cresti
Capitale della Tunisia (lat. Tynes, Thynus, Thunus; ar. Tūnus, Tūnis), sorge sull'istmo che separa la parte più interna del golfo omonimo dallo stagno salato di Sejumi.
Fondata prima del IV sec. a.C., T. fu strettamente legata e subordinata per alcuni secoli alle vicende di Cartagine; centro minore in epoca romana e bizantina, vide cambiare il suo ruolo in seguito alla conquista musulmana, alla fine del VII secolo. Dotata di un porto e di un arsenale fin dai primi tempi della conquista islamica, T. trasse molti vantaggi dalla definitiva decadenza di Cartagine, di cui ereditò probabilmente una parte della popolazione, e cominciò da allora a configurarsi come uno dei più importanti centri urbani della regione. Nel corso dell'VIII secolo vi furono costruite una prima Grande Moschea e una cinta muraria per la difesa dai Bizantini. Durante il secolo successivo la città vide la distruzione e la ricostruzione delle sue mura, nonché il rifacimento e l'ampliamento della Grande Moschea. Il suo sviluppo fu senza dubbio favorito dall'espansione musulmana in Sicilia a partire dall'827 e, a cavallo dei secoli IX e X, fu per qualche anno la residenza principale degli emiri aghlabidi e la capitale dei territori che ricadevano sotto la loro giurisdizione. Dopo un periodo di decadenza che fece seguito al saccheggio e all'occupazione kharigita (944-947), la prosperità e i commerci ripresero. All'inizio dell'XI secolo al-Bakri descrive il circuito delle mura di T., lungo 24.000 cubiti, ed enumera le sue cinque porte e gli edifici principali. Tra le sue manifatture sono vantate soprattutto le terrecotte e sono descritte come notevoli le ricchezze agricole dei giardini che la circondano: T. appare allora una delle più illustri e ricche città dell'Ifriqiya.
Con l'arrivo dall'Oriente delle tribù arabe nomadi, alla metà dell'XI secolo, la struttura socioeconomica della città e del suo territorio venne modificata: al-Idrisi descrive un'epoca di insicurezza, in cui la città divenne un rifugio per gli abitanti dei dintorni, con orti e giardini posti all'interno delle mura. Fu forse per l'afflusso di contadini dalle campagne occupate dai nomadi che si formarono in quest'epoca i primi sobborghi intorno alla madīna ("la città murata"). L'insicurezza dei percorsi terrestri determinò lo sviluppo dei traffici marittimi; la presenza delle navi e dei mercanti italiani si fece più frequente sulle coste maghrebine in quel periodo: i Pisani, in seguito a un trattato di commercio, ebbero per primi, nel XII secolo, un fondaco nella città; più tardi, vicino al Bab al-Bahr ("la Porta del Mare") ‒ da cui si accedeva all'arsenale e al porto ‒ cominciò a formarsi un quartiere franco, abitato da commercianti cristiani. La comunità urbana contava allora negli Ebrei un altro elemento importante per le manifatture e i commerci; resa più numerosa con l'arrivo dei profughi di Kairouan, saccheggiata dai beduini Banu Hilal, la comunità ebraica fu perseguitata durante il dominio almohade (1160-1229), per ritrovare più tardi, sotto gli Hafsidi, condizioni di sicurezza e libertà che ne favorirono lo sviluppo. Con gli Almohadi ‒ che ne fecero la sede di un governo provinciale, costruendovi in posizione eminente una qaṣaba ("fortezza"), separata dalla madīna da una muraglia ‒ T. si avviò a divenire la capitale dell'Ifriqiya. Nel 1229 l'hafside Abu Zakariyya disconobbe la supremazia almohade e iniziò a unificare sotto il proprio controllo tutta l'Ifriqiya: fu questo l'inizio di un'epoca in cui T. assunse definitivamente il ruolo di capitale e di metropoli regionale, centro di un impero che per un breve periodo andò dai confini del Marocco alle Sirti.
Agli inizi del XIV secolo la città aveva già assunto la fisionomia che conservò nei secoli successivi, fino alle grandi trasformazioni moderne. La madīna, densamente costruita e abitata, aveva una forma allungata sull'asse nord-sud: a ovest, nel suo punto più alto, era dominata dalla qaṣaba, dimora del sovrano e sede del controllo militare; a est attraverso il Bab al-Bahr si apriva verso il Mediterraneo; a nord e a sud due grandi sobborghi, a loro volta protetti da una muraglia, completavano l'agglomerato. Il centro della madīna era occupato dalla Grande Moschea e da una densa rete di strade commerciali (sūq) per i prodotti pregiati (tessuti, libri, profumi, ecc.); le manifatture e i mestieri manuali che richiedevano più ampi spazi, così come i mercati del bestiame, dei generi alimentari e dei prodotti agricoli e industriali si trovavano nei sobborghi. T. si arricchì di nuove energie con l'arrivo dei profughi musulmani andalusi, che introdussero nuove manifatture e tecniche produttive e contribuirono al rigoglio intellettuale della città, che già da tempo era uno dei principali centri di studio del mondo islamico. In effetti, mentre la Grande Moschea rimase il luogo tradizionale e più venerato dell'insegnamento, sotto Abu Zakariyya fu costruita la Madrasa Shammaiyya (il primo collegio del Maghreb, sull'esempio di quelli orientali), a cui fecero seguito più tardi altre due madrasa, la Tawfiqiyya e la Mariyya. Gli Hafsidi, al potere fino alla conquista ottomana (1574), si distinsero come grandi costruttori, in ambito non solo religioso, ma anche civile e militare. Nei tre secoli e mezzo circa della dominazione hafside, T., secondo la testimonianza di Leone Africano, all'inizio del XVI secolo, "andò sempre accrescendo, sì di abitazioni, come di civiltà, talmenteché ella divenne dell'Affrica singularissima città".
