L'Africa subsahariana nel II millennio d.C.
di Peter J. Mitchell
Si dice spesso che il passato è la chiave per comprendere il presente. Se ciò è vero, allora è l'archeologia del passato relativamente recente quella che verosimilmente deve rivestire il maggiore interesse per i popoli africani, così come per tutti coloro che siano interessati alla comprensione dei modi attraverso cui la storia del continente africano nel corso degli ultimi mille anni ha assunto la forma che essa attualmente presenta.
Naturalmente la scelta di questo arco cronologico appare in certo modo arbitraria e corre il rischio di porre una cesura artificiale nella storia africana, operando nei processi di mutamento una scissione tra quelli verificatisi prima e quelli verificatisi dopo tale cesura. È inoltre essenziale considerare che in nessun momento della loro storia i popoli africani sono esistiti in isolamento dal resto del mondo: facendo riferimento soltanto ai millenni successivi alla fine dell'ultima era glaciale, la circolazione di piante e animali di recente domesticazione, di invenzioni e idee, di influssi politici e di contatti commerciali è avvenuta sia tra le regioni interne al continente sia con aree a esso esterne. Vi sono comunque alcune ragioni reali in virtù delle quali gli ultimi mille anni o pressappoco (e il "pressappoco" è un'importante specificazione in alcune aree, soprattutto la costa dell'Africa Orientale, l'Etiopia e il Sahel) meritano particolare attenzione, almeno per ciò che riguarda l'Africa a sud del Sahara. Una di esse è costituita dal fatto che questo fu un periodo di trasformazioni e mutamenti spesso sostanziali, in cui in molte e differenti parti del continente presero forma nuove istituzioni sociali, politiche ed economiche. Non in un ordine particolare di priorità, tali innovazioni comprendono lo sviluppo di nuove forme di governo, gli spostamenti di gruppi umani tuttora riconoscibili da un'area all'altra, l'accelerata crescita dei centri urbani, l'espansione di corporazioni commerciali, l'adozione di nuove tecnologie e la diffusione di nuove religioni.
In dettaglio, si potrebbero citare come esempi la nascita, il crollo e la riformazione di vasti Stati, spesso multietnici, in aree tanto distanti come il Sahel (Kanem-Bornu, Mali, Songhai), la Nigeria (Benin, Oyo), le regioni atlantiche dell'Africa Occidentale (Kongo) e i settori a nord e a sud del fiume Zambesi (Lunda, Luba, Great Zimbabwe e le formazioni politiche a esso successive); l'espansione, avvenuta nel XVII sec. d.C., di gruppi nilotici come i Maasai in molte aree dell'Africa Orientale o la dispersione nell'Africa Meridionale e centro-meridionale di molti gruppi di lingua Sotho e Nguni nei primi decenni del XIX sec. d.C.; le reti commerciali create dai mercanti Mande e Hausa nel Sahel e nell'area forestale dell'Africa Occidentale e, sul lato opposto del continente, quelle istituite dai mercanti Swahili che convogliarono l'oro e l'avorio africani all'interno del sistema economico del mondo dell'Oceano Indiano; la crescente adozione di sistemi di scrittura, di armi da fuoco e di tessuti di cotone; e la conversione di molti gruppi africani all'Islam e alla cristianità, religioni entrambe spesso reinterpretate in forme localmente accettabili.
