L'Africa settentrionale tra il IV e il VII secolo
di Enrico Zanini
La storia dell'Africa settentrionale tra il V e il XVI secolo può essere sintetizzata in tre grandi fasi: la conquista vandala, la riconquista bizantina e il lungo e articolato processo costituito dall'affermarsi della dominazione islamica. I Vandali, provenienti dalla Spagna, invasero l'Africa nel 429, sotto la guida di Genserico; dopo una prima fase in cui si riconobbero federati dell'Impero, in seguito alla conquista di Cartagine nel 439 dichiararono la propria sovranità. Un accordo con l'Impero romano permise a quest'ultimo di recuperare, fino alla caduta dell'Impero in Occidente, la Mauretania e parte della Numidia. Il dominio dei Vandali, soprattutto sull'Africa Proconsularis, la Byzacena e la Tripolitania, si protrasse fino al 533, quando l'imperatore bizantino Giustiniano, nel quadro della sua politica di renovatio imperii, intervenne in un conflitto dinastico tra Gelimero e Ilderico, inviando un piccolo esercito al comando del generale Belisario che riuscì in brevissimo tempo a porre fine all'ormai logoro regno vandalo. Nel 534 una parte dell'Africa settentrionale (fino a Sétif, in Algeria) era nuovamente sottomessa all'imperatore bizantino, che provvide alla riorganizzazione del sistema difensivo, amministrativo e produttivo della regione. La dominazione bizantina si protrasse solamente per un secolo, fino a quando la pressione degli Arabi verso il Mediterraneo non sfociò nelle prime sconfitte dell'esercito di Costantinopoli, nella caduta di Alessandria (642 e 645) e nella definitiva conquista dell'Egitto. Dall'Egitto gli Arabi estesero lentamente il loro dominio su tutta l'Africa settentrionale, con un processo durato, dopo una prima sconfitta dell'esercito imperiale a Sbeitla (647), all'incirca sessant'anni, fino al 708, anno della definitiva sconfitta dei Bizantini.
di Noël Duval
È difficile caratterizzare la situazione artistica dell'Africa settentrionale alla fine dell'epoca vandala. Durante l'occupazione germanica non sembra siano da segnalare interruzioni nel campo dell'edilizia religiosa. Tutt'al più le persecuzioni, le confische, le distruzioni ‒ in altri tempi negate con impegno da Ch. Courtois (1955), ma di cui soprattutto a Cartagine si incomincia a misurare l'ampiezza reale ‒ provocarono fatalmente successive ricostruzioni di chiese, alcune delle quali possono essere datate già alla fine della dominazione vandala, là dove la pace religiosa era stata ristabilita, rendendo quindi più facili i mutamenti nelle piante e nelle tecniche di costruzione. Non è quantificabile l'apporto di un'architettura propria della Chiesa ariana, alla quale appartenevano i Vandali: se si esclude una costruzione accertata a Cartagine, questa Chiesa sembra, secondo Vittore di Vita (Historia persecutionis Africanae provinciae; Corpus Scriptorum Ecclesiasticorum Latinorum, VII, 1981), essersi piuttosto insediata in basiliche in precedenza cattoliche, dopo averle confiscate. È questo il caso, senza dubbio, del principale edificio religioso, detto Basilica I, ad Ammaedara (Haidra, Tunisia). Neppure l'architettura profana del tempo ha lasciato tracce. Le costruzioni dei re vandali a Cartagine (palazzi, terme, ecc.) sono note attraverso alcune poesie dell'Antologia, soprattutto quelle di Draconzio, ma questi testi, di carattere non descrittivo, alludono in ogni caso generalmente ad aspetti ornamentali e decorativi.
L'apporto germanico si rivela molto scarso anche per quanto riguarda l'artigianato e la produzione propria delle cosiddette "arti minori". Si può segnalare unicamente la scoperta di qualche gioiello, attribuibile al periodo vandalo, nelle tombe di Hippo Regius (Ippona), di Cartagine e di Thuburbo Maius. Fondandosi soprattutto su un generico carattere di novità, definito "barbarico", si è talora proposto di attribuire un certo numero di mosaici al periodo vandalo, ma senza prove decisive. Fra la brillante e rilevante serie di mosaici attribuita al IV secolo e le pavimentazioni caratteristiche dell'epoca bizantina, non si è ancora riusciti a delineare la produzione della seconda metà del V secolo salvo forse per il settore dei "mosaici funerari" (coperture di tombe), un gran numero dei quali risale alla fine del IV e al V secolo.
Per quanto riguarda il periodo bizantino, le due leggi dell'aprile 534 (Cod. Iust., I, 27, 1-2), con cui Giustiniano dettò, dopo la riconquista, le norme atte a ricostituire le strutture dell'Africa romana e a garantirne la sicurezza, sono chiarificatrici della volontà dell'imperatore di ristabilire in tutta la sua forza ed estensione l'organizzazione tradizionale e, soprattutto, la divisione in province dell'Africa. Occorsero però parecchi anni prima che le armate bizantine potessero garantirsi uno stabile dominio nella Numidia meridionale e forse nell'Aurès (il problema è stato discusso, ma le tracce dell'occupazione bizantina a sud dell'Aurès sembrano sicure) e raggiungere a ovest la regione sitifense, forse giungendo poco più in là della piana di Sétif e dell'Hodna. Nella Mauretania Caesariensis la presenza bizantina si limitava a qualche porto (Igilgilis, forse Saldae, di certo Rusguniae ‒ chiamato nel secolo scorso Matifou, oggi Tamentfoust ‒ a est di Algeri, Tipasa e Cherchell) accessibile solo dalla parte del mare, mentre una guarnigione occupava presso le Colonne d'Ercole il porto di Septem nella Mauretania Tingitana.
L'impatto della restaurazione nel campo dell'arte interessò quindi solo la metà orientale del Maghreb, ma non bisogna dimenticare che un'arte cristiana, difficile da circoscrivere cronologicamente e la cui evoluzione non è ancora stata studiata, continuava a vivere nella parte di Africa lasciata nelle mani dei re indigeni. Questa civiltà offre oggi come punti di riferimento solo gli epitaffi (datati dall'era mauritana) dei secoli VI e VII nel Sud-Ovest della Mauretania (regione di Tiaret, Altava in Algeria) e in Marocco, a Volubilis. A tale cultura può venire attribuita anche una decorazione scolpita di tradizione locale, con ornato soprattutto geometrico. L'azione imperiale, pur nella continuità, portò tuttavia in Africa elementi nuovi: nel momento in cui l'architettura religiosa conobbe una profonda mutazione in Oriente, un impulso che riguardò in special modo il restauro degli edifici di culto restituiti ai cattolici, la costruzione di nuove chiese e inoltre, sotto il governo del patrizio Solomone, la fondazione di numerose fortificazioni di un tipo fino allora sconosciuto in Africa; questo secondo il bilancio dell'opera di Giustiniano steso da Procopio (Aed., VI, 3-7). Assai meno facilmente valutabile è l'impatto reale delle correnti artistiche orientali (o italiane, dopo la riconquista dell'Italia) attraverso l'importazione diretta di materiali semilavorati o di prodotti finiti (ad es., i capitelli), il trasferimento di artisti e artigiani, o semplicemente l'arrivo di cartoni per mosaici. In mancanza di fonti scritte, soltanto gli scavi archeologici o lo studio della scultura architettonica bizantina riutilizzata nei monumenti islamici permettono di tentare oggi congetture, ovviamente soggette a revisione continua.
Prima della conquista dei Vandali, poche città africane erano fortificate; alcune cinte murarie, ampie come quelle di Cherchell e di Tipasa, rispondevano a scopi specifici, probabilmente alla necessità di creare basi di partenza per le spedizioni contro le rivolte dei Mauri. Cartagine venne dotata di una cinta di mura soltanto al principio del V secolo, nel 425. A sud invece, lungo il limes, il cui tracciato era stato più o meno definito all'epoca dei Severi, dalla Tripolitania fino alla Mauretania Tingitana, si erano moltiplicati gli accampamenti militari e i forti (castra e castella) e a volte le linee di difesa continue lungo le quali sorgevano opere più modeste (fossatum Africae). La necessità, sia di contenere le rivolte maure al Sud, sia anche di fronteggiare la penetrazione profonda delle tribù "barbare", di cui la storia militare dei primi anni della rioccupazione aveva dimostrato la frequenza, obbligò il governo bizantino a ripensare in modo nuovo la difesa dell'Africa "utile".
Le fortificazioni dell'Africa bizantina sono state oggetto di ricerche a partire dall'opera di Ch. Diehl alla fine dell'Ottocento (Diehl 1896; Gsell 1901) e, più di recente, da parte di D. Pringle (1981), mentre J. Durliat (1981) ha nuovamente ripreso in esame le iscrizioni dedicatorie delle opere di difesa. Tuttavia sia i rilevamenti particolareggiati, sia gli scavi esaustivi sono stati ben poco numerosi e tra questi solo quello nella fortezza di Thamugadi (Timgad, Algeria) è stato pubblicato (Lassus 1981); vanno segnalati inoltre anche gli scavi di Ksar Lemsa in Tunisia. Le rovine conservate e le iscrizioni coincidono in parte con gli elenchi di Procopio, ma permettono anche di completarli; resta tuttavia difficile la datazione delle cinte murarie, là ove non si dispone di una chiara tipologia, di una menzione di Procopio o di una esplicita iscrizione: un certo numero di fortificazioni attribuite per molto tempo all'epoca bizantina può in realtà essere più tardo. La distribuzione delle difese bizantine è stata oggetto di discussione. Diehl, secondo la concezione della strategia dell'epoca, aveva diviso queste fortificazioni in "linee di difesa" successive; una interpretazione criticata con ragione da Pringle, il quale ha messo in evidenza come la maggior parte delle opere siano troppo lontane fra loro e troppo eterogenee per appartenere a un sistema di questo tipo. Si tratta di cinte murarie di piccole dimensioni, di cittadelle e di forti destinati a proteggere città precedentemente aperte, ad alloggiare guarnigioni (come nel caso di Timgad), a ospitare stati maggiori, centri amministrativi, erari militari o civili e anche magazzini. Naturalmente queste installazioni erano più numerose nelle zone minacciate della Byzacena e della Numidia piuttosto che nell'Africa Proconsularis o Zeugitana, nel Nord della Tunisia.
L'impianto delle opere varia notevolmente: le cinte di mura ristrette, le cittadelle e perfino i forti (Madauros, Algeria) erano dislocati nel cuore delle città antiche e implicarono un sovvertimento dell'impianto urbanistico con una preliminare distruzione o l'adattamento di monumenti e con la creazione di spalti, vale a dire, di aree lasciate libere in leggera pendenza intorno alle cinte murarie. Questi interventi modificarono a tal punto il paesaggio urbano che non si è sempre in grado di stabilire se le distruzioni siano state dovute alla situazione esistente alla fine del periodo vandalo o alla vicenda delle guerre "maure", o se invece esse siano state volute dagli ingegneri militari. Altre fortezze invece erano fuori dai centri urbani, anche se sorsero, come a Timgad o a Ksar Lemsa, su costruzioni molto più antiche. Architetture puramente utilitarie e di rapida realizzazione, le fortificazioni bizantine non avevano pretese estetiche. La tecnica di costruzione privilegiava, infatti, il reimpiego di conci di spoglio, che provenivano da edifici distrutti o da necropoli (spesso molti blocchi conservano iscrizioni), sovrapposti senza cura in file irregolari, prive di malta, per formare le due pareti esterne che erano riempite all'interno di pietrisco.
La perizia degli ingegneri militari si esercitava piuttosto sui tracciati, spesso irregolari, data la necessità di tenere conto di esigenze topografiche nelle cinte di mura, in generale ristrette, rigorosamente geometriche per i forti, con due varianti importanti, a seconda della grandezza: il quadriburgium, con quattro torri agli angoli (Ksar Lemsa), o la fortezza rettangolare con torri intermedie (del tipo di Timgad). Il tipo di torri (soprattutto a pianta quadrata) sporgenti rispetto alla cinta, le porte (aperte in una torre o inquadrate fra due torri, spesso provviste di chiusure successive, battenti e saracinesche), i cammini di ronda sostenuti di frequente da arcate, le scale di accesso ai camminamenti, la disposizione delle feritoie ‒ di cui restano poche tracce ‒ appartengono alle acquisizioni normali delle tecniche militari del tempo e non differiscono molto dalle realizzazioni conosciute in altre province. Tuttavia l'ignoranza della poliorcetica e l'assenza di materiale da assedio da parte degli eventuali assedianti comportarono una certa economia di mezzi: mancavano infatti i fossati e le cinte murarie esterne. La disposizione interna è conosciuta soltanto nel caso delle poche fortezze in cui si sono fatti scavi: a Timgad si tratta di acquartieramenti di tipo classico, destinati a una guarnigione, mentre a Ksar Lemsa gli alloggiamenti sembrano più sommari ed eterogenei. Una fortezza (Timgad) e almeno una cittadella (Ammaedara/Haidra) contengono un edificio di culto che fungeva da cappella per la guarnigione.
A fianco delle "fortificazioni ufficiali", la cui edificazione fu dovuta all'iniziativa dell'amministrazione bizantina e la cui realizzazione fu affidata a ingegneri militari, esistono in Africa casi di cinte murarie, spesso prive di torri, la cui datazione non è facilmente definibile, ma che possono venire riferite al tentativo delle popolazioni di proteggersi (e qualche iscrizione vi allude). Un grande numero di fortini ‒ da 10 a 20 m di lato, spesso senza porte (e quindi accessibili solo al piano superiore, come le case fortificate in Corsica o in Albania), ma talora chiusi, con un sistema a un tempo efficace ed economico, da una porta "a ruota" ‒ sono stati segnalati nella zona rurale in Tripolitania, nel Sud della Byzacena e della Numidia e nelle città dell'interno, dove servivano da punto di appoggio a fortezze più consistenti. Si tratta talvolta di cinte che inquadrano o completano monumenti anteriori (case di abitazione a Sbeitla in Tunisia, monumenti pubblici come archi di trionfo a Zana o a Haidra, edifici di culto come a Tebessa Khalia in Algeria); in altri casi invece sono state portate alla luce installazioni specifiche, spesso dotate di una duplice serie di vasche di pietra, che erano sia scuderie, sia depositi o centri di esazione o di distribuzione. È così evidente la continuità con l'architettura militare del periodo omayyade, da non permettere in alcuni casi una unanimità di pareri sulle datazioni di specifici edifici (a proposito, ad es., del Borj Younga nel Sud-Est della Tunisia). La concezione dei ribāṭ costieri della Tunisia (ad es., a Susa) non è molto diversa da quella delle fortezze sopra descritte, se non per la tecnica della costruzione e per il tipo di torri.
Il periodo bizantino in Africa fu erede di una lunga tradizione di architettura religiosa per la quale non si registra soluzione di continuità. Le chiese presentavano comunemente impianto basilicale a tre navate (qualche volta a cinque, eccezionalmente a sette o più, per monumenti di dimensioni molto vaste, come la grande basilica di Tipasa o la basilica di Damus al-Kharita a Cartagine) e molto raramente erano precedute da un atrio; l'abside era sopraelevata e spesso inquadrata da locali annessi (che si possono definire "sacrestie") chiusi entro terminazioni perimetrali di pianta rettangolare. I procedimenti costruttivi sono estremamente economici: generalmente si tratta di muri assai sottili (50-52 cm, cioè il "cubito africano") in opus africanum (ovvero ciottoli con armatura di pietra squadrata), con colonne molto ravvicinate, spesso di reimpiego, frequentemente abbinate a causa del diametro minimo. A eccezione di alcuni elementi (come mensole e abachi, in qualche regione) e di casi a sé (quali gli edifici della "scuola" di Tebessa, nell'Algeria meridionale), la decorazione scolpita era molto sobria e spesso realizzata con materiale di recupero (capitelli). Nelle chiese trovava invece largo impiego il mosaico pavimentale, per il quale il IV secolo sembra essere stato un periodo particolarmente fecondo.
L'architettura religiosa dell'Africa prebizantina si caratterizza per alcune disposizioni liturgiche specifiche, come la collocazione dell'altare, molto avanzato nella navata centrale, l'assenza dell'ambone (il vescovo o il sacerdote predicavano probabilmente dalla loro cattedra posta nell'abside sopraelevata), la presenza frequente di un secondo centro di culto opposto all'abside ‒ a carattere martiriale o funerario ‒ che abbastanza spesso assume la forma di una controabside (come la si conosce anche in Spagna e che ricompare nell'architettura occidentale in epoca carolingia e ottoniana); infine il frequente orientamento dell'abside verso occidente, soprattutto nell'Est dell'Africa (così come si verifica in Italia). I battisteri, la cui collocazione intorno alla chiesa non segue una regola precisa, avevano raramente carattere monumentale: in tutta l'Africa si contano due battisteri ottagoni, un tetraconco e una rotonda. Il culto dei martiri conobbe invece uno sviluppo senza pari: numerosi martyria presentano piante centralizzate (a pianta circolare, a quattro o a tre absidi) spesso ambiziose, come le due rotonde di Cartagine.
In età bizantina furono restaurate e ricostruite parecchie chiese; si sono potuti distinguere, a partire dal XIX secolo, vari rimaneggiamenti attribuibili a quest'epoca grazie, ad esempio, allo stile dei mosaici; in alcuni dei casi più rari (a Cartagine, nella basilica detta "del Supermercato", a Uppenna, a Sbeitla) il fatto che sopra un primo edificio ne sia stato edificato un secondo, completamente interrato, permette di riconoscere nell'edificio più recente una ricostruzione del VI secolo; a Leptis Magna e a Sabratha, nella Libia nord-occidentale, si è creduto di poter identificare le chiese attribuite da Procopio a Giustiniano, mentre a Cartagine non si è ancora arrivati a localizzare quelle dedicate a s. Primo e alla Theotokos (nella cinta del palazzo vandalo). In tutti questi edifici non si nota alcuna "rivoluzione": la pianta basilicale continua a rimanere la più diffusa, mentre la "controabside" si sviluppa permettendo, forse sotto l'influsso bizantino, di ribaltare verso oriente chiese prima rivolte a occidente. La Basilica II di Sabratha, forse una fondazione giustinianea, presenta una pianta "africana" classica (anche se l'abside è scomparsa); la Chiesa I di Leptis Magna, la cui fondazione sarebbe opera dello stesso imperatore, è un adattamento, senza modifiche architettoniche, della grande basilica civile severiana. A Rusguniae, a est di Algeri, un'iscrizione cita espressamente un restauro dovuto al magister militum locale: secondo i risultati degli scavi, l'intervento consistette essenzialmente in una ricostruzione dell'alzato (che non cambiò il livello dell'edificio), nell'aggiunta di due file di sostegni nell'antica navata centrale, considerata troppo larga, e forse anche nella costruzione di una controabside (la cui datazione è discussa).
Più sensibile è l'evoluzione nel campo dell'arredo liturgico: l'altare sembra ravvicinarsi all'abside (secondo gli esempi di Sbeitla e della chiesa a nord di Kelibia); si introduce l'ambone, almeno in Tripolitania (due esempi a Leptis Magna e uno a Sabratha nella chiesa giustinianea); si vedono comparire, come in Grecia, recinzioni che racchiudono l'altare entro una struttura rettangolare (nella chiesa dei Ss. Silvano e Fortunato a Sbeitla). La forma a croce del fonte battesimale è anche qui dominante come nelle regioni orientali (con due varianti: propriamente cruciforme e quadrilobata), ma convive con un tipo polilobato che sembra caratteristico dell'Africa anche se ne è conosciuto almeno un esempio a Costantinopoli. Questo bilancio è stato peraltro modificato da studi relativamente recenti. Sembra che alcune delle chiese esistenti, soprattutto a Cartagine, Damus al-Kharita e forse Midfa (considerata come la Basilica Maiorum), ma soprattutto la grande basilica di Bulla Regia in Tunisia, nonché altre, come la chiesa dei Ss. Silvano e Fortunato a Sbeitla e forse quella del Forum Vetus di Leptis Magna (Chiesa II), così come le chiese I e III di Younga, siano state costruite o ricostruite introducendo nella pianta basilicale coperture a volta (probabilmente in forma di cupola a Bulla Regia e a Sbeitla, e invece di volte a crociera a Leptis Magna); questo piccolo nucleo, studiato da N. Duval (Bulla Regia, Sbeitla, Younga) e più generalmente da J. Christern (1976), rappresenterebbe quindi l'equivalente africano delle basiliche a cupola dell'Oriente greco e denuncerebbe un influsso, certo abbastanza limitato, della "nuova" architettura del VI secolo.
Nel corso delle ricerche svolte a Haidra si è d'altra parte rintracciata nella Chiesa III (della cittadella bizantina) e nella ricostruzione bizantina della Chiesa II l'attività delle stesse maestranze alle quali si deve anche la chiesa bizantina del Kef (Dar al-Kous): tali maestranze avrebbero dunque operato nel VI secolo nella zona occidentale dell'attuale Tunisia. Due elementi di originalità rispetto ai monumenti anteriori si trovano nell'abside, il cui catino a nervature poggia su colonnine addossate alla parete (ben conservate al Kef), e nelle volte a crociera delle navate laterali, realizzate secondo una tecnica molto particolare. In base alla sola pianta e senza che si siano conservate le strutture, sembra tuttavia di poter affermare che in Tunisia, nella stessa epoca, anche altre chiese siano state parzialmente coperte a volta; questo progresso della volta in pietra in un Paese in cui le navate presentano in prevalenza coperture lignee o, in certi casi, a terrazza ‒ ma che aveva una lunga familiarità con le volte leggere in tubi fittili (tecnica molto usata per i catini delle absidi) ‒ potrebbe dunque rivelarsi anche frutto di influenze esterne. Il riesame della grande basilica di Siagu, presso Hammamet (Capo Bon, Tunisia), nella quale scavi sono stati condotti all'inizio del Novecento, ha dimostrato l'originalità di questa pianta ambiziosa, in cui l'abside poligonale della basilica a tre navate è circondata da un deambulatorio e la chiesa è prolungata da un grande battistero ottagonale con un colonnato anulare (analogo, ad es., al Mausoleo di Costanza a Roma e a certi battisteri provenzali). In base ad alcuni indizi, per questa costruzione di tipo insolito in Africa e dovuta certamente a un architetto di talento, è stata proposta una datazione al VI secolo (Duval 1984-85). Sarebbe dunque inesatto affermare che, a eccezione dell'ambito militare, l'era nuova non abbia avuto alcuna influenza sull'architettura africana.
Data la relativa rarità, in Africa, del marmo impiegato di norma nella scultura architettonica e decorativa, i pochi elementi di decorazione scolpita nelle basiliche cristiane del periodo precedente alla riconquista bizantina sono per la maggior parte di pietra, sia che si tratti della scultura "colta" di Tebessa ‒ degli inizi del V secolo, secondo la datazione proposta da Christern (1976) ‒, sia delle realizzazioni locali dovute alle maestranze di Sbeitla, nel centro della Byzacena, e della Numidia meridionale. Questa tradizione rimase viva soprattutto in Numidia dove questo tipo di scultura può essere attribuito all'epoca bizantina. Ma la riconquista del Mediterraneo occidentale e forse la liberalità imperiale aprirono la via a importazioni massicce di materiali marmorei provenienti dalle cave orientali, esemplificate dal trasporto via mare di vere e proprie chiese "prefabbricate" (è il caso dei materiali trasportati dalla nave naufragata a Marzamemi, al largo della Sicilia). Queste importazioni furono limitate alle zone costiere; a Cartagine, Susa, Sfax e Younga in Tunisia, a Sabratha e Leptis Magna, in Tripolitania, si sono trovati capitelli, rilievi, plutei, colonne di ciborio; alcuni sono di importazione diretta, altri copie da modelli bizantini. Soprattutto gli importanti gruppi di capitelli reimpiegati nelle più antiche moschee delle grandi città ‒ da Tunisi a Susa, Kairouan, Sfax, Gafsa, ecc. (ma a volte anche in modesti mausolei) ‒ illustrano il numero e la varietà delle importazioni bizantine (capitelli tardocorinzi, capitelli a cesto, capitelli a due zone con aquile o arieti, ecc.). I restauri e la relativa rimozione degli intonaci sovrapposti hanno permesso di studiare in modo più approfondito tutto questo materiale, di cui si è arrivati a iniziare la pubblicazione sistematica (Harrazi 1982, per la moschea di Kairouan). Perfino all'interno del Paese si è ritrovata l'influenza dei tipi importati su capitelli di fattura locale (Harrazi 1982; Pensabene 1986).
Il marmo di importazione (e spesso di reimpiego) era molto più diffuso, in tutta l'Africa bizantina, per l'arredo liturgico di piccole dimensioni: basi, colonnine, mense d'altare, mense secondarie, reliquiari, ecc. Soprattutto le colonnine e le mense giunsero dall'Oriente: le tipologie si ritrovano lungo tutto il Mediterraneo e, malgrado il ritardo delle ricerche in questo campo (fino a epoca recente non si era in grado di identificare questo materiale), si conosce in Africa qualche esempio delle principali forme di mense ‒ profane o di culto ‒ prodotte dalle cave dell'Egeo e del Proconneso, soprattutto le mense a sigma chiuso o quelle rotonde o semicircolari polilobate (ad es., a Ippona, Tebessa, Cartagine, Sfax, Younga, Sbeitla, Sabratha), che continuarono poi a essere usate durante il Medioevo.
Fino a un'epoca recente, il mosaico di età tarda, e soprattutto quello pertinente a edifici chiesastici, è stato trascurato dagli studiosi, interessati soprattutto ai pavimenti figurati che si datano dal II al IV secolo. Parecchi esemplari, soprattutto quelli a decorazione geometrica, sono andati distrutti perché non erano giudicati degni di entrare in un museo e ben pochi sono stati oggetto di rilievi particolareggiati. Gli scavi della basilica giustinianea di Sabratha, effettuati prima della seconda guerra mondiale (i mosaici rinvenuti sono stati trasferiti nel museo di Sabratha), le nuove scoperte verificatesi dopo la guerra (ad es., a Bulla Regia, Chemtu, Cartagine, Pupput, Hergla, Lemta, La Skhirra, Younga) e i confronti proposti dagli specialisti dei mosaici italiani, spagnoli, sardi o siciliani, hanno risvegliato l'interesse dei ricercatori. Gli studi dedicati al problema della classificazione e delle influenze danno possibili indicazioni, ma mancano pubblicazioni particolareggiate relative alla maggior parte dei singoli siti così che non si possono trarre per ora se non conclusioni provvisorie.
Le decorazioni figurate sono relativamente rare, in particolare per quanto riguarda i motivi cristiani. In una chiesa non identificata di Sfax è stata trovata una raffigurazione di Daniele nella fossa dei leoni, di stile schematico ma spettacolare (Sfax, Museo Archeologico); sono stati più volte raffigurati i Quattro fiumi del Paradiso (Younga, Wadi Ramel e, su uno schema geometrizzante, Bir Ftouha a Cartagine); si trovano spesso pannelli che fungono da soglia, mosaici in forma di "tappeti" davanti all'altare o al battistero, con cervi disposti simmetricamente che si abbeverano a un cantaro, come a La Skhirra, nella grande basilica, e a Uppenna, nel battistero; pavoni affrontati (el-Mouassat, Bulla Regia, Cartagine); raramente leoni (Gemila). La croce, a volte gemmata, appare sul pavimento (mosaico) della chiesa di Onorio a Sbeitla, a el-Mouassat, a Thuburbo Maius, a Cartagine. Si conoscono anche numerosi fonti battesimali dell'epoca, decorati a mosaico con motivi simbolici (ad es., Sfax, Henchir Hakaima, Hammam Lif, regione di Kelibia) e una rappresentazione di un ciborio stilizzato a La Skhirra.
Fra i motivi ornamentali domina il girale (di vite o di acanto) abitato, che spesso si distende nelle absidi (ad es., Younga, Basilica B; La Skhirra, grande basilica; el-Mouassat) e che nella basilica giustinianea di Sabratha copre invece la navata centrale in una delle più belle realizzazioni del mosaico bizantino. Gli si oppone il girale animato, molto "secco", ma assai vicino per il disegno complessivo alle opere del Libano o della Palestina, che adorna una grande sala di ricevimento nella Casa dell'Asino a Gemila, la cui datazione è stata modificata negli ultimi studi (Lavin 1963, la collocava nel IV sec.). Scene rurali, di caccia e di pesca non sono rare nelle chiese (Cartagine, Sbeitla, Hergla, el-Mouassat, Gemila, Rusguniae); si può forse attribuire a questo periodo anche la grande scena di caccia nel triclinio a sette absidi di Gemila, molto spettacolare nonostante il trattamento piatto a fasce sovrapposte. Nei pavimenti delle chiese o delle case, spesso ornati con medaglioni di varie forme con uccelli o pesci, domina il repertorio geometrico, con motivi ereditati dal periodo precedente e altri che sembrano invece ideati ex novo o anche importati: girali di acanto intrecciati, spesso combinati con motivi figurali (ad es., Cherchell, Cartagine, Wadi Ramel, Lemta, Sfax), embrici con rami di rose tra le squame, contornate e non, vasi con archetti di ghirlande ornate di fiori o di piume, combinazioni di palmette, pannelli bordati di ghirlande o di nastri intrecciati. Alcuni di questi motivi (squame e fiori) vengono usati soprattutto in Oriente; altri (cerchi intrecciati di acanto, vari motivi a palmette o a foglie di vite) compaiono inizialmente nella zona dell'alto Adriatico e si diffondono, oltre che in Africa, in Sicilia, in Sardegna e nelle Baleari.
Punti di riferimento datati o databili vengono forniti da alcune chiese dell'Adriatico (a Grado, nel V sec., per quanto riguarda i girali d'acanto) o dai pavimenti giustinianei di Ravenna (S. Vitale), che hanno equivalenti, ad esempio, a Sabratha. Al momento della scoperta della chiesa giustinianea di Sabratha si è creduto all'invio di mosaicisti da Costantinopoli su iniziativa dell'imperatore. N. Duval (1974) e R. Farioli (1974) avevano pensato piuttosto, nel caso di motivi ben precisi, a un'influenza delle botteghe dell'Adriatico (verosimilmente al momento della riconquista dell'Italia), forse con la mediazione della Sicilia (Wilson 1982). In seguito K. Dunbabin (1985) ha proposto una soluzione complessa che riprende l'idea di un invio di mosaicisti costantinopolitani a Cartagine. Nutrite anche di elementi africani, queste maestranze avrebbero poi operato pure a Ravenna e in area adriatica. In ogni caso è certo che, accanto a influenze orientali (forse ancora più vistose nei pavimenti figurati del Sahel), nel Mediterraneo occidentale, comprendente anche la Sicilia, la Sardegna e le Baleari, si determinò in epoca bizantina una vera e propria koinè artistica specifica e affatto peculiare.
In Africa si cominciano a distinguere scuole e maestranze: anzitutto, naturalmente, a Cartagine, dove gli scavi (basilica cd. "del Supermercato", rotonda dell'Odeon) hanno arricchito il repertorio conosciuto, nell'Ovest della Tunisia (Bulla Regia, Chemtu, Kef, Haidra), sulle coste del Sahel nel Nord (Sidi Habich, Hergla, Lemta) e nel Sud (Sfax, el-Mouassat, La Skhirra, Younga) e in Tripolitania. Bisogna aggiungere che l'arte del mosaico funerario, tipico del Nord dell'Africa, continuò a sussistere in epoca bizantina, ma in scala minore. D'altra parte l'opus sectile, meno diffuso che in Italia e in Oriente, continuò peraltro a essere usato in sale di maggiore importanza all'interno di case private, ma anche nella basilica di Siagu, che ne è quasi interamente ricoperta.
Nel campo della ceramica (di colore rosso o arancione), l'Africa era erede di una lunga tradizione che aveva dominato il Mediterraneo occidentale a partire dal III secolo. Le classificazioni di N. Lamboglia (1941; 1974) sono state precisate da J.W. Hayes (1972; 1980) mentre gli scavi di Sétif (Algeria) e poi quelli di Cartagine hanno permesso di meglio puntualizzarne la cronologia. Il periodo bizantino, come d'altra parte l'epoca vandala, non segnò una rottura in questo settore di produzione, in cui dominavano la sigillata D a motivi stampigliati e le lampade "cristiane" nella forma africana classica, inventariate da A. Ennabli (1976) per quanto riguarda le collezioni di Tunisi e di Cartagine. Si notano però l'apparizione di una ceramica incisa (soprattutto a Cartagine), la sopravvivenza della ceramica dipinta, analoga in parte alle terrecotte copte, e inoltre, probabilmente verso la fine del periodo, l'introduzione della ceramica invetriata, che comparve in quell'epoca a Costantinopoli e che divenne quindi dominante dall'arrivo degli Arabi in poi (l'ultima produzione bizantina è spesso ancora confusa con la più antica ceramica araba).
Una produzione tipica dell'epoca e dell'Africa fu quella delle piastrelle di terracotta, usate, secondo la struttura e l'inquadramento, per decorazioni murali o di soffitti (si può anche pensare a elementi di copertura per terrazze, prevedendo una impermeabilizzazione esterna). Dopo i lavori del XIX secolo, un inventario degli anni Trenta del Novecento e tesi recenti sono stati dedicati a quest'arte particolare, che conobbe equivalenti in Spagna, in Gallia e, secondo una scoperta isolata, in Macedonia. Oltre a figurazioni dell'Antico e Nuovo Testamento, a immagini della Vergine e di un piccolo numero di santi orientali (Teodoro, Pantaleone), queste piastrelle ‒ dalla superficie dipinta a colori vivaci ‒ presentano anche temi mitologici (Pegaso e le Ninfe), profili di animali stilizzati e un grande numero di motivi geometrici o vegetali. Per quanto riguarda il vetro, si è iniziato a distinguere una produzione locale in seguito agli scavi di Cartagine, ma non vanno dimenticate le collezioni del Museo Nazionale del Bardo a Tunisi e del Museo Archeologico di Sfax.
Per il periodo vandalo è stata attribuita alle fabbriche di Cartagine la produzione di alcuni piatti d'argento, quali il missorium (piatto di largizione) di Gelimero e il cosiddetto "clipeo di Scipione" (ambedue a Parigi, Bibliothèque Nationale, Cabinet des Médailles). L'argenteria africana di epoca bizantina è quasi completamente scomparsa a causa del reimpiego del metallo e dei saccheggi, salvo alcuni reliquiari, ad esempio la cosiddetta "capsella argentea africana" del Museo Sacro della Biblioteca Apostolica Vaticana (da Ain Zirara in Numidia). Così pure rimane incerta, per le stesse ragioni, anche l'esistenza di una produzione locale di oggetti d'avorio; si può citare comunque la pisside di Younga, che tuttavia poté essere importata. Peraltro la zecca di Cartagine, oggi ben studiata nei cataloghi (Londra, British Museum; Parigi, Bibliothèque Nationale, Cabinet des Médailles; Washington, Dumbarton Oaks Research Library and Collection) e nell'opera di W. Hahn (1973-81), continuò a battere moneta durante tutto il periodo in questione. La pubblicazione di un tesoro d'oro di Rougga (presso el-Djem) ha reso evidente l'importanza delle ultime monete africane bizantine (Guéry - Morrisson - Slim 1982). Vanno inoltre ricordati anche i numerosi sigilli bizantini di piombo, raccolti soprattutto a Cartagine.