Tra i monumenti più venerabili del Medioevo tunisino e tra i principali dell'architettura islamica del Maghreb è la Grande Moschea nota anche come Giami az-Zaytuna ("moschea dell'Ulivo"), sulle cui origini le fonti offrono indicazioni non perfettamente concordi e che subì molte trasformazioni nei secoli successivi alla sua fondazione. Secondo una tradizione medievale che fa capo ad al-Bakri e che è stata comunemente accettata (Chapoutot-Remadi 1995), alla sua origine sarebbe stato un atto di fondazione da parte del governatore Hassan ibn an-Numan, nel 701; se si accetta invece l'analisi critica delle fonti di L. Golvin (1974), una prima moschea congregazionale sarebbe stata costruita a T. soltanto nel 734 dal governatore Ubayd Allah ibn al-Habhab.
Secondo una tradizione cristiana, la moschea avrebbe occupato il sito di un'antica chiesa dedicata alla santa palermitana Oliva (Romano 1901). La prima moschea fu totalmente demolita e ricostruita durante il periodo aghlabide, nel IX secolo: oltre agli scritti di alcuni cronisti arabi, rimangono a testimoniare questo rifacimento alcune iscrizioni, che permettono di stabilire che i lavori furono terminati nell'864/5 (Golvin 1974). Malgrado le aggiunte e le modifiche dei secoli successivi, che interessarono soltanto in minima parte la sala di preghiera, l'analisi di questo edificio rivela come esso fu concepito sull'esempio della Grande Moschea di Kairouan, pur non raggiungendone le dimensioni. Come a Kairouan, nella sala di preghiera si incontra il dispositivo a T, costituito dall'incontro di una grande navata centrale e di una navata-transetto della stessa larghezza che costeggia il muro della qibla (direzione della Mecca): nel punto di incontro dei due assi, a coprire la campata di fronte al miḥrāb, si eleva una cupola a base quadrata, riccamente decorata, la cui calotta a nervature sormonta un tamburo ottagonale. Una seconda cupola, in parte simile alla precedente ma costruita circa centoventi anni più tardi (qūbba bāb al-bahū, del 991/2), si trova all'opposta estremità della navata centrale, al centro della galleria che separa la sala di preghiera dal cortile. Le navate della sala, disposte perpendicolarmente al muro della qibla, sono 15 (contro le 17 di Kairouan), delimitate da colonne che sorreggono archi a pieno centro rialzato. Il perimetro della sala di preghiera, tendenzialmente rettangolare, mostra molte irregolarità, difficilmente spiegabili se non forse con l'adattamento a strutture preesistenti. Le stesse irregolarità si incontrano nel perimetro trapezoidale del cortile che precede la sala di preghiera, circondato lungo i suoi quattro lati da una galleria ad arcate e al cui angolo nord-ovest è posto il minareto. Quest'ultimo originario fu probabilmente costruito in epoca più tarda rispetto alla sala di preghiera aghlabide: quello attuale appartiene alla fine del XIX secolo e sostituisce un precedente restaurato nel 1653 dal bey Murad.
Restando nell'ambito dell'architettura religiosa, tra gli edifici più antichi è la moschea al-Qsar ("del castello"), costruita intorno al 1100: qui una struttura formata da colonne antiche riutilizzate e da volte a crociera genera una sala di preghiera composta da sette navate dall'aspetto nettamente arcaico, vicino alle sale ipostile del IX secolo (Marçais 1954). Appartiene agli inizi dell'epoca hafside la moschea al-Qasaba, costruita tra il 1231 e il 1235: il suo minareto reca un'iscrizione del 1233 e si avvicina per stile e decorazione a quello della qaṣaba di Marrakech. La sala di preghiera della moschea si compone anch'essa di sette navate separate da file di colonne che sorreggono archi rialzati a tutto sesto. I non molti edifici del periodo hafside pervenuti in uno stato che permetta di riconoscerne le caratteristiche originali mostrano la giustapposizione di elementi strutturali e decorativi di tradizione locale con altri importati dal Maghreb estremo e da al-Andalus. Vanno ancora citate, per questa epoca, la moschea al-Hawa, della metà del XIII secolo, e la moschea al-Haliq, il cui unico elemento di datazione è un'iscrizione del 1375 sul minareto. Dell'architettura abitativa medievale a T. si hanno descrizioni letterarie, ma nessuna traccia significativa, mentre delle opere militari e di fortificazione rimane unicamente il Bab al-Jadid ("Porta Nuova"), la cui costruzione risale al 1276 e che presenta un dispositivo di passaggio a baionetta di tipo ispano-maghrebino.
Bibliografia
Fonti:
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In generale:
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