Come queste poche osservazioni suggeriscono, un tratto di molte di tali innovazioni ‒ tratto che l'Africa condivide con altri continenti ‒ è costituito dalla definizione di una serie progressivamente più complessa di relazioni economiche e politiche con altre aree del mondo, che ‒ se si vuole ‒ rappresentano le forme antesignane di quella che viene attualmente definita "globalizzazione". Per l'Africa uno dei processi di cardinale importanza per questi mutamenti è consistito nella progressiva incorporazione di molte comunità del continente all'interno del sistema economico e culturale del mondo islamico. Mille anni fa l'Islam era già ben affermato nell'Africa Settentrionale e nel Sahara, ma i cristiani restavano numericamente dominanti in Egitto e le formazioni politiche cristiane della Nubia e dell'Etiopia arrestarono un'ulteriore espansione musulmana lungo la valle del Nilo. Mentre fruttuose relazioni commerciali legavano già le città e i regni del Sahel con le comunità di mercanti musulmani dell'Africa Settentrionale e dell'Egitto e altre reti ponevano in comunicazione le emergenti città-stato Swahili della costa dell'Africa Orientale con il Medio Oriente, solo un numero molto ridotto di formazioni politiche dell'Africa subsahariana si era già convertito all'Islam. Ancora oggi probabilmente l'Islam in Africa conta più aderenti di qualsiasi altra religione. Le ragioni e le modalità in base alle quali tale mutamento ebbe luogo, le cause per le quali l'Islam ottenne così vasto consenso da parte delle società africane e i modi in cui la conversione all'Islam fu, o non fu, associata ad altri mutamenti culturali costituiscono le principali problematiche storiche dell'ultimo millennio, alla cui risoluzione l'archeologia africana può apportare un valido contributo.
Un secondo processo di cruciale importanza per la globalizzazione dell'Africa è rappresentato dall'espansione oltremare dell'Europa, che ebbe inizio ‒ per quanto attiene alla questione qui trattata ‒ con i viaggi di esplorazione portoghesi del XV sec. d.C. Guadagnando rapidamente conoscenza della costa atlantica dell'Africa, i Portoghesi penetrarono nell'Oceano Indiano nel 1498, inaugurando un periodo di attività coloniale europea in entrambi i lati del continente che ha avuto termine solo in epoca recente e gli effetti del quale permangono a tutt'oggi. A eccezione degli specifici casi del Mozambico, dell'Angola e della successiva colonia olandese del Capo di Buona Speranza, la presenza europea rimase comunque numericamente esigua e geograficamente molto limitata fino agli inizi dell'Ottocento. Le ragioni di tale fenomeno non sono difficili da comprendere: malattie tropicali contro le quali gli Europei non possedevano né un'immunità naturale né appropriate conoscenze mediche; potenti formazioni politiche africane in grado di limitare l'insediamento europeo alla fascia costiera; assenza di una netta superiorità europea riguardo alle tecnologie militari o ad altri ambiti; un interesse imperialistico europeo che nelle sue motivazioni era di natura essenzialmente economica, e non ancora di acquisizione territoriale. Di conseguenza, le coste dell'Africa Occidentale e, in certa misura, quelle dell'Africa Orientale rimasero per secoli una zona di frontiera lungo la quale avevano luogo le interazioni tra Europei e Africani; tali interazioni si manifestarono nella costruzione di stazioni commerciali fortificate, nello sviluppo di comunità portatrici di entrambe le eredità culturali e in mutamenti nella struttura e nel contenuto dei sistemi economici e politici africani, non da ultimo a causa dell'ampia diffusione delle nuove e altamente redditizie piante alimentari di provenienza americana. I processi attraverso cui lungo queste aree di frontiera ebbe luogo lo scambio culturale stimolano il confronto con le zone di confine create sia dai sistemi di scambio trans-sahariani sia da quelli attraverso l'Oceano Indiano. Una migliore comprensione di questi sistemi è anch'essa indubbiamente indispensabile se vogliamo essere in grado di valutare attentamente le conseguenze da essi subite a seguito della formazione di nuove reti commerciali orientate e mediate dagli Europei.