I testi arabi e le iscrizioni scoperte a Kairouan e in Tripolitania attestano l'esistenza di comunità cristiane che scrivevano in latino in pieno XI secolo. È evidente che il cristianesimo non scomparve bruscamente al tempo dell'invasione araba; lo provano anche le liste episcopali, le fonti storiche dell'epoca e le descrizioni dei viaggiatori (ma non è da escludere che una comunità come quella di Kairouan fosse piuttosto costituita da artigiani o da commercianti chiamati, ad es., dalla Sicilia, alla corte dei sovrani). In alcuni scavi (a Sbeitla, a el-Faouar) si è creduto di scorgere segni di sopravvivenza di edifici cristiani anche dopo la conquista. Resta tuttavia il fatto che dopo il VII secolo non sussistono tracce di un'arte specificamente cristiana. Va detto peraltro che le tecniche costruttive, i temi decorativi, le forme architettoniche stesse elaborate da quest'ultima nei secoli precedenti esercitarono un indubbio influsso sull'arte musulmana, che praticò su larga scala il reimpiego di elementi scultorei bizantini, continuando inoltre a servirsi del mosaico, come nel Medio Oriente.
Bibliografia
In generale:
Ch. Diehl, L'Afrique byzantine. Histoire de la domination byzantine en Afrique (533-709), Paris 1896; S. Gsell, Les monuments antiques de l'Algérie, II, Paris 1901; R. Devresse, L'Église d'Afrique durant l'occupation byzantine, in MEFRA, 62 (1940), pp. 143-66; Ch. Courtois, Les Vandales et l'Afrique, Paris 1955; P. Goubert, Byzance avant l'Islam, II, 2. Rome, Byzance et Carthage, Paris 1965; A. Di Vita, La diffusione del Cristianesimo nell'interno della Tripolitania attraverso i monumenti e sue sopravvivenze nella Tripolitania araba, in CARB XIII (1966), pp. 119-40; D. Claude, Die byzantinische Stadt im 6. Jahrhundert, München 1969; K. Belkhodja, L'Afrique byzantine à la fin du VIe et au début du VIIe siècle, in Actes du IIe Congrès International d'études nord-africaines (Aix-en-Provence, 27-29 novembre 1968), in ROccMusulm, 32 (1970), pp. 55-65; P.-A. Février, Conditions économiques et sociales de la création artistique en Afrique à la fin de l'Antiquité, in CARB XVII (1970), pp. 181-89; P. Romanelli, Topografia e archeologia dell'Africa Romana, Torino 1970; N. Duval, Influences byzantines sur la civilisation chrétienne de l'Afrique du Nord, in REG, 84 (1971), pp. XXVI-XXX; Id., Etudes d'archéologie chrétienne nord-africaine, in MEFRA, 84 (1972), pp. 1071-172; P.-A. Février, Les sources épigraphiques et archéologiques et l'histoire religieuse des provinces orientales de l'Afrique antique, in CARB XIX (1972), pp. 131-58; S. Tavano, La restaurazione giustinianea in Africa e nell'Alto Adriatico, in Aquileia e l'Africa. IV Settimana di studi aquileiesi (Aquileia, 28 aprile - 4 maggio 1973), Udine 1974, pp. 251-83; F. Clover, Carthage in the Age of Augustine, in Excavations at Carthage 1976, IV, Ann Arbor 1978, pp. 1-14; J.H. Humphrey, Vandal and Byzantine Carthage, in J.G. Pedley (ed.), New Light on Ancient Carthage. Papers (Ann Arbor, March 23-24 1979), Ann Arbor 1980, pp. 85-120; A. Cameron, Byzantine Africa, in Excavations at Carthage 1978, VII, Ann Arbor 1982, pp. 29-62; F. Clover, Carthage and the Vandals, ibid., pp. 1-22; Y. Duval, Les saints vénérés dans l'Église byzantine d'Afrique, in CARB XXX (1983), pp. 115-47.
Architettura militare e profana:
R.G. Goodchild, Fortificazioni e palazzi bizantini in Tripolitania e Cirenaica, in CARB XIII (1966), pp. 225-50; K. Belkhodja, Ksar Lemsa. Fouilles archéologiques 1965-1966, in Africa, 2 (1968), pp. 313-47; J. Durliat, Les dédicaces d'ouvrages de défense dans l'Afrique byzantine, Rome 1981; J. Lassus, La forteresse byzantine de Thamugadi, Paris 1981; D. Pringle, The Defence of Byzantine Africa from Justinian to the Arab Conquest: an Account of the Military History and Archaeology of the African Provinces in the Sixth and Seventh Centuries, Oxford 1981; Id., L'état actuel des recherches sur les fortifications de Justinien en Afrique, in CARB XXX (1983), pp. 149-204.
Architettura religiosa:
P. Gauckler, Les basiliques chrétiennes de Tunisie, Paris 1913; J. Vaultrin, Les basiliques chrétiennes de Carthage, in RAfr, 73 (1932), pp. 182-318; 74 (1933), pp. 118-56; R.G. Goodchild - J.B. Ward-Perkins, The Christian Antiquities of Tripolitania, in Archaeologia, 95 (1953), pp. 1-84; M. Fendri, Basiliques chrétiennes de La Skhira, Paris 1961; P. Romanelli, Chiese e battisteri di età bizantina in Tripolitania, in CARB XIII (1966), pp. 425-32; J. Christern, Oströmische Kirchen in Nordafrika, in ByzZ, 62 (1969), pp. 287-90; J. Lassus, La basilique africaine, in CARB XVII (1970), pp. 217-34; Id., Les baptistères africains, ibid., pp. 235-52; N. Duval, Les églises d'Haïdra, III. L'église de la Citadelle et l'architecture byzantine en Afrique, in CRAI, 1971, pp. 136-66; Id., Les églises africaines à deux absides. Recherches archéologiques sur la liturgie chrétienne en Afrique du Nord, Paris 1971-73; J. Lassus, Questions sur l'architecture chrétienne de l'Afrique du Nord, in Actas del VIII Congreso Internacional de Arqueología Cristiana (Barcelona, 5-11 octubre 1969), Città del Vaticano - Barcelona 1972, pp. 107-25; G. De Angelis d'Ossat - R. Farioli, Il complesso paleocristiano di Breviglieri (El Khadra), in QuadALibia, 7 (1975), pp. 27-156; J. Christern, Das Frühchristliche Pilgerheiligtum von Tebessa, Wiesbaden 1976; P.-A. Février, Approches récentes de l'Afrique byzantine, in ROccMusulm, 35 (1983), pp. 25-53; N. Duval, Le choeur de l'église de Siagu, in FelRav, s. IV, 127-30 (1984-85), pp. 159-99; F. Baratte - N. Duval - J.-C. Golvin, Les églises d'Haïdra, VI. La Basilique des martyrs de la persécution de Dioclétien. Bilan de la campagne de 1983, in CRAI, 1989, pp. 129-73; I. Gui - N. Duval - J.-P. Caillet, Basiliques chrétiennes d'Afrique du Nord, I. Inventaire des monuments de l'Algérie, Paris 1992.
Decorazione e arti minori:
N. Lamboglia, Terra sigillata chiara, in RIngIntem, 7 (1941), pp. 7-22; Id., Nuove osservazioni sulla "terra sigillata chiara", in RStLig, 24 (1958), pp. 257-330; 29 (1963), pp. 145-212; S. Aurigemma, I mosaici, in L'Italia in Africa, le scoperte archeologiche (1911-1943). Tripolitania, I. I monumenti d'arte decorativa, Roma 1962; I. Lavin, The Hunting Mosaics of Antioch and Their Sources, in DOP, 17 (1963), pp. 179-286; N. Duval, Plastique chrétienne d'Algérie et de Tunisie, in BAParis, 8, B (1972), pp. 53-146; N. Duval - P.-A. Février, Le décor des monuments chrétiens d'Afrique (Algérie, Tunisie), in Actas del VIII Congreso Internacional de Arqueologia Cristiana (Barcelona, 5-11 octubre 1969), Città del Vaticano - Barcelona 1972, pp. 5-55; P.-A. Février, L'évolution du décor figuré et ornemental en Afrique à la fin de l'Antiquité, in CARB XIX (1972), pp. 159-86; J.W. Hayes, Late Roman Pottery, London 1972; G. Zacos - A. Vegley, Byzantine Lead Seals, Basel 1972; N. Duval, L'architecture chrétienne de l'Afrique du Nord dans ses rapports avec le Nord de l'Adriatique, in Aquileia e l'Africa. IV Settimana di studi aquileiesi (Aquileia, 28 aprile - 4 maggio 1973), Udine 1974, pp. 353-68; R. Farioli, Mosaici pavimentali dell'Alto Adriatico e dell'Africa Settentrionale in età bizantina, ibid., pp. 285-302; N. Lamboglia, I problemi attuali della terra sigillata chiara: Italia o Africa?, ibid., pp. 119-31; R. Farioli, Pavimenti musivi di Ravenna paleocristiana, Ravenna 1975; N. Duval, La mosaïque funéraire dans l'art paléochrétien, Ravenna 1976; A. Ennabli, Lampes chrétiennes de Tunisie, Paris 1976; J.W. Hayes, Supplement to Late Roman Pottery, London 1980; N. Harrazi, Chapiteaux de la Grande Mosquée de Kairouan, Tunis 1982; R.J.A. Wilson, Roman-Mosaics in Sicily: the African Connection, in AJA, 86 (1982), pp. 413-28; K. Dunbabin, Mosaics of the Byzantine Period in Carthage: Problems and Directions of Research, in P. Senay (ed.), Carthage VII. Actes du Congrès International sur Carthage, 2 (Trois-Rivières, 10-13 octobre 1984), Québec 1985, pp. 9-26; S. Lusuardi Siena, La pavimentazione musiva della Cattedrale di S. Maria a Luni, in Scritti in ricordo di Graziella Massari Gaballo e di Umberto Tacchetti Pollini, Milano 1986, pp. 303-22; P. Pensabene, La decorazione architettonica, l'impiego del marmo e l'importazione di manufatti orientali a Roma, in Italia e in Africa: II-VI sec. d.C., in A. Giardina (ed.), Società romana e impero tardo antico, III. Le merci, gli insediamenti, Bari 1986, pp. 283-301, 398 ss.
Epigrafia e numismatica:
C. Morrisson, Catalogue des monnaies byzantines de la Bibliothèque Nationale, I, Paris 1970; W. Hahn (ed.), Moneta Imperii Byzantini, Wien 1973-81; N. Duval - F. Prévot (edd.), Recherches archéologiques à Haïdra, I. Les inscriptions chrétiennes, Roma 1975; Y. Duval, Loca sanctorum Africae. Le culte des martyrs en Afrique du IVe au VIIe siècle, Roma 1982; R. Guéry - C. Morrisson - H. Slim, Recherches archéologiques franco-tunisiennes à Rougga, III. Le trésor de monnaies d'or byzantines, Rome 1982.
Sopravvivenza del cristianesimo in Africa e il passaggio all'Islam:
S. Aurigemma, L'area cemeteriale cristiana di Áin Zára presso Tripoli di Barberia, Roma 1932; W. Seston, Sur les derniers temps du christianisme en Afrique, in Mélanges d'archéologie et d'histoire, 53 (1936), pp. 100-24 (rist. in Id., Scripta varia, Rome 1980, pp. 689-713); Ch. Courtois, De Rome à l'Islam, in RAfr, 86 (1942), pp. 25-55; Id., Grégoire VII et l'Afrique du Nord. Remarques sur les communautés chrétiennes d'Afrique au XIe siècle, in RevHist, 69 (1945), pp. 97-226; A. Mahjoubi, Nouveau témoignage épigraphique sur la communauté chrétienne de Kairouan au XIe siècle, in Africa, 1 (1966), pp. 85-104; R. Bartoccini - D. Mazzoleni, Le iscrizioni del cimitero di En Ngila, in RACr, 53 (1977), pp. 157-98.
di Raimondo Zucca
La provincia della Mauretania Caesariensis, istituita da Claudio, con capitale Caesarea, insieme alla Tingitana, nel 41 d.C., si estendeva dal fiume Mulucha (Wadi Moulouya) al fiume Ampsaga (Wadi el-Kebir). Intorno al 292, nell'ambito della riorganizzazione provinciale dioclezianea, il settore orientale della Caesariensis venne costituito nella nuova provincia della Sitifensis. La Mauretania Caesariensis fu conquistata dai Vandali di Genserico, ma tra il 442 e il 455 ritornò sotto l'Impero romano, come si desumerebbe da una novella del Codex Theodosianus (1, 40). All'atto della riconquista dell'Africa da parte delle armate di Belisario e alla successiva riorganizzazione provinciale attuata da Giustiniano, le tre Mauretaniae furono fuse in due province, la Mauretania I e II. La Mauretania I comprendeva il territorio dall'Ampsaga a Caesarea, la II da Gunugu a Tingi. Al tempo di Maurizio Tiberio Sitifis fu probabilmente aggregata alla Numidia, mentre la Mauretania I venne estesa entro i confini dioclezianei della Caesariensis.
Il cristianesimo dovette penetrare precocemente nelle città costiere della Caesariensis se a esse, in particolare, può riferirsi l'inciso di Tertulliano (Adv. Iud., VII, 4) sui Maurorum multi fines entro i quali era stata predicata la Buona Novella. La persecuzione dioclezianea comportò il martirio di vari cristiani della Sitifensis e della Caesariensis. La Passio Tipasii veterani documenta il rifiuto, sotto Diocleziano, del veterano di una vexillatio, Typasius della Sitifensis, di offrire incenso agli dei e di essere richiamato alle armi. Per tale rifiuto Typasius venne giustiziato a Tigava, in Caesariensis, l'11 gennaio 298. Fededegna inoltre appare la passio di Fabius, uno degli officiales del praeses provinciale, che rifiutò di sacrificare in occasione del concilium provinciae in Caesarea e per questo venne decapitato. Riportabile al V secolo è la Passio s. Salsae di Tipasa, relativa alla giovinetta Salsa che fu trucidata in una rivolta anticristiana dei Tipasitani, forse in età costantiniana, a causa della rimozione, da parte di Salsa, della testa bronzea del deus Draco dal suo tempio nell'acropoli di Tipasa. Il culto di Salsa è chiaramente documentato dalla basilica di S. Salsa a Tipasa con il celebre mosaico pavimentale che reca il carmen celebrativo della martyr Salsa dulcior nectare semper (CIL VIII, 20914).
Altri martiri in gran parte locali sono attestati epigraficamente, grazie soprattutto alle mensae martyrum e alle iscrizioni di deposizioni di reliquie. Per la Sitifensis abbiamo attestazioni a Sitifis (Nabor, Iustus, Decurius, i 36 martiri di Centum Arbores), Mezloug (Bincentius, Felix, Constantius?, Victoria), Ain Melloul (Donatus, Felix, Baric), Ain El Hadjar (Optatianus, Constantianus?, Celerinus), Bir Haddada (Miggin?, Donatus?), Koudiat Adjala (Onnorious, Ianuarius, Florentius?, Lucianus, Lucilla), Kherbet Oum el-Ahdam (Victorinus, Miggin, Dabula?, Datianus, Donatianus, Ciprianus, Nemesanus, Citinus, Victoria), Thamallula (Bincentius), Ain Zeraba (Vincentius e i martiri di Centum Arbores, Rogatianus), Bordj Rhedir (Florus, Castus), Ain El Ksar (Felix, Stiddin?, Miggin, Maria, Nabor), Hammam Guergour (Rogatianus, [--]linus, Donatus, Victor?, Florentius?, Donatus, Garg[--], Ianuarius?, Serenus?, Felix?), Tigzirt (Eusebius). Nella Mauretania Caesariensis sono documentati, nelle località di Sidi Ferruch ([--]tius), Tipasa (Victorinus, Rogatus, Vitalis, martyres ad C Arbores, Sperantius, Eu[--], Dativa), Bourkika (Renatus, Optata), Sufasar (Maximus, Dativus), Oppidum Novum (Fiora, Vitalio, Tipasius, Marcia?, Ceselia), el-Asnam (due martiri anonimi, Marcia, Ceselia, Secundilla), Tenes (Egusa, Saturnina?, Honorata?, Simplicia?), Mediouna (Benagius, Sextius, Rogatus, Maientius?, Nasseus, Maxima), Kherba des Aouissat (Felicio o Felicianus?), Ala Miliaria (Robba martire donatista), Altava (Januarius).
La geografia ecclesiastica della Caesariensis è ampiamente attestata dalle sottoscrizioni dei concili, a partire da quello di Arelate (Arles) del 314, benché l'episcopato fosse già attestato sin dal 256, come documentano le Sententiae episcoporum a proposito del titolare della sede di Dionysiana, di localizzazione sconosciuta, della Caesariensis. Le liste più complete sono quella della collatio cartaginese del 411, che riflette l'esistenza anche in Caesariensis di numerose sedi con due vescovi, l'uno cattolico e l'altro donatista, e l'altra del concilio di Cartagine del 484, convocato da Unnerico. Quest'ultima lista riunisce 120 titolari di chiese episcopali della Caesariensis, accanto a tre sedi prive di titolare. Successivamente il solo vescovo di Mina della Caesariensis è noto nel concilio di Cartagine del 525. Il Thronos Alexandrinos, lista di vescovati africani dell'VIII secolo, che dipende da un documento anteriore, registra per la Caesariensis le chiese vescovili di Caesarea, Cartennas, Lamdia, Oppidum Novum, Rusguniae (?) e Timici. La Mauretania Sitifensis documenta una nutrita serie di sedi episcopali sin dal 411, con numerosi casi di chiese contese tra cattolici e donatisti. Alla riunione cartaginese del 484 risultano nominativamente 42 vescovi della Sitifensis, nonostante sia registrato il numero totale di 44 vescovi.
Le principali città della Sitifensis e della Caesariensis in età tardoantica confermano il quadro urbano di origine preromana, in particolare Icosium (Algeri), Tipasa e Iol Caesarea (Chercell), centri urbani costieri di fondazione punica, inseriti poi nel regno mauritano e, dal 40 d.C., nella provincia della Mauretania Caesariensis. La città di Sitifis, capitale della provincia dioclezianea della Sitifensis, nasce come Colonia Nerviana Augusta Martialis Veteranorum Sitifensium sotto Nerva. Gli scavi di A. Gaspary e P.-A. Février iniziati nel 1959 hanno evidenziato l'ampia evoluzione urbana di Sitifis (Sétif) a partire dalla seconda metà del IV sec. d.C., con la costruzione di una cinta muraria dotata di torri rettangolari estesa 5 km. Nell'ambito del basso Impero si data un'iscrizione che commemora il restauro della porticus della residenza appartenente al praeses della Sitifensis. Alla comunità cristiana si attribuiscono le chiese A e B, formanti un unico complesso riferibile, in base ai mosaici datati con l'era provinciale, al 378-471. All'atto della costituzione della grandiosa cittadella bizantina il quartiere con le due chiese suddette appare abbandonato.
Caesarea mantiene il rango di capitale provinciale in età tardoantica, benché nel 371/2 cada sotto il dominio del mauro Firmo. Riconquistata dall'Impero, venne rioccupata dal re mauro Mastigas, fino alla nuova conquista delle armate bizantine. Anche in epoca bizantina la città fu capitale provinciale della Mauretania II. La cinta muraria racchiudeva un'area di 370 ha, benché non tutti occupati dall'urbanizzazione. L'unico sicuro edificio cultuale cristiano è stato rinvenuto nel corso degli scavi del foro nel 1977: una modesta basilica (19 × 7,25 m) databile agli inizi del V secolo. La colonia di Tipasa, costituita da Adriano, ebbe una cinta muraria di quasi 1,5 km di lunghezza eretta entro il 147 d.C., che validamente la difese all'atto dell'assedio di Firmo nel 371 o 372. La distruzione delle mura deve datarsi probabilmente al momento dell'invasione dei Vandali. I monumenti cristiani di Tipasa sono numerosi: sulla collina occidentale si localizza la grandiosa ecclesia cathedralis del IV secolo, ristrutturata in età bizantina. Le chiese II, III, IV e, forse, V s'inseriscono nell'area urbana, talvolta riutilizzando edifici preesistenti. Nelle aree cimiteriali furono costituite la cosiddetta "cappella del vescovo Alessandro" impostata sulla cripta con le sepolture dei vescovi tipasitani anteriori ad Alessandro, la chiesa VIII, detta "di Pietro e Paolo" e la basilica della martire locale Salsa, fondata verso la fine del IV secolo e ristrutturata in età bizantina.
La colonia di Iomnium, corrispondente a Tigzirt, era una città indigena, romanizzata, cinta da un'ampia cortina muraria; in età bizantina vi fu edificata una cittadella, dotata di un edificio ecclesiastico. La possibile cattedrale è identificata nel settore orientale della città, tra la cinta romana e la cittadella bizantina; sono note altre quattro chiese. Nella Mauretania Caesariensis interna i centri urbani, spesso legati a insediamenti militari, si confermano anche dopo l'evacuazione delle truppe, come ad esempio ad Ala Miliaria, in cui la comunità cristiana è attestata fino al VII secolo, o Altava, dove un castrum viene eretto nel 508 su ordine di Masuna, rex gentium Maurorum et Romanorum, per le cure del suo procuratore Maximus.
Y. Duval, La Maurétanie Sitifienne à l'époque byzantine, in Latomus, 29 (1970), pp. 157-61; C. Lepelley, Les cités de l'Afrique romaine au Bas-Empire, II, Paris 1981, pp. 511-48; D. Pringle, The Defence of Byzantine Africa from Justinian to the Arab Conquest: an Account of the Military History and Archaeology of the African Provinces in the Sixth and Seventh Centuries, Oxford 1981; Y. Duval, Loca sanctorum Africae. Le culte des martyrs en Afrique du IVe au VIIe siècle, I, Rome 1982, pp. 299-418; N. Duval, Les Byzantins à Rusguniae. Etudes d'archéologie chrétienne nord-africaine, 10, in BAParis, 19, B (1983), pp. 341-59, in part. pp. 352-59; Ph. Leveau, Caesarea de Maurétanie: une ville romaine et ses campagnes, Rome 1984; N. Benseddik - T.W. Potter, Fouilles du forum de Cherchel. Rapport préliminaire, in BAAlger, IV suppl. (1986); P.-A. Février, Aux origines du christianisme en Maurétanie Césarienne, in MEFRA, 98 (1986), pp. 767-809; I. Gui - N. Duval - J.-P. Caillet, Basiliques chrétiennes d'Afrique du Nord, I. Inventaire des monuments de l'Algérie, Paris 1992, pp. 1-72.
di Raimondo Zucca
La città (od. Tamentfoust), in Algeria, localizzata sulla costa della Mauretania Caesariensis, di origine punica, fu costituita in colonia da Augusto. La documentazione tardoantica, vandalica e bizantina è scandita dalle testimonianze dell'organizzazione ecclesiastica della città. Il primo vescovo noto, Numerianus, è attestato nel 419. Segue Bonifacius episcopus Rusguniensis nel 484 e un Lucius vescovo in età bizantina. La lista del Thronos Alexandrinos conosce, per il periodo bizantino, un vescovato di Raistonìa, identificato con quello di R.
Gli scavi del 1899-1900, nel settore settentrionale della città, hanno messo in luce un grande complesso paleocristiano, da ritenere, con probabilità, la cattedrale cittadina. Alla basilica deve assegnarsi, presumibilmente, la dedica di un Flavius Nuvel e della moglie Monnica, riferita a una basilica, insignita del sanctum lignum Crucis Christi Salvatoris (CIL VIII, 9255 = ILCV 1822). La basilica, preceduta da un portico, misura 42 × 19,4 m, con il quadratum populi diviso in tre navate e dotato di pannelli pavimentali musivi. L'abside orientata risulta sopraelevata e accessibile mediante due scalette. A nord della basilica si situa il battistero con piscina rettangolare, con piccole terme in prossimità. Probabilmente in seguito al passaggio dei Vandali a R. la basilica subì un grave incendio che impose amplissimi lavori di restauro. Questi furono compiuti, dopo la riconquista bizantina della città e finanziati da un Mauricius, comandante delle truppe bizantine di stanza in città. Nella nuova fase la basilica ospitò le tombe a copertura musiva dello stesso Mauricius, delle sue figlie Patricia e Constantia e del vescovo Lucius. La basilica ristrutturata, presenta una controabside in facciata, mentre il quadratum populi è diviso in cinque navate. L'elevato della basilica prevedeva tribune alle quali si accedeva con scale individuate agli angoli sud-ovest e nord-ovest del quadratum populi.
Bibliografia
D. Pringle, The Defence of Byzantine Africa from Justinian to the Arab Conquest: an Account of the Military History and Archaeology of the African Provinces in the Sixth and Seventh Centuries, Oxford 1981, pp. 222-23; N. Duval, Les Byzantins à Rusguniae. Etudes d'archéologie chrétienne nord-africaine, 10, in BAParis, 19, B (1983), pp. 341-59; Id., Le destin des mosaïques de l'église de Rusguniae (Matifou ou Tamentfoust). Deux fragments nouveaux, in MEFRA, 97 (1985), pp. 1113-129; I. Gui - N. Duval - J.-P. Caillet, Basiliques chrétiennes d'Afrique du Nord, I. Inventaire des monuments de l'Algérie, Paris 1992, pp. 52-56.
di Pier Giorgio Spanu
Fin dalla sua fondazione T., in Algeria, svolse un importante ruolo di città portuale, posta lungo le rotte marittime di commercio e di colonizzazione che si spingevano da Oriente verso Occidente, fin oltre lo Stretto di Gibilterra.
La costituzione del centro urbano avvenne probabilmente a opera dei Cartaginesi, tra il VI e il V sec. a.C., in un'area costiera già battuta dai navigatori fenici. T. venne dotata dello statuto municipale sotto Claudio nel 46 d.C.: i suoi abitanti poterono così divenire cittadini romani di "diritto latino" e proseguire un intenso processo d'assimilazione già avviato da tempo, reso evidente anche nelle scelte urbanistiche e monumentali. La sua importanza, determinata dalla presenza del porto nonché dalla posizione lungo una frequentata via terrestre, portò a una notevole espansione dell'area urbana entro la prima metà del II sec. d.C.: in età adrianea la città fu elevata al rango di colonia onoraria, divenendo Colonia Aelia Augusta Tipasiensium, mentre la costruzione di una nuova cinta muraria si concluse nel 147 d.C., quando era imperatore Antonino Pio.
Nella Tarda Antichità l'attività del porto di T. doveva essere ancora fiorente: lo dimostra l'intensa attività edilizia che tra il II e il III secolo riguardò in particolare strutture abitative signorili, appartenenti con ogni probabilità a una ricca élite locale e segno evidente della prosperità economica cittadina. Fu certamente l'introduzione del cristianesimo a modificare sensibilmente l'immagine della città, sia nel centro abitato sia nelle aree extraurbane. Non si hanno documenti certi circa il momento in cui si costituì la prima comunità cristiana, forse entro la prima metà del III secolo, come sembrerebbe indicare l'epigrafe datata al 238, posta sulla sepoltura di Rasinia Secunda, presumibilmente facente parte di tale comunità. Assai significative sono inoltre le testimonianze epigrafiche e letterarie relative all'esistenza di diversi martiri: tali documenti sono probanti l'esistenza di cristiani a T. nell'età delle persecuzioni, tra la fine del III e gli inizi del IV secolo. Neppure l'età costantiniana e la pace della Chiesa segnarono la fine delle vessazioni di cui furono oggetto i seguaci di Cristo: alle sepolture di Vittorino, Rogato, Vitale, Speranzio, Dativa, dovette essere destinata una particolare attenzione in virtù della loro estrema testimonianza di fede, ricordata nei loro epitaffi, ma senza dubbio fu oggetto di un particolare culto la tomba di s. Salsa. Le vicende relative al martirio di Salsa, avvenuto intorno alla metà del IV secolo, sono raccontate in una passio composta probabilmente nel secolo successivo, da un anonimo autore che conosceva bene la storia narrata e soprattutto il teatro in cui questa era ambientata: il racconto agiografico contiene infatti numerose notizie, soprattutto di carattere topografico, che permettono da un lato di datare la stessa opera, dall'altro di documentare lo stato in cui versavano a quell'epoca molti monumenti cittadini, nel momento in cui era ancora vivace la reazione pagana alla diffusione del cristianesimo, soprattutto tra i rappresentanti delle élites municipali.
Risalgono invece alla fine del IV secolo le prime indicazioni, ancora una volta riconoscibili in testimonianze epigrafiche, dei vescovi della diocesi tipasitana: forse (ma ci si muove in via assolutamente ipotetica) furono i protovescovi della città gli anonimi iusti priores sepolti entro sarcofagi e ricordati in una dedica metrica posta alla fine del IV secolo in un mosaico della basilica fatta costruire a quell'epoca da un altro episcopo, Alessandro; sono del secolo successivo altri due vescovi di cui conosciamo il nome, Potentius, nominato intorno alla metà del secolo in una lettera di Leone I, e Reparatus Tipasitanus, presente in una lista episcopale della Mauretania, stilata nel 484. Non è improbabile che la sede diocesana fosse comunque già costituita in età costantiniana. Sono tuttavia i contesti archeologici e monumentali che qualificano T. come città cristiana, in particolare i numerosi edifici di culto, sia urbani sia edificati all'esterno della città in aree cimiteriali, e le stesse necropoli costituite presso le vie d'accesso. Tra le basiliche urbane senza dubbio la più importante era la cattedrale, costruita nel settore occidentale della città, vicino alle mura di età antonina; la chiesa venne edificata nel IV secolo e, dopo essere caduta in rovina tra la fine dello stesso secolo e l'età vandalica, venne ricostruita nella prima età bizantina. Oggi la sua planimetria è interamente ricostruibile: orientata a est, ha forme monumentali, con i suoi 54 m di lunghezza (abside compresa) e 45 m di larghezza. L'interno era partito in sette navate di cui quella centrale, terminante con un'abside semicircolare, molto più ampia rispetto alle laterali (13,5 contro 3,75-4 m); in un secondo momento il numero delle navate fu portato a nove, con un'ulteriore divisione di quella centrale tramite due nuovi colonnati. Coperta a capriate e forse dotata di matronei, aveva una pavimentazione musiva nella navata centrale, mentre il resto dell'aula di culto, compresa l'abside, si presentava con un piano di calpestio in calce. A nord sono diversi ambienti, oggi risparmiati dalla forte erosione della falesia, in uno dei quali, di forma rettangolare, era posta una vasca circolare dotata di gradini, identificata con il fonte battesimale.
Almeno altre tre chiese, tutte ubicate nel settore ovest, completano la topografia cristiana del centro urbano di T.; solamente una di queste, oggi non più visibile, venne costruita ex novo con ogni probabilità tra l'età vandalica e quella bizantina: si tratta di un edificio in opera a telaio di medie dimensioni (32 × 16 m ca.), trinavato, con abside semicircolare orientata a est; le altre due aule di culto (oggi ancora riconoscibili) invece occupavano edifici preesistenti, ossia un tempio pagano e la basilica civile, costruita probabilmente nel II sec. d.C. La prima aula occupava l'atrio del tempio, aveva tre navate, di cui quella centrale molto più larga delle laterali, e si concludeva con una grande abside semicircolare orientata a est, inscritta in un corpo pieno rettangolare; ragioni storiche potrebbero indicare la fine del IV secolo come il momento in cui porre la rifunzionalizzazione dell'area, quando, terminate le resistenze pagane alla religione cristiana, cessò definitivamente l'uso dei templi, con la costituzione del cristianesimo come religione di stato; confermerebbe tale datazione lo stile di alcuni elementi di decorazione architettonica, collocabili al massimo ai primi decenni del V secolo.
A questa medesima fase cronologica può attribuirsi il riutilizzo come chiesa della basilica civile, prossima al foro cittadino; all'originaria aula a tre navate bastarono poche aggiunte funzionali alle esigenze liturgiche per garantire all'edificio una nuova destinazione d'uso; due ambienti posti accanto all'abside semicircolare, inscritta e dotata di pavimento musivo, potevano servire come pastofori. Nonostante le ipotesi fatte in passato, basate sul testo di una epigrafe musiva posta nel pavimento, l'identificazione come aula destinata al culto di un ambiente absidato pertinente a una domus ubicata a nord-est del Capitolium non appare certa; secondo le più recenti proposte, è invece plausibile che i segni cristiani evidenziati nell'edificio e lo stesso testo dell'iscrizione, comunque problematico e di difficile interpretazione, indichino l'appartenenza dei ricchi abitanti della domus alla locale comunità cristiana. Il problema rimane comunque aperto.
Altre basiliche furono costruite presso due grandi aree cimiteriali, ubicate agli estremi opposti della città: la necropoli di Alessandro, su un promontorio a ovest del centro urbano, e quella di S. Salsa, sviluppatasi su una collina a oriente, anch'essa prossima al mare, della quale faceva parte anche il cimitero localizzato nei pressi di una cappella dedicata ai ss. Pietro e Paolo. Entrambe le aree cimiteriali accolsero i membri defunti della comunità cristiana di T., entro sepolture di varia tipologia. In particolare nella necropoli occidentale diverse tombe trovarono posto in ambienti scavati nella roccia, mentre è degno di nota un grande mausoleo circolare con numerosi sarcofagi, collocati sia entro arcosoli ricavati nel muro interno, sia nello spazio centrale. Anche nella necropoli di S. Salsa, oltre al gran numero di sepolture sub divo molte delle quali a sarcofago, furono costruite diverse cappelle funerarie; nel cimitero dei Ss. Pietro e Paolo infine le sepolture orientate verso il santuario indicano come quest'ultimo dovette essere l'elemento che determinò l'espansione di questa porzione della necropoli orientale. Soprattutto nell'area funeraria di S. Salsa sono evidenti le strutture, poste accanto alle sepolture o sovrastanti le stesse, funzionali ai riti dei refrigeria, i banchetti funebri che i cristiani celebravano in onore dei propri defunti e che in Nord Africa sono attestati ancora in età tarda.
Per quanto riguarda le basiliche funerarie, si è già fatto cenno all'edificio fatto costruire nella necropoli occidentale dal vescovo Alessandro nel IV secolo, probabilmente per onorare le tombe dei suoi predecessori, originariamente sepolti in una cripta ubicata a sud-est della chiesa e a essa collegata tramite alcuni gradini. L'aula di culto, orientata a est, ha una forma irregolare, dovendosi adattare alle preesistenze nonché alla morfologia del terreno: l'area occupata dall'edificio raggiunge quasi i 24 m di lunghezza per oltre 15 m di larghezza. Costruita in opera a telaio, è divisa in tre navate, di cui solamente quella centrale era totalmente pavimentata a mosaico, mentre altri pannelli musivi con iscrizioni erano posti nella navata nord. La basilica è priva di abside, sostituita da un piano rialzato posto al di sopra dei sarcofagi degli iusti priores, i protovescovi cittadini ricordati nell'epigrafe musiva antistante i sarcofagi stessi. Numerose altre sepolture trovarono posto all'interno della basilica funeraria, edificata come già accennato tra la fine del IV e gli inizi del V secolo.
Nella necropoli orientale si conoscono invece due basiliche, quella di S. Salsa e la più piccola chiesa dei Ss. Pietro e Paolo. La prima, sorta per onorare le spoglie della martire Salsa, è ancora oggi in gran parte conservata anche negli elevati, fatto questo che, unitamente alle indagini archeologiche compiute presso il monumento, ha consentito di leggere le diverse fasi costruttive. Il primo edificio, che accolse il corpo dopo il martirio, come viene indicato nella passio (che definisce la memoria breve admodum tabernaculum), è identificabile in una piccola sala rettangolare (10,2-10,3 × 6-6,4 m), preceduta da un corridoio voltato, connesso a un'abside orientata a nord, più tarda rispetto all'ambiente primitivo; quest'ultimo, nel quale furono posti diversi sarcofagi, è stato individuato all'esterno della basilica, a breve distanza dal lato sud: la sua costruzione può datarsi entro la prima metà del IV secolo.