Occorre inoltre citare un terzo processo, intimamente connesso con alcuni aspetti degli altri due: la dislocazione coatta, come schiavi, di milioni di individui originari dell'Africa subsahariana in altre aree del mondo. Il continente aveva vissuto, naturalmente, tale esperienza già molto prima del 1000 d.C., e questo fenomeno possedeva numerose e diversificate radici e forme all'interno dell'Africa subsahariana, dove la sua crescita era non infrequentemente un fattore collegato all'espansione imperiale. Né furono solo i popoli africani a sperimentare la schiavitù in qualche momento nel corso dell'ultimo millennio. Non sono comunque da negare la portata e la brutalità con cui questa deportazione ebbe luogo, sia che i prigionieri fossero destinati a essere utilizzati come servitori domestici e come concubine (le principali, seppure non esclusive, domande delle rotte che si rifornivano in Africa Settentrionale, nel Medio Oriente e in India) sia che fossero destinati al lavoro nelle piantagioni (la principale domanda del commercio transatlantico, euro-americano). In entrambi i casi (soprattutto nelle Americhe e in quei gruppi insulari precedentemente non abitati dell'Oceano Atlantico e dell'Oceano Indiano e ora occupati per la prima volta) una conseguenza fu la creazione oltremare di nuove società di discendenza africana, allo studio delle quali l'archeologia sta dando un crescente e vigoroso contributo. All'interno dell'Africa stessa il commercio di schiavi aiutò a stimolare mutamenti nelle relazioni sociali e nell'organizzazione politica ed economica, intensificando molti dei processi già citati sopra. Tali processi possono avere compreso lo sviluppo di strutture di lignaggio per limitare l'impatto della schiavitù, laddove l'autorità politica fosse debole, e la crescita delle cosiddette "società-frontiera", descritte da I. Kopytoff, fenomeni entrambi per lungo tempo ritenuti caratterizzanti di molte società africane. Possono essere inoltre documentati l'espansione o la creazione di alcune entità politiche a spese di altre (Ashanti, Dahomey, ecc.), mutamenti nei modelli alimentari, nei prodotti coltivati, una divisione su base sessuale delle attività agricole e un accresciuto accesso ad armi da fuoco, alcol e oggetti di metallo importati. Ciò che non può essere confermato, se non sottostimando le evidenze contrarie, sono le ipotesi secondo cui il commercio degli schiavi avrebbe comportato un collasso demografico generalizzato o il totale asservimento delle comunità africane a forme di potere esterno.
Per comprendere questi e altri processi storici verificatisi nel corso dell'ultimo millennio è necessario che gli archeologi attribuiscano il massimo valore a tutte le evidenze disponibili. Molte di esse provengono ovviamente da fonti di un genere ben noto agli specialisti sia di altre aree che di altre epoche. Così, ad esempio, studi dettagliati sui mutamenti della morfologia delle pipe da tabacco possono aiutare a datare le sequenze archeologiche dell'Africa Occidentale, mentre ceramiche e perle di vetro di origini europee, asiatiche o nordafricane possono spesso essere poste in connessione con le loro fonti originarie, permettendo di formulare ipotesi non solo sui modelli del commercio, ma anche sulle scelte culturali implicate dalla selezione o dal rigetto di particolari forme di ceramiche (e dei loro contenuti) o di decorazioni. Gli scavi e le ricognizioni di siti residenziali, di centri industriali (quali quelli per le attività di fusione del ferro identificati a Bassar, nel Togo, o le raffinerie di sale di Kibiro, in Uganda), di importanti costruzioni di terra battuta (come quelle individuate sia in Nigeria meridionale che in Uganda) e dei resti di territori destinati alle pratiche agricole (ad es., Engaruka, in Tanzania, o Nyanga, nello Zimbabwe) sono numerosi e in incremento. Si stanno inoltre iniziando a riconoscere le potenzialità dell'archeologia marittima, mentre in alcune aree, e segnatamente in certi settori dell'Africa Meridionale, centro-meridionale e Orientale, pitture e incisioni rupestri rappresentano importanti documenti sociali e storici. Sono inoltre in aumento studi dettagliati delle condizioni ambientali e climatiche del passato, che offrono informazioni potenzialmente utili per la gestione dei mutamenti climatici futuri e che attestano l'importanza ‒ spesso su una scala di grandezza regionale o subcontinentale ‒ delle variazioni nelle precipitazioni; gli effetti dell'aumento della siccità sulla densità demografica e la centralizzazione politica nel Sahel del Mali, nell'area di Bunyoro dell'Uganda e, agli inizi del XIX secolo, nello Zululand sono solo tre esempi che hanno attirato l'interesse degli archeologi, oltre ai molti aspetti di interesse anche per gli studiosi non strettamente africanisti.
Un eccellente esempio di quanto detto è rappresentato dalle modalità attraverso cui i resoconti storici sono stati frequentemente impiegati nell'archeologia subsahariana. I documenti storici sono ben lungi dall'essere assenti in Africa subsahariana, e qui essi assumono tre forme principali. In primo luogo vi sono le tradizioni orali e le narrazioni storiche registrate e utilizzate da molte società africane a spiegazione di come le cose siano arrivate a essere ciò che esse sono, atti di fondazione per gli attuali ordinamenti politici e sociali. Il lavoro di studiosi come J. Vansina e D. Beach è stato di cruciale importanza nella valutazione di queste tradizioni e nella constatazione delle loro potenziali distorsioni; un evidente rischio è costituito dal fatto che esse sono suscettibili di essere reinterpretate al fine di assecondare circostanze politiche in via di mutamento, mentre un altro risiede nella frequente, seppure niente affatto generalizzabile, tendenza a fondere, condensare o, diversamente, a riadattare computi genealogici e dunque cronologie.
Tenendo presenti tali cautele, le narrazioni storiche sono divenute centrali in molte ricerche archeologiche, producendo spesso, come nello studio comparativo delle tradizioni Sotho-Tswana e delle evidenze provenienti da insediamenti e da ceramiche individuate attraverso gli scavi, un'eccellente corrispondenza tra le due fonti documentarie. In secondo luogo, vi sono molte importanti fonti letterarie africane da considerare, tra le quali risaltano le ricchezze testuali dell'Etiopia, le narrazioni storiche in lingua araba di molti Stati saheliani (Ta'rīḫ al-Sūdān [Storia del Sudan], Ta'rīḫ al-Fattāš [Cronaca del cercatore], la Cronaca Gonja, ecc.) e le cronache di alcune città-stato Swahili; in nessun modo si può ritenere che questi documenti siano stati già scoperti tutti o, nei casi in cui essi siano noti, tradotti e pubblicati. Anch'essi, comunque, e ancora di più i molti scritti di stranieri che visitarono l'Africa subsahariana o vi lavorarono, presentano problemi specifici. Possono essere addotti come esempi le analisi condotte su numerosi resoconti sul Sahel scritti da geografi e storici arabi; musulmani colti e spesso osservanti che si ritenevano superiori, da un punto di vista razziale, rispetto ai neri africani, che erano fortemente avversi ai costumi "pagani" ma vivamente interessati ai commerci a lunga distanza. Tra quelli più comunemente citati, solo Ibn Battuta, i cui scritti risalgono alla metà circa del XIV sec. d.C., visitò realmente di persona il Sahel (e la costa Swahili). In breve, né tali documenti, né le fonti medievali cinesi e le successive fonti europee ‒ sulle quali potrebbero agevolmente essere intraprese analisi simili ‒ possono essere acriticamente utilizzati dagli storici e dagli archeologi moderni. E anche nei casi in cui realmente ciò non è stato fatto, molta archeologia africana riguardante il periodo in questione è stata nondimeno animata da un interesse concentrato in genere su siti già identificati come importanti dalle fonti storiche.
Gli esempi sono numerosi e possono comprendere il rilievo accordato nel Sahel allo scavo di città citate nei documenti arabi e nelle narrazioni storiche tradizionali come grandi centri commerciali o come capitali politiche, quali i siti di Tegdaghost e Gao, oppure le correlazioni, niente affatto certe, formulate tra siti come Kumbi Saleh e Niani da una parte e le capitali degli antichi Stati del Ghana e del Mali dall'altra. La precoce enfasi posta in Nigeria meridionale sullo scavo dei siti di Benin e Ife o l'attenzione di lunga data registratasi nell'archeologia Swahili per moschee, tombe e residenze monumentali di pietra corallina attestano una tendenza affine. Non che questi rappresentino aspetti che gli archeologi possano trascurare o ignorare; soltanto, come A. Stahl e altri studiosi ci ricordano, essi danno risalto allo studio del ricco, del potente, del ben integrato e dell'urbano a detrimento di quello della maggioranza rurale e indigente, le cui esperienze furono in molti casi più comuni. Infatti, per ogni dieci dettagliate analisi di ceramiche importate del Medio Oriente o dell'Africa a sud del Sahara a fatica si riesce a identificare una sola ricerca archeologica sulle trasformazioni prodotte dall'adozione di nuove fonti alimentari come la cassava o il mais.