Nello stesso secolo, forse verso la fine, fu costruita la prima basilica a tre navate, con abside orientata a est/sud-est, che poco tempo dopo la sua edificazione venne arricchita da un mosaico pavimentale con iscrizione: questa fa riferimento ai lavori di abbellimento, voluti dal vescovo Potentius, in un momento imprecisato del V secolo, forse nei decenni centrali se l'episcopo è lo stesso che con tale nome viene ricordato nell'epistolario di Leone Magno. In questo edificio vennero traslate le reliquie della martire Salsa e nello stesso momento, secondo alcuni, fu trasferito dalla vicina area cimiteriale un cippo funerario che reca un'iscrizione con dedica a Fabia Salsa, identificabile non con la martire ma piuttosto con un'omonima cittadina di T., collocato al centro della navata centrale. Nel VI secolo, probabilmente dopo la parentesi ariana e il ristabilimento del culto cattolico avvenuto nel 523 sotto il re vandalo Ilderico, la basilica venne ingrandita, raggiungendo una lunghezza pari circa al doppio della precedente (30,6 × 15 m ca.); un portico precedeva l'aula, divisa in tre navate da due file di undici colonne ciascuna e solo parzialmente dotata di pavimento musivo; due scale posizionate sul fondo delle navate laterali conducevano a matronei sovrastanti le stesse navatelle. Un blocco in muratura inglobò il monumento di Fabia Salsa: sopra questa nuova struttura venne sistemato un sarcofago marmoreo con scene mitologiche, evidentemente di riutilizzo e destinato a contenere le reliquie della martire, che, a protezione del suo prezioso contenuto, venne circondato da una recinzione dotata di cancelli, che occupava buona parte del settore est della navata centrale. Un nuovo rifacimento, collocabile nel VII secolo o anche in un'età posteriore, modificò ulteriormente la planimetria dell'aula di culto, che venne rinforzata in alcune strutture portanti ma che subì anche una riduzione dello spazio interno.
Di dimensioni più ridotte era la chiesa dedicata ai Ss. Pietro e Paolo, prossima a una delle porte secondarie che si aprivano nella cinta muraria. La chiesa aveva tre navate, con abside semicircolare inscritta orientata a est/sud-est, sopraelevata e resa accessibile da due scale; a fianco dell'abside erano ricavati due ambienti con funzione di pastofori. Nell'edificio possono individuarsi almeno due fasi costruttive: l'aula primitiva, edificata tra fine IV e inizi V secolo forse come cappella funeraria per un'inumazione privilegiata, era già tripartita, con quattro campate (13 × 12 m), mentre una ricostruzione, la cui datazione potrebbe oscillare tra l'età vandalica e quella bizantina, dovette prevedere un allungamento dell'asse longitudinale, con l'aggiunta di una campata (17,5 × 12 m); in questa fase la facciata della basilica venne a corrispondere alla preesistente cinta muraria, nella quale si apriva l'ingresso all'aula cultuale. Appare interessante, considerata l'ubicazione della basilica presso una porta cittadina, la dedica ai principi degli apostoli, ricordata in un'epigrafe forse originariamente posta su un loculo per le reliquie: le intitolazioni a Pietro e Paolo infatti sono frequentemente poste a protezione della città presso le vie d'accesso e le mura urbiche.
L'intensa attività edilizia religiosa, unitamente a quella privata (la domus con ambiente absidato e pavimento musivo, erroneamente interpretata come chiesa, non costituisce un caso isolato), concorre a definire una città che tra la seconda metà del IV secolo e i primi decenni del successivo conobbe un periodo di grande sviluppo, confermato anche da dati d'altro tipo. È stato stimato che in tale epoca gli abitanti del solo centro urbano, esclusi dunque quelli che dimoravano nei centri rurali dispersi nel territorium, avessero raggiunto il numero di 20.000 unità; eppure, nonostante i segni di prosperità delle élites municipali, in quel momento iniziava a evidenziarsi una generale decadenza dei centri della Mauretania, dove l'autorità imperiale cominciava a sgretolarsi per molteplici cause di natura politico-militare (disordini sociali e lotte dinastiche) e religiosa (correnti ereticali), oltreché economica. T., città ricca e densamente popolata, forse sostenne tra il 371 e il 372 l'attacco del principe mauritano Firmo, che non riuscì ad abbattere le mura e conquistare il centro abitato, come invece accadde ad altre importanti città, comprese Caesarea (Cherchell) e Icosium (Algeri).
Il centro invece non ebbe la stessa fortuna nel corso delle migrazioni dei Vandali che, passato lo Stretto di Gibilterra nel 429, si spingevano da ovest verso est: T. dovette cadere nelle loro mani intorno al 430. Le mura vennero distrutte e smantellate al massimo nei decenni centrali del V secolo e, soprattutto alla fine dello stesso secolo, numerosi gruppi di cristiani, perseguitati, furono costretti ad abbandonare la città. Sotto il regno di Unnerico il vescovo Reparatus venne deposto e sostituito da un ariano fedele al primate di Cartagine; solamente dopo l'ascesa al trono di Ilderico, nel 523, i cristiani fedeli al credo niceno vennero riabilitati e con ogni probabilità gli abitanti di T. e delle altre città mauritane che, esiliati, si erano rifugiati in Spagna poterono fare rientro ai loro centri di origine. Tale fenomeno dovette proseguire su scala maggiore quando i Bizantini si sostituirono ai Vandali nel governo della provincia d'Africa: Caesarea venne ripresa nel 534 e di lì a poco T. dovette subire la stessa sorte. Cominciava allora un nuovo periodo di prosperità, testimoniato dalla ripresa dell'attività edilizia, evidente soprattutto nelle strutture religiose, che vennero restaurate e ampliate; non mancarono, come già accennato, costruzioni ex novo.
Le diverse condizioni politiche ed economiche che investirono queste regioni del Nord Africa già alla fine del VI secolo contribuirono certamente a modificare ulteriormente il volto della città: i monumenti, cristiani e non, che ne avevano caratterizzato la grandezza nei secoli precedenti, non ricevettero la stessa cura avuta in passato e alcuni di essi caddero precocemente in rovina, mentre in altri si notano sommarie ristrutturazioni e riadattamenti, indice di mutazioni d'uso; tra il VII e l'VIII secolo T. dovette subire un restringimento e un progressivo abbandono, analogamente a quanto accadde ad altri centri della costa, la cui lunga vita era legata alle attività commerciali lungo rotte ormai insicure e battute quasi esclusivamente delle flotte dei musulmani, i nuovi padroni del mare.
S. Lancel, Tipasa de Maurétanie, Alger 1966; C. Lepelley, Les cités de l'Afrique romaine au Bas-Empire, II, Paris 1981, pp. 543-46; Y. Duval, Loca sanctorum Africae. Le culte des martyrs en Afrique du IVe au VIIe siècle, I, Rome 1982, pp. 357-80, nn. 169-78; I. Gui - N. Duval - J.-P. Caillet, Basiliques chrétiennes d'Afrique du Nord, I. Inventaire des monuments de l'Algérie, Paris 1992, pp. 21-44.
di Raimondo Zucca
La provincia della Mauretania Tingitana, creata nel 40 d.C., venne riorganizzata da Diocleziano con l'arretramento del limes al corso del Wadi Loukos, e la sua aggregazione alla dioecesis Hispaniarum di cui costituiva la settima provincia, di rango presidiale. L'abbandono delle armate romane del settore della Tingitana a sud del Loukos non fu totale e non significò, tuttavia, la fine della civiltà urbana dei principali centri quali Volubilis, Banasa, Tamusida e in particolare Sala. Il dispositivo militare della Mauretania Tingitana tardoantica è noto dalle fonti letterarie e archeologiche. In particolare la Notitia dignitatum, redatta fra la fine del IV e l'inizio del V secolo, documenta il comes (Mauretaniae) Tingitaniae, noto anche da un'iscrizione di Arles. Per quanto attiene le unità limitanee la Notitia dignitatum registra i castella di Tamucus (Tamuda), Duga (presso Suiar Al-Habt?), Aulucos (Ad Lucos, Lixus), Bariensis (?), Sala (corrispondente a Sala-Chellah?), Pacatiana (?), Tabernae (Lalla Ylalia), Frigi(d)as (presso Lixus). Le unità acquartierate erano l'ala Herculea a Tamucus e le cohortes II Hispanorum, I Herculea, I Ityraeorum, incerta, Pacataniensis, III Asturum, Friglensis rispettivamente negli altri castella.
Le indagini archeologiche nei castella identificati dimostrano la persistenza di tali campi militari per il periodo tardoantico, come per il Castellum Tabernae, dove si è identificato l'impianto rettangolare con i principia centrali, ristrutturati nel basso Impero. La Tingitana viene a essere interessata dall'armata vandalica entro il 426, secondo la testimonianza di Idacio, benché il passaggio generale dei Vandali da Traducta (Algeciras) a Septem (Ceuta) si riporti al 429. La riconquista bizantina dell'Africa riguardò sostanzialmente, in Tingitana, la piazzaforte marittima di Septem, vista come porto militare strategico nei confronti dei Visigoti dell'Hispania e dei Franchi della Gallia. Sotto l'autorità del prefetto del pretorio dell'Africa Giustiniano costituiva un tribunus a Septem, dove dovevano essere stanziati soldati e navi da guerra (dromones).
Procopio nel De aedificiis (VI, 7, 14-16) attesta il ripristino delle fortificazioni di Septem e la costruzione di una basilica intitolata alla Madre di Dio. Nella riorganizzazione provinciale attuata da Maurizio Tiberio la Mauretania II comprende Septem, un modesto settore della Spagna sud-orientale e le Baleari. L'offensiva visigota portò alla caduta delle città iberiche in mano ai Bizantini entro il primo venticinquennio del VII secolo. Una possibile influenza politico-militare visigota sulla sponda africana dello Stretto di Gibilterra prima della conquista araba di Tingi, nel 709, e della stessa Septem, è ammessa dalle fonti arabe.
L'organizzazione ecclesiastica della Mauretania Tingitana nelle fasi tardoantica, vandalica, bizantina e, forse, visigota permane estremamente dubbia in relazione agli scarsissimi dati delle fonti letterarie e archeologiche. La documentazione di martiri è relativa esclusivamente alla capitale provinciale Tingi. Gli Acta Marcelli sono relativi al martirio di un centurione condannato in civitate Tingitana da Aurelius agricolanus, agens vices praefectorum praetorio, alla pena capitale il 30 ottobre 298 per aver rinnegato il giuramento militare in quanto cristiano. Il martirio di Cassianus in Tingis è celebrato da Prudenzio nel Peristephanon (IV, 45-48), oltreché dal Martirologio Geronimiano e dalla Passio s. Cassiani. Nessun concilio africano appare sottoscritto da episcopi della Tingitana, in rapporto alla unione dioclezianea della provincia alla dioecesis Hispaniarum. Per quanto attiene l'ambito visigoto il Codex Ouetensis de El Escorial nomina tra le civitates episcopales della Ispania Betica, dipendenti da (Hi)spalis, anche Tingi. Infine il Thronos Alexandrinos, lista di vescovati africani dell'VIII secolo, dipendente da elenchi più antichi, assegna alla Tingitana quattro sedi episcopali: Lixa (Lixus), Oppine (nota in Ptol., IV, I, 3, ma non identificata), Rouadipe (forse Rusaddir o la gens Rouditai) e Tingis.
Una corrente storiografica ormai abbandonata asseriva la decadenza delle città della Mauretania Tingitana successivamente al ripiegamento della provincia sul limes del Wadi Loukos. Nonostante la documentazione epigrafica di una vittoria riportata dalle armi romane sui Barbari a Tamuda (forse della fine del III sec. d.C.) e la ricca serie di testimonianze archeologiche di riduzioni delle aree urbane e della costruzione di cinte murarie tardive (ad es., a Volubilis e a Lixus) non c'è dubbio che la gran parte delle civitates della Tingitana proseguirono la propria vita fra età tardoantica e periodo bizantino.
La capitale Tingis di rango coloniale è attestata ancora nella Cosmographia del Ravennate (3, 11; 5, 4). La sovrapposizione di Tangeri sulla città antica limita forzatamente l'analisi della topografia tardoantica, vandalica e bizantina. La presunta basilica cristiana di Tingi, non più visibile, non appare sufficientemente caratterizzata come edificio cristiano. Sicure testimonianze della comunità cristiana di Tingi sono costituite da varie iscrizioni paleocristiane. Septem documenta una serie di elementi, soprattutto cimiteriali, tardoantichi, benché la presunta basilica cimiteriale paleocristiana non appaia sicura né sul piano icnografico, né su quello funzionale, potendosi trattare di comuni recinti funerari. Zilil è colonia augustea che decade nella seconda metà del III sec. d.C. La ripresa del centro urbano si situa nella prima metà del secolo successivo con il rafforzamento di alcuni settori della cinta muraria e in particolare della porta nord-ovest. Nel settore sud-ovest della città si edifica, nel corso del IV secolo, una basilica con battistero che rivela affinità per la localizzazione dell'altare esterno all'abside secondo il tipo africano e non ispanico. La fine del complesso e probabilmente della città si pone al momento dell'invasione vandalica (429/30 d.C.).
La colonia di Lixus, dedotta da Claudio nell'area dell'antica fondazione fenicia, punico-mauritana e mauritana, conosce una fase critica nel corso della seconda metà del III sec. d.C. La ripresa avviene in età tetrarchica, forse già con la costruzione di una nuova cinta muraria, che delimita la città tardiva al pianoro più occidentale. In questo settore (cd. Quartier des Temples) si individua una moschea a torto ritenuta basilica cristiana. Tuttavia non può escludersi che il settore occupato tardivamente dalla moschea riveli almeno una porzione dell'abitato di età vandalica e bizantina di Lixus, in relazione ai materiali in sigillata chiara D e alle lucerne mediterranee ivi rinvenute. Volubilis, dotata di statuto coloniale secondo l'Itinerarium Antonini, conosce in fase tardoantica una profonda ristrutturazione urbanistica, con l'erezione di una cinta muraria settentrionale che protegge il settore sud-occidentale della città degradante verso il Wadi Khoumane. All'esterno delle mura tarde e a nord-est dell'arco onorario si è individuata un'area cimiteriale con tombe di epoca tarda, quattro delle quali connotate da iscrizioni del VII secolo. Sala rivela la persistenza del nucleo urbano almeno sino al V secolo (dati della necropoli), benché elementi quali le fibbie di bronzo di tipo bizantino si riportino al VI secolo.
Bibliografia
J. Carcopino, Le Maroc Antique, Paris 1943, pp. 231-304; R. Thouvenot, Les origines chrétiennes en Maurétanie Tingitane, in REA, 71 (1969), pp. 354-78; D. Pringle, The Defence of Byzantine Africa from Justinian to the Arab conquest: an Account of the Military History and Archaeology of the African Provinces in the Sixth and Seventh Centuries, Oxford 1981, pp. 42, 65; R. Rebuffat, La frontière du Loukos au Bas-Empire, in Lixus. Actes du Colloque organisé par l'Institut des sciences de l'archéologie et du patrimoine de Rabat avec le concours de l'École Française de Rome (Larache, 8-11 novembre 1989), Rome 1992, pp. 365-77; A. Akerraz, Le Maroc de Rome à l'Islam, in Maroc, les trésors du royaume: 6000 ans d'art (Catalogo della mostra), Paris 1999, pp. 90-96; N. Villaverde Vega, Tingitana en la Antigüedad tardía (siglos III-VII), Madrid 2001; E. Lenoir, Monuments du culte chrétien en Maurétanie Tingitane, in AntTard, 11 (2003), pp. 167-79.
di Raimondo Zucca
L., città di fondazione fenicia, situata sulla riva destra del Wadi Loukos, presso la sua foce atlantica, divenne colonia con Claudio, raggiungendo un'estensione di circa 15-17 ha entro un robusto circuito murario.
Forse entro l'età tetrarchica la città si ritrasse nel settore occidentale, nel Quartier des Temples e nelle adiacenze meridionali. Il ridimensionato ambito urbano, esteso ora circa 8 ha, venne delimitato da una cinta muraria, costruita con materiale di recupero, tra cui membrature architettoniche e cippi funerari. Probabilmente non lungi da L., presso il Wadi Loukos, dovette essere situato il castellum Aulucos (Ad Lucos), sede della cohors I Herculea secondo la Notitia dignitatum. N. Villaverde Vega ha proposto recentemente una localizzazione del castellum presso Alcázarquivir, ma è preferibile ricercarlo nel settore periurbano della città. L'esistenza di un vescovato a L. è affermata dal Thronos Alexandrinos, lista vescovile dell'VIII secolo che rielabora elenchi più antichi. Finora gli scavi e le ricerche non hanno evidenziato in L. alcun edificio di culto cristiano, poiché la cosiddetta "basilica del Quartier des Temples" è con certezza una moschea. Tuttavia gli elementi archeologici dei secoli V e VI individuati nell'area della moschea suggeriscono l'ipotesi di una occupazione del sito tra età tardoantica e periodo bizantino, senza che si possa per ora ipotizzare un edificio chiesastico preesistente.
M. Ponsich, Lixus. Le quartier des temples, Rabat 1981, pp. 113-22; A. Akerraz, Lixus du Bas-Empire à l'Islam, in Lixus. Actes du Colloque organisé par l'Institut des sciences de l'archéologie et du patrimoine de Rabat avec le concours de l'École Française de Rome (Larache, 8-11 novembre 1989), Rome 1992, pp. 379-85; R. Rebuffat, La frontière du Loukos au Bas-Empire, ibid., pp. 365-77; N. Villaverde Vega, Tingitana en la Antigüedad tardía (siglos III-VII), Madrid 2001, pp. 117-44, 332-33; E. Lenoir, Monuments du culte chrétien en Maurétanie Tingitane, in AntTard, 11 (2003), p. 176.
di Raimondo Zucca
La città (od. Tangeri), sulla costa settentrionale della Mauretania Tingitana, divenne capitale della provincia sin dalla sua costituzione, mantenendo un ruolo egemone anche dopo l'aggregazione della Tingitana alla dioecesis Hispaniarum, con la riforma provinciale dioclezianea. La posizione di T. di fronte alla Baetica ne assicurò il ruolo strategico, insieme a Septem, anche in età vandalica e bizantina.
Il cristianesimo fu introdotto precocemente se a T. dobbiamo ascrivere due martiri della tradizione agiografica, il centurione Marcellus e Cassianus. L'esistenza di una sede vescovile è attestata dal Codex Ouetensis de El Escorial, che nomina tra le civitates episcopales della Ispania Betica, dipendenti da (Hi)spalis, anche T., e dal Thronos Alexandrinos, la lista di vescovati africani dell'VIII secolo, dipendente da elenchi più antichi. Una presunta basilica paleocristiana è stata individuata a Tangeri nella località di Lalla Shafia. Si tratta di un edificio, orientato nord-est/sud-ovest, di oltre 30 m di lunghezza e di 25-30 m di larghezza, suddiviso in cinque navate da colonne. Gli elementi icnografici, l'orientamento e gli scarsi dati sullo scavo rendono alquanto aleatoria l'interpretazione cristiana dell'edificio. Quattro epitaffi paleocristiani ci assicurano, comunque, dell'esistenza di un cimitero cristiano riportabile al IV-V secolo: abbiamo una Aurelia Sabina, ancilla Cresti, una Crementia ancilla Chr(isti), un Silius e una Time, famula Chr(isti). Una quinta iscrizione, che sarebbe databile al 407-422 e che offrirebbe menzione di un [S(an)ctus] Epifanius ep[isc(opus)], appare di non certa lettura.
J. Carcopino, Le Maroc Antique, Paris 1943, pp. 231-304; R. Thouvenot, Les origines chrétiennes en Maurétanie tingitane, in REA, 71 (1969), pp. 354-78, in part. p. 368; M. Ponsich, Recherches archéologiques à Tanger et dans sa région, Paris 1970, pp. 359-94; N. Villaverde Vega, Tingitana en la Antigüedad tardía (siglos III-VII), Madrid 2001, pp. 77-88, 336-46, 398, 402-404; E. Lenoir, Monuments du culte chrétien en Maurétanie Tingitane, in AntTard, 11 (2003), pp. 173-74.
di Raimondo Zucca
Il ridimensionamento dioclezianeo della Tingitana comportò l'abbandono del territorio volubilitano da parte di Roma, ma ciò non determinò conseguenze sul piano della continuità culturale, essendo attestata la lingua latina attraverso le iscrizioni sino al VII secolo.
La Cosmographia del Ravennate conosce ancora Bolubili (3, 11), benché l'urbanistica della città tra età tardoantica e l'occupazione islamica a opera di Idris nel corso dell'VIII secolo risulti ancora fortemente lacunosa. La città di età imperiale, estesa per circa 40 ha, all'interno di una cinta muraria costruita nel 168/9 d.C., dovette subire una drastica riduzione a partire dall'età tardoantica. La città tardiva sembra limitarsi al settore sud-occidentale del pianoro degradante verso il Wadi Khoumane, come si desume dalla nuova cortina muraria settentrionale, dai rimaneggiamenti del settore nord-ovest della cinta di età antonina e da un ulteriore nuovo tratto di muro urbico a nord-ovest, a dominio di un'ansa del wādī. Le presunte identificazioni di luoghi di culto cristiano a V. sono negate dalle più recenti analisi. Tuttavia un'area cimiteriale tardoantica è stata individuata a nord-est dell'arco onorario di Caracalla (216/7 d.C.). I materiali rinvenuti, tra cui lucerne mediterranee anche con simboli cristiani, rappresentano un indizio della comunità cristiana di V. Più dubbio il carattere cristiano (e liturgico) di altri oggetti tra cui un incensiere bronzeo, che potrebbe essere anche una lampada, e una statuetta d'avorio di un crioforo, forse il Buon Pastore. Le epigrafi più tardive, datate con l'era provinciale agli anni 605, 606, 649 (o 599) e 655, riflettono un formulario che parrebbe promanare da Altava, in Caesariensis. Potrebbe dunque ipotizzarsi l'arrivo a V. in età bizantina di un nucleo di abitanti di Altava che avrebbero perpetuato nella nuova sede i formulari epigrafici della propria patria d'origine.
M. Euzennat, Les édifices du culte chrétien en Maurétanie Tingitane, in AntAfr, 8 (1974), pp. 181-87; A. Akerraz, Note sur l'enceinte tardive de Volubilis, in BAParis, 19, B (1985), pp. 429-36; N. Villaverde Vega, Tingitana en la Antigüedad tardía (siglos III-VII), Madrid 2001, pp. 157-76; E. Lenoir, Monuments du culte chrétien en Maurétanie Tingitane, in AntTard, 11 (2003), pp. 176-78.
di Danila Artizzu
La riforma dell'Impero operata da Diocleziano e dai tetrarchi allo scopo di salvaguardarne l'unità dopo una lunga parentesi di disordini e di crisi, interessò anche la provincia africana di Numidia che, intorno al 303 d.C., fu divisa nelle due entità amministrative della Numidia di Cirta (Costantina), con capitale la città omonima, e della Numidia Militiana, con capitale Lambesi. Questo frazionamento rifletteva una distinzione regionale che di fatto si era andata realizzando nel tempo sotto l'impulso di fattori geografici, economici e politici fra l'area settentrionale e quella meridionale del territorio numidico. Cirta, infatti, fin dalle origini della presenza romana aveva rivestito il ruolo di fulcro attorno al quale si era sviluppata e organizzata una vita civile connotata da un'intensa urbanizzazione e da un'economia basata sulla produzione agraria. Era differente il paesaggio offerto dalle terre che si estendevano a sud dell'antica Confederazione Cirteana, dove la dominante morfologica delle alte catene montuose dell'Aurès e dei monti di Nemenchas e la vicinanza all'arida distesa del Sahara ne fanno tuttora una regione di forti contrasti climatici e ambientali e in età romana ne fecero un territorio mai perfettamente pacificato e comunque bisognoso di un attento controllo. Non a caso per la nuova provincia militare la scelta della capitale ricadde su Lambesi, un centro strategico che si era sviluppato intorno alla guarnigione della legio III Augusta e che sotto Settimio Severo era già stata capitale della Numidia.
La preoccupazione di Diocleziano per la sicurezza dei margini meridionali della provincia è peraltro dimostrata dalla costruzione del posto fortificato di Aqua Viva, fondato nel 303 d.C. a tutela dell'importante risorsa idrica del Wadi Naimia e a controllo di un segmento dell'asse viario che da Doucen dirigeva verso il bacino dell'Hodna. La divisione amministrativa non fu di lunga durata e già nel 314 l'imperatore Costantino riuniva le due province sotto un unico praeses con sede a Cirta (Costantina). Il primo imperatore cristiano, dopo la parentesi dell'usurpazione di L. Domizio Alessandro fra il 308 e il 310 d.C. e la sconfitta di Massenzio, si trovava a controllare in Africa e in Numidia una distesa territoriale che praticamente risultava immutata nei confini rispetto alla situazione di età severiana, pur con i sopravvenuti cambiamenti nell'assetto e nella distribuzione dei contingenti di truppe.
Costantino rispettò i proponimenti strategici del suo predecessore e anzi rafforzò ulteriormente il dispositivo di controllo delle aree periferiche preoccupandosi dello stato di funzionalità del limes e creando nuove postazioni fortificate fino ai margini settentrionali del Sahara. Pare infatti ormai certo che si debba attribuire alla sua volontà la creazione dei forti di Bourada, Drah Souid, es-Senem nella regione di Gemellae e, per le analogie tipologiche e planimetriche con gli impianti citati, si tende ad attribuire allo stesso orizzonte della prima metà del IV secolo anche le opere fortificate di Zeribet et-Tir (forte localizzato sul punto di intersezione fra le due strade Thubunae-el-Ghara e Aqua Viva-Bou Saada), Kikouina (a controllo di un valico meridionale dell'Aurès), Aquae Herculis (sulla strada che costeggiava il Wadi Abdi in direzione di Menaa), il cosiddetto Castellum de la Daya (costruito proprio a sorveglianza del limes Thubunensis), e infine Gendel (in posizione dominante rispetto allo sbocco meridionale della vallata del Wadi Bou Doukrane).
Questo impulso dato all'edilizia militare soprattutto ai bordi meridionali dei massicci montuosi ha fatto recentemente ipotizzare che le maggiori apprensioni in età costantiniana fossero rivolte alle tribù nomadi e seminomadi del deserto piuttosto che ai popoli montanari dell'Aurès e dei Nemenchas. L'ipotesi parrebbe confermata dai successivi interventi di Valente, Valentiniano e Graziano, ai quali è attribuita l'edificazione dei forti a pianta trapezoidale di Thabudeos e Mdila e il cosiddetto Fort Parallelogram di Seba Mgata (lungo una strada che portava a Mesarfelta). Una dedica ai tre imperatori da El Bahira, nella quale si citano alcuni castra, confermerebbe ancora l'immutato interesse a potenziare la linea del limes, nel caso specifico lungo il segmento dell'Hodna; inoltre, la Notitia dignitatum, documento redatto fra la fine del IV e l'inizio del V secolo, assegna praepositi limitis alle sedi di Gemellae, Badias, Tubunae.
Sul fronte interno Costantino si trovò a dover governare la situazione di crisi creatasi in conseguenza degli editti emanati da Diocleziano contro la fede cristiana. La persecuzione era durata fra la primavera del 303 e il maggio del 305 con episodi di sangue come l'uccisione di Crispina a Theveste e quella dei martiri di Milev. Non tutti i cristiani si erano comportati con fermezza e proprio sulla questione dei lapsi si aprì la profonda ferita destinata a dividere per secoli la cristianità africana. Dalla Numidia un primo campanello di allarme fu la convocazione di un concilio nel marzo del 305 a Cirta in occasione del quale il primate Secundus di Tigisis chiamò a giustificarsi alcuni vescovi della provincia sospettati di avere consegnato i libri delle Sacre Scritture, ma la vera rottura si ebbe nel 311 allorché venne nominato vescovo di Cartagine Caecilianus, dalla fama controversa proprio in rapporto al suo comportamento durante la persecuzione. L'iniziativa partì ancora dai vescovi numidi che, riunitisi a Cartagine nel 312, deposero Caecilianus ed elessero Maiorinus al quale succedette immediatamente dopo Donatus, vescovo di Casae Nigrae.
Questi eventi, all'origine dello scisma donatista, evidenziano come già dall'inizio del IV secolo esistesse una provincia ecclesiastica autonoma della Numidia, i confini della quale travalicavano quelli della provincia civile andando a inglobare una porzione della Proconsularis con le sedi di Calama, Hippo Regius, Theveste, Madauros, Thagaste e, almeno in principio, quelle della Mauretania Sitifensis che divenne provincia ecclesiastica autonoma presumibilmente solo dopo il 393 d.C. I dati cronologici mostrano come lo scisma donatista si fosse già consumato al momento della decisiva vittoria di Costantino e, anche se non si trattò di un fenomeno esclusivamente numida, tuttavia, la provincia nello svolgersi delle alterne vicende assunse il ruolo di roccaforte e baluardo estremo di resistenza degli scismatici. In un primo momento l'imperatore con i due pronunciamenti del 313 e del 316 fece proprie le ragioni dei vescovi cattolici dichiarando fuori legge i donatisti e ordinandone l'espulsione dai loro luoghi di culto in Numidia e in Proconsularis, ma tali provvedimenti non sortirono l'effetto voluto e la polemica fra le due parti di fatto continuò.
L'editto di tolleranza del 321, volto a tutelare l'ordine pubblico, permise alla Chiesa donatista di continuare in modo più agevole e capillare l'attività di apostolato e proselitismo, cosicché già al concilio di Cartagine del 336 parteciparono ben 270 vescovi donatisti, per la massima parte provenienti da sedi della Numidia, dove il grado di influenza raggiunto dagli scismatici era tale che l'occupazione della basilica cattolica di Cirta non provocò alcun intervento da parte dell'imperatore. La polemica senza quartiere condotta da s. Agostino, vescovo di Ippona, negli scritti rivolti contro gli avversari donatisti, ma anche tutti i documenti relativi alla sua attività pastorale mostrano come sia dall'una sia dall'altra parte la predicazione del Vangelo avvenisse con modi non sempre ortodossi soprattutto nelle campagne. Così se il vescovo donatista di Calama fu accusato di coercizione religiosa nei confronti dei coloni di un fondo imperiale, Agostino stesso dovette giustificare la pessima condotta di un suo sacerdote preposto al castellum di Fussala, un piccolo centro a circa 50 km da Hippo Regius.
Le misure restrittive nei confronti degli scismatici adottate dal nuovo imperatore Costante unite a un momentaneo stato di crisi agraria, che dovette colpire soprattutto le frange più povere dei lavoratori giornalieri della Numidia, potrebbero essere state le cause all'origine della ribellione dei circoncellioni violentemente soffocata nel 340 dal conte d'Africa Taurinus. Descritti da Ottato di Milevi e da s. Agostino come degli estremisti pericolosi votati al suicidio, i circoncellioni, secondo un'altra ipotesi avanzata dagli storici moderni, non furono almeno al principio un fenomeno di settarismo religioso, ma un movimento nato dalla protesta sociale che solo in seguito subì un'evoluzione verso l'estrema intransigenza religiosa. Questo spiegherebbe perché la prima grave repressione del 340 venne sollecitata proprio dai vescovi donatisti, che in quanto grossi proprietari si sentirono minacciati, ma anche perché in seguito, una volta perduta la valenza sociale, vi fu un'apertura del movimento anche alle classi più alte e i circoncellioni diventarono all'occorrenza un utile bacino di forze, al quale la Chiesa donatista attinse nei momenti più drammatici della difesa a oltranza o nei più concitati frangenti politici.
L'editto di Costante del 347 che ordinava la fusione delle due Chiese e la consegna ai cattolici dei luoghi di culto donatisti, fu la causa dei tragici eventi di Bagai dove il vescovo donatista messosi a capo di una banda di circoncellioni cercò di opporre una resistenza che venne soffocata con l'intervento delle truppe dei commissari imperiali. Negli anni che seguirono, a parte l'imperatore Giuliano che ordinò la restituzione dei beni confiscati, l'atteggiamento dell'autorità centrale nei confronti degli scismatici fu di profondo sospetto e in effetti le fonti ricordano la compromissione di vescovi e religiosi donatisti durante le due grandi rivolte di Firmo fra il 371 e il 375 e di Gildone nel 397/8. La questione è controversa, ma parrebbe che i ribelli di Firmo abbiano potuto addirittura travalicare i confini della Mauretania e attestarsi a Rusicade in Numidia, grazie alla connivenza del vescovo donatista che convinse i cittadini a consegnare la città e poi ad aderire alla causa del condottiero. Anche l'ambizioso piano politico di Gildone, comes d'Africa e fratello di Firmo, fu caldamente appoggiato da un altro vescovo donatista, Ottato di Thamugadi, che a causa di questa sua alleanza fu duramente punito.
L'atto finale dell'interminabile disputa fra le due Chiese si ebbe con la conferenza di Cartagine del 411 alla quale fece seguito nel 412 l'editto dell'imperatore Onorio che, assimilando il donatismo a un'eresia, stabiliva la requisizione dei beni immobili, riconosceva come perseguibile il suo clero e stabiliva forti pene pecuniarie per gli adepti di alto rango recalcitranti, mentre per schiavi e coloni era prevista la fustigazione. In Numidia ripresero gli atti di terrorismo da parte dei circoncellioni e anche la reazione dei donatisti fu talvolta estrema: nel 420 il vescovo Gaudentius di Thamugadi si barricò con i fedeli nella sua basilica rifiutando di consegnarsi alle autorità. La vittoria dei cattolici non fu però completa e immediata e ancora nel 596 il papa Gregorio Magno si preoccupava della persistenza dell'eresia donatista.
Negli stessi anni della competizione fra cattolici e donatisti, la setta dei manichei conosceva la dura repressione da parte del potere centrale e veniva bersagliata dalla polemica di s. Agostino, che in gioventù aveva aderito al suo credo. Tale dottrina probabilmente fu introdotta in Africa nel corso del III sec. d.C. e in Numidia si irradiò attraverso gli assi viari commerciali dal porto di Ippona fino a Thagaste, Malliana, Milev, per arrivare ai contrafforti montani dell'Aurès e dei Nemenchas nelle regioni di Vegesela e di Ubaza. Diocleziano nel 302 ne ordinò una prima persecuzione e nel Codice Teodosiano sono registrati 21 editti di condanna emanati fra il 372 e il 445. A Ippona il vescovo Agostino sostenne nel 392 e nel 404 due controversie pubbliche contro i capi della comunità manichea della città e la sua opposizione continuò fino al 430, anno della morte. Ma il colpo di grazia venne inferto alla setta dall'editto di proscrizione emanato nel 477 dal re vandalo Unnerico per ordine del quale molti manichei furono arsi vivi e altri ancora mandati in esilio in Europa.
Approfittando dell'indebolimento dell'autorità imperiale e forse sollecitati dal conte ribelle Bonifacio, i Vandali erano sbarcati in Africa nel 429 e presumibilmente già nel 430 avevano occupato alcune città della Numidia e si apprestavano a stringere d'assedio Ippona che cadde nel luglio del 431. Il trattato stipulato nel 435 assegnava al re Genserico un'ampia porzione del territorio settentrionale della provincia, senza che si possa definire con precisione quale fosse l'estensione verso sud di questi possedimenti. Nel nuovo trattato del 442 il massiccio dell'Aurès venne lasciato, almeno sulla carta, sotto il controllo del re vandalo mentre le città di Cirta (Costantina), Rusicade, Cuicul (Gemila) tornarono sotto la giurisdizione dell'imperatore Valentiniano III. Altre testimonianze archeologiche confermano la presenza dell'autorità vandala nella piana di Guert e nella regione di Tebessa fra il 492-496 e il 508, mentre un testo epigrafico del 474 da Kherbet el Ma el Abiod nella regione fra Cirta e Sitifis riporta come data l'era di Mauretania. Gli assalti che subirono da parte delle tribù berbere le città di Theveste, Thamugadi, Bagai, Lambesi pongono il problema dell'effettivo potere dei sovrani vandali nelle regioni più interne e meno controllabili della Numidia soprattutto in rapporto alla nascita del potentato indigeno dell'Aurès a capo del quale imperavit per 40 anni Masties la cui sovranità era evidentemente accettata sia dalla componente della popolazione autoctona sia da quella romana ormai integrata.
L'autorità vandala risultò indebolita anche dal fatto di non poter contare sulla fedeltà dell'aristocrazia fondiaria romana né su quella della Chiesa cattolica, entrambe duramente colpite da espropriazioni e atti di persecuzione religiosa allo scopo di imporre il credo ariano. L'impero bizantino, al contrario, nei primi decenni del VI secolo si trovava in una situazione storica favorevole e Giustiniano colse al volo una disputa sorta sulla legittimità della successione di Gelimero al trono dei Vandali per inviare nel 533 un corpo di spedizione in Africa al comando del generale Belisario. Dopo appena un anno di operazioni che portarono alla decisiva cattura di Gelimero, l'imperatore Giustiniano nel 534 proclamava la propria vittoria e stabiliva l'immediata riorganizzazione dell'Africa. La Numidia fu affidata all'amministrazione civile di un praeses e a quella militare di un dux con sede a Cirta, ma nei fatti l'opera di riconquista e l'affermazione di una reale supremazia sul territorio era avvenuta in modo incompleto. Lo stesso Belisario, al quale era stato conferito il comando supremo dell'esercito in Africa, si era forse reso conto che il pericolo maggiore per la stabilità della provincia era rappresentato dalle incursioni maure se, come informa Procopio, si affrettò a costituire una sorta di cintura fortificata lungo i bordi settentrionali degli altipiani di Costantina.
I fatti gli diedero ragione e a partire dall'estate del 534 Iaudas (o Iabdas), regolo del potentato dell'Aurès, condusse praticamente indisturbato una serie di incursioni nella regione a sud di Cirta fino a quando, nell'estate dell'anno successivo, non intervenne il generale Solomone che nel frattempo aveva ricevuto le consegne del comando supremo. Il comandante bizantino riuscì a isolare Iaudas nel ristretto ambito del massiccio dell'Aurès grazie all'alleanza con i due regoli dell'Hodna, Orthaias, e della regione dei Nemenchas, Massonas, ma non poté sferrare l'attacco risolutivo per il sopravvenire della stagione invernale. Nel frattempo il malcontento strisciante all'interno dell'eterogeneo contingente di truppe greco in Africa sfociò in aperta rivolta con scontri e gravi episodi di violenza che non risparmiarono la Numidia dove nel 536 i soldati che avrebbero dovuto sbaragliare gli insorti asserragliati nella città di Gadiaufala, abbracciarono invece la causa della ribellione e tradirono i loro ufficiali. Nella gravità della situazione Giustiniano si affidò all'abilità diplomatica del patrizio Germanos, il quale, dopo aver blandito le truppe accogliendo le richieste dei soldati ed essersi assicurato almeno la non belligeranza da parte di Iaudas e di Orthaias, nella primavera del 537 mosse contro i ribelli che vennero definitivamente sconfitti presso Cellas Vatari in Numidia.
Tornato in Africa con la carica di prefetto del pretorio, Solomone poté finalmente organizzare l'attacco decisivo contro il potentato dell'Aurès e iniziò le operazioni nell'estate del 539. In un primo momento le sorti volsero a favore dei Mauri che accerchiarono nella piana di Bagai la divisione bizantina comandata da Guntarith, ma, prima che potessero avere la meglio, Solomone giunse in soccorso del suo generale e costrinse Iaudas alla ritirata. Presumibilmente il capo mauro si rifugiò nella regione settentrionale o centrale dell'Aurès poiché Procopio afferma che Solomone mosse al suo inseguimento partendo da Thamugadi, dopo avere devastato tutti i campi coltivati della piana circostante. Avuta ragione del suo nemico, che riuscì a riparare in Mauretania, il generale bizantino si dedicò alla pacificazione dell'Africa fino alla data della sua morte avvenuta nel 544.
Non tutte le opinioni sono concordi nel dare un peso documentario alle affermazioni di Procopio riguardo un'estensione nel corso del VI secolo dei confini amministrativi della Numidia sulla regione di Ippona e su quella di Haidra, mentre a ovest non è da escludere che Sétif fosse stata effettivamente inglobata nei territori della provincia. La volontà di restaurazione della passata prosperità più volte proclamata da Giustiniano si espresse in un nuovo impulso edilizio e nello sforzo di rioccupazione delle postazioni strategiche che già erano state romane. La vita amministrativa e civile rifiorì nelle città di Milev, Constantina, Tigisis e sulle strade venne rafforzata la sorveglianza con la costruzione o il restauro dei posti fortificati. Fra gli assi viari più importanti è da ricordare l'antica strada voluta dall'imperatore Adriano a nord dell'Aurès lungo la quale sorsero nuovi forti presso Bagai, Thamugadi, presumibilmente Lambesi e, più tardi, Mascula (Khenchela). Anche a ovest sorse un posto bizantino sulla strada per l'Hodna in prossimità di Thubunae e ancora nel VI secolo l'antico Burgus Speculatorius di Caracalla in prossimità delle gole di El Kantara era occupato da un generale mauro alleato.
Per il Sud si è spesso posta la questione sull'effettiva presenza militare dei Bizantini fino alle sponde settentrionali dei chott, nonostante il fatto che alcuni indizi archeologici depongano a favore di questa ipotesi e che le fonti letterarie attribuiscano a Giustiniano la costruzione della cinta fortificata di Badias e interventi a Midili (forse il sito moderno di Ain Mdila). Sono inoltre controversi due famosi frammenti epigrafici ritrovati a Thabudeos nei quali, secondo alcuni studiosi, si farebbe riferimento all'attività edilizia di Solomone, e ancora due ostraka da Negrine fornirebbero un'importante indicazione sulla presenza di un latifondo imperiale nella regione di Ad Maiores. È comunque plausibile proporre che il limes meridionale della Numidia in età bizantina ricalcasse grosso modo il tracciato della strada militare che correva a sud dei monti di Nemenchas e dell'Aurès e a nord del Chott Melrhir. La difesa e la sorveglianza di quest'area periferica vennero verosimilmente affidate ai limitanei e ai gentiles, questi ultimi reclutati fra la popolazione maura in cambio della concessione di terre da coltivare.
In un primo momento la Numidia rimase estranea alla nuova ondata di sollevazioni nel corso delle quali perse la vita lo stesso Solomone, ma nel 546 anche i popoli mauri del territorio di Badias insorsero e il comportamento ambiguo del duca della regione, Guntarith, fece precipitare la situazione. Nello svolgersi degli avvenimenti fu determinante per la vittoria dei Bizantini la fedeltà dimostrata al generale Giovanni Troglita da Iaudas, che nel frattempo aveva riacquistato la supremazia sul popolo mauro dell'Aurès, e da Koutzinas (Cusina), altro capo indigeno attestatosi, secondo alcuni studiosi, sull'altopiano di Costantina o, in alternativa, nella regione di Theveste. Nel 563 una nuova sollevazione venne provocata proprio dai figli di Koutzinas in seguito all'omicidio del loro padre, ma dovette trattarsi di un episodio isolato. Fra la fine del VI e l'inizio del VII secolo la lista redatta da Giorgio di Cipro elenca per la Numidia le città di Badias, Castra Bagai, Constantina, Milev, Sitifis, Tigisis, testimoniando in questo modo come all'indomani della costituzione dell'esarcato d'Africa la provincia manteneva in linea di massima l'assetto di età giustinianea.
La difficile situazione politica e religiosa creatasi intorno alla metà del VII secolo stava tuttavia preparando il terreno alle incursioni arabe e così nel 683 le città della Numidia meridionale si trovarono a fronteggiare l'attacco comandato dal condottiero Sidi Uqba ibn Nafi. Grazie alla strenua resistenza dei difensori mauri e greci Bagai e Lambesi non furono espugnate e anzi lo stesso Sidi Uqba venne ucciso dal capo mauro Kusaila che gli aveva teso un'imboscata nei pressi di Thabudeos. Il vuoto di potere che comunque venne a crearsi in seguito a queste vicende venne riempito dall'emergere delle forze indigene e l'ultima, strenua resistenza all'avanzata islamica fu opposta dai Jawara dell'Aurès che, guidati dalla loro regina al-Kahina (detta "la Profetessa"), riuscirono a tenere in scacco gli invasori fino alla tragica sconfitta e all'uccisione della loro sovrana nel 703.
Ch. Diehl, L'Afrique byzantine. Histoire de la domination byzantine en Afrique (533-709), Paris 1896; Ch. Courtois, Les Vandales et l'Afrique, Paris 1955; J. Desanges, Un témoignage peu connu de Procope sur la Numidie vandale et byzantine, in Byzantion, 33 (1963), pp. 41-67; F. Decret, L'Afrique manichéenne, Paris 1978; E. Fentress, Numidia and the Roman Army. Social, Military and Economic Aspects of the Frontier Zone, Oxford 1979; C. Lepelley, Les cités de l'Afrique romaine au Bas-Empire, I-II, Paris 1979-81; Id., Iuvenes et circoncellions. Les derniers sacrifices humains de l'Afrique antique, in AntAfr, 15 (1980), pp. 261-71; J. Durliat, Les dédicaces d'ouvrages de défense dans l'Afrique byzantine, Rome 1981; D. Pringle, The Defence of Byzantine Africa from Justinian to Arab conquest: an Account of the Military History and Archaeology of the African Provinces in the Sixth and Seventh Centuries, Oxford 1981; N. Duval, L'état actuel des recherches sur les fortifications de Justinien en Afrique, in CARB XXX (1983), pp. 149-204; A. Mastino, La ricerca epigrafica in Algeria (1973-1985), in Africa Romana III, pp. 113-66; C. Gebbia, Ancora sulle rivolte di Firmo e Gildone, ibid. V, pp. 117-29; P.-A. Février, Approches du Maghreb romain. Pouvoirs, différences et conflits, Aix-en-Provence 1989; C. Lepelley, Les sénateurs donatistes, in BAntFr, (1990), pp. 45-56; Y. Modéran, Koutzinas-Cusina. Recherches sur un Maure du VIe siècle, in Africa Romana VII, pp. 393-407; M.R. Cataudella, Motivi di rivolta sociale in Africa fra IV e V secolo?, ibid. VIII, pp. 331-43; F. Clover, The Late Roman West and the Vandals, Aldershot 1993; E. Fentress, La Numidia, in Storia di Roma, III. L'età tardoantica, 2. I luoghi e le culture, Torino 1993, pp. 351-62; F. Decret - M. Fantar, L'Afrique du Nord dans l'antiquité, Paris 19982; N. Francovich Onesti, I Vandali. Lingua e storia, Roma 2002.
di Danila Artizzu
Il posto romano di A.M. (od. Henchir Besseriani), nell'attuale Algeria, fu fondato per volere di Traiano fra il 104 e il 105 d.C. a sud dell'oasi di Negrine e del massiccio del Gebel Madjour, in posizione strategica sia in rapporto alla piana meridionale sia rispetto all'area montana dei Nemenchas e dei relativi corridoi d'accesso aperti dai corsi d'acqua.
Il forte era delimitato da una cortina muraria di perimetro quadrangolare, 110 × 170 m di lato, arrotondata agli spigoli e con accessi localizzati sui quattro lati; l'ingresso orientale e quello meridionale sembra avessero un apparato più monumentale. I ricognitori francesi all'inizio del XX secolo rilevarono anche quattro torri angolari aggettanti, oggi non più leggibili, da interpretarsi forse come un'addizione posteriore all'impianto originario. All'interno della cinta i principia si trovavano nell'intersezione fra la via praetoria e la via principalis e un acquedotto assicurava l'approvvigionamento idrico della guarnigione dalle sorgenti del Gebel Madjour. La comunità civile godeva alla fine del III sec. d.C. dello statuto di municipio, come testimonia l'arco a un fornice eretto nel 286/7 d.C. Non è da escludere, anche se è molto controversa, l'attribuzione a età bizantina di una seconda cinta muraria più ampia e di perimetro ellittico, che si sviluppava per una lunghezza di 1800 m ed era difesa da almeno una ventina di bastioni arrotondati. D'altra parte la presenza bizantina nella regione di A.M. è confermata da alcuni ostraka trovati nella località di Bir Trouch (Negrine), dove all'epoca doveva estendersi un latifondo imperiale, e da un tesoretto monetario, rinvenuto nell'oasi di Negrine a nord del sito, i cui reperti coprono un arco cronologico dal III sec. d.C. all'età vandalica, arrivando fino all'inizio del VI secolo.
S. Gsell, Les monuments antiques de l'Algérie, Paris 1901, pp. 86-87; Id., Atlas archéologique de l'Algérie, Alger - Paris 1902-11, f. 50, 152; F. de Vivie de Régie, L'Henchir Besseriani. Vestiges de l'occupation romaine en limite de la Numidie orientale, in RAfr, 81 (1937), pp. 475-502; E. Fentress, Numidia and the Roman Army. Social, Military and Economic Aspects of the Frontier Zone, Oxford 1979, p. 97; C. Lepelley, Les cités de l'Afrique romaine au Bas-Empire, II, Paris 1981, pp. 429-31; D. Pringle, The Defence of Byzantine Africa from Justinian to Arab conquest: an Account of the Military History and Archaeology of the African Provinces in the Sixth and Seventh Centuries, Oxford 1981, p. 289; S. Deloum, L'économie monétaire de l'Afrique du Nord: les trésors monétaires des Ve et VIe siècles ap. J.C., in Africa Romana VII, pp. 963-64.
di Danila Artizzu
La Tabula Peutingeriana localizza la statio di Ad Badias sull'itinerario fra Thabudeos (od. Thouda) e Ad Maiores (od. Henchir Besseriani), nell'attuale Algeria. Il centro si trovava dunque lungo la strada strategica che, costeggiando la vallata del Wadi el-Arab, seguiva la linea pedemontana dell'Aurès ed era nella posizione più favorevole per il controllo del punto di diramazione della stessa verso nord in direzione di Mascula (Khenchela) e della Numidia settentrionale.
L'originario posto di guarnigione è forse menzionato in un graffito scoperto presso il campo militare di Gemellae e nel III sec. d.C. il nucleo civile godeva dello statuto di municipio romano. Fra la fine del IV e l'inizio del V secolo la Notitia dignitatum indica la città come quartier generale del praepositus limitis Bazensis per il controllo della frontiera meridionale numidica. Il cristianesimo si manifestò precocemente nella vita del centro che ebbe un suo vescovo già dal 256 e fino al termine del V sec. d.C. In età bizantina, secondo Procopio, fu una delle città fortificate dall'imperatore Giustiniano e Corippo nel Iohannis seu de bellis Libycis ne esaltò la prosperità dei campi, confermata poi dalle fonti arabe che al proposito ricordavano anche come B. fosse difesa da due fortini quando, nel 683, venne attaccata da Sidi Uqba ibn Nafi. L'agglomerato moderno si è sviluppato sui resti antichi dei quali già all'epoca delle prime esplorazioni archeologiche restavano riconoscibili solo i resti di opere idrauliche e brevi tratti delle mura urbiche, difese da torri circolari. Di recente sono state indagate le tracce di una struttura fortificata quadrangolare di 125 × 110 m di lato che troverebbe confronti nello stesso ambito regionale con i forti di Thouda e di Ain Mdila, analogamente costruiti mediante l'impiego di materiale laterizio.
S. Gsell, Atlas archéologique de l'Algérie, Alger - Paris 1902-11, f. 49, 51; E. Fentress, Numidia and the Roman Army. Social, Military and Economic Aspects of the Frontier Zone, Oxford 1979; D. Pringle, The Defence of Byzantine Africa from Justinian to Arab Conquest: an Account of the Military History and Archaeology of the African Provinces in the Sixth and Seventh Centuries, Oxford 1981; P. Morizot, A propos des limites méridionales de la Numidie byzantine, in AntAfr, 35 (1999), pp. 151-67.
di Danila Artizzu
La moderna città algerina di C. si è sovrapposta e ha obliterato le antiche rovine della città romana di Cirta che in questo modo è poco conosciuta dal punto di vista monumentale malgrado la sua fama e la sua lunghissima storia.
Sorta su un altopiano naturalmente difeso dalla profonda gola scavata dal Wadi Rummel sui lati settentrionale e orientale e da strapiombi a ovest e a sud, la posizione strategica della capitale dei re numidi non sfuggì a Sallustio che ne sottolineò l'inespugnabilità. Dopo la vittoria di Cesare a Tapso il condottiero romano cedette Cirta e i territori di pertinenza all'avventuriero Sittio che vi si installò insieme ai suoi sostenitori. Successivamente divenne colonia romana sotto Augusto con il nome di Colonia Iulia Iuvenalis Honoris et Virtutis Cirta e fino al regno di Adriano fu sottoposta all'autorità del proconsole d'Africa. Passata successivamente di giurisdizione al legato d'Africa di stanza a Lambesi godette comunque fino al III secolo di uno statuto particolare che ne faceva il centro amministrativo della Respublica quattuor coloniarum Cirtensium e che annoverava, oltre Cirta, le città di Rusicade, Milev, Chullu. Nel 297 con la ristrutturazione provinciale voluta da Diocleziano fu promossa a capitale della Numidia Cirtensis e poco dopo, nel 308, dovette subire l'assedio e alcune distruzioni nell'ambito delle vicende legate all'usurpazione di Domizio Alessandro. Avuta la meglio Costantino, il nuovo imperatore restaurò e abbellì gli edifici di Cirta che per suo volere fu rinominata Constantina e divenne la capitale della riunificata provincia di Numidia. Rimasta inizialmente estranea alla dominazione vandalica fu accorpata al regno di Genserico nel 455 e dopo la riconquista bizantina divenne la sede del dux Numidiae.
I maggiori monumenti della città romana sono conosciuti attraverso la testimonianza degli abbondanti reperti epigrafici piuttosto che direttamente dalle vestigia archeologiche, alcune delle quali indagate fra la metà del XIX e l'inizio del XX secolo. Fra le testimonianze antecedenti il periodo romano merita una menzione il santuario extraurbano di el-Hofra dove al primitivo culto delle divinità puniche Baal e Tanit si sostituì un secondo impianto dedicato a Kronos/Saturno e Caelestis, con un evidente fenomeno di sincretismo dovuto alla presenza dei nuovi coloni di cultura romana. Un quartiere preromano è stato scoperto presso Sidi Msid, a nord-est della città, e un piccolo santuario è stato localizzato presso Sidi Mimun. Il Capitolium doveva trovarsi sul sito poi occupato, in età coloniale, dalla Casbah, dove gli archeologi francesi segnalarono la presenza di due templi uno dei quali successivamente reimpiegato da un edificio di culto cristiano a tre navate. Il monumento venne ascritto all'età bizantina così come il tratto di cortina muraria che circondava lo stesso quartiere e che si individuava, in maniera discontinua, lungo il perimetro dell'altopiano. Nell'angolo a nord-est si estendeva un grande impianto di cisterne che venivano alimentate dall'acquedotto di Sidi Mabrouk. Un altro acquedotto captava l'acqua della sorgente di Ras el-Ain Bou Merzoug situata 35 km a sud della città. Un arco a un solo fornice venne eretto poco dopo il 211 dal magistrato locale Minucio Natale in onore di Caracalla sulla via che probabilmente conduceva al foro. Nello stesso circondario un altro arco tetrapilo fu costruito fra il 362 e il 363 da Claudius Avitianus contestualmente alla fondazione di una basilica Constantiana.
Per quanto riguarda il foro, i documenti epigrafici informano che era circondato da portici e preceduto da una via abbellita da numerose statue. Un edificio termale, il balineum Pacatianum, venne realizzato nel II sec. d.C. e i suoi ruderi sono stati localizzati a est della Casbah, mentre alcune epigrafi di IV secolo sembrano alludere a [thermas Consta]ntinian[as]. Fino al 1857 era ancora in opera il grande ponte romano, descritto anche dalle fonti arabe medievali, che permetteva di attraversare il Wadi Rummel per raggiungere la capitale; sono segnalati inoltre i resti di altri due ponti. Una villa extraurbana di IV secolo, individuata a sud di C., così come quelle scoperte presso Koudiat Ati e Sidi Msid con le lussuose decorazioni dei rivestimenti musivi testimoniano l'alto tenore di vita raggiunto dai notabili della città. Il cristianesimo si affermò precocemente e Cirta è attestata già dal 256 come sede episcopale; tuttavia ciò che si conosce degli edifici di culto cristiano è per lo più desunto ancora una volta dalle fonti letterarie, come le Gesta apud Zenophilum consularem, ed epigrafiche, che per l'età bizantina testimoniano di un culto tributato a dei martyres Hortenses. Il credo donatista dovette affermarsi in modo deciso tanto che nel 330 gli scismatici riuscirono a impossessarsi della basilica cattolica e nel 396 si tenne a C. un concilio di vescovi donatisti. Anche in età vandalica la città fu sede di due vescovi cattolici sotto i regni di Genserico e Unnerico; conservò la cattedra episcopale fino al termine del dominio bizantino.
Bibliografia
C. Vars, Cirta, Paris 1895; S. Gsell, Les monuments antiques de l'Algérie, I-II, Paris 1901, passim; Id., Atlas archéologique de l'Algérie, Paris - Alger 1902-11, f. 17, 126 (e addenda); H.G. Pflaum, Inscriptions latines de l'Algérie, II, Paris 1957, pp. 40-41; M. Leglay, Saturne africain. Monuments, II, Paris 1966, pp. 22-31; A. Berthier, Du mot Numidia accolé aux noms antiques de Constantine, in AntAfr, 3 (1969), pp. 55-67; C. Lepelley, Les cités de l'Afrique romaine au Bas-Empire, II, Paris 1981, pp. 383-99; A. Berthier, La mosaïque de Sidi M'cid (Constantine), in L'Aquitaine. Actes du 104e Congrès National des Sociétés Savantes (Bordeaux, 1979), Paris 1982, pp. 87-97; M. Corbier, L'évergetisme de l'eau en Afrique: Gargilianus et l'aqueduc de Cirta, in Africa Romana III, pp. 275-85; J. Desanges, La Cirta de Salluste et celle de Fronton, ibid. IV, pp. 133-35; C. Rossignoli, Templi periurbani di Africa Proconsolare e Numidia: alcuni esempi, ibid. X, pp. 579-80; Y. Duval, Le gouverneur de Numidie en sa capitale. Le lieu et les acteurs du procès de l'évêque de Cirta en 320, in AntTard, 6 (1998), pp. 193-207; F. Lovotti, L'arco di Cirta: considerazioni sulle epigrafi onorarie, in Africa Romana XIII, pp. 1603-612; S. Conti, Attività edilizia e restauri nei centri africani durante il regno dell'imperatore Giuliano, ibid. XV, pp. 1681-692, in part. p. 1688.
di Danila Artizzu
Localizzata dalla Tabula Peutingeriana con il toponimo di Gemellas sulla strada fra i due centri di Ad Piscinam e Thabudeos l'installazione militare romana di G. (od. el-Kasbat), nell'attuale Algeria, sarebbe sorta, secondo alcuni, sopra l'antico centro getulo di Milgis Gemella oppidum citato da Plinio.
Il campo fortificato fu costruito nel 132 d.C. da un distaccamento della legio III Augusta, ma già intorno al 126 stazionava sul posto la Cohors I Chalcidenorum. La guarnigione fu installata su una terrazza naturale al riparo dalle piene del Wadi Djedi e al tempo stesso in posizione dominante su un ampio tratto dell'antico fossatum della Seguia di Bent el-Krass. L'impianto planimetrico seguiva lo schema di analoghe realizzazioni datate fra l'età flavia e il regno dei Severi, con un perimetro quadrangolare, di 150 × 190 m, dagli spigoli arrotondati e difeso da torri interne. Su ogni lato si aprivano quattro accessi e all'esterno si trovavano gli impianti annessi: le terme, un anfiteatro in parte ricavato dalla roccia naturale e in parte costruito in mattoni crudi, un piccolo tempio dedicato ai Dii Campestres. Attorno al campo si sviluppò il centro civile anch'esso delimitato da un perimetro murario lungo 2800 m, a sud del quale la città continuò a svilupparsi. Ottenuto il rango di municipio latino contemporaneamente a Lambesi, la città di G. è ancora citata nella Notitia dignitatum come sede del praepositus limitis Gemellensis. Per quanto concerne la diffusione del cristianesimo il Martirologio Geronimiano riporta alle calende di febbraio alcuni martiri di Ad Gemellas e inoltre un episcopus Gemellensis partecipò alla conferenza di Cartagine del 411. Tuttavia la mancanza di ulteriori specificazioni da parte delle fonti e la presenza di casi di omonimia in Africa non permettono una sicura identificazione del sito (o dei siti) ai quali tali notizie sono da riferirsi.
J. Baradez, Fossatum Africae. Recherches aériennes sur l'organisation des confins sahariens à l'époque romaine, Paris 1949, pp. 100-104; J. Baradez, Deux amphitéâtres inédits du "limes" de Numidie: Gemellae et Mesarfelta, in Mélanges d'archéologie, d'épigraphie et d'histoire offerts à Jérôme Carcopino, Paris 1966, pp. 55-70; P. Trousset, Le camp de Gemellae sur le limes de Numidie d'après les fouilles de Colonel Baradez, 1947-1950, in J. Fitz (ed.), Limes. Akten des 11. Internationalen Limeskongresses (Székesfehérvár, 30/8-6/9/1976), Budapest 1977, pp. 559-70; E. Fentress, Numidia and the Roman Army. Social, Military and Economic Aspects of the Frontier Zone, Oxford 1979, pp. 83-84; M.P. Speidel, The Shrine of the Dii Campestres at Gemellae, in AntAfr, 27 (1991), pp. 111-18.
di Danila Artizzu
Il porto marittimo di H.R. (ar. al-῾Annāba; od. Bona), nell'attuale Algeria, sorse in un'ottima posizione, al riparo dai venti e presso la foce di uno dei due fiumi Seybouse e Boudjemaa che irrigavano un ricco entroterra costellato di centri come Calama, Thagaste, Tipasa e Thubursicu Numidarum.
A questi fattori si aggiunse anche un'efficiente rete viaria che collegava la città sia con i maggiori nodi costieri, sia con i centri dell'interno quali Theveste. Anche se non si escludono più lontane ascendenze fenicie, le origini dell'insediamento si possono far risalire al periodo punico e in età romana l'antica città ottenne con Augusto il rango di municipio per divenire poi colonia onoraria forse sotto i Flavi. Analogamente a tutti i centri romani che nel Mediterraneo occidentale andarono a sovrapporsi a realtà urbane preesistenti, anche l'impianto planimetrico di Ippona non conobbe una vera e propria regolarizzazione e continuò a svilupparsi dall'entroterra al mare fra le due colline di S. Agostino e di Gharf el Artram. Sulla collina di S. Agostino si ergeva il tempio di Saturno e lungo il fianco orientale furono anche individuate alcune sepolture di età punica; il foro romano situato alle pendici dello stesso rilievo, era caratterizzato da un'estesa piazza centrale orientata in senso nord-sud che raggiungeva un perimetro di 76 × 43 m. I lati della piazza erano delimitati da portici i cui resti sono stati rinvenuti lungo i lati occidentale e orientale dove si trovavano anche degli ambienti finemente decorati. Il rinvenimento di un'epigrafe che riporta il nome di C. Paccio Africano, proconsole d'Africa nel 78 d.C., fissa la datazione a età vespasianea, nel corso della quale fu forse realizzato anche il macellum che occupò un'intera insula a est del foro. Poco lontano da quest'ultimo fu costruito, sfruttando in parte le pendici dello stesso colle di S. Agostino, un teatro che ebbe proporzioni tali da essere giudicato uno dei più grandi finora noti in Africa; le decorazioni scultoree e i pannelli che ne abbellivano la struttura sono di alto valore artistico. Proseguendo in direzione nord, verso il mare, si trovava il mercato, il cui impianto conosciuto è quello risalente al IV sec. d.C., che però andò a sovrapporsi a strutture più antiche.
Anche il quartiere cristiano, a est del mercato, riutilizzò e adattò variamente edifici più antichi cosicché la grande basilica a tre navate, cosiddetta "di S. Agostino" e datata intorno al IV secolo, insisteva su cisterne, che dall'aspetto si direbbero preromane, e su un'unità abitativa che in seguito fu reimpiegata come spazio sepolcrale. D'altra parte l'impianto battisteriale prossimo alla basilica tradiva chiaramente la sua originaria destinazione domestica per via delle decorazioni musive che raffiguravano motivi assolutamente estranei alla funzione liturgica rivestita dall'edificio. Tutto il quartiere a mare subì vari rimaneggiamenti apprezzabili soprattutto nelle sovrapposizioni dei rivestimenti musivi che nelle varie fasi abbellirono le abitazioni. Altri lacerti monumentali della città, di cui sono state indagate solo minime porzioni, sono una sorta di patio abbellito da colonnati, che non sembra essere, come si era supposto, pertinente a una basilica a cinque navate, e la cosiddetta platea vetus, una corte lastricata in marmo che faceva parte di un complesso templare eretto nel I secolo. Dietro la platea si sviluppò un esteso edificio termale di età severiana.
Nella storia del cristianesimo il nome della città è strettamente legato alla prestigiosa figura di s. Agostino che vi occupò per lungo tempo la cattedra episcopale, per la quale le prime attestazioni risalgono al concilio di Cartagine del 256. Gli scritti del famoso vescovo, oltreché offrire un prezioso spaccato della cristianità africana fra il IV e il V secolo, forniscono anche utili informazioni su alcuni aspetti monumentali della Ippona cristiana che vantava una basilica maior, una basilica Leontiana, una basilica donatista, due chiese dedicate al culto dei martiri e infine una memoria dedicata a s. Teogene. S. Agostino fu anche promotore di un modello di vita monastico per gli ecclesiastici e da lui si ha notizia di alcuni monasteri sia maschili sia femminili sorti nella città o negli immediati dintorni. Nel 430 H.R. fu stretta in assedio dai Vandali e resistette per 14 mesi; dopo la caduta i nuovi dominatori, contrariamente alla sorte che riservarono alle altre città, non distrussero le mura cittadine e la occuparono fino alle operazioni militari del 533 comandate dal generale bizantino Belisario che la riconquistò senza grande fatica. Ancora in età bizantina è attestata come sede episcopale e per quanto riguarda le vicende legate alla conquista musulmana, non sembrerebbe che la città sia stata teatro di scontri. Successivamente, in un arco cronologico che si può fissare fra il X e l'XI secolo iniziò quel processo che determinò l'abbandono dell'antica città per la nuova fondazione che lo storico arabo al-Bakri chiamava "la nuova Ippona" (Būna al-Ḥadītha).
S. Gsell, Atlas archéologique de l'Algérie, Paris - Alger 1902-11, f. 9, 59; E. Marec, Hippone la Royale, antique Hippo Regius, Alger 1954; Id., Le Forum d'Hippone, in Libyca, 2 (1954), pp. 363-414; J.M. Lassère, Recherches récentes sur Hippo Regius, in CahTun, 19, 1-2 (1971), pp. 245-50; P.-A. Février, Urbanisation et urbanisme de l'Afrique Romaine, in ANRW, II, 10, 2, 1982, p. 391; C. Rossignoli, Templi periurbani di Africa Proconsolare e Numidia: alcuni esempi, in Africa Romana X, pp. 567-68; K. Mansouri, Réflexions sur les activités portuaires d'Hippo Regius (Hippone-Annaba) pendant l'Antiquité, ibid. XIV, pp. 509-24; S. Dahmani, Sites et plan d'urbanisme de Bûna au Moyen Âge, in M. Khanoussi (ed.), L'Afrique du Nord antique et médiévale: protohistoire, les cités de l'Afrique du Nord, fouilles et prospections récentes. VIIIe Colloque International sur l'histoire et l'archéologie de l'Afrique du Nord (1er Colloque International sur l'histoire et l'archéologie du Maghreb) (Tabarka, 8-13 mai 2000), Tunis 2003, pp. 255-68.
di Danila Artizzu
La città di L., nell'attuale Algeria, trae le proprie origini dal campo militare che Tito fra l'80 e l'81 d.C. volle installare sulle pendici settentrionali del complesso montuoso aurasiano a controllo del Wadi Tazzoult (il cd. Camp de l'Est).
Successivamente, sotto Traiano o al più tardi sotto Adriano, questo primo nucleo occupato da un distaccamento della legio III Augusta ospitò tutta la legione e il campo fu promosso a comando militare dell'intera regione meridionale dell'Africa romana. Nel 128, anno del viaggio in Africa di Adriano, forse già esisteva il grande campo permanente costruito nella piana a sud del Wadi Tazzoult e nella stessa occasione ne venne costruito anche un terzo a scopo di esercitazione dimostrativa (il cd. Camp de l'Ouest) come pare di evincere dal fatto che nessuna prova archeologica ne attesta l'utilizzo. La planimetria originaria del cosiddetto Grand Camp è stata per una parte sconvolta dalla costruzione, in epoca coloniale, di un penitenziario, ma è comunque possibile ricostruire una cinta muraria rettangolare dagli spigoli arrotondati (500 × 420 m), con quattro accessi turriti e altre torri lungo il perimetro interno. Al centro del campo era il complesso del praetorium al quale si accedeva dopo avere attraversato un monumentale propileo quadrifronte con un vasto ambiente interno rettangolare. Il suo aspetto attuale è quello che ebbe dopo la metà del III sec. d.C., quando venne ricostruito in seguito al terremoto del 267. I principia si articolavano in un cortile porticato su tre lati lungo i quali si apriva una serie di ambienti destinati a vari usi di servizio come l'armeria. Sul lato sud, dopo aver superato un dislivello di due scalini, si accedeva a un'altra corte rettangolare divisa in tre navate da colonne. Sulla navata meridionale si aprivano alcuni ambienti absidati fra i quali la cappella delle insegne, il tabularium legionis, il tabularium principis e nel sotterraneo dell'ambiente principale trovava sede l'aerarium.