Per superare tali tendenze sono necessarie altre traiettorie di ricerca, che privilegino estensive ricognizioni del territorio e la raccolta e l'analisi della più vasta gamma possibile di resti botanici e faunistici che affianchino gli studi intensivi dei siti urbani già noti. Un'attestazione di quanto possano essere feconde tali strategie di ricerca è costituita da pochi progetti molto noti, due esempi dei quali possono essere sufficienti. Innanzitutto occorre citare il lavoro di R.J. McIntosh e S.K. McIntosh nei pressi di Djenné, nel delta interno del Niger ‒ una città di cui parlano per la prima volta le fonti storiche nel 1447 ‒, che ha rivelato come la vita urbana in questa regione del Sahel avesse già all'epoca un'antichità di oltre un millennio e come le sue radici rimontassero molto indietro nel tempo. In secondo luogo sono da segnalare i lavori di A. La Violette e di J. Fleisher a Pemba e quelli di S. Pradines nel sito di Gedi, ubicato nei pressi di Malindi (Kenya), i quali hanno dimostrato tutti la proficuità di un approccio che presti particolare attenzione alle strutture costruite con materiali organici e della ricerca sul campo praticata in contesti diversi da quelli dei siti urbani classici.
Una seconda questione risiede nel modo in cui l'archeologia in alcuni casi si avvale delle evidenze antropologiche e, ovviamente, di quelle storiche per proiettare indietro in un passato progressivamente più lontano le strutture sociali e i sistemi di credenze dei gruppi odierni. Le ricerche di N. David e dei suoi colleghi nella regione Mandara del Camerun-Nigeria, quelle di R.J. McIntosh in Mali e quelle di J. Vansina nell'Africa equatoriale hanno dimostrato con successo la profondità storica e la stratificata trasformazione di molti simboli, istituzioni e tradizioni sopravvissuti, producendo una nuova comprensione delle narrazioni storiche di gruppi parlanti lingue diverse, come i Mande e i Bantu Occidentali. L'utilizzazione fatta da T. Huffman in Africa Meridionale di dati etnografici riguardanti i Sotho-Tswana e gli Nguni per elaborare modelli sull'architettura insediativa, sull'ideologia e sulle pratiche sociali, ora fruttuosamente applicata non solo al II ma anche al I millennio d.C., e il suo più controverso uso dell'etnografia dei Venda e degli Shona per comprendere l'organizzazione spaziale degli insediamenti con apparati murari appartenenti alla tradizione Zimbabwe costituiscono esempi comparabili. Tali lavori possiedono un enorme potenziale nell'aiutare a integrare le evidenze materiali che gli archeologi scavano, e frequentemente si ritiene che essi siano particolarmente proficui nei casi in cui possano essere dimostrati stretti legami tra le culture materiali degli esempi etnografici e archeologici che sono oggetto di comparazione o quando evidenze linguistiche o storiche supportino la loro identificazione.
Ma tali strategie comportano potenzialmente anche difficoltà e rischi. In primo luogo vi è il problema dell'attendibilità dei materiali etnografici utilizzati: si dovrebbe infatti stabilire quando furono raccolti, in quali circostanze e da chi e, inoltre, in che misura il sesso o il ruolo politico dell'informatore e del ricercatore possono avere influenzato quanto è stato registrato. In secondo luogo, occorre che gli archeologi tengano a mente che ciò che tali resoconti offrono è verosimilmente costituito da costrutti idealizzati e non dalle realtà fisiche che essi scavano, le quali si sono andate formando attraverso decenni o addirittura secoli di modificazioni e riutilizzi. È importante dunque non ignorare la variabilità a vantaggio della ricerca di un unico fattore esplicativo. Soprattutto, tali analogie possono essere maggiormente produttive nei casi in cui i dati archeologici e storici siano in grado di mostrare che il mutamento è stato di portata limitata. Per queste ragioni, alcuni studiosi hanno privilegiato ricerche dettagliate che si muovono da resoconti storici ed etnografici di epoca recente per risalire indietro fino al passato più remoto. Gli scavi di A.B. Stahl a Banda (Ghana) costituiscono un esempio classico di questo approccio. Come è stato già segnalato, insieme con altri lavori effettuati in Africa Occidentale essi sollevano domande sul grado in cui alcuni elementi della documentazione etnografica di questa regione siano conseguenze delle sostanziali trasformazioni sociali, economiche e politiche prodotte dalla sua incorporazione, avvenuta nel corso dei cinque secoli passati, all'interno di un'economia transpacifica.
Un'altra importante fonte di informazioni sul passato africano è costituita dal lavoro dei linguisti interessati alle relazioni storiche intercorrenti tra le oltre 1200 lingue dell'Africa. Le distribuzioni spaziali di differenti raggruppamenti di idiomi possono suggerire alcune ipotesi riguardo alle fasi più antiche della loro storia e ai successivi movimenti. La ricostruzione dei vocabolari appartenenti alle fasi iniziali del processo di differenziazione delle lingue odierne permette di formulare inferenze non solo circa la cultura materiale, ma anche riguardo all'organizzazione sociopolitica e al sistema di credenze. Infine, gli studi di barbarismi presi a prestito da una lingua all'altra possono essere di ausilio nel rilevamento di possibili connessioni storiche tra gruppi parlanti lingue diverse. Quelli citati qui rappresentano tutti strumenti efficaci, in grado di incrementare la nostra conoscenza del passato africano, e gli archeologi africanisti hanno per lungo tempo fatto uso di essi, soprattutto in aree dove le ricerche archeologiche sul campo restano comparativamente limitate.
Tra gli studi classici occorre citare quelli di J. Vansina, che ha analizzato la storia a lungo termine dell'autorità e della tradizione politica tra i gruppi della foresta equatoriale, e quelli di D. Schoenbrun, che ha indagato la storia del potere e le sue connessioni con le credenze riguardanti la salute, i sistemi di guarigione e la fertilità nella regione dei Grandi Laghi dell'Uganda. Entrambi gli studiosi hanno utilizzato nel loro lavoro anche tradizioni storiche orali, che presentano punti di corrispondenza, potenzialmente significativi e ricchi di informazioni, con le evidenze materiali recuperate attraverso lo scavo. Comunque, nei casi in cui la ricerca archeologica è stata meno intensiva o i linguisti hanno fatto minori tentativi di famigliarizzarsi con essa, le conclusioni che essi hanno tratto corrono il rischio di essere presentate come fatto storico senza ulteriori supporti: in tali casi la rarità con cui sono stati pubblicati dati lessicali circostanziati, i seri dubbi che gravano sull'affidabilità della glottocronologia come tecnica per valutare l'antichità di raggruppamenti linguistici ricostruiti e le problematiche ipotesi riguardo la correlazione tra gli elementi ricostruiti del vocabolario e le testimonianze archeologiche gettano dubbi su alcune delle teorie che sono state avanzate.
Un'ulteriore fonte di tensione nel porre in relazione le evidenze fornite dall'archeologia con quelle provenienti da altre discipline per il periodo del II millennio d.C. ‒ e per quelli precedenti ‒ è costituito dalla potenziale discrepanza nella scala spaziale e nella scala temporale a cui i loro differenti complessi di dati possono essere assegnati. Gli archeologi, ad esempio, possono identificare o inferire le azioni di individui noti solo nei casi in cui essi siano alle prese con resti umani o nelle circostanze specifiche di un momento "congelato nel tempo", in altre parole una sorta di Pompei. Le