All'interno del complesso militare e a est dei principia venne eretto, probabilmente in età antonina, un edificio termale poi restaurato da Settimio Severo e arricchito di pitture parietali e rivestimenti musivi. Intorno al posto militare sorse col tempo un fiorente centro civile che in una data imprecisata ottenne insieme a Gemellae il diritto latino per poi essere promosso a municipio da Commodo o Marco Aurelio e infine ottenere, sotto Settimio Severo, il rango di colonia. I collegamenti fra il campo militare e l'insediamento civile erano assicurati dalla via Septimiana che all'ingresso della città passava sotto un arco a tre fornici eretto da Settimio Severo. Nel suo tracciato urbano la strada proseguiva in direzione del tempio di Esculapio trasformandosi nell'ultimo tratto in una sorta di via sacra, sul fondo della quale una scalinata permetteva l'accesso a un emiciclo dove si affacciava la cella absidata, dedicata al culto del dio guaritore e della dea Salus. Indicativamente il foro doveva estendersi fra il tempio di Esculapio e l'insieme del Capitolium che rispetto all'usuale planimetria a cella tripartita presentava invece un tempio a fronte unica colonnata e a doppio sacello sul fondo. Gli era attigua e perpendicolare una seconda corte porticata con al suo interno un altro edificio di culto. A nord-est del tempio di Esculapio si ergeva il Septizonium, un impianto monumentale legato al culto delle Ninfe e all'approvvigionamento idrico della città che era assicurato da numerose condotte sicuramente alimentate dalle due sorgenti, quella di Ain Boubenana e quella di Ain Drinn, presso la quale fu costruito anche un tempio dedicato a Nettuno.
A nord-est del centro civile e in un'area compresa fra questo e la guarnigione militare è stato localizzato l'anfiteatro. Ancora a est del campo legionario si estendeva una vasta necropoli alla cui periferia sorse un nucleo cultuale cristiano incentrato su due sepolture venerate. Altre aree funerarie e mausolei si concentravano soprattutto lungo l'asse viario diretto verso Verecunda e Thamugadi e sulla strada settentrionale per Cirta. Le fonti attestano l'affermazione del cristianesimo in tempi precoci: un vescovo della città partecipò al concilio di Cartagine del 256 e nel 259 si consumò il dramma dei martiri Giacomo e Mariano e dei loro compagni. Nel concilio del 411 non risulta la presenza di alcun vescovo lambesitano e in realtà le altre vestigia archeologiche di ambito cristiano si riducono a un testo epigrafico rinvenuto nei pressi del foro. Riguardo le fasi più tarde è confermato dalle fonti e dai ritrovamenti epigrafici che i Bizantini occuparono il sito e infatti sono stati individuati i ruderi di un forte a sud-est del campo militare romano. Una tradizione storica consolidata racconta che nel 683 il condottiero Sidi Uqba ibn Nafi sferrò un attacco senza successo contro la città. Va però ricordato come recentemente qualche studioso abbia avanzato dei dubbi sull'identificazione del teatro delle operazioni con L. che forse è ancora ricordata con il toponimo di Dar al-Mulouk dalle fonti arabe del X secolo.
Bibliografia
R. Cagnat, Le musée de Lambèse, Paris 1895; S. Gsell, Les monuments antiques de l'Algérie, I-II, Paris 1901, passim; Id., Atlas archéologique de l'Algérie, Paris - Alger 1902-11, f. 27, 223-24; M. Janon, Recherches à Lambèse I et II, in AntAfr, 7 (1973), pp. 193-254; M. Janon - J.-C. Golvin, L'amphithéâtre de Lambèse d'après les documents anciens, in BAParis, 12-14 (1976-78), pp. 188-91; E. Fentress, Numidia and the Roman Army. Social, Military and Economic Aspects of the Frontier Zone, Oxford 1979, pp. 94-96; C. Lepelley, Les cités de l'Afrique romaine au Bas-Empire, II, Paris 1981, pp. 416-25; M. Janon, Recherches à Lambèse III, in AntAfr, 21 (1985), pp. 35-102; Y. Duval, Le mythe de Lambèse: à propos de la bataille livrée par ῾Uqba en 683, in BAParis, n.s., 24 (1993-95), pp. 227-28; Ead., Lambèse chrétienne. La gloire et l'oubli. De la Numidie romaine à l'Ifrîqiya, Paris 1995; N. Benseddik, Lambaesis (Lambèse) un camp, un sanctuaire. Mais où était la ville?, in M. Khanoussi (ed.), L'Afrique du Nord antique et médiévale: protohistoire, les cités de l'Afrique du Nord, fouilles et prospections récentes. VIIIe Colloque International sur l'histoire et l'archéologie de l'Afrique du Nord (1er Colloque International sur l'histoire et l'archéologie du Maghreb) (Tabarka, 8-13 mai 2000), Tunis 2003, pp. 165-77.
di Danila Artizzu
La Colonia Marciana Traiana Thamugadi (od. Timgad), in Algeria, venne fondata nel 100 d.C. nell'ottica di un progetto a vasto raggio che con la costruzione del campo militare di Lambesi aveva avanzato verso ovest i confini di Roma in Africa e al tempo stesso non trascurava di creare le condizioni umane, economiche e sociali necessarie per facilitare la "romanizzazione" di territori dal tessuto demografico rarefatto.
Solo l'origine libica del nome lascia supporre una qualche preesistenza indigena che non è tradita dall'impianto planimetrico della colonia perfettamente aderente ai canoni e impostato, al momento della fondazione, su una pianta quadrata regolare. Il cardo e il decumanus costituivano rispettivamente il tracciato urbano della via Theveste-Lambesi e della strada per Cirta che si concludeva presso l'ingresso del foro. Quest'ultimo constava di un'area rettangolare delimitata da un porticato e da quattro ordini di colonne corinzie, la cui piazza centrale era ornata da numerose statue onorarie. Dietro il porticato si aprivano i principali edifici pubblici come la basilica giudiziaria sul lato est e la curia a ovest mentre a sud si trovavano forse alcune botteghe. Il teatro fu costruito a sud del foro sfruttando la presenza di un rialzo naturale del terreno e poteva accogliere un pubblico stimato intorno alle 3000-3500 unità; l'epigrafe dedicatoria posta sul portico posteriore offre come termine cronologico il regno di Marco Aurelio e Lucio Vero. Il mercato cittadino, caratterizzato da una particolare planimetria impostata sull'iterazione di linee curve in due esedre, era al pari del foro affacciato sul decumanus ed era situato a est/nord-est del teatro. La biblioteca pubblica, fondata grazie all'evergetismo di M. Iulius Flavius Quintianus Rogatianus, si localizzava ugualmente nei quartieri a nord del teatro e del foro.
In seguito a un forte impulso edilizio, verificatosi a partire dalla fine del II sec. d.C., la città nel corso del III sec. d.C. si espanse al di là della propria cortina difensiva e si sviluppò soprattutto in direzione sud/sud-ovest adattandosi alla rete viaria preesistente alla sua fondazione cosicché lo stesso Capitolium fu costruito senza rispettare l'orientamento del reticolo originario e al di fuori di questo. Il complesso capitolino si ergeva su un alto podio accessibile attraverso una gradinata che conduceva alla piattaforma dove, all'interno di una corte ornata di colonne su tutti i lati tranne che su quello di fondo, si trovava il tempio dalla cella canonicamente tripartita. La piattaforma era circondata da portici che nel 365 d.C. furono restaurati per volere degli imperatori Valentiniano e Valente. È probabilmente riferibile all'inizio del III secolo l'arrangiamento ad arco con tre aperture della porta cittadina occidentale, dove, al termine del restauro, fu rimessa in opera l'epigrafe di fondazione posta dal legato di Traiano Munazio Gallo. Sempre nel corso del III secolo sorse nel nuovo quartiere meridionale un secondo mercato per volere di M. Plozio Fausto Serzio e della consorte Cornelia Valentina Tucciana Serzia. Di tutti gli impianti termali individuati sono particolarmente monumentali le cosiddette Grandi Terme Settentrionali, che ripetevano lo schema tipico di analoghi edifici ad asse centrale, ma con l'ingresso principale non sulla fronte bensì sul lato orientale. Le Grandi Terme Meridionali erano invece caratterizzate da un impianto alquanto irregolare e da un cortile a esedra porticato. Sono inoltre da ricordare le Terme dei Filadelfi, localizzate a ovest delle Grandi Terme Settentrionali, decorate con il bel mosaico raffigurante Giove e Antiope.
In rapporto alla diffusione del cristianesimo, Th. è attestata dalle fonti come sede episcopale già dal 256 d.C. e i suoi due vescovi donatisti, Ottato e il successore Gaudenzio, ebbero, fra la fine del IV secolo e il 420, un ruolo da protagonisti negli eventi legati alla rivolta di Gildone e all'opposizione contro i cattolici. La basilica di Ottato è stata riconosciuta nel quartiere occidentale della città e si tratta di un edificio a tre navate con l'ingresso a nord-ovest preceduto da un atrio quadrangolare; fra gli annessi alla basilica si distinguono una cappella absidata con cripta, una casa e un battistero riccamente decorato con mosaici. Altri edifici di culto cristiani sono stati indagati nei quartieri settentrionale, nord-occidentale e meridionale e una vasta necropoli è stata individuata lungo il segmento sud-occidentale della via per Lambesi. Nel corso degli avvenimenti che portarono alla fine del regno vandalico Th. cadde sotto il controllo delle tribù indigene e il suo territorio fu anche teatro di devastazioni da parte dei soldati bizantini posti all'inseguimento del regolo mauro Iaudas. Immediatamente dopo la riconquista Solomone, per ordine di Giustiniano, fece costruire una grande fortezza nella porzione meridionale della città, dove andò a intercettare e in parte obliterare il santuario dell'Aqua Septimiana Felix, uno dei più imponenti complessi sacrali conosciuti dell'Africa del Nord. Esteso su una superficie di circa 7000 m2, esso era dedicato al culto delle acque che veniva associato in modo inusuale alle figure divine della dea Africa, di Esculapio e di Serapide. Proprio la presenza di una vasta piscina nel sacrario determinò la scelta del sito da parte dei Bizantini che la utilizzarono come riserva d'acqua e intorno ad essa costruirono il forte che occupa la porzione meridionale del santuario dell'Aqua Septimiana Felix. La guarnigione bizantina era articolata su una pianta rettangolare con quattro torri agli angoli e altre quattro al centro di ogni lato della cortina muraria. All'interno i quartieri occidentali erano riservati allo stato maggiore, mentre a est erano disposte le stalle e gli alloggiamenti della truppa. Sempre nella porzione occidentale furono costruiti una cappella, un piccolo impianto termale e una piazza dove probabilmente si tenevano le adunate. Poco prima della conclusione della parentesi bizantina si ha ancora la testimonianza di attività edilizia con la costruzione, nel 645 d.C., di una cappella a sud-ovest del forte bizantino per volere di un certo Ioannes dux di Tigisis.
S. Gsell, Atlas archéologique de l'Algérie, Paris - Alger 1902-11, f. 27, 255; Ch. Courtois, Timgad. Antique Thamugadi, Alger 1951; J. Lassus, Une opération immobilière à Timgad, in R. Chevallier (ed.), Mélanges d'archéologie et d'histoire offerts à André Piganiol, III, Paris 1966, pp. 1221-231; S. Germain, Les mosaïques de Timgad, Paris 1969; J. Lassus, Visite à Timgad, Alger 1969; P. Romanelli, L'arco di Traiano a Timgad. Una ipotesi, in P. Ducrey et al., Mélanges d'histoire ancienne et d'archéologie offerts à Paul Collart, Losanna 1976, pp. 317-21; A. Chastagnol, L'album municipal de Timgad, Bonn 1978; E. Fentress, Numidia and the Roman Army. Social, Military and Economic Aspects of the Frontier Zone, Oxford 1979, pp. 126-32; Y. Le Bohec, Timgad, la Numidie et l'armée romaine. A propos du livre d'E. Fentress, in BAParis, 15-16, B (1979-80), pp. 105-20; J. Lassus, La forteresse byzantine de Thamugadi, Paris 1981; C. Lepelley, Les cités de l'Afrique romaine au Bas-Empire, II, Paris 1981, pp. 444-76; M. Leglay, Un centre de syncrétisme en Afrique: Thamugadi de Numidie, in Africa Romana VIII, pp. 67-78; A. Guerbabi, Chronométrie et architecture antique. Le gnomon du forum de Thamugadi, ibid. X, pp. 359-402; P. Morizot, Timgad et son territoire, in L'Afrique, la Gaule, la religion à l'époque romaine. Mélanges à la mémoire de Marcel Le Glay, Bruxelles 1994, pp. 226-43; P. Salama, Entrées et circulation dans Timgad (Étude préliminaire), in Africa Romana X, pp. 347-57; C. Briand-Ponsart, Élites et constructions urbaines à Thamugadi au IIe siècle apr. J.C., in M. Khanoussi (ed.), L'Afrique du Nord antique et médiévale: protohistoire, les cités de l'Afrique du Nord, fouilles et prospections récentes. VIIIe Colloque International sur l'histoire et l'archéologie de l'Afrique du Nord (1er Colloque International sur l'histoire et l'archéologie du Maghreb) (Tabarka, 8-13 mai 2000), Tunis 2003, pp. 181-97; P. Barresi, L'unità di misura usata nelle fortificazioni bizantine in Africa, in Africa Romana XV, pp. 757-76, in part. pp. 764-66.
di Danila Artizzu
L'antichità delle origini di Th. (lat. Theveste, Thebeste; od. Tebessa), in Algeria, è confermata archeologicamente dai ritrovamenti di utensili litici preistorici e dall'individuazione di rovine e di sepolture risalenti al IV-III sec. a.C. avvenuti nel territorio immediatamente circostante la città, per la quale le fonti antiche rivendicavano addirittura una mitica fondazione greca.
Situata ai piedi del Gebel Osmor, la sua posizione strategica di passaggio fra la regione del Tell e quella meridionale predesertica non tardò a suscitare l'interesse da parte romana; nel 75 d.C. la legio III Augusta spostò i propri quartieri da Ammaedara a Th. e subito si premurò di aprire un asse viario diretto che collegasse il nuovo campo con il porto di Hippo Regius. Altre due arterie importanti dal punto di vista militare e che facevano capo a Th. erano quella diretta ad Ammaedara e di lì verso Cartagine e l'altra in direzione di Thelepte e dei centri meridionali di Capsa e Tacapae. Sottoposta al comando del legato militare sotto Domiziano, passò amministrativamente, già prima di Diocleziano, dalla Numidia alla Proconsularis. Il centro moderno conserva ancora l'impronta dell'impianto planimetrico antico, soprattutto nel reticolo viario, e così è stato possibile individuare l'area del foro, localizzare il teatro, l'anfiteatro e un edificio termale, ormai ridotti a pochi ruderi, e seguire la linea dell'acquedotto che si alimentava dalla sorgente di Ain el-Bled a est della città. Uno dei monumenti meglio conservati è l'arco tetrapilo di Caracalla che in età bizantina conobbe un riutilizzo particolare come porta settentrionale della cinta muraria del forte, ma che originariamente doveva avere un ruolo centrale dal punto di vista urbanistico per la sua posizione all'incrocio fra il cardo maximus e uno dei decumani. Un altro monumento notevole che fu poi inglobato nelle costruzioni di fase bizantina è il tempio non sempre concordemente attribuito a Minerva. Si tratta di un edificio prostilo, tetrastilo, costruito su un alto podio e riccamente decorato con un fregio scultoreo al di sopra del pronao e della cella. Il cristianesimo si affermò abbastanza precocemente e infatti un vescovo di Th. risulta fra i partecipanti al concilio di Cartagine del 256 e nell'ambito della contesa donatista la città fu sede di un concilio tenuto dai vescovi scismatici. A poca distanza da Th. a nord-est, in direzione di Cartagine, sorge forse il complesso cristiano più grandioso di tutta l'Africa del Nord. In origine dovette trattarsi di un'area sepolcrale sviluppatasi intorno a un nucleo legato alla morte o alle vicende del supplizio di alcuni martiri; successivamente forse Costantino fece erigere una prima chiesa che fu poi demolita, intorno alla fine del IV secolo, per fare spazio all'edificio più grande dell'attuale basilica, alla quale si accede da una scalinata che introduce all'atrio circondato da portici. L'aula di culto, riccamente decorata con mosaici, era divisa in tre navate che terminavano in un'abside centrale e due vani laterali. Dalla navata destra si accedeva, mediante una gradinata, a una cappella tricora dove è stato rinvenuto un testo epigrafico che menziona alcuni martiri da identificare forse con i compagni della famosa santa locale Crispina, martirizzata durante la persecuzione di Diocleziano. In età vandalica e bizantina il complesso subì alcuni rimaneggiamenti fra i quali l'aggiunta di una cerchia muraria munita di torri forse a difesa del complesso monastico sorto nel frattempo. Dopo la riconquista bizantina fu installata presso la città, per volere di Giustiniano, una piazzaforte che andò a intercettare e in parte reimpiegò strutture preesistenti come l'arco di Caracalla e il cosiddetto "tempio di Minerva". La cortina muraria era caratterizzata da 14 torri quadrate e racchiudeva un'area rettangolare, di 320 × 281 m, accessibile da tre ingressi a nord, a est e a sud. La città conservò la sede episcopale probabilmente per tutta la durata del regno bizantino e viene ancora citata come centro fiorente nelle fonti arabe.
Ch. Diehl, L'Afrique byzantine. Histoire de la domination byzantine en Afrique (533-709), Paris 1896, passim; A. Ballu, Le monastère byzantin de Tébessa, Paris 1897; S. Gsell, Les monuments antiques de l'Algérie, I-II, Paris 1901, passim; Id., Le musée de Tébessa, in Musées et collections archéologiques de l'Algérie et de la Tunisie, Paris 1902; Id., Atlas archéologique de l'Algérie, Paris - Alger 1902-11, f. 29, 101; R. Cagnat, Carthage, Timgad, Tébessa et les villes antiques de l'Afrique du Nord, Paris 1909; P.-A. Février, Nouvelles recherches dans la salle tréflée de la basilique de Tébessa, in BAAlger, 3 (1968), pp. 167-91; C. Lepelley, Les cités de l'Afrique romaine au Bas-Empire, II, Paris 1981, pp. 185-86; D. Pringle, The Defense of Byzantine Africa from Justinian to the Arab Conquest: an Account of the Military History and Archaeology of the African Provinces in the Sixth and Seventh Centuries, Oxford 1981, pp. 238-43; Y. Duval, Loca sanctorum Africae. Le culte des martyrs en Afrique du IVe au VIIe siècle, Rome 1982, pp. 126-28; K.F. Kadra, Nécropoles tardives de l'antique Theveste: mosaïques funéraires et mensae, in Africa Romana VI, pp. 265-82; P. Barresi, L'unità di misura usata nelle fortificazioni bizantine in Africa, ibid. XV, pp. 757-76, in part. pp. 761-62.
di Francesca Romana Stasolla
A seguito della riforma voluta da Diocleziano (284-305) nel quadro della riorganizzazione amministrativa dei territori imperiali, quelli relativi alla provincia Africa Proconsularis vennero divisi in tre entità distinte: Zeugitana, Byzacena e Tripolitania. Tale ripartizione rimase formalmente in uso nel corso dell'occupazione vandala della prima metà del V secolo e fino alla riconquista bizantina, avvenuta grazie a una rapida campagna militare nel 533/4. Proprio nel 534 Giustiniano emanò una norma che sanciva e ristabiliva almeno in parte la suddivisione dei territori riconquistati all'impero in sette province: Tingitana, Africa Proconsularis, Byzacena, Tripolitania, Mauretania, Numidia e Sardinia.
La crisi del III sec. d.C. aveva provato duramente l'economia africana, ma sopravvissero sia il sistema agricolo sia il sistema di vita urbana, come è ben indicato dalla rete di esportazioni testimoniata dai materiali anforici. Dalla documentazione epigrafica e dai resti archeologici si evince la volontà imperiale di una ristrutturazione generale delle città, che comunque dovevano essere piuttosto floride; sembra sia stato considerevole anche l'apporto degli evergeti locali, cosicché, ad esempio, la pratica circense è ben attestata ancora in età tardoimperiale. A Bulla Regia, Narragara, Thagura e in altre città si riedificarono o si restaurarono edifici pubblici e infrastrutture che spesso non avevano ricevuto manutenzione dall'età severiana, con oltre 60 cantieri al momento accertati in un decennio di regno. In concomitanza con la riforma dioclezianea si assiste infatti a una fioritura di attività edilizie (ad es., il portico e la porta di Mididi e di Thala, l'arco dedicato ai tetrarchi a Sufetula) che trovano riscontro anche nell'edilizia abitativa privata, arricchita spesso da decorazioni musive.
L'alto numero di miliari che segna le vie di penetrazione interne tradisce un'attività di risistemazione e riorganizzazione della rete viaria, che trova conferma in età costantiniana con la loro concentrazione lungo l'asse Cillium-Theveste-Thelepte, a cavallo quindi tra Byzacena e la nuova e più ridotta Africa Proconsularis, con ogni probabilità in relazione al commercio di olio. La prosperità economica di quest'area in età tardoantica va certamente attribuita a diversi fattori, tra cui la diffusione dell'oleicoltura e l'organizzazione dei sistemi di amministrazione agrari. Dalla vivace attività commerciale che ne conseguì venne determinata la circolazione di beni non solo lungo gli assi viari principali, ma anche lungo le vie di collegamento tra le città e i centri prediali. Tutta la viabilità faceva comunque capo a Cartagine, che collegava le aree più interne della regione con importanti sedi in altre province, mediante percorsi spesso misti, terrestri e marittimi, come ad esempio Sufetula-Hadrumetum-Cartagine, oppure Syllectum-Thanae-Cartagine, o ancora Theveste-Hippo Regius-Cartagine, grazie anche alla possibilità di usufruire di un doppio versante marino, che consentiva il ricorso alla spesso più agevole via marittima.
La crisi dinastica che ebbe luogo tra il 305 e il 312 fu duramente sentita in queste province, dove tra l'altro le armate di Massenzio recarono gravi danni a Cartagine, alla quale Costantino accordò benefici finanziari per i restauri necessari. L'attività costruttiva di Costantino per il resto appare esclusivamente limitata a interventi sporadici e puntuali; si andava però profilando la nuova committenza cristiana. Comunità cristiane sono attestate già nel III secolo: la fonte più importante è costituita da quanto resta dell'epistolario di Cipriano, vescovo di Cartagine in questo periodo. Il quadro della distribuzione delle diocesi riflette quello dell'urbanizzazione, pertanto nella fascia più meridionale la distanza tra le sedi vescovili è maggiore che in quella settentrionale. Di recente è stato però evidenziato, attraverso un'attenta lettura delle fonti testuali e un'analisi toponomastica, come il fenomeno della costituzione di diocesi in centri rurali, fermamente condannato dalla normativa conciliare, abbia avuto ampie attestazioni in Africa Proconsularis e soprattutto nella zona meridionale della Byzacena, meno densamente urbanizzata. La costituzione delle diocesi rurali riguardò sia la Chiesa cattolica sia quella donatista, quest'ultima ben radicata nelle campagne, talvolta anche in competizione sul medesimo territorio. Le circoscrizioni ecclesiastiche non erano necessariamente coincidenti con quelle civili, per cui, ad esempio, i vescovi di Hippo Regius e di Theveste erano legati alla Numidia. Le sedi vescovili erano sempre urbane, ma sono state di recente chiarite anche le principali dinamiche di cristianizzazione delle campagne e gli scavi hanno restituito numerosi edifici di culto, anche battesimali, in ambito rurale.
La rapida diffusione del cristianesimo comportò l'edificazione di aule di culto a partire dal IV secolo, insieme alla diffusione intensa dei culti martiriali. Le nuove chiese sono caratterizzate dal largo uso della decorazione musiva e dall'abbondanza di epigrafi, spesso il solo elemento utile all'identificazione dei monumenti indagati archeologicamente. Tra le numerose eresie che hanno diviso i fedeli africani, quella donatista ha avuto risvolti anche dal punto di vista architettonico: in molti centri urbani la costruzione di una cattedrale donatista, sostitutiva o alternativa rispetto a quella cattolica, ha creato interessanti casi di policentrismo urbanistico. È questo il caso, ad esempio, di Pupput (Souk el-Abiod), sede di un vescovo cattolico e di uno donatista nel 411. Il centro, che conserva ancora le tracce di una strada antica (con i resti di un ponte romano sul Wadi Moussa), di un anfiteatro, di un teatro, di una fortificazione bizantina, di cisterne e necropoli, e la cui storia è strettamente legata al vicino sito di Siagu a nord (località dette Bit Bou Rekba e Ksar ez-Zit), è stato oggetto di scavi che hanno interessato una vasta area funeraria, attiva tra il II e il IV secolo, e un'aula di culto con mosaico pavimentale. L'analisi dei formulari delle epigrafi e delle decorazioni musive con i mosaici funerari di Djedidi (V sec.), Lemta (V sec.), Bou Ficha, a sud, e Nabeul, Korba, Chott-Menzel-Yaya e Demma, a nord, hanno consentito di avanzare la possibilità dell'esistenza di una scuola di mosaicisti che operava nei siti attorno a Capo Bon.
La conquista progressiva dell'Africa da parte dei Vandali, provenienti dalla Penisola Iberica e guidati da Genserico tra il 429 e il 439, provocò indubbiamente fenomeni di distruzione, ma le ricerche di storia economica e i risultati delle indagini archeologiche hanno mostrato con evidenza come i mercati africani abbiano continuato a essere centri di raccolta e di smistamento di prodotti non solo locali. Anche in questo caso, i rinvenimenti, soprattutto ceramici, hanno consentito di ricostruire il quadro delle produzioni e degli scambi nel Mediterraneo occidentale e orientale. Lo sviluppo delle produzioni agricole appare confermato anche da preziosi testi documentari, come le Tavolette Albertini, che attestano la produttività ancora vivace degli uliveti tra Capsa e Thelepte.
Dal punto di vista architettonico, praticamente nulla resta delle costruzioni dei sovrani vandali a Cartagine, note da fonti letterarie; allo stesso modo, nulla si conosce dei luoghi di culto dei nuovi arrivati, seguaci dell'eresia ariana, con l'eccezione di una chiesa a Cartagine; forse essi riutilizzarono in molti casi le chiese cattoliche confiscate (ad es., la Basilica I di Ammaedara). Sotto il profilo urbanistico, va notato come fino all'arrivo dei Vandali i centri urbani fossero per lo più privi di mura, tranne che per alcune città più esposte agli attacchi delle popolazioni indigene; il circuito murario tardoantico di Cartagine, ad esempio, non è anteriore al V secolo; degno di nota è l'abbattimento delle cinte murarie, ove presenti, da parte dei nuovi invasori che, scarsamente abili nella poliorcetica, preferivano costringere gli avversari a combattimenti in campo aperto.
La riconquista bizantina ebbe inizio nel 533 e si concluse molto rapidamente, così che già l'anno successivo Giustiniano emanò una serie di norme che prevedevano in primo luogo una riorganizzazione amministrativa dell'apparato difensivo delle città (Cod. Iust., I, 27, 1-2). Le indagini archeologiche e le descrizioni offerte da Procopio di Cesarea nel De aedificiis consentono di tracciare una mappa che vede le più importanti città dell'interno cinte da fortificazioni, edificate secondo diversi criteri costruttivi, dettati soprattutto da motivi di ordine pratico. Le modalità costruttive dei vari impianti fortificatori rispecchiano le prescrizioni della coeva trattatistica militare (lo Strategicon dello Pseudo-Maurizio, l'anonimo De re strategica e lo stesso Procopio di Cesarea), vista anche la necessità, in molti centri, di una ricostruzione ex novo dopo le distruzioni vandale. L'interesse bizantino per le regioni maghrebine era connesso soprattutto con la vocazione produttiva e commerciale che caratterizzava questo territorio cruciale nell'orizzonte economico mediterraneo.
Le fortificazioni giustinianee erano chiamate non tanto alla definizione di un vero e proprio limes, quanto piuttosto a stabilire un controllo militare e quindi amministrativo del territorio, supportato da una fitta trama viaria di collegamento tra i vari centri, anche secondari, che sfruttava sapientemente l'eredità romana. Non a caso l'opera di ristrutturazione interessò anche le infrastrutture indispensabili alla rete commerciale, a cominciare dal nuovo porto circolare di Cartagine. Anche di recente sono stati analizzati gli aspetti tecnologici e formali di alcune produzioni anforiche, che hanno evidenziato la concentrazione in alcune aree produttive, ad esempio il triangolo Hammamet-Segermes-Hergla per le anfore di tradizione punica, la cui produzione è sicuramente attestata fino al VII secolo. Pur senza raggiungere il livello delle esportazioni dell'età imperiale, il commercio soprattutto delle ceramiche fini da mensa interessò anche il Mediterraneo orientale, segno di un'economia ancora vitale.
Una ricerca organica sulle fortificazioni bizantine africane si deve a D. Pringle (1981), che ha evidenziato la presenza di fortificazioni di tipo diverso, disperse su un ampio territorio, spesso caratterizzate dalla costruzione di piccoli castra anche interni ai centri urbani, concentrati nelle zone più esposte, quindi più in Byzacena che in Zeugitana. Piccoli complessi fortificati potevano moltiplicarsi nell'ambito del paesaggio urbano (Sufetula), oppure essere collocati ai limiti dell'insediamento romano, come fortezze in cui gli abitanti potevano rifugiarsi in caso di necessità (Ammaedara), Ksar Lemsa. Solo in rari casi, nell'area presa in considerazione Cartagine in primo luogo, le nuove mura vennero a comprendere l'intero perimetro urbano. In accordo con i canoni costruttivi dei castra bizantini, alcune fortificazioni prevedevano con certezza un'aula di culto, documentata, ad esempio, ad Ammaedara. Non mancano anche fortificazioni minori, per la protezione di singoli complessi religiosi o di centri produttivi rurali, caratterizzati da un semplice recinto, con accesso spesso dal primo piano, concentrate nella Byzacena meridionale. L'evidenza archeologica è supportata efficacemente dal ritrovamento di numerose iscrizioni dedicatorie delle opere di fortificazione, che contribuiscono a identificare siti e resti architettonici. Dal punto di vista tecnologico, si diffonde l'uso dell'opus africanum, una tecnica costruttiva che alterna a murature in ciottoli o piccoli conci setti verticali lapidei, secondo un uso mutuato dalla tradizione punica e ben diffuso anche in Spagna e in Sardegna.
All'interno e all'esterno delle mura proseguì l'edificazione delle aule di culto, caratterizzate talvolta dalla reiterazione delle navate, sempre almeno tre, talora cinque o addirittura sette nelle costruzioni più complesse (basilica di Damus al-Kharita a Cartagine). Una peculiarità africana, che trova più tardi riscontro anche in Spagna e in Italia, è costituita dalle cosiddette "basiliche a doppia abside", cioè con una seconda abside contrapposta alla principale e destinata con ogni probabilità al culto martiriale. Le aule di culto erano arricchite spesso da mosaici, eredità della tradizione musiva nelle due province africane già attiva dal I-II secolo. Le recenti ricerche hanno riportato alla luce gli edifici di culto extraurbani o legati a centri minori, dei quali spesso costituiscono l'unica testimonianza, e studi aggiornati hanno consentito la conoscenza di strutture indagate alcune decine di anni or sono. È questo il caso, ad esempio, della chiesa di Sokrine, presso Leptis Minor, dotata anche di battistero e di ambienti annessi, i cui pavimenti sono completamente decorati da mosaici, interrotti solo dall'inserzione di pannelli, sempre musivi, recanti iscrizioni funerarie, oppure votive. Un caso analogo si riscontra nei pressi di Sufetula, a Henchir el-Baroud, dove scavi recenti hanno evidenziato la presenza di un importante complesso cultuale composto da una basilica cimiteriale e da un gruppo episcopale, che reca oltre 50 iscrizioni musive attestanti, tra l'altro, la presenza di una gerarchia ecclesiastica anche monastica. L'importanza di questi ritrovamenti, al di là dell'apporto di conoscenza della cultura artistica nordafricana in età bizantina, sta anche nel loro contributo alla definizione di una topografia rurale, per la quale manca ancora un quadro organico e generale.
L'equilibrio amministrativo delle due province si infranse con la conquista araba dell'intera Africa settentrionale, conclusasi nel 708. Anche in questo caso, comunque, la documentazione epigrafica consente di percepire l'esistenza di comunità cristiane anche dopo questo evento, insieme al mantenimento almeno di parte della gerarchia ecclesiastica, secondo dinamiche meglio attestate in altre province africane, ad esempio in Tripolitania.
C. Lepelley, Les cités de l'Afrique romaine au Bas-Empire, I-II, Paris 1979-81; D. Pringle, The Defence of Byzantine Africa from Justinian to Arab conquest: an Account of the Military History and Archaeology of the African Provinces in the Sixth and Seventh Centuries, Oxford 1981; Y. Thébert, L'évolution urbaine dans les provinces orientales de l'Afrique romaine tardive, in Opus, 2 (1983), pp. 90-130; F. de' Maffei, Edifici di Giustiniano nell'ambito dell'impero, Spoleto 1988; N. Duval, L'évêque et la cathédrale en Afrique du Nord. Actes du XIe Congrès International d'Archéologie Chrétienne (Lyon - Vienne - Grenoble - Genève - Aoste, 21-28 septembre 1986), I, Città del Vaticano 1989, pp. 345-99; F. Ghedini, L'Africa Proconsolare, in Storia di Roma, III. L'età tardoantica, 2. I luoghi e le culture, Torino 1993, pp. 309-25; F. Béjaoui, Quelques nouveautés de l'épigraphie chrétienne de Tunisie, in Africa Romana X, pp. 677-84; L. Di Paola, La reparatio veredorum: il "caso" della Proconsolare, ibid. XI, pp. 425-35; N. Duval, s.v. Province Romane. Africa Proconsularis, in EAA, II Suppl. 1971-1994, IV, 1996, pp. 647-51; A. Ben Abed Ben Khader - N. Duval, Les mosaïques funéraires d'une église de Pupput (Hammamet, Tunisie). Etudes d'archéologie chrétienne nord-africaine XXVI, in AntAfr, 33 (1997), pp. 165-90; D. Artizzu, La cristianizzazione degli spazi rurali in Proconsolare e Byzacena: proposte per una strategia di studio, in Africa Romana XII, pp. 419-37; P.G. Spanu - R. Zucca, Le diocesi rurali della Proconsularis e della Byzacena. Aspetti storici ed archeologici, ibid, pp. 401-11; L'Afrique vandale et byzantine, in AntTard, 10 (2002), pp. 21-290; A. Ben Abed - M. Griesheimer, La nécropole romaine de Pupput, Rome 2004.
di Noël Duval
Antica città (gr. ᾿Αμμέδεϱα, ᾿Αμμαίδαϱα; lat. Ammaedara, Ammedera, Ammedara; od. Haidra) dell'Africa Proconsularis (Tunisia occidentale, od. prov. di Kasserine), di origine probabilmente numida, nel territorio della tribù dei Musulami. Fu una postazione militare sulla grande strada della penetrazione prima punica e poi romana da Cartagine a Theveste (Tebessa). All'inizio dell'Impero vi si installò il primo campo permanente (non ritrovato) della legio III Augusta, la principale unità dell'esercito romano in Africa. Dopo lo spostamento del campo a Theveste, verso il 75 d.C., sotto Vespasiano la città divenne colonia, soprattutto per i veterani (Colonia Flavia Augusta Emerita Ammaedara).
A. ebbe una notevole estensione, come testimoniano le rovine, con vaste necropoli e numerosi documenti epigrafici. Sede episcopale dal 256, fu una grande città anche nel periodo cristiano (cinque chiese identificate, numerose iscrizioni cimiteriali rinvenute). L'epitaffio di un episcopus Vandalorum sembra essere la prova dell'installazione di una guarnigione o di coloni vandali nel territorio. La persistenza di una vita municipale è attestata dalle iscrizioni fino al VI secolo. La topografia fu modificata completamente al principio dell'epoca bizantina: si conservarono le vie principali, le chiese precedenti e alcuni edifici pubblici, ma la fortificazione di numerosi punti strategici (soprattutto l'arco situato a est, dedicato a Settimio Severo) e la costruzione di una fortezza fanno supporre massicce distruzioni e comunque la creazione di uno spalto intorno alla cittadella nel centro della città, la quale ebbe quindi di nuovo il suo ruolo militare. Procopio (Aed., VI, 7, 10-11) la cita fra le città della Numidia (in senso ampio: Numidia Proconsolare e provincia di Numidia) fortificate al tempo della prefettura di Solomone (534/5; 536-544).
Una grande fortezza (200 × 110 m) a pianta trapezoidale irregolare controlla il quadrivio principale della città (la via Cartagine-Theveste che la attraversa a nord e la via del Sud, verso Thala e Thelepte, che attraversava il wādī su un ponte) e anche la sorgente perenne nel letto del Wadi Haidra. È notevole soprattutto la tecnica costruttiva della cinta di mura con un cammino di ronda sorretto da arcate; sul lato ovest si trova addossata una chiesa di piccole dimensioni, ma dotata di tribune, che venne adattata a cappella (Chiesa III o "della cittadella") e che costituisce l'unica parte delle mura che sia stata oggetto di scavi. L'abside occidentale, pressoché integra, era coperta da una semicupola a nervature poggianti su colonne sostenute da un basamento, come quella di Dar el-Kous nel Kef (Sicca Veneria). N. Duval (1971) ne ha tratto la conclusione che nel VI secolo in questa regione dell'attuale Tunisia occidentale operasse la stessa maestranza di architetti.
Se le chiese di fondazione precedente (la Basilica I che forse era la cattedrale e la Basilica IV o "cappella vandala") sopravvissero con piccole trasformazioni, la Chiesa II, cosiddetta "di Candidus" o "dei Martiri", nella necropoli orientale, dove veniva commemorato un gruppo di martiri della persecuzione di Diocleziano, venne invece completamente ricostruita nel VI secolo con orientamento rovesciato (abside orientale). La stessa maestranza già ricordata dovette intervenire nei lavori, perché l'abside doveva essere dello stesso tipo di quella della chiesa nella cittadella e le navate laterali presentavano volte a crociera realizzate secondo una tecnica identica a quella di Dar el-Kous nel Kef. I mosaici, di cui sfortunatamente non si possiede il rilievo precedente il trasporto a Tunisi (Museo Nazionale del Bardo), erano di alta qualità. La tecnica e lo stile sono legati a quelli dei mosaici di Chemtou, Bulla Regia, Kef; nella Tunisia occidentale è possibile che fosse attiva anche una scuola di mosaicisti in epoca bizantina. La Chiesa V, di scarso interesse dal punto di vista artistico, appartiene alla fase tarda; al di fuori di qualche elemento di arredo liturgico o di modanature molto semplici, la decorazione in pietra è particolarmente povera rispetto ad altri esempi contemporanei e contrasta con quanto realizzato in siti come Tebessa e Thelepte. Un testo del X secolo (Ennaïfer 1976) prova che a quell'epoca esisteva ancora una città (probabilmente la cittadella); non si sa quando sia avvenuto il completo abbandono del sito, ma sulla frontiera dei beylik di Tunisi e di Costantina esso continuò a funzionare come base militare e a servire come tappa (sussistono ancora due caravanserragli di data imprecisabile).
Bibliografia
H. Saladin, Rapport sur la mission faite en Tunisie (1882-1883), in Archives des missions scientifiques et littéraires, s. III, 13 (1887), pp. 1-225, in part. pp. 171-75; C. Diehl, L'Afrique byzantine. Histoire de la domination byzantine en Afrique (533-709), I, Paris 1896, pp. 196-98, 271-72; N. Duval - Y. Duval, L'église dite de Candidus à Haïdra (Tunisie) et l'inscription des martyrs, in R. Chevallier (ed.), Mélanges d'archéologie et d'histoire offerts à André Piganiol, II, Paris 1966, pp. 1153-189; N. Duval, Les églises d'Haïdra, II. Basilique II, in CRAI, 1969, pp. 419-20; Id., Les églises d'Haïdra, III. L'église de la Citadelle et l'architecture byzantine en Afrique, ibid., 1971, pp. 136-67; Id., Les églises africaines à deux absides. Recherches archéologiques sur la liturgie chrétienne en Afrique du Nord, II. Inventaire des monuments. Interprétation, Paris 1971-73, pp. 201-209; F. Baratte - N. Duval, Les ruines d'Ammaedara-Haïdra, Tunis 1974; N. Duval (ed.), Recherches archéologiques à Haïdra, I. Les inscriptions chrétiennes, Rome 1975; M. Ennaïfer, La cité d'Althiburos et l'édifice des Asclepieia, Tunis 1976, pp. 39-40; N. Duval (ed.), Recherches archéologiques à Haïdra, II. La basilique I dite de Melléus ou de Saint-Cyrien, Rome 1981; Id., Topographie et urbanisme d'Ammaedara (actuellement Haïdra, Tunisie), in ANRW, II, 10, 2, 1982, pp. 633-71; N. Duval - F. Baratte - J.-C. Golvin, Les églises d'Haïdra, VI. La basilique des Martyrs de la persécution de Dioclétien. Bilan de la campagne 1983, in CRAI, 1989, pp. 129-73.
di Noël Duval
Antico centro (ar. Ḥammām Darraǧī) della Tunisia settentrionale situato ai piedi della catena del Tell, il cui nome arabo deriva dalla sorgente che alimentava la città; l'appellativo Regia si deve all'appartenenza a quella parte della provincia dell'Africa Proconsularis che, dopo la caduta di Cartagine e fino alla guerra d'Africa di Cesare, era stata sotto il dominio dei re numidi. La localizzazione, alcuni chilometri a nord del fiume Megerda, in una regione con estati torride e inverni rigidi, sulla strada da Cartagine a Ippona (Hippo Regius), 10 km circa a est delle cave di marmo numidico di Simitthus (presso Chemtou), a poca distanza dalla grande strada di penetrazione nord-sud da Tabarka al Kef, si spiega principalmente con la presenza della sorgente.
La città, di origine indigena, fu, nel quadro della nuova provincia romana di Africa Nova, oppidum liberum (città non tributaria), poi, senza dubbio a partire dall'epoca di Vespasiano, municipio e, infine, sotto Adriano, colonia (Colonia Aelia Hadriana Augusta Bulla Regia). Si trattò, per l'Africa, di una promozione rapida, che attesta l'importanza della città e la sua prosperità. I dati storici posteriori su B.R. sono scarsi: il cristianesimo era ben radicato nella città, anche se non sono noti nomi di vescovi prima della fine del IV secolo, quando s. Agostino vi fece tappa (nel 399) e vi pronunciò un sermone indignato contro la passione per gli spettacoli teatrali. Nel 411 erano presenti sia la comunità cattolica sia quella donatista. B.R. è considerata uno dei siti archeologici più suggestivi e interessanti della Tunisia. All'inizio del Novecento, con il concorso di ufficiali francesi e in particolare del medico militare L. Carton, furono avviati scavi, ripresi in seguito dopo la seconda guerra mondiale, ma gli sterri massicci, realizzati negli anni Sessanta da "cantieri di assistenza", hanno modificato completamente l'aspetto del sito. In seguito il lavoro archeologico è proseguito con sondaggi e scavi complementari realizzati da gruppi di ricerca franco-tunisini sotto la direzione di B. Beschaouch, M. Khanoussi, Y. Thébert e R. Hanoune. Si conoscono oggi bene il quartiere del foro, con il Capitolium e il tempio di Apollo, il più importante santuario della città, e un altro insieme monumentale consacrato principalmente al culto imperiale. Tra i due nuclei si collocano un teatro, edificato in laterizio e ben conservato, un mercato, il tempio di Iside, una piccola terma e altri edifici minori; dei due maggiori edifici termali, posti ai lati della strada moderna, quello settentrionale è stato interamente scavato. B.R. era celebre soprattutto per le sue case a due piani: un insieme di sale di soggiorno per l'estate ricavate nel sottosuolo, sotto la casa classica a peristilio; le più note sono quelle "della Pesca" e "della Caccia", cosiddette dal tema del mosaico principale.
La città continuò certamente a esistere in epoca bizantina. Un forte "bizantino" non è datato precisamente; è possibile che le grandi terme a sud, completamente distrutte, senza dubbio in seguito a un terremoto, siano state fortificate come a Mactar e così anche il teatro. Un altro "fortino", la cui porta, ben conservata, presenta sull'architrave un testo biblico inciso intorno a un simbolo cristiano, è stato interpretato da Carton come cappella bizantina, dato il ritrovamento di una croce con il nome del prete Alessandro e di materiali ceramici e vitrei che avrebbero potuto appartenere a una chiesa. In realtà il monumento, che ingloba parte della cinta bizantina, è un edificio a vasche, di un tipo ben conosciuto nell'Africa del periodo tardo. La principale scoperta avvenuta nel corso degli scavi successivi alla seconda guerra mondiale è quella della cattedrale (o di una delle cattedrali, giacché esisteva anche una comunità donatista), di dimensioni assai modeste ma singolare per lo sviluppo che subì. Un primo edificio, di epoca imprecisata, con l'abside rivolta verso ovest, venne ricostruito nel VI secolo, normalizzandone l'orientamento con un presbyterium a est. Dinanzi all'antica abside, divenuta area funeraria, fu impiantata una vasca battesimale, forse nel luogo dell'antica fossa d'altare e riprendendone il tracciato cruciforme. Sembra che due cupole, o due tamburi, sormontassero l'altare e il battistero, facendo di questo edificio un unicum nell'architettura cristiana d'Africa.
Un'altra chiesa di minori dimensioni, con l'abside orientata, fu affiancata a nord della basilica principale e, in seguito, ampliata verso ovest. A questo insieme si aggiunsero piccole terme, scavate solo in parte, e diversi annessi, tra cui forse una cappella martiriale, anch'essa indagata parzialmente. Ambedue le chiese presentano pavimenti databili al VI secolo, talvolta con il medesimo motivo: le due navate laterali nord sono decorate con un elegante motivo di palmette a raggiera, che appare, nella stessa epoca, anche nella basilica "giustinianea" di Sabratha, in quelle della Basilica IV di Sbeitla e di Hergla, nella basilica cosiddetta "del Supermercato" di Cartagine e nel vicino battistero. Questo motivo, derivato da una rappresentazione schematizzata di foglie di vite, si ricollega ad altri ‒ che compaiono anche a Sabratha e in un'altra chiesa di Cartagine ‒ noti nell'area adriatica, e particolarmente a Ravenna, nelle chiese del VI secolo (ad es., S. Vitale). Essi si ritrovano nelle isole del Mediterraneo occidentale, soprattutto a Son Peretó di Maiorca. Per altri motivi, e soprattutto per il colore, i mosaici di B.R. sono collegati a quelli di Chemtou, del Kef e di Haidra (Ammaedara). Questa "scuola" bizantina dell'Occidente tunisino presenta una sua originalità, ma utilizza motivi assai diffusi in Africa a partire dall'epoca bizantina. Rimane per ora incerto se il nuovo influsso provenisse da Costantinopoli (Dunbabin 1985) o piuttosto dall'area adriatica. La cattedrale di B.R. conservava forse le reliquie di s. Stefano. L'uso dell'edificio si prolungò senza dubbio nell'Alto Medioevo (come testimonia un gruppo di monete trovate in una tomba), ma non è certo che continuasse a funzionare come chiesa. Una delle abitazioni di B.R. presenta un mosaico cristiano con il motivo dei Quattro fiumi del Paradiso e un'iscrizione esplicativa che menziona la Domus Dei. Tombe tarde furono scavate in questo edificio, il cui utilizzo cultuale non è però certo.
A. Merlin, Le temple d'Apollon à Bulla Regia, Paris 1908; P.J. Mesnage, L'Afrique chrétienne. Evêchés et ruines antiques, Paris 1912, pp. 50-51; L. Carton, L'église du prêtre Alexandre découverte à Bulla Regia en 1914, in CRAI, 1915, pp. 116-30; H. Leclercq, s.v. Hammam Djarradjii, in DACL, VI, 2 (1925), coll. 2035-2042; N. Duval, Le dossier du groupe épiscopal de Bulla Regia, in BAntFr (1969), pp. 207-36; Id., Les églises africaines à deux absides. Recherches archéologiques sur la liturgie chrétienne en Afrique du Nord, II. Inventaire des monuments. Interprétation, Paris 1971-73, pp. 41-71; J.-L. Maier, L'épiscopat de l'Afrique romaine, vandale et bizantine, Rome 1973, p. 118; Y. Thébert, La romanisation d'une cité indigène d'Afrique: Bulla Regia, in MEFRA, 85 (1973), pp. 247-312; A. Ennabli, s.v. Bulla Regia, in PECS, pp. 171-72; A. Beschaouch - R. Hanoune - Y. Thébert, Les ruines de Bulla Regia, Rome 1977; C. Lepelley, Les cités de l'Afrique romaine au Bas-Empire, II, Paris 1981, pp. 87-90; J. Gascou, La politique municipale de Rome en Afrique du Nord, I. De la mort d'Auguste au début du IIIe siècle, in ANRW, 10, 2, 1982, pp. 136-229, in part. pp. 162-64, 182-83; A. Mandouze, Prosopographie chrétienne du Bas-Empire, I. Prosopographie de l'Afrique chrétienne, Paris 1982, p. 1253; A. Antit - H. Broise - Y. Thébert, Les environs immédiats de Bulla Regia, in Recherches archéologiques franco-tunisiennes à Bulla Regia, I. Miscellanea, 1, Rome 1983, pp. 135-90; R. Hanoune, Note sur la mosaïque des fleuves du Paradis de la Maison N° 10, ibid., pp. 55-58; R. Hanoune - A. Olivier - Y. Thébert, Les thermes au Nord-Ouest du théâtre, ibid., pp. 63-92; K. Dunbabin, Mosaics of the Byzantine Period in Carthage. Problems and Directions of Research, in P. Senay (ed.), Carthage VII. Actes du Congrès International sur Carthage, 2 (Trois-Rivières, 10-13 octobre 1984), Québec 1985, pp. 9-26; P. de Palol, El baptisterio en el ambito arquitectonico de los conjuntos episcopales urbanos, in Actes du XIe Congrès International d'Archéologie Chrétienne (Lyon - Vienne - Grenoble - Genève - Aoste, 21-28 septembre 1986), I, Città del Vaticano 1989, pp. 559-605; N. Duval, L'évêque et la cathédrale en Afrique du Nord, ibid., pp. 345-99, in part. pp. 350-54; C. Godoy Fernández, Baptisterios hispánicos (siglos IV al VIII). Arqueología y liturgía, ibid., pp. 607-34.
In età tardoantica questa città della Tunisia sembra aver avuto una certa rilevanza culturale ed economica. Alla metà del III sec. d.C. Erodiano (VII, 6, 1) riferisce che la città rivaleggiava con Alessandria per benessere e splendore, mentre Ausonio (Ordo nobilium urbium, II, 9-14) all'inizio del IV secolo la pone, in ordine di importanza, dopo Roma e Costantinopoli.
Il martirio del vescovo Cipriano nel 258 e la moltitudine dei concili confermano la vitalità della Chiesa locale ‒ il vescovo di C. era primate dell'Africa ‒, malgrado la lacerazione dello scisma donatista dell'inizio del IV secolo. La Descriptio orbis terrae (IV sec.) consente di ricostruire l'impianto regolare della città, con strade ampie, sovrastato dalla cittadella sulla collina di Byrsa. Questo dato è stato confermato dalla ricerca archeologica, che ha evidenziato come C. abbia conosciuto in età tardoantica uno sviluppo urbanistico soprattutto verso nord. Le indagini archeologiche hanno ampiamente confermato quanto riportato dalle fonti scritte, soprattutto grazie ai risultati ottenuti dalle équipes internazionali che hanno aderito al progetto dell'UNESCO. Parallelamente, gli studi sulle ceramiche rinvenute a C. e in altri siti del Mediterraneo hanno evidenziato il ruolo della città come centro di produzione e soprattutto di smistamento delle merci, specie fra l'Oriente bizantino e l'Occidente, ruolo che non sembra essere venuto meno nel corso del dominio vandalo. La città, infatti, subì con tutta l'Africa del Nord la conquista da parte dei Vandali di Genserico nel 439. A seguito della riconquista bizantina del 533 si assiste a un processo di riurbanizzazione intensa, ma più disordinata, della città, ora denominata Carthago Iustiniana: il suolo stradale appare invaso da portici, pertinenti a costruzioni anche a più piani, la viabilità è meno regolare e più angusta. Sotto il regno dell'imperatore Maurizio (582-602) venne creato l'esarcato di C.; la città fu però conquistata da Hassan ibn Numan nel 695 e subito liberata da una flotta inviata da Costantinopoli. Nel 698 C. venne definitivamente presa dagli Arabi. Dalla metà del VII secolo si notano ai margini della città le tracce della contrazione dell'abitato e delle aree sepolcrali, oltre alla drastica riduzione dei commerci, tutti indizi che confermano il declino di C.; va però notata la permanenza della sede episcopale ancora nell'XI secolo.
La città del V secolo era cinta da mura, volute da Teodosio II attorno al 425 a protezione del pericolo di attacchi vandali e restaurate da Belisario nel corso della riconquista bizantina. Tale circuito murario, di cui analisi altimetriche ottocentesche avevano ricostruito almeno le linee generali del perimetro, oggi documentato anche archeologicamente, ha contribuito alla definizione dei limiti della città tardoantica, tranne che per l'angolo nord-orientale, dove le indagini hanno interessato un'area urbanizzata tra il IV e l'inizio del V secolo, poi divenuta extramuraria in seguito alla costruzione delle mura teodosiane. I risultati di tali scavi hanno evidenziato come, almeno nell'area nord-orientale, il muro teodosiano abbia sfruttato nelle fondazioni strutture preesistenti. È stata inoltre rinvenuta una torre di età teodosiana presso la porta nord, a conferma che l'impianto originario di fortificazioni comprendeva anche un sistema di torri. Tutta la zona dovette vivere un suo apogeo attorno all'inizio del V secolo, probabilmente in seguito al trasferimento in Africa di molti aristocratici dopo il sacco di Roma del 410; a questo periodo sono state infatti attribuite strutture abitative e termali di un certo rilievo, che dovettero decadere appena un secolo più tardi, quando le riparazioni stradali vennero effettuate in terra battuta e non più in pietra. Dopo una sporadica e parziale rioccupazione attorno al VII secolo, l'area non venne più frequentata. Anche le indagini archeologiche hanno evidenziato un intenso sviluppo urbano nel IV secolo, cui si contrappose una fase vandala di abbandono e di spoliazione, seguita da parziali ristrutturazioni alla fine del periodo vandalo. Al periodo della conquista bizantina corrisponde l'abbandono dei quartieri del suburbio nord-orientale e l'estendersi delle necropoli.
Mentre il porto punico, ripristinato in epoca romana e poi attorno al 400 d.C., smise di funzionare alla fine del VI secolo e il sito venne occupato da una serie di fornaci ceramiche, il porto circolare fu oggetto di grossi lavori all'inizio del V secolo: le strutture rinvenute, analoghe alle insulae ostiensi, hanno fatto ipotizzare la presenza di un quartiere di piccoli commercianti. In declino durante l'epoca vandala a causa dell'interruzione del drenaggio, questo porto venne ripristinato in età giustinianea e fu oggetto di una progressiva urbanizzazione, tanto che alla metà del VII secolo la parte settentrionale era integrata nel tessuto urbano. Ai piedi del versante settentrionale della collina di Byrsa è stato rinvenuto un impianto termale situato lungo una delle più importanti strade urbane. Edificato tra la fine del IV e l'inizio del V secolo, come si evince dallo stile dei mosaici, venne utilizzato sia in età vandala che nel periodo bizantino. Nel circo, in uso anche nel periodo tardoantico, come è attestato da una parziale ristrutturazione molto probabilmente di età teodosiana, le successive fasi di abbandono sono documentate dalle tracce di fosse di spoliazione, dalla presenza di silos e da segni di occupazione di tipo domestico, fino a che, all'inizio del VII secolo, all'interno delle sue strutture si impiantò una necropoli.
La topografia ecclesiastica di C. è nota da fonti letterarie e archeologiche, anche se non sempre è stato possibile dare un nome certo alle aule di culto che le attività di scavo hanno restituito. Ai piedi del versante orientale della collina di Byrsa è stata riportata in luce la basilica cosiddetta "del Supermercato". L'impianto primitivo dell'aula di culto è stato fatto risalire all'inizio del V secolo ed è posto tra i cardini IX e X della città, in un'area commerciale e artigianale. In età vandala alcune parti del complesso vennero abbandonate, per subire poi lavori di ristrutturazione in occasione della riconquista bizantina: venne edificata una nuova chiesa immediatamente a nord, con absidi contrapposte e cinque navate separate da colonnati, che doveva essere ornata da decorazione musiva con motivi geometrici e fitomorfi. A essa si aggiunse un ampio battistero con vasca battesimale cruciforme e absidi angolari, decorato con mosaici e fornito di un piccolo vestibolo.
Nei pressi di questo complesso è localizzata la casa con un mosaico raffigurante aurighi greci, una domus a peristilio dell'inizio del V secolo, all'interno della quale è stata rinvenuta una statua marmorea di Ganimede della stessa epoca. Appare confermata la continuità di vita per tutto il V secolo per questo edificio, forse in qualche modo legato al complesso ecclesiastico, e ancora nel VII secolo il sito era oggetto di un'occupazione intensiva. Si è supposto che questo complesso costituisse il gruppo episcopale della città altomedievale, ma non ci sono al momento prove sicure per questa identificazione, tanto più che anche altre chiese sono dotate di battistero. È questo il caso della basilica Dermech I, un edificio a cinque navate con ampio battistero dotato di deambulatorio che è stato rinvenuto, insieme ad altre due chiese di più modesta importanza, nell'area delle terme di Antonino.
All'interno della città esistevano anche altri edifici di culto: l'aula che ospitava le reliquie dei martiri di Gafsa (di età vandala); la cosiddetta "rotonda dell'Odeon", del VI secolo; la chiesa dell'area settentrionale, dotata di una cappella ipogea per le reliquie del martire Redemptus, distrutta negli anni Cinquanta del secolo scorso; la chiesa della Theotokos, sulla collina di Byrsa, nei pressi del palazzo reale di età vandala o addirittura al suo interno. Tra il 1989 e il 1992 sono stati ripresi gli scavi della basilica di Bir el-Knissia, nel quartiere sud-orientale, già parzialmente indagata da A.L. Delattre negli anni Venti del Novecento. Si tratta di un'ampia aula triabsidata, con mosaici pavimentali e decorazione architettonica in marmo, edificata alla fine dell'età vandala. L'attribuzione al martire Agileus, proposta dagli scavatori, non appare sufficientemente provata a N. Duval, che ha anche suggerito di identificare un edificio rinvenuto immediatamente a nord con una chiesa parallela. Non è purtroppo possibile sapere quali siano le chiese legate al clero cattolico e quali quelle del clero ariano ‒ i Vandali infatti professavano questa eresia ‒ perché dal punto di vista architettonico non ci sono elementi distintivi. Con la riconquista giustinianea, comunque, tutti gli edifici di culto furono riguadagnati all'ortodossia. La topografia cristiana di C. non può prescindere dalle aree cimiteriali suburbane, dove sono state rinvenute alcune grandi basiliche: quella sul sepolcro del vescovo martire Cipriano; la Basilica Maiorum sulle tombe di Perpetua e dei suoi compagni, martiri cartaginesi; la chiesa funeraria di Bir Ftouha, decorata con mosaici bizantini. Particolarmente venerato doveva essere il santuario di Damus al-Kharita, appena all'esterno della cinta muraria teodosiana, a sud della città. *
J.H. Humphrey (ed.), Excavations at Carthage, I-VII, Ann Arbor 1976-82; Gli scavi italiani a Cartagine. Rapporto preliminare delle campagne 1973-77, in QuadALibia, 13 (1983), pp. 7-61; H. Hurst - S.P. Roskams (edd.), Excavations at Carthage. The British Mission, I, 1, Sheffield 1984; J.H. Humphrey (ed.), The Circus and a Byzantine Cemetery at Carthage, Ann Arbor 1988; F. Rakob (ed.), Die deutschen Ausgrabungen in Karthago, Mainz a.R. 1991; A. Ennabli (ed.), Pour sauver Carthage, Tunis 1992; H. Hurst, Cartagine, la nuova Alessandria, in Storia di Roma, III, L'età tardoantica, 2. I luoghi e le culture, Torino 1993, pp. 327-37; S.T. Stevens (ed.), Bir el-Knissia at Carthage: a Rediscovered Cemetery Church. Report no. 1, in JRA, suppl. 7 (1993); M.G. Fulford - D.P.S. Peacock (edd.), Excavations at Carthage. The British Mission, II, 2, Sheffield 1994; N. Duval, La basilique de Bir el-Knissia à Carthage: une fouille du Père Delattre redécouverte et réétudiée, in AntTard, 3 (1995), pp. 263-76; S.T. Stevens, Sépultures tardives intra-muros à Carthage, in Monuments funéraires. Institutions autochtones. L'Afrique du Nord antique et médiévale. VIe Colloque International sur l'Afrique du Nord antique et médiévale (Pau, octobre 1993), Guingamp 1995, pp. 207-17.
di Francesca Romana Stasolla
Città (gr. ᾿ΑδϱύμητοϚ; ar. Sūsa) posta lungo la costa orientale della Tunisia, sul sito dell'odierna Susa (Sousse), nata come colonia fenicia in epoca piuttosto antica, forse già nel IX sec. a.C. Le indagini archeologiche hanno restituito i resti di un tophet, ascrivibile a un periodo non precedente il VII sec. a.C., e di necropoli poste lungo le pendici delle colline che dovevano circondare la città.
In età romana, il centro entrò a far parte della provincia Africa. La notorietà del centro appare legata alle vicende annibaliche; il condottiero cartaginese lo utilizzò come base per il suo attacco a Scipione. In età traianea la città aveva uno status coloniale con il titolo di Colonia Concordia Ulpia Traiana Augusta Frugifera Hadrumetina, mentre in seguito alla riconquista bizantina, prese il nome di Iustinianopolis. Divenne capitale della Byzacena sotto Diocleziano, ma a questo ruolo non sembra corrispondere un reale sviluppo architettonico e urbanistico. Ben poco è noto dell'impianto della città romana, a causa della sovrapposizione con l'attuale centro urbano, a parte alcuni ritrovamenti musivi anche di pregevole qualità appartenenti a villae di età imperiale, resti di necropoli e di infrastrutture idriche (cisterne). Le indagini archeologiche in alcune villae (Casa delle Maschere, case nel quartiere dell'Arsenale) ne hanno evidenziato la riconversione in aree funerarie in seguito al loro abbandono.
La cristianizzazione della città avvenne piuttosto precocemente; la traccia monumentale più evidente è costituita dalla presenza di un impianto catacombale di consistenti dimensioni, ben più ampio degli ipogei pur noti in Byzacena e in Numidia. A differenza degli ipogei romani, i cinque gruppi cimiteriali di H. (cd. "del Buon Pastore", "di Ermete", "di Agrippa", "di Severa" e un quinto meno noto) non sono anteriori al III secolo e presentano un'occupazione pianificata e metodica. In alcuni casi, la natura del terreno ha determinato la creazione di grandi ambienti, piuttosto che di stretti cubicoli; allo stesso modo, sepolture in muratura vanno a compensare la presenza di un terreno eccessivamente friabile e poco adatto all'escavazione. Va segnalata la mole ingente di iscrizioni, spesso dipinte in nero sulle tegole di copertura dei loculi o graffite nella calce di chiusura, oltre a qualche iscrizione musiva.
Bibliografia
A. Leynaud, Les catacombes africaines, Sousse, Susa - Adrumeto 1910; G. Picard, s.v. Hadrumentum, in EAA, III, 1960, p. 1084; H. Slim, s.v. Hadrumetum, in EAA, Suppl. 1970, pp. 365-66; P. Testini, Archeologia Cristiana, Bari 19802, pp. 289-91; L. Foucher, s.v. Hadrumetum, in EAA, II Suppl. 1971-1994, III, 1995 pp. 9-11.
di Francesca Romana Stasolla
Città attualmente posta nella Tunisia centrale. La sua fondazione si deve ai Numidi, che ne fecero un centro fortificato, documentato dai resti archeologici di un bastione e da un santuario megalitico, oltre che da sepolture dello stesso periodo.
La carenza di fonti scritte, con l'eccezione di atti conciliari e di itinerari cristiani, rende la ricerca archeologica determinante ai fini della conoscenza di M.; a questo proposito, l'edizione del ricco materiale epigrafico ha consentito di acquisire informazioni determinanti per la storia della città. Il territorio di competenza di M. era organizzato in castella o civitates e con ogni probabilità venne annesso da Massinissa, partecipando quindi alle cause scatenanti della terza guerra punica. Pur in mancanza di una organica forma urbis, è possibile determinare la localizzazione delle principali strutture urbane, oltre che degli elementi fondamentali della viabilità extraurbana, innanzitutto il collegamento con Theveste, grazie anche al ritrovamento di miliari di età augustea. Sono comunque noti una porta monumentale con dedica a Traiano, la posizione del foro, strutture templari, impianti termali, una basilica, un piccolo anfiteatro e infrastrutture (magazzini, impianti idrici). Lo studio della decorazione architettonica scultorea ha consentito l'individuazione di una scuola locale che, benché fortemente influenzata dalla produzione di Cartagine, era in grado di sviluppare elementi rielaborati con canoni originali.
La città conserva evidenti tracce della sua cristianizzazione, con sette aule di culto finora accertate. Particolare interesse rivestono due basiliche, una a sud del foro e un'altra al limite settentrionale del perimetro urbano. La loro peculiarità consiste nel fatto che la prima, un edificio a tre navate, con impianto martiriale, che presenta almeno tre differenti fasi edilizie tra IV e VII secolo, ospiti la sepoltura di Hildenguns, il cui antroponimo costituisce una rara testimonianza di deposizione vandala, mentre nella seconda chiesa venne deposto il vescovo Rutilius. Anche il frigidarium di un impianto termale venne modificato per la creazione di un piccolo martyrium. Il centro appare prospero ancora in età bizantina, quando nell'area di un impianto termale viene edificata una fortezza, un castrum con cinta muraria realizzata in blocchi di spoglio e dotata di un unico accesso. All'interno è stata notata la presenza di un edificio di culto cristiano e di un'area destinata a scopi funerari. La città sembra decadere in concomitanza con l'invasione hilaliana.
G. Picard, s.v. Mactar, in EAA, IV, 1961, pp. 759-60; G.-Ch. Picard, Les grands thermes orientaux à Mactar, in BAParis, n. s., 8 (1972), pp. 151-53; A. Mastino, La ricerca epigrafica in Tunisia, in Africa Romana I, pp. 73-128; F. Prévot, Recherches archéologiques franco-tunisienne à Mactar, V. Les inscriptions chrétiennes, Rome 1984; M. Milella, La decorazione architettonica di Mactaris, in Africa Romana VI, pp. 418-29; N. Duval, s.v. Mactar, in EAA, II Suppl. 1971-1994, II, 1995, pp. 496-99.
di Francesca Romana Stasolla
Centro dell'Africa Proconsularis, quindi in Zeugitana, localizzato dalla Tabula Peutingeriana (VI, 3) e identificabile con i resti scavati in località Henchir Rougga in Tunisia.
Le ricerche sul terreno, unite all'analisi di foto aeree, hanno permesso una ricostruzione di parte dell'impianto urbano romano, probabilmente una ristrutturazione di un precedente insediamento libico-punico databile tra la fine del I e l'inizio del II sec. d.C., frutto di un processo di organizzazione dello spazio che sembrerebbe rispettare l'orientamento solare. Oltre alle necropoli extraurbane, sono stati identificati gli andamenti degli assi stradali principali; i resti dell'anfiteatro alle pendici dell'abitato; il teatro, a 800 m dalla porta settentrionale; grandi cisterne, i soli monumenti integralmente conservati che avevano già attirato l'attenzione dei viaggiatori ottocenteschi. Gli scavi degli anni Settanta del Novecento hanno consentito di definire l'articolazione dell'area forense, con la platea, i portici e i templi gemelli. È stato inoltre possibile ricostruire le tracce della centuriazione del territorio di pertinenza della città. L'abitato sembra essere scarsamente edificato, con poche domus che non sfruttano intensivamente lo spazio urbano a disposizione. L'ipotesi avanzata dagli studi più recenti, sulla base delle emergenze monumentali finora note e soprattutto della loro articolazione nell'area urbana, vede nel centro di R. una sorta di punto di raccordo di una popolazione rurale dispersa. Poco si conosce delle vicende postromane del centro, ma il ritrovamento di un significativo tesoro di monete bizantine consente di prevederne una continuità di vita almeno fino a tale momento.
R. Guéry - C. Morrisson - H. Slim, Recherches archéologiques franco-tunisiennes à Rougga, III. Le trésor de monnaies d'or byzantines, Rome 1982; R. Guéry, Survivance de la vie sédentaire pendant les invasions arabes en Tunisie centrale: l'exemple de Rougga, in BAParis, 19 (1985), pp. 399-410; G. Hallier, Les citernes monumentales de Bararus (Henchir Rougga) en Byzacène, in AntAfr, 23 (1987), pp. 129-48; P. Trousset, s.v. Bararus (Rougga), in EBerbère, IX, 1991, pp. 1340-342; Id., L'organisation de l'espace urbain de Bararus (Rougga), in Africa Romana X, pp. 602-13.
di Francesca Romana Stasolla
Città della Tunisia, nei pressi di Sbeitla, il cui nome deriva, come diminutivo, dalla vicina città di Sufes; sorse probabilmente nel I sec. a.C., nell'ambito del processo di razionalizzazione del territorio seguito alla guerra di Tacfarinas e alla pacificazione con i Musulami, una tribù indigena che occupava un territorio poco distante. Le principali attestazioni architettoniche e urbanistiche sono di II-III sec. d.C., epoca alla quale si ascrive un periodo di floridezza della città. Alla fine del II secolo, da municipio divenne colonia (Colonia Sufetulensis).
La sua prosperità si deve alla posizione particolarmente favorevole, nei pressi di un crocevia di strade importanti, e al fertile territorio che la circonda, conosciuto per la produzione olearia. Quanto all'impianto urbano, sono noti il foro, di forma quadrata, circondato da un muro nel quale si aprono tre porte monumentali; un grande complesso termale doppio; il teatro, per il quale una fonte epigrafica attesta l'uso ancora nel IV secolo; l'anfiteatro e alcuni edifici cultuali. Necropoli circondavano il centro abitato. S. fu sede diocesana almeno a partire dalla metà del III secolo e fu interessata dalle controversie donatiste, che comportarono qui, come in altri centri africani, la duplicazione degli episcopati, cosicché nel 411 la città aveva un vescovo cattolico e uno donatista. Con la conquista vandala, nel 484 il vescovo Praesidius, rifiutando di abiurare alla fede cattolica in favore del credo ariano dei nuovi conquistatori, venne costretto all'esilio. Sono stati rinvenuti vari edifici di culto cristiani, anche di carattere funerario, sia in ambito urbano, sia nel territorio di pertinenza della città, databili per lo più tra V e VI secolo sulla base dei mosaici pavimentali.
Il gruppo episcopale comprende due basiliche: la Basilica I detta "di Bellator", edificata nella seconda metà del IV secolo su un edificio pubblico di età romana, a tre navate, e la più grande Basilica II, detta "di Vitalis", costruita probabilmente nella prima metà del VI secolo su edifici privati, a cinque navate. Questa seconda basilica presenta una doppia abside, opposta alla prima, destinata al culto martiriale. Il complesso era arricchito da una cappella e da un battistero, oltre che da strutture annesse, tra cui un impianto termale. Alla coeva fase edilizia monumentale si può ascrivere qualche elemento di arredo urbano, quali le fontane, mentre resti musivi e di decorazione architettonica di marmo confermano l'esistenza di un'edilizia abitativa di rilievo. Al periodo bizantino risalgono interventi di fortificazione del centro urbano, che hanno coinvolto anche il foro, con la chiusura degli accessi e l'edificazione di muri di protezione, con ogni probabilità per la costruzione di un piccolo castrum urbano, sulla scorta di quanto avvenuto per altri insediamenti della regione. Nel 647 fu teatro dei primi scontri tra Bizantini e Arabi, in quanto sede di Gregorio, esarca d'Africa; recenti scavi in complessi religiosi hanno evidenziato un prosieguo di vita della città anche successivamente alla conquista araba, sebbene al momento se ne ignorino le modalità.
N. Duval, s.v. Sufetula, in EAA, VII, 1966, pp. 549-51; Id., Recherches archéologiques à Sbeïtla, I. Les basiliques de Sbeitla à deux sanctuaries opposés, Rome 1971; N. Duval - F. Baratte, Les ruines de Sufetula - Sbeitla, Tunis 1973; N. Duval, L'urbanisme de Sufetula - Sbeïtla, in ANRW, II, 2, 1982, pp. 596-632; F. Béjaoui, Sbeïtla, l'antique Sufetula, Tunis 1994; N. Duval, Les églises doubles d'Afrique du Nord, in AntTard, 4 (1996), pp. 179-88; F. Béjaoui, Une nouvelle église d'époque byzantine à Sbeïtla, in Africa Romana XII, pp. 1175-183.
di Giuseppina Alessandra Cellini
Dopo la crisi della seconda metà del III sec. d.C. si attua la riforma dioclezianea: l'Africa Proconsularis viene suddivisa in Zeugitana, Byzacena e Tripolitania. La regio Tripolitana durante la prima Tetrarchia, presumibilmente intorno al 303 d.C., ebbe governo di provincia autonoma, con praeses per l'amministrazione civile e dux per il comando militare. Subì a più riprese le incursioni degli Austuriani (363 e 364-367), mentre fu assoggettata dai Vandali intorno al 455. Nel 468 fallì il tentativo di Eraclio di riconquistare la regione all'impero bizantino. Al tempo del re Trasamondo, tra il 484 e il 496, le popolazioni berbere, guidate da un certo Cabaon, inflissero ai Vandali una cocente sconfitta. Il dominio dei Vandali si protrasse fino al 533, quando l'imperatore bizantino Giustiniano, nell'ottica di una renovatio imperii, intervenne in un conflitto dinastico tra Gelimero e Ilderico, inviando un piccolo contingente militare al comando del generale Belisario. Costui riuscì ad abbattere l'ormai logoro regno vandalo, a cui subentrò la dominazione bizantina. Sotto il governo di Bisanzio, la zona costiera godette di una certa prosperità; nell'interno si mantennero potenti le tribù berbere, tra cui quelle dei Luata, Zenata e Nefusa.
Secondo le fonti arabe, la prima invasione della Tripolitania risalirebbe all'anno 22 dell'Egira (30 novembre 642 - 18 novembre 643). Furono conquistate Tripoli e Sabratha, ma il territorio non fu definitivamente assoggettato. Si resero necessarie ulteriori spedizioni, condotte da Uqba ibn Nafi tra il 669 e il 675, per assicurare il dominio arabo sulla costa e sulla Tripolitania occidentale. Nel 685 i Berberi di Baranis, guidati da Kusaila, successivamente da una donna, detta "la Profetessa", si sollevarono e solo dopo una lunga guerra all'inizio dell'VIII secolo ripresero il territorio perduto.
Dati gli intensi scambi tra Oriente e Occidente, il cristianesimo si diffuse presto sulla costa, dove esistevano centri organizzati a città. Le sedi episcopali note sono Girba, Tacape, Sabratha, Oea e Leptis Magna. La prima attestazione di una comunità cristiana organizzata risale alla fine del II sec. d.C., con il vescovo Archeo di Leptis Magna, autore di un trattato sulla Pasqua. Il medesimo, probabilmente di origine greco-orientale, afferma che la sua Chiesa era "apostolica". Quattro vescovi tripolitani parteciparono al concilio di Cartagine del 256: erano presenti i vescovi di Girba e Oea, quest'ultimo in rappresentanza anche di quelli di Leptis e Sabratha. Al concilio massimianista di Cabarsussi del 393 parteciparono i cinque rappresentanti di Girba, Tacape, Sabratha, Oea e Leptis Magna. Data la diffusione dello scisma donatista, al concilio di Cartagine del 411 quasi tutte le sedi inviarono contemporaneamente un vescovo cattolico e uno donatista. Secondo le fonti, anche le chiese dell'altipiano avrebbero avuto una tradizione "apostolica". Sembra però che in ogni caso la diffusione del cristianesimo risalga al IV secolo. È possibile che la Arzugitana regio ricordata da s. Agostino e da documenti ecclesiastici del tardo IV secolo comprendesse il Gebel e le terre predesertiche a sud del Gebel della provincia dioclezianea di Tripolitania.
Lo studio dei monumenti paleocristiani della Tripolitania ebbe grande impulso all'inizio del XX secolo. Eminenti studiosi resero noti i risultati delle loro ricerche dapprima attraverso notizie preliminari, successivamente con sintesi di più ampio respiro (Romanelli 1918-19; 1925-26; Bartoccini 1926; 1929; Caputo 1947). In seguito a scoperte fortuite vennero alla luce il sepolcreto cristiano di En-Ngila, l'ipogeo di Sirte e l'area cimiteriale di Ain Zara presso Tripoli (Bartoccini 1929; Aurigemma 1932). Furono quindi esplorati i complessi basilicali di Sabratha e di Leptis Magna, di el-Asabaa e di Breviglieri. Le testimonianze epigrafiche e archeologiche sulla Tripolitania furono raccolte in importanti opere risalenti agli anni 1952-53 (IRT; Goodchild - Ward-Perkins 1953). Nel 1960 S. Aurigemma pubblicò un corpus di mosaici della Tripolitania, dedicando particolare attenzione al pavimento della basilica giustinianea e ai mosaici geometrici del complesso basilicale a nord del teatro di Sabratha. Sono state analizzate da A. Di Vita le modalità di diffusione del cristianesimo tra le comunità rurali del Gebel tripolitano. Esse ebbero una grande rilevanza economica tra IV e VI secolo, a differenza delle città della costa, impoverite dagli eventi sismici del IV secolo, dall'instabilità politica e dalle lotte religiose. Si è manifestata una certa continuità nei luoghi di culto, dal momento che non di rado le chiese del Gebel vengono trasformate in moschee. La chiesa di Breviglieri e il forte adiacente sono stati oggetto di approfondite analisi (De Angelis d'Ossat - Farioli 1975). Nel complesso sacro, in cui sono integrati l'aula basilicale, il battistero e gli annessi, nonostante la "povertà" dei materiali, si ravvisano caratteri di originalità. La scultura architettonico-decorativa appare come l'espressione di una cultura periferica che conserva la memoria dell'intaglio ligneo, arricchita da apporti barbarico-vandalici e bizantini.
La catacomba di Sabratha, scoperta fortuitamente nel 1942, rappresenta il sistema ipogeo più articolato della Tripolitania (Nestori 1972-73). La catacomba fu utilizzata in modo intensivo per un arco di tempo compreso tra la fine del III e il V secolo. Una serie di gallerie si snoda lungo la direttrice sud-est/nord-ovest del corridoio principale B, su cui s'innestavano i bracci minori e il corridoio A. Le sepolture sono disposte entro grandi arcosoli polisomi familiari, in loculi lungo le pareti della galleria, in tombe "a sarcofago composito" poste anche in due ordini sovrapposti. La struttura architettonica appare differente da quella delle catacombe di Roma, mentre presenta affinità con quella delle catacombe siciliane. Gli scavi nell'area cimiteriale di En-Ngila hanno fornito indicazioni importanti per comprendere la sopravvivenza del cristianesimo anche dopo la conquista araba. In particolare, si è potuta appurare la presenza di un nucleo di cristiani organizzato, con gerarchia ecclesiastica di tipo monastico, in stretti rapporti con Roma (Bartoccini - Mazzoleni 1977). A Gargaresch, sobborgo di Tripoli, è stato rinvenuto un ipogeo cristiano impiantato su una vecchia cava di pietra. Molto significative le figurazioni dipinte sulle pareti: Adamo ed Eva, il ritratto della defunta Aelia Arisuth, una scena di circo, il rito del refrigerium. Sulla base di affinità con i mosaici di Piazza Armerina è stata proposta una datazione nella seconda metà del IV sec. d.C. (Di Vita 1978). La serie di pitture appare tematicamente vicina al ciclo di affreschi di Sidret el-Balik, alla periferia sud di Sabratha, della metà del IV secolo, distrutto dal sisma del 365 d.C., in cui sono rappresentati paradeisos di animali e bestie feroci, scene di caccia e di vita in borghi abitati.
A nord del teatro di Sabratha è venuto alla luce un complesso costituito da due chiese, due sacrestie e due battisteri collegati alle chiese mediante passaggi lastricati e un'area cimiteriale recintata. L'area era in precedenza occupata da due costruzioni pubbliche, andate in disuso dopo il terremoto del 21 luglio 365: a nord un magazzino, a sud un edificio termale. Nel corso della prima fase, con il terminus post quem costituito dal sisma del 365 e con il terminus ante quem rappresentato dall'invasione barbarica del 455, furono edificati i seguenti edifici: le due chiese, l'atrio con la tomba del chierico Stidin, il Battistero A e l'area cimiteriale con le tombe più antiche. Durante la seconda fase, posteriore alla conquista vandalica ma comunque prebizantina, sarebbe stato costruito il Battistero B (Bonacasa Carra 1992). A Ghirza, 250 km a sud-est di Tripoli, sono venuti alla luce resti di un importante insediamento. Sono degne di nota le tombe monumentali, decorate con scene di vita e soggetti tratti dalla mitologia greca e romana (Brogan - Smith 1984).
La sopravvivenza del sostrato indigeno è stata studiata attraverso la diffusione dei culti tradizionali (ad es., quello di Saturno) e l'onomastica. Alcuni studiosi aderiscono alla tesi tradizionale di una profonda romanizzazione del territorio, altri ritengono che tra il IV e il VI secolo si attuò una forte "resistenza indigena" attraverso lo scisma donatista. Il periodo vandalo è stato profondamente indagato, anche se non ha lasciato profonde tracce di sé. Sappiamo che operò nel segno della continuità con la tradizione precedente: si mantennero a lungo le relazioni politiche con l'Impero d'Occidente e con Bisanzio, continuarono le esportazioni, soprattutto di ceramica, e la circolazione monetaria. Non è stato però compiutamente definito lo status giuridico di quella monarchia, autonoma rispetto all'Impero.
La diffusione del cristianesimo, dal III secolo, comportò la costruzione di chiese all'interno del centro urbano a partire dal IV secolo. Si ipotizza che per tutto il IV secolo e oltre si sia mantenuto l'uso dei banchetti comunitari e familiari sulle tombe dei martiri o dei semplici fedeli. La documentazione epigrafica consente di conoscere comunità più o meno note. Le chiese prebizantine si caratterizzano come edifici di non grande ampiezza, sorti su strutture preesistenti: quella a sud del foro di Sabratha è stata ricavata in un edificio civile, le altre sono state edificate sopra costruzioni del periodo romano. Nel Gebel le chiese di el-Khadr, Gasr Maamura e Khafagi Aamer facevano parte di più ampi complessi, presumibilmente pertinenti a castelli o fattorie fortificate. Le chiese (a eccezione di quella del Foro Vecchio di Leptis Magna) hanno la fronte orientata verso oriente. Non sono dotate né di nartece (tranne quella del Foro Vecchio di Leptis Magna) né di atrio (a eccezione della più grande delle due chiese a nord del teatro di Sabratha). L'interno è generalmente suddiviso da colonne o pilastri semplici in tre navate. Sulle colonne ricadevano arcate piuttosto che architravi. La navata centrale di solito terminava con un'abside, più o meno sopraelevata. L'abside sporgeva verso l'esterno o era chiusa esternamente da un muro rettilineo. A el-Khadr terminavano con absidi anche le navate minori. Il banco per il clero è attestato nell'abside della chiesa del Foro Vecchio di Leptis e forse anche nella chiesa di el-Khadr. La copertura della navata centrale è generalmente a tetto, quella delle navate laterali a volta a botte. I pastofori sono assenti nelle chiese più antiche della Tripolitania, a eccezione di Gasr es-Suq el-Oti e Khafagi Aamer. La parte terminale della navata centrale, il presbiterio, recinto da cancelli e balaustre, ospita l'altare a mensa, sormontato dal ciborio. In due chiese di Sabratha il battistero è una vasca quadrangolare rispettivamente collocata dietro l'abside o in un ambiente a lato della chiesa.
L'occupazione bizantina ha lasciato numerose testimonianze archeologiche: in età bizantina furono restaurate e ricostruite molte chiese. In tutti questi edifici è molto diffusa la pianta basilicale, mentre si sviluppa la controabside, che consente di orientare verso est chiese in precedenza rivolte verso ovest. Sempre in età bizantina molte chiese vengono dotate di un battistero cruciforme. A Leptis Magna e a Sabratha si è creduto di poter identificare le chiese attribuite da Procopio a Giustiniano. Mentre la chiesa di Sabratha mostra una pianta "africana" classica, quella di Leptis Magna rappresenta un adattamento della grande basilica severiana. In entrambe risulta introdotto l'ambone. Sembra che alcune chiese siano state costruite o ricostruite introducendo nella pianta basilicale coperture a volta: si tratterebbe di un elemento innovativo, l'equivalente africano delle "basiliche a cupola" dell'Oriente greco. Dopo la riconquista bizantina del Mediterraneo occidentale si verificarono importazioni massicce, via mare e limitate alle zone costiere, di marmo. Sono stati rinvenuti a Leptis Magna e Sabratha capitelli, rilievi, plutei, colonne di ciborio. Alcuni elementi sono il frutto di importazioni dirette, altri copie da modelli bizantini. Soprattutto le colonnine e le mense, le cui tipologie sono diffuse lungo tutto il Mediterraneo, sarebbero giunte dall'Oriente.
Nella regione del Garian sono visibili i resti delle chiese di el-Asabaa, Henchir Taglissi, Tebedut. La chiesa di el-Asabaa, preceduta da nartece, ha la fronte rivolta a nord-est. Era suddivisa da colonne in tre navate; quelle laterali erano coperte con volta a botte. In mezzo al presbiterio, recintato da cancelli, si trovava l'altare sormontato da ciborio. L'abside era chiusa esternamente da un muro rettilineo. In età bizantina fu aggiunto dietro all'abside il battistero. Provengono dalla chiesa molti elementi architettonici: mensole e pulvini appaiono decorati, a rilievo piatto e rozzo, con motivi cristiani. La chiesa di Henchir Taglissi faceva parte di un complesso pertinente a una fattoria fortificata. Sarebbe stata ricostruita nel IV secolo grazie all'intervento di un certo Emiliano donatista. Anche la chiesa di Tebedut, di pianta approssimativamente quadrangolare (15 × 13 m), volta a oriente, suddivisa in tre navate, con abside sporgente, costituiva parte di un insieme di costruzioni più ampio.
Gebel orientale
Si conservano i resti delle chiese di Breviglieri e di Gasr Maamura. Nella prima fase costruttiva, anteriore all'età bizantina, la chiesa di Breviglieri, con fronte a oriente, aveva la pianta a forma di quadrilatero. L'interno era a tre navate, ciascuna divisa da quella adiacente da due file di cinque colonne. Le absidi, tre alle estremità sia della navata centrale che di quelle laterali, erano chiuse esternamente da un muro rettilineo. Provengono dalla basilica moltissimi elementi architettonici figurati di età bizantina: capitelli, blocchi parallelepipedi di imposta, mensole, incorniciature di finestre, decorati con trecce, roselline, linee a zig-zag, tralci di vite. Resi a rilievo piatto o a intaglio minuto, sono espressione di una cultura periferica che ha conservato memoria dell'intaglio ligneo. Aspetti stilistici bizantini sembrano convivere con altri di origine barbarico-vandalica.
A Gasr Maamura una piccola cappella a trikonchos era situata sopra un costone dominante un dirupato vallone. L'edificio, con la fronte volta a sud, era preceduto da un corridoio o nartece. Era dotato di un vano centrale quadrangolare, coperto a tetto, sul quale si aprivano tre absidi, chiuse esternamente da un muro rettilineo. La chiesa di Khafagi Aamer sorgeva sulla cresta di uno sperone tra i due bracci di un torrente affluente del Soffegin. Per la natura stessa del terreno la costruzione si sviluppava in elevato, assumendo l'aspetto di torre. La chiesa, dalla fronte rivolta a oriente, appariva divisa in tre navate da colonne che sostenevano arcate; l'abside, affiancata da pastofori, era notevolmente sopraelevata rispetto alle navate. In età bizantina fu aggiunto il battistero, dalla vasca cruciforme. Circa 20 km a sud-est di Beni Ulid sorgeva la chiesa di Gasr es-Suq el-Oti, che faceva in origine parte di un complesso più ampio, presumibilmente una fattoria fortificata. La chiesa aveva pianta basilicale a tre navate, con abside occidentale sopraelevata, dotata di pastofori; uno di questi, in una fase più tarda, fu usato come battistero. In età bizantina fu aggiunta un'abside orientale.
P. Romanelli, Monumenti cristiani del Museo di Tripoli, in Nuovo BACr, 24-25 (1918-19), pp. 27-49; Id., Le sedi episcopali della Tripolitania antica, in AnnPontAcRom, 4 (1925-26), pp. 155-56; R. Bartoccini, Le antichità della Tripolitania, in Aegyptus, 7 (1926), pp. 49-96; Id., Scavi e rinvenimenti in Tripolitania negli anni 1926-27. Asàbaa: basilica cristiana del VI secolo. Sirte: ipogeo cristiano del IV secolo, in Africa Italiana, 2 (1929), pp. 77-92, 187-200; S. Aurigemma, L'area cemeteriale cristiana di Áin Zára presso Tripoli di Barberia, Roma 1932; P. Romanelli, L'origine del nome "Tripolitania", in AnnPontAcRom, 9 (1933), pp. 25-31; A. Merighi, La Tripolitania antica, I-II, Verbania 1940; P. Romanelli, La basilica cristiana nell'Africa settentrionale italiana, in Atti del IV Congresso Internazionale di Archeologia Cristiana (Roma, 16-22 ottobre 1938), I, Roma 1940, pp. 245-89; G. Caputo, Schema di fonti e monumenti del primo cristianesimo in Tripolitania, Tripoli 1947; IRT; R.G. Goodchild - J.B. Ward-Perkins, The Christian Antiquities of Tripolitania, in Archaeologia, 95 (1953), pp. 1-84; S. Aurigemma, L'Italia in Africa, le scoperte archeologiche (1911-1943). Tripolitania, I. I monumenti dell'arte decorativa, Roma 1962; A. Di Vita, La diffusione del Cristianesimo nell'interno della Tripolitania attraverso i monumenti e le sue sopravvivenze nella Tripolitania araba, in CARB XIII (1966), pp. 119-40; R.G. Goodchild, Fortificazioni e palazzi bizantini in Tripolitania e Cirenaica, ibid., pp. 225-50; P. Romanelli, Basiliche e battisteri di età paleocristiana in Tripolitania, ibid., pp. 413-24; Id., Chiese e battisteri di età bizantina in Tripolitania, ibid., pp. 425-32; Id., Le provincie africane e Roma, in Tardo antico e alto medioevo. La forma artistica nel passaggio dall'antichità al medioevo. Atti del Convegno Internazionale (Roma, 4-7 aprile 1967), Roma 1968, pp. 143-70; A. Nestori, La catacomba di Sabratha (Tripolitania). Indagine preliminare, in LibyaAnt, 9-10 (1972-73), pp. 7-24; N. Duval, L'architecture chrétienne de l'Afrique du Nord dans ses rapports avec le Nord de l'Adriatique, in Aquileia e l'Africa. Atti della IV settimana di studi aquileiesi (Aquileia, 28 aprile - 5 maggio 1973), Udine 1974, pp. 353-68; R. Farioli, Mosaici pavimentali dell'Alto Adriatico e dell'Africa Settentrionale in età bizantina, ibid., pp. 285-302; G. De Angelis d'Ossat - R. Farioli, Il complesso paleocristiano di Breviglieri (El Khadra), in QuadALibia, 7 (1975), pp. 27-156; R. Bartoccini - D. Mazzoleni, Le iscrizioni del cimitero di En-Ngila, in RACr, 53 (1977), pp. 157-98; A. Di Vita, L'ipogeo di Adamo ed Eva a Gargaresc, in Atti del IX Congresso Internazionale di Archeologia Cristiana (Roma, 21-27 settembre 1975), II, Città del Vaticano 1978, pp. 199-256; J. Christern, Emporenkirchen in Nordafrika, in Akten des VII. Internationalen Kongresses für Iranische Kunst und Archäologie (München, 7-10 September 1976), Berlin 1979, pp. 407-25; P. Romanelli, In Africa e a Roma: scripta minora selecta, Roma 1981; O. Brogan - D.J. Smith, Ghirza. A Libyan Settlement in the Roman Period, Tripoli 1984; K. Dunbabin, Mosaics of the Byzantine Period in Carthage: Problems and Directions of Research, in P. Senay (ed.), Carthage VII. Actes du Congrès International sur Carthage, 2 (Trois-Rivières, 10-13 octobre 1984), Québec 1985, pp. 9-26; A. Di Vita, Antico e tardo-antico in Tripolitania. Sopravvivenza e metodologia, in Africa Romana VII, pp. 347-56; Id., Sismi, urbanistica e cronologia assoluta. Terremoti e urbanistica nelle città della Tripolitania fra il I secolo a.C. ed il IV secolo d.C., in L'Afrique dans l'Occident romain (Ier siècle av. J.-C.- IVe siècle ap. J.-C.). Actes du Colloque (Rome, 3-5 décembre 1987), Rome 1990, pp. 425-94; R.M. Bonacasa Carra, Il complesso paleocristiano a Nord del teatro di Sabratha, in QuadALibia, 14 (1991), pp. 117-214; A.D. Welsby, The UNESCO Lybian Valleys Survey XXIV: a Late Roman and Bizantine Church at Souk el Awty in the Tripolitanian Pre-Desert, in LibSt, 22 (1991), pp. 61-80; R.M. Bonacasa Carra, Marmi dell'arredo liturgico delle chiese di Sabratha, ibid., 15 (1992), pp. 307-26; C. Lepelley, The Survival and Fall of the Classical City in Late Roman Africa, in J. Rich (ed.), The City in Late Antiquity, London - New York 1992, pp. 50-76; I. Sjöström, Tripolitania in Transition. Late Roman to Islamic Settlement, Aldershot 1993; R.M. Bonacasa Carra, L'archeologia cristiana in Libia negli ultimi cinquant'anni, in CARB XLII (1995), pp. 95-114; D.J. Mattingly, Tripolitania, London 1995; L. Bacchielli - M. Bonanno Aravantinos (edd.), Scritti di antichità in memoria di Sandro Stucchi, II. La Tripolitania, l'Italia e l'Occidente, Roma 1996; A. Di Vita - G. Di Vita-Evrard - L. Bacchielli, La Libye antique: cités perdues de l'Empire romain, Paris 1998; J. Willeitner - H. Dollhopf, Libyen: von den Felsbildern des Fezzan zu den antiken Städten am Mittelmeer, München 1998, p. 70 ss.; J.-M. Blas de Roblès, Libye grecque, romaine et bizantine, Aix-en-Provence 1999; G. Curzi, s.v. Tripoli, in EAM, XI, 2000, pp. 353-54.
di Giuseppina Alessandra Cellini
Nella città sono state rinvenute tracce delle fortificazioni posteriori all'occupazione vandalica del V sec. d.C. e parte del sistema difensivo di età bizantina, realizzato dal patrizio Solomone nell'area monumentale tra il 534 e il 544 e completato in prossimità del porto dal dux Sergio. La cerchia, rafforzata da torri quadrangolari, inglobava alcuni monumenti preesistenti, trasformando il foro severiano in uno snodo difensivo.
Non disponiamo di molte notizie riguardo alla diffusione del cristianesimo a L.M. nei secoli IV e V. È probabile che già prima della riconquista bizantina nel Foro Vecchio venisse innalzato un edificio cristiano (Chiesa II) al posto di un tempio di età traianea. Secondo Procopio (Aed., VI, 4, 4-6), Giustiniano fondò o restaurò un tempio dedicato alla Theotokos e altre quattro chiese. È probabile che in età bizantina alcuni edifici preesistenti siano stati trasformati in chiese: ciò si può essere verificato nel caso della basilica severiana (Chiesa I) e del tempio di Giove Dolicheno (Chiesa III), di cui sopravvive l'antistante battistero. Nel ninfeo, posto tra la via colonnata e la facciata del foro severiano, fu forse adattata la Chiesa VI, a pianta basilicale, con abside, battistero e area cimiteriale (con tombe risalenti alla fine dell'età vandalica). Rimangono pertanto ancora incerte la datazione della Chiesa IV e dell'edificio cristiano nell'Insula 8 della regio III, presso il Chalcidicum, e l'interpretazione della cosiddetta Rotonda nella zona degli scavi nuovi (Vergara Caffarelli - Caputo 1964).
Non sappiamo quale edificio assolse la funzione di cattedrale; le chiese I e II, entrambe dotate di battistero e situate in un'area centrale, in prossimità del Foro Vecchio e del foro severiano, potrebbero entrambe aver svolto tale funzione. Si è perciò ipotizzato che fossero rette l'una da un vescovo donatista, l'altra da un vescovo seguace dell'ortodossia cattolica. La Chiesa I, dedicata da Giustiniano alla Theotokos, conservò l'impianto della basilica severiana, aula quadrangolare a tre navate con gallerie e absidi alle estremità est e ovest fiancheggiate da ambienti. Nell'abside orientale fu collocato l'altare e il presbiterio. L'ambone fu posto al centro della navata, mentre ospitò il battistero cruciforme l'ambiente a sinistra dell'abside occidentale. La Chiesa II fu innalzata sul podio del tempio preesistente. Ha pianta basilicale, suddivisa in tre navate da otto coppie di colonne. È dotata di nartece e presenta sul lato nord-est un'abside sporgente chiusa esternamente da un muro rettilineo. All'estremità della navata centrale si innalzava, sulla piattaforma del presbiterio chiusa da cancellata, l'altare, posto sotto un ciborio con colonne. Al centro della piazza del Foro Vecchio era collocata la vasca cruciforme del battistero, realizzata con materiale di spoglio.
R. Bartoccini, Scavi nel Foro Vecchio, in RACr, 8 (1931), pp. 23-52; E. Vergara Caffarelli - G. Caputo, Leptis Magna, Milano 1964; L. Musso, s.v. Leptis Magna, in EAA, II Suppl. 1971-1994, III, 1995, pp. 333-47 (con bibl. prec.); A. Bonanni, s.v. Leptis Magna, in EAM, VII, 1996.
di Giuseppina Alessandra Cellini
La città (gr. Σαβϱάθα; lat. Sabratha; ar. Ṣabra) della Libia, di fondazione tiria o cartaginese non anteriore al IV sec. a.C., fece parte del regno di Numidia nella prima metà del II sec. a.C. e, per volontà di Cesare, della provincia d'Africa. Sede episcopale dalla metà del III sec. d.C., fu coinvolta nel IV e nel V secolo nella controversia donatista. Nel 455 fu conquistata dai Vandali. Prosperò dopo la riconquista bizantina, ma negli anni 642/3 cadde in mano degli Arabi e fu colpita dall'assedio dei Berberi del 741.
La città antica non venne dotata di un vero e proprio sistema di fortificazioni fino all'inizio del IV secolo, quando fu realizzata una cinta muraria. Nel settore orientale e in quello meridionale si reimpiegò il materiale crollato dagli edifici distrutti in seguito al terremoto avvenuto tra il 306 e il 310; a difesa del suburbio occidentale si utilizzò parte di un preesistente muro di età ellenistica. La cinta muraria, distrutta dai Vandali, non venne successivamente ricostruita. Come già a Leptis Magna, i Bizantini, riutilizzando in parte il materiale preesistente, difesero con una linea di fortificazione solo il nucleo dell'abitato vicino al porto. A S. sono venute in luce quattro chiese, situate nel quartiere del foro e in quello a nord del teatro. La cosiddetta Basilica I, risalente alla prima metà del V secolo, venne adattata nella basilica civile ad absidi contrapposte situata a sud del foro. Sorgeva in prossimità di un'area funeraria di cui sopravvivono numerose testimonianze epigrafiche; fu dotata di abside, facciata e stilobati interni di nuova costruzione. L'edificio, già provvisto di battistero e di arredo liturgico di reimpiego, vide molteplici trasformazioni nel VI secolo, dopo la riconquista bizantina. Furono in tale occasione rinnovati la pavimentazione musiva, la vasca battesimale, l'arredo liturgico.
Nella cosiddetta Basilica II, edificata in età bizantina nel foro, vicino alla curia, è stata riconosciuta la chiesa dedicata da Giustiniano (Procop., Aed., VI, 4, 13). Costruita con materiale di spoglio, era divisa in tre navate da colonne sostenenti archi ed era dotata di un portico. È pregevole la pavimentazione a mosaici policromi, attualmente conservati nel Museum of Antiquities della città. Da un rigoglioso cespo di acanto hanno origine due robusti tralci di vite che, intrecciandosi lungo l'asse centrale, formano quattro "mandorle". Vari uccelli beccano i grappoli d'uva; sono rappresentati anche cigni, aquile, galline, anatre, fenicotteri, cicogne, galli, tortore, martin pescatori, fagiani, galline faraone e un pavone. Il motivo ornamentale fitomorfo, che presenta temi delle simbologie cristiana e imperiale, ne consente la datazione in età giustinianea. Per spiegare le significative affinità iconografiche e stilistiche con i mosaici di Ravenna e, più in generale, dell'alto Adriatico, si è ipotizzato un invio di mosaicisti da Costantinopoli su iniziativa dell'imperatore. N. Duval (1974) e R. Farioli (1974) vi hanno ravvisato invece l'influenza delle botteghe dell'Adriatico, forse mediata dalla Sicilia. K. Dunbabin (1985) ha ipotizzato che alcuni mosaicisti siano stati inviati da Costantinopoli a Cartagine; questi, dopo aver recepito spunti africani, sarebbero stati attivi a Ravenna e nell'area adriatica. In età bizantina si osserva in effetti una koinè artistica lungo tutto il Mediterraneo occidentale e non si può escludere che Costantinopoli rappresentasse il centro propulsore. L'arredo liturgico della cosiddetta Basilica II consiste in una recinzione presbiteriale con plutei marmorei con croci, un altare con l'incavo per le reliquie e un ambone ricavato da un frammento architettonico della trabeazione del Capitolium.
Le due basiliche contigue a nord del teatro con il battistero interposto, il sepolcreto e gli ambienti annessi, presumibilmente furono progettate come un complesso unico, probabilmente realizzato alla fine del IV o all'inizio del V secolo. Vi è stato riconosciuto il complesso episcopale paleocristiano di S., ipotizzando che la Basilica III rappresentasse lo spazio dedicato alla liturgia eucaristica e la Basilica IV accogliesse i catecumeni. Solo dopo la metà del V secolo le funzioni del complesso sarebbero state trasferite nella Basilica I (Bonacasa Carra 1991). La Basilica III, preceduta da un portico quadrangolare, era stata adattata nella sala porticata o aula basilicale di un precedente edificio termale. L'interno è suddiviso in tre navate; il presbiterio è dotato di altare e di abside sopraelevata, pavimentata da un mosaico a motivi vegetali e geometrici, ascritto alla seconda metà del IV secolo. La Basilica IV, a nord-est della precedente, era a tre navate, con presbiterio e altare nella navata centrale. Sorgeva accanto a un'area sepolcrale: questa parte della città aveva appunto tale destinazione, provata dal rinvenimento nello stesso quartiere di una catacomba suburbana forse d'età precostantiniana (Nestori 1972-73).
Bibliografia
R. Bartoccini, Guida di Sabratha, Roma - Milano 1927; E. Vergara Caffarelli - H. Bräuner, Sabratha, Stuttgart 1960; A. Nestori, La catacomba di Sabratha (Tripolitania). Indagine preliminare, in LibyaAnt, 9-10 (1972-73), pp. 7-24; N. Duval, L'architecture chrétienne de l'Afrique du Nord dans ses rapports avec le Nord de l'Adriatique, in Aquileia e l'Africa. Atti della IV settimana di studi aquileiesi (Aquileia, 28 aprile - 5 maggio 1973), Udine 1974, pp. 353-68; R. Farioli, Mosaici pavimentali dell'Alto Adriatico e dell'Africa Settentrionale in età bizantina, ibid., pp. 285-302; R. Bartoccini, Le iscrizioni sepolcrali nella basilica cimiteriale del foro di Sabratha (Tripolitania), in RACr, 51 (1975), pp. 144-67; A. Di Vita, L'area sacro-funeraria di Sidret el-Balik a Sabratha, in RendPontAcc, 53-54 (1980-82), pp. 273-82; K. Dunbabin, Mosaics of the Byzantine Period in Carthage: Problems and Directions of Research, in P. Senay (ed.), Carthage VII. Actes du Congrès International sur Carthage, 2 (Trois-Rivières, 10-13 octobre 1984), Québec 1985, pp. 9-26; P.M. Kenrich, The Historical Development of Sabratha, in Town and Country in Roman Tripolitania. Papers in Honour of Olwen Hackett, Oxford 1985, pp. 1-12; N. Duval, Études d'archéologie chrétienne nord-africaine: XVI - Une basilique chrétienne à deux absides à Sabratha (Tripolitaine)? La basilique I: une révision récente, in Revue des Études Augustiniennes, 33 (1987), pp. 269-301; R.M. Bonacasa Carra, Il complesso paleocristiano a nord del teatro di Sabratha, in QuadALibia, 14 (1991), pp. 103-243; Ead., Marmi dell'arredo liturgico delle chiese di Sabratha, ibid., 15 (1992), pp. 307-26; A. Di Vita, s.v. Sabratha, in EAA, II Suppl. 1971-1994, V, 1997, pp. 47-52; A. Bonanni, s.v. Sabratha, in EAM, X, 1999, pp. 217-18.
di Rosa Maria Carra Bonacasa
Con la riforma di Diocleziano la Cyrenaica venne separata da Creta e fece parte con l'Egitto e la Marmarica della diocesi di Oriente. Fu divisa in due province: Libya Superior o Pentapolis ‒ con le città di Cirene, Tolemaide, Berenice, Tocra, Derna ‒ e Libya Inferior che comprendeva la regione Marmarica da Derna ad Alessandria. La capitale fu trasferita prima a Tolemaide e poi, nella metà del V secolo, ad Apollonia-Sozousa che, per la naturale posizione era più facilmente difendibile dalle guarnigioni bizantine. Il terremoto del 262 d.C. e la successiva guerra marmarica avevano originato in Cyrenaica una grave crisi economica che fu risolta con l'intervento del prefetto di Egitto Tenegino Probo (268-270) e con l'impegno dell'imperatore Claudio II nell'opera di risanamento e ristrutturazione ambientale, tanto che la vecchia Cirene fu ribattezzata in Claudiopolis. Al periodo successivo al 262 e precedente al terremoto del 365 risalirebbero, infatti, le trasformazioni di alcuni templi cirenei e gli ammodernamenti di alcuni edifici pubblici nell'agorà e nel Quartiere Centrale, ma nel complesso si ha l'impressione di uno scadimento di interessi per l'edilizia sacra pagana e scarse novità si rilevano anche nell'architettura civile pubblica e privata.
Fuori da Cirene, meritano di essere ricordati il cosiddetto Tempietto dell'Arco Modanato nei pressi del foro di Tocra, e la nuova sistemazione del santuario rupestre libyo di Slonta nel Gebel, noto per una raffigurazione votiva di cinghiali scolpiti nella roccia. Degni di nota sono, inoltre, alcuni monumenti a carattere pubblico come il Tetrastilo rinvenuto presso le Arae Philenorum sul Golfo della Sirte e datato alla prima età tetrarchica dalle iscrizioni incise su alcuni rocchi di colonne. La ricostruzione ideale che è stata proposta ricorda le colonne con le statue dei Tetrarchi dietro i Rostra del Foro Romano.
A Tolemaide, la via monumentale ebbe un nuovo assetto in epoca tardoantica con la sistemazione dei portici di due isolati, con le modifiche arrecate alla pianta dell'aula dorica, destinata alle udienze pubbliche e con la costruzione dell'arco costantiniano a tre fornici sorretti da piloni a forma di croce equilatera e colonne tortili di marmo inserite negli spazi tra i bracci delle croci. Una cornice sormontava i capitelli delle colonne e coronava i tre archivolti. La struttura dell'attico era alleggerita da una serie di nicchie cieche, che ripetevano le dimensioni delle quattro aperture archivoltate presenti su ciascun pilone. Lastre di marmo sotto le nicchie dell'attico recavano una dedica in onore di Costantino databile al 311/2, cui fu aggiunta una seconda del 324 con l'indicazione dei vota. All'epoca di Arcadio e Onorio risale una terza epigrafe incisa direttamente sui blocchi sopra le nicchie dell'attico.
Sempre a Tolemaide, lungo la via monumentale, sorse una terma pubblica caratterizzata da un grande atrio circondato da ambulacri a due piani con colonnati di marmo blu e basi e capitelli corinzi di marmo bianco. Il bacino di una fontana, con un mosaico a pesci e uccelli sul pavimento e due doccioni a testa di leone, occupava due ambulacri in corrispondenza degli intercolumni nell'angolo sud-ovest. Gli ambienti termali si estendevano a sud su un'area coperta lunga 60 piedi e comprendevano un apodyterium e un grande calidarium con due vasche rettangolari e una fornace sul lato ovest. L'edificio ricevette un nuovo assetto in età bizantina: il grande atrio divenne un apodyterium e a est fu aggiunto un nuovo calidarium con due vasche semicircolari, preceduto da un vano di passaggio riscaldato. Tra le poche testimonianze che abbiamo sull'architettura funeraria del III-IV secolo vanno citate la tomba a tempietto di Zauia Mrassas (il cui modello è stato indicato nel cd. Tempio del Dio Redicolo sull'Appia) e la tomba di Gasr Gebra, a camera, scavata nella roccia, con un portichetto costruito davanti alla facciata.
Il terremoto del 365 e l'esodo causato dalla siccità segnarono la fine delle grandi città, che assunsero aspetti sempre più miseri. Tra tutte si distinse Tolemaide per l'impegno nell'edilizia pubblica dovuto al suo ruolo di capitale. Uno degli esempi più sontuosi di rostra venne costruito all'interno del quadriportico dell'antico ginnasio; un tetrapylon di colonne lisce di marmo bianco, su larghe basi a piramide gradinata, sormontate da capitelli corinzi e da statue, fu eretto nella seconda metà del V secolo, all'estremità est della via monumentale; il bouleuterion fu trasformato in un teatro acquatico e un teatro bizantino venne costruito con materiali piuttosto poveri e scadenti. Per la presenza di una grande aula di udienza, nella Casa della Trikonchos, a nord-ovest del forte di Anastasio, si è riconosciuto un palazzo tardoantico, forse la sede del dux, prima che, nella metà del V secolo, la capitale venisse trasferita ad Apollonia-Sozousa. Infine, il Quartier Generale del Dux potrebbe essere identificato in una costruzione di tipo militare sulla via monumentale, dalla quale proviene la copia di un decreto di Anastasio I inciso su tre blocchi reimpiegati nel muro perimetrale. Ad Apollonia, tra gli edifici bizantini spicca la grandiosa costruzione del Palazzo del Dux, a due piani con numerosi ambienti articolati attorno a un peristilio ad arcate e con una grande aula absidata per le udienze. Costruito non più tardi del 525, lo si può attribuire agli ultimi anni del regno di Anastasio I. Altri due palazzi bizantini sono stati riconosciuti a Tocra e a Berenice. Carattere pubblico hanno, pure, alcuni impianti termali bizantini di Cirene, di Tolemaide, di Apollonia e di Tocra che privilegiano gli ambienti per i bagni caldi divisi in due parti ben distinte a seconda del sesso dei frequentatori.
Ammiano Marcellino (XXII, 16, 4) ci informa che, oltre alle città della Pentapoli, esistevano nella parte più arida della Libia municipia pauca et brevia. Anche Sinesio ‒ figura straordinaria che segna la transizione tra paganesimo e cristianesimo, il cui nome è legato alla storia della Cirenaica cristiana ‒ nelle sue lettere ricorda insieme a Cirene alcuni villaggi sulla costa e nell'interno; ma solo per alcuni di questi insediamenti rimangono oggi testimonianze archeologiche, per lo più resti di edifici termali (Lamluda, Gabu Iunes, Mghernes, Wadi Senab) e di basiliche cristiane, queste ultime costruite piuttosto tardi, a partire dalla prima metà del V secolo. Secondo il vescovo Sinesio e secondo Procopio (Aed., VI, 2; VI, 4, 12) sembra, infatti, che il paganesimo fosse ancora ben radicato in Cirenaica almeno fino all'età di Giustiniano; al contrario, ben poche sono le fonti sul cristianesimo dei primi secoli. Secondo la tradizione copta l'evangelista Marco, appartenente a una famiglia ebraica cirenea, nel 48 d.C. avrebbe evangelizzato la Pentapoli. Simone di Cirene e altri cristiani cirenei vengono ricordati nei vangeli di Matteo (27, 32) e di Marco (15, 21) e negli Atti degli Apostoli (6, 9; 11, 20; 13, 1). Le notizie più antiche di un'organizzazione ecclesiastica risalgono, tuttavia, al III secolo: Eusebio (Hist. eccl., VII, 26) menziona Basilide vescovo degli abitanti della Pentapoli e ricorda (VII, 6) l'eretico alessandrino Sabellio per le sue dottrine sulla Trinità, così diffuse a Tolemaide nella metà del III secolo da indurre il vescovo di Alessandria Dionisio a chiedere l'intervento del pontefice Sisto II. Le liste dei sinodi riportano 11 sedi episcopali nella Pentapoli, tutte sottoposte alla giurisdizione di Alessandria.
Altri dati ci vengono dall'analisi dell'edilizia sacra cristiana. Si tratta in tutto di circa 50 chiese, tra quelle esplorate e quelle soltanto identificate sul Gebel Akhdar e lungo la costa; sono costruite preferibilmente in luoghi aperti o sopra dimore andate in rovina. Il tipo di chiesa più comune è la basilica a tre navate, divise da colonne o pilastri, con abside inscritta, orientata indifferentemente a ovest e a est. Per alcune (Basilica Orientale di Apollonia e Basilica Orientale di Cirene) l'impianto originario risalirebbe al V secolo, ma esse hanno certamente subito ammodernamenti nel periodo giustinianeo incluso il parziale o totale rinnovo della pavimentazione a mosaico. Tra la seconda metà del V e il VI secolo si data la grande chiesa di Ras el-Hilal, a tre navate divise da pilastri e dotata di un fonte battesimale per immersione. Altre, come la chiesa centrale di Apollonia, la basilica centrale di Cirene e le chiese di Tocra e Qasr el-Lebia, sono costruzioni del VI secolo, con strutture, arredi liturgici e mosaici coevi. Tra tutte spiccano le chiese di Apollonia, di Ras el-Hilal e di Latrun per la qualità degli arredi liturgici di marmo, che rientrano nelle tipologie più raffinate tipiche del VI secolo, prodotti delle officine metropolitane e del Mar di Marmara esportati in tutto il bacino del Mediterraneo. A una scuola di mosaicisti itineranti nella Cirenaica che avrebbero operato su modelli tradizionali, ma dietro i suggerimenti di una committenza ecclesiastica vigile e presente, è stata concordemente attribuita la paternità di quei mosaici delle chiese cirenaiche che si avvicinano per l'iconografia e lo stile a quelli del Grande Palazzo di Costantinopoli e che per la caratteristica divisione in riquadri, per la loro collocazione nella navata centrale, preferibilmente nella parte riservata ai catecumeni, sembra abbiano avuto un valore simbolico e docetico insieme. Non a caso il mosaico più completo, nella chiesa orientale di Qasr el-Lebia, voluto dal vescovo Macario nel terzo anno della XIV indizione (539/40), esprime concetti catechetici cristiani avvalendosi di un'iconografia di matrice pagana.
La riorganizzazione del territorio libico sotto Giustiniano nel VI secolo ebbe effetti benefici, ma poco duraturi, e, pertanto, le chiese, che erano nel territorio gli edifici più solidi della comunità, assunsero presto il ruolo di fortezze, molte delle quali ancora oggi ben conservate (Ras el-Hilal, Latrun). All'età bizantina risalgono pure alcuni cenobi ricordati da Sinesio (Epist., 58) e Procopio (Aed., VI, 2), resti dei quali sono stati riconosciuti nei complessi di Gasr el-Beida, Gasr Benigdem, Gasr el-Gaama, Siret Gasrin el-Giamel. L'identificazione di due fattorie bizantine e di alcuni complessi termali coevi a Gasr Stillu, el-Beida, Gasr Mismar, Gasr Khuraybah, Siret Ain Relles conferma quanto ricordato dalle lettere di Sinesio circa la presenza di insediamenti tardi sulla costa e nell'interno. Intorno alla metà del VII secolo gli Arabi sostituirono i Bizantini nel dominio della regione che subì un lento processo di islamizzazione conclusosi quasi del tutto al tempo di Omar II (720 ca.) com'è provato dal rinvenimento di epigrafi arabe nelle basiliche di Ras el-Hilal e di Tolemaide, oltre che dalle tracce di trasformazione o adattamento delle chiese in moschee.
J.B. Ward-Perkins, A New Group of Sixth-Century Mosaics from Cyrenaica, in RACr, 34 (1958), pp. 183-92; R.M. Harrison, A Sixth-Century Church at Ras-el-Hilal in Cyrenaica, in BSR, 32 (1964), pp. 1-15; J.B. Ward-Perkins, La basilica cristiana in Cirenaica 1953-1962, in Atti del VI Congresso Internazionale di Archeologia Cristiana (Ravenna, 23-30 settembre 1962), Città del Vaticano 1965, pp. 641-57; R.G. Goodchild, Chiese e battisteri bizantini della Cirenaica, in CARB XIII (1966), pp. 205-23; Id., Kyrene und Apollonia, Zürich 1971; V. Purcaro, Gasr Stillu - Tomba ellenistica e fattoria bizantina nella campagna di Cirene, in QuadALibia, 6 (1971), pp. 35-41; J.B. Ward-Perkins, Recent Works and Problems in Libya, in Actas VIII Congreso Internacional de Arqueología Cristiana (Barcelona, 5-11 octubre 1969), Barcelona - Città del Vaticano 1972, pp. 221-36; M. Guarducci, La più antica catechesi figurata: il grande mosaico della basilica di Gasr Elbia in Cirenaica, in MemLinc, s. VIII, 18 (1975), pp. 659-86, in part. p. 685; S. Stucchi, Architettura cirenaica, Roma 1975; E. Catani, I frantoi della fattoria bizantina di El-Beida, in QuadALibia, 8 (1976), pp. 435-48; V. Gambini - E. Catani, Nuove terme bizantine nei dintorni di Cirene, ibid., pp. 451- 63; W. Widrig, Two Churches at Latrun in Cyrenaica, in BSR, 46 (1978), pp. 94-131; E. Alföldi-Rosenbaum - J. Ward-Perkins, Justinianic Mosaic Pavements in Cyrenaican Churches, Roma 1980; N. Duval, Les monuments d'époque chrétienne en Cyrénaique à la lumière des recherches récentes, in Actes du XIe Congrès International d'Archéologie Chrétienne (Lyon - Vienne - Grenoble - Genève - Aoste, 21-28 septembre 1986), III, Città del Vaticano 1989, pp. 2743-796; R.M. Bonacasa Carra, Aspetti dell'architettura basilicale cristiana in Cirenaica fino all'età di Giustiniano, in E. Catani - S.M. Marengo (edd.), La Cirenaica in età antica. Atti del Convegno Internazionale di studi (Macerata, 18-20 maggio 1995), Pisa - Roma 1997, pp. 63-82; E. Catani, Fasi edilizie e tecniche murarie della fattoria paleobizantina di Siret el Giamel nella chora cirenea, ibid., pp. 113-35; R.M. Bonacasa Carra, Il quartiere centrale, in N. Bonacasa - S. Ensoli (edd.), Cirene, Milano 2000, pp. 149-57; E. Catani, La "chora", ibid., pp. 165-79; J.B. Ward-Perkins - R.G. Goodchild, Christian Monuments of Cyrenaica (ed. J. Reynolds), Hertford 2003.
di Rosa Maria Carra Bonacasa
Il terremoto del 262 d.C. e la guerra marmarica, che scoppiò immediatamente dopo, ebbero effetti disastrosi per tutta la Cyrenaica; anche C. risentì della recessione che coinvolse l'intera regione e alla quale l'imperatore Claudio II tentò di porre un freno impegnandosi nell'opera di risanamento ambientale tanto che il nome della città fu cambiato in Claudiopolis. Risalirebbero a questo periodo alcuni interventi nell'agorà che riguardano non solo l'arco orientale d'ingresso, col restringimento del passaggio viario e la creazione di botteghe che invasero tutto il lato sud della Skyrotà, ma anche la trasformazione, probabilmente in mercato, del grande portico ellenistico sul lato nord. Alla seconda metà del III secolo si datano sia il rifacimento del pronao tetrastilo del tempio di Iside e Serapide sull'acropoli che la creazione del naiskos nel muro di fondo della cella, riccamente ornato di marmi e destinato ad accogliere le statue di culto.
Con la riforma di Diocleziano, C. entrò a far parte della Libya Superior o Pentapolis perdendo il ruolo di capitale a favore di Tolemaide. Ciò nonostante, l'attività edilizia non sembra avere subito battute d'arresto nel corso del IV secolo, almeno fino al rovinoso terremoto del 365. Le nuove architetture mostrano un'evoluzione rispetto al periodo precedente che era stato caratterizzato dalla rapida ricostruzione di edifici pubblici e da intrusioni di edifici privati anche in aree pubbliche. A questo secondo momento edilizio appartengono il sacello ricavato nell'ambulacro del tempio di Apollo, con un podio per la statua di culto ornato da due colonnine di marmo grigio e capitelli ionici di marmo bianco tipici degli inizi del IV secolo; il vestibolo della scalinata all'agorà che, nella pianta rettangolare con gli ingressi tripartiti da due colonne marmoree e le nicchie per statue all'interno, richiama la Chalchè del palazzo di Costantinopoli nota da Procopio; l'edificio porticato del Quartiere Centrale, una costruzione pubblica ritenuta un ginnasio dai primi scavatori, della quale ancora non si conosce la funzione. Ammodernamenti furono fatti anche al Nomophylakeion, che mantenne inalterata la funzione di archivio, e alla attigua Sala dei Sedili, che venne dotata di una nicchia nella parete di fondo per accogliere una statua, nonché alle Terme della Myrtusa, specialmente negli ambienti riscaldati. Alquanto controversa sembra, invece, la cronologia del cosiddetto Edificio Inidentificato, noto per il propileo tetrastilo a colonne lisce, col sommo scapo lavorato a scanalature tortili, sormontate da capitelli corinzi con fogliame "a colpo di vento" e figure di Vittorie che imitano quelle del vicino propileo celebrativo dei Severi. Lo stile dei capitelli farebbe propendere per un'attribuzione del propileo agli anni precedenti il 365; si tratterebbe, quindi, di un'aggiunta più tarda a un monumento preesistente.
Per l'architettura civile privata alcuni dati per il periodo tardoantico sono reperibili nel perimetro dei portici est e ovest dell'agorà, dove si impiantarono abitazioni di forma irregolare con pochi ambienti distribuiti su due piani attorno a un cortile centrale. Dopo il terremoto del 365 C., secondo Ammiano Marcellino (XXVI, 10, 15-18), perse insieme all'antico splendore anche gran parte dei suoi abitanti. I resti archeologici non attestano interventi di ripristino dei monumenti di culto pagani e tra gli edifici pubblici spiccano il Pretorio, ricavato da un adattamento dell'antico Augusteo, e il Pritaneo, che ricevette un ampliamento a sud con la creazione di un'abside inscritta in un rettangolo. Massicci interventi di ripristino vennero operati al mercato nell'agorà e un nuovo teatro fu costruito con materiali di reimpiego nella parte centrale della città in sostituzione di quello a sud del Cesareo, crollato a causa di un terremoto.
Per quanto riguarda l'architettura sacra cristiana la testimonianza più antica sarebbe una domus ecclesia (Oikos Kyriakos) riconosciuta tra le rovine della basilica romana fiancheggiante la Porticus Caesarum distrutta dal terremoto del 365. Si tratta di un'aula con ingresso a occidente, pavimentata prima in cocciopesto e poi con frammenti di lastre di marmo. A oriente rimangono le basi delle colonnine di un probabile ciborium; un ambiente a nord, ripavimentato a mosaico, fungeva da annesso all'aula di culto. Gli altri edifici cristiani finora identificati a C. sono tre basiliche, un battistero e due martyria. La Basilica Orientale, probabilmente la cattedrale, sorgeva lungo l'asse viario che collegava il decumano massimo con la porta est. Nota dalle segnalazioni dei fratelli F.W. e H.W. Beechey, di R. Murdoch Smith e di E.A. Porcher, fu scavata nel 1954-56 da R.G. Goodchild. Presenta una fase di impianto del V secolo con un'aula stretta e lunga divisa in tre navate da colonne, abside a est, un ampio nartece a ovest e una serie di annessi lungo i lati nord e sud. Nel VI secolo la chiesa subì l'inversione dell'orientamento con la creazione, a ovest, di una controabside con synthronos semicircolare in muratura a più gradini. La navata centrale venne ampliata inglobando lo spazio delle navatelle e due nuove navate laterali, divise da pilastri che sorreggevano arcate, vennero ricavate al posto degli annessi a nord e a sud. L'ingresso principale era da sud-est aperto sulla strada. Un battistero fu costruito all'angolo nord-est con la vasca a livello del pavimento ricavata da un sarcofago romano coperta da un baldacchino sorretto da sei colonne.
La Basilica Centrale, più piccola, a tre navate divise da pilastri, con abside a occidente, sorgeva all'angolo di strada formato dal decumano del Quartiere Centrale con il cardo che conduceva al Cesareo. Per dare spazio alla chiesa vennero sacrificati i marciapiedi delle due strade, parte di una casa a peristilio preesistente, nonché il frigidarium e alcuni ambienti di ingresso delle Terme Centrali. L'accesso era da nord-est, attraverso un piccolo vestibolo e due vani in asse con la navata centrale e comunicanti col nartece attraverso due passaggi divisi da colonne. Due brevi scalinate superavano i dislivelli esistenti tra la strada e il vestibolo e tra il nartece e gli ambienti annessi. Nell'età di Giustiniano sia la cattedrale che la Basilica Centrale vennero dotate di mosaici pavimentali policromi. Nella cattedrale un grande tappeto di 230 m2 decorava la navata centrale, davanti al presbiterio; era formato da 126 pannelli quadrati disposti in 14 file di 9 ciascuna, collegati tra di loro da una fettuccia a due capi che intrecciandosi originava cerchi alternati a fusi. Ai pannelli con figure di uccelli, di animali vari e di piante si alternavano quelli con scene di caccia, di mungitura, di raccolta di frutti. Un mosaico con un paesaggio nilotico ornava la navata settentrionale; un altro era nella cappella all'angolo sud-est, caratterizzato da un emblema delimitato da tralci formanti cerchi riempiti con figure di animali e volatili; l'emblema comprendeva un'iscrizione su quattro righe e, al centro, un pannello con un coccodrillo che cerca di divorare una mucca che viene tirata per la coda da un personaggio in corta tunica.
Il mosaico della Basilica Centrale, oggi in pessimo stato di conservazione, interessava il presbiterio e la navata centrale. Pavoni e uccelli vari, antilopi e altri quadrupedi popolavano un paesaggio con alberi che occupava lo spazio adiacente l'altare. Il mosaico della navata consisteva in un grande tappeto centrale con motivi geometrici e riquadri, delimitato da un bordo con figure di animali e piante nel quale era inserita anche una scena di caccia alla tigre. La qualità superiore di questi tessellati è evidente nella nitidezza del disegno e nel naturalismo di alcune scene come la mungitura e il trasporto dell'antilope. Resta comunque ancora da chiarire se all'origine di questa scuola di mosaicisti siano da riconoscere influenze greche piuttosto che siriache. La terza basilica sorgeva fuori le mura, accanto al martyrion della necropoli sud che, insieme ad alcune sepolture individuate nella navata meridionale, attesta la funzione funeraria svolta dalla chiesa. Era a tre navate con abside a est, fiancheggiata da due pastophoria per lato; aveva un ingresso a ovest e un altro sul lato nord con un vestibolo collegato a una stradina proveniente dalle mura cittadine.
Nella necropoli settentrionale cirenea, in un'area nota dal toponimo arabo Kinissiah ("chiesa"), in età bizantina un preesistente martyrion venne inglobato in un complesso monumentale sacro, del quale costituiva il fulcro. Comprendeva un ampio vano di accesso coperto da una volta a conci regolari, un ambiente intermedio, con una grande tomba a sarcofago entro un arcosolio nella parete sinistra, e due camere gemelle con arcosoli e altre tombe più modeste. La parte esterna era recintata e collegata da due rampe di scala a un ambiente rettangolare stretto e lungo che occupava la terrazza superiore. La connessione martyrion-aula di culto richiama l'analoga sistemazione della Basilica Occidentale di Apollonia. Ancora nella necropoli settentrionale, tra tombe riutilizzate in età romana ‒ compresa la N83 con le spoglie di Demetria e del figlio, uccisi dal terremoto del 365 ‒ spicca la tomba N214, interamente scavata nella roccia, tipico prodotto dell'architettura funeraria cirenea della fine del II sec. d.C., influenzato da principi di assialità, frontalità e simmetria nel rapporto tra l'ingresso e la distribuzione delle sepolture (otto in tutto) in sarcofagi risparmiati nella roccia entro arcosoli. La frequentazione della tomba nei secoli successivi è particolarmente attestata nell'arcosolio numero 6 dalla decorazione pittorica di carattere cristiano: la scena del Buon Pastore sulla fronte del sarcofago e, nel catino dell'arcosolio, una figura maestosa di pavone che fa la ruota, adagiato su un bacino ricolmo di fiori e attorniato da 12 pesci guizzanti. La scelta dei motivi simbolici e lo stile indicherebbero una datazione intorno alla prima metà del IV secolo, quando il cristianesimo in Cirenaica è largamente diffuso, come prova la presenza di tre vescovi al concilio di Nicea del 325.
Il perdurare a C. di culti pagani anche dopo la nascita delle grandi basiliche cristiane è documentato dalla presenza dell'Iseo bizantino sull'acropoli: un edificio a tre navate longitudinali con telesterio annesso per la deposizione rituale dell'immagine della divinità. Anche Apollo Citaredo e Zeus Ombrios appaiono venerati in piccoli templi costruiti con materiali di spoglio, mentre il culto della Ninfa Cirene, di Afrodite e di altre divinità della cerchia continuò a essere espletato fino a età bizantina in un santuario presso la Grotta Sacra, sulla terrazza della Fonte di Apollo. All'età bizantina vengono attribuiti alcuni rifacimenti alle Terme Centrali e la costruzione di una piccola terma alla base del pendio orientale dell'acropoli. Due fattorie bizantine e alcuni complessi termali coevi identificati nei dintorni di C., rispettivamente a Gasr Stillu, el-Beida, Gars Mismar, Gasr Khuraybah, Siret Ain Relles, confermano quanto riferito nelle lettere di Sinesio sulla presenza di insediamenti tardi sulla costa e nell'interno.
J.B. Ward-Perkins, A New Group of Sixth-Century Mosaics from Cyrenaica, in RACr, 34 (1958), pp. 183-92; Id., La basilica cristiana in Cirenaica 1953-1962, in Atti del VI Congresso Internazionale di Archeologia Cristiana (Ravenna, 23-30 settembre 1962), Città del Vaticano 1965, pp. 641-57; R.G. Goodchild, Chiese e battisteri bizantini della Cirenaica, in CARB XIII (1966), pp. 205-23; Id., Kyrene und Apollonia, Zürich 1971; V. Purcaro, Gasr Stillu - Tomba ellenistica e fattoria bizantina nella campagna di Cirene, in QuadALibia, 6 (1971), pp. 35-41; J.B. Ward-Perkins, Recent Works and Problems in Libya, in Actas VIII Congreso Internacional de Arqueología Cristiana (Barcelona, 5-11 octubre 1969), Barcelona - Città del Vaticano 1972, pp. 221-36; S. Stucchi, Architettura cirenaica, Roma 1975; E. Catani, I frantoi della fattoria bizantina di El-Beida, in QuadALibia, 8 (1976), pp. 435-48; V. Gambini - E. Catani, Nuove terme bizantine nei dintorni di Cirene, ibid., pp. 451-63; E. Alföldi-Rosenbaum - J. Ward-Perkins, Justinianic Mosaic Pavements in Cyrenaican Churches, Roma 1980; J.B. Ward-Perkins - S.C. Gibson, The "Market Theatre" Complex and Associated Structures, Cyrene, in LibSt, 18 (1987), pp. 43-72; N. Duval, Les monuments d'époque chrétienne en Cyrénaique à la lumière des recherches récentes, in Actes du XIe Congrès International d'Archéologie Chrétienne (Lyon - Vienne - Grenoble - Genève - Aoste, 21-28 septembre 1986), III, Città del Vaticano 1989, pp. 2743-796; L. Bacchielli, La tomba cirenea del Buon Pastore, in RendPontAcc, 43 (1990-91), pp. 3-21; L. Bacchielli - J. Reynolds - B. Rees, La tomba di Demetria a Cirene, in QuadALibia, 15 (1992), pp. 5-22.
di Giuseppina Alessandra Cellini
Località della Libia, a sud-ovest del Wadi el-Kuf, più o meno equidistante da Tolemaide e Cirene. Il nome odierno, variamente trascritto (el-Ebia, Elbia, Libia, Libya), si considera derivato da quello dell'antica Olbia (Syn., Epist., 76).
Sono visibili in situ i resti della Basilica Occidentale e di quella Orientale. Quest'ultima ha restituito un mosaico datato negli anni 539/40 grazie all'epigrafe dedicatoria, in cui viene ricordato il vescovo Macario. Un'altra epigrafe allude alla rifondazione della città dedicata all'imperatrice bizantina Teodora (πόλιϚ νέα ΘεοδοϱίαϚ). Rappresenta perciò il caposaldo cronologico attorno al quale ruota tutta la produzione musiva della Cirenaica. Il mosaico consta di 50 pannelli, decorati con motivi cristiani e con figurazioni desunte dal repertorio mitologico greco e romano. Tra i temi cristiani appaiono degne di nota, oltre alla dedica che commemora la fondazione della chiesa da parte del vescovo Macario, le rappresentazioni allegoriche dei quattro fiumi del Paradiso Geon, Euphrates, Phison, Tigris, quella della basilica e di un pavone. Tra i temi attinti al patrimonio figurativo greco e romano si ricordano le rappresentazioni della Ninfa Kastalia, di Pan, di un Tritone con timone. Si susseguono anche scene nilotiche e di vita marina, nonché figure di uccelli e di pesci. Non mancano scene di caccia, di pesca, di vita rurale. Un importante motivo architettonico è rappresentato dal Faro di Alessandria.
M. Guarducci ha riconosciuto nel mosaico oltre che un programma iconografico un percorso teologico. Per ricostruirlo, la studiosa è stata però costretta a spostare ben 15 dei 50 pannelli. Motivo ispiratore del mosaico sarebbe il rinnovamento (ananeosis) dell'antica città di Olbia nel nome di Teodora. Tale atto presuppone una nuova fondazione (ktisis) e un nuovo ordinamento (kosmesis). Secondo la studiosa, il faro sarebbe allusivo alla luce di Cristo, che orienta l'uomo nel mare insidioso del mondo. Costui placa le pene dell'animo ascoltando gli insegnamenti di Cristo-Orfeo. Il catecumeno assapora quindi i frutti della dottrina eterna (nelle rappresentazioni simboliche del pavone, dei frutti e del melograno). Istruito nella verità cristiana, egli è pronto ad accogliere i sacramenti (a cui alluderebbero le porte con tende abbassate nella rappresentazione della chiesa). Purificato dal battesimo e alimentato dall'eucarestia egli può rinnovare la sua anima ed entrare nel Paradiso (di cui vengono rappresentati i fiumi).
E. Alföldi-Rosenbaum (Alföldi-Rosenbaum - Ward-Perkins 1980), pur riconoscendo il valore simbolico di alcuni pannelli, dal momento che non a caso la rappresentazione della nuova città appare prossima a quelle di Kosmesis, Ktisis e Ananeosis, sostanzialmente dissente dall'interpretazione della Guarducci, in cui ravvisa alcune forzature. Considera infatti eccessivo il numero dei pannelli spostati e ritiene improbabile che i catecumeni, entrando in chiesa dall'ingresso a sud o a nord-est potessero avere un quadro d'insieme di tutte le figurazioni. Secondo la Guarducci, il mosaico sarebbe stato eseguito in situ da maestranze locali sulla base di cartoni alessandrini. Anche A. Carandini (1962), M. Bonicatti (1963), e S. Stucchi (1975) vi ravvisano schemi iconografici e aspetti stilistici alessandrini. Sembrano richiamare tale ambiente le figurazioni di gazzelle, zebre, struzzi, scene nilotiche con fiori di loto, di un coccodrillo, di Geon in guisa di Nilo e del Faro di Alessandria, sormontato dalla statua del Sole. Bonicatti intende il mosaico come il ciclo musivo più importante in relazione con la civiltà copta. A. Grabar (Grabar - Stern 1969) vi riconosce influssi siriaci e palestinesi, mentre la Alföldi-Rosenbaum ravvisa influenze greco-orientali in tutta la produzione musiva della Cirenaica del VI secolo. La studiosa ipotizza che una bottega, proveniente da tale ambito, sia stata attiva al tempo di Giustiniano e che abbia addestrato e affidato gran parte delle realizzazioni a maestranze locali. La produzione musiva della Cirenaica risulta così inserita nel "rinascimento giustinianeo", operante nel segno di una sintesi tra ideali classici e valori cristiani.
Bibliografia
R.G. Goodchild, The Mosaic of Gasr el Lebia, in Illustrated London News, n. 6184, 231 (1957), pp. 1035-1038; J.B. Ward-Perkins, A New Group of Sixth-Century Mosaics from Cyrenaica, in RACr, 34 (1958), pp. 183-92; H. Sichtermann, Archäologische Funde und Forschungen in der Kyrenaika 1942-1958, in AA, 1959, coll. 249-347, in part. col. 342; R. Bianchi Bandinelli, Die byzantinische Kunst zwischen Justinian und dem Bilderstreit, in Diskussionbeiträge zum XI. Internationalen Byzantinistenkongress (München, 1958), München 1960, pp. 58-59; A. Carandini, Ricerche sui problemi dell'ultima pittura tardo-antica nel bacino del Mediterraneo meridionale, in ArchCl, 14 (1962), pp. 210-35; M. Bonicatti, Studi di storia dell'arte sulla tarda antichità e sull'alto medioevo, Roma 1963, pp. 128-31; J.B. Ward-Perkins, L'archeologia cristiana in Cirenaica 1953-62, in Atti del VI Congresso Internazionale di Archeologia Cristiana (Ravenna, 23-30 settembre 1962), Roma 1965, pp. 641-57; G. Ambrosetti, s.v. Qasr el-Lebia, in EAA, VI, 1966, pp. 584-85; R.G. Goodchild, Chiese e battisteri bizantini della Cirenaica, in CARB XIII (1966), pp. 205-23, 220; A. Grabar - H. Stern, Une nouvelle interprétation de certaines images de la mosaïque de pavement de Qasr el-Lebya (Libye), in CRAI, 1969, pp. 264-82; M. Guarducci, La più antica catechesi figurata: il grande mosaico della basilica di Gasr Elbia in Cirenaica, in MemLinc, s. VIII, 18 (1975), pp. 659-86; S. Stucchi, Architettura cirenaica, Roma 1975, p. 381 ss.; D. Giorgetti, Il faro di Alessandria fra simbologia e realtà. Dall'epigramma di Posidippo ai mosaici di Gasr Elbia, in RendLinc, 32 (1977), pp. 245-61; E. Alföldi-Rosenbaum - J. Ward-Perkins, Justinianic Mosaic Pavements in Cyrenaican Churches, Rome 1980; N. Duval, Les monuments de l'époque chrétienne en Cyrénaïque à la lumière des recherches récentes, in Actes du XIe Congrès International d'Archéologie Chrétienne (Lyon - Vienne - Grenoble - Genève - Aoste, 21-28 septembre 1986), III, Città del Vaticano 1989, pp. 2743-796; R.M. Bonacasa Carra, L'archeologia cristiana in Libia negli ultimi cinquant'anni, in CARB XLII (1995), pp. 95-114, in part. p. 110; Ead., Aspetti dell'architettura basilicale cristiana in Cirenaica fino all'età di Giustiniano, in E. Catani - S.M. Marengo (edd.), La Cirenaica in età antica. Atti del Convegno Internazionale di Studi (Macerata, 18-20 maggio 1995), Macerata 1997, pp. 63-82; J.-M. Blas de Roblès, Libye grecque, romaine et byzantine, Aix-en-Provence 1999, pp. 118-23; E. Catani, La "chora", in N. Bonacasa - S. Ensoli (edd.), Cirene, Milano 2000, pp. 178-79; J.B. Ward-Perkins - R.G. Goodchild, Christian Monuments of Cyrenaica (ed. J. Reynolds), Hertford 2003, pp. 273-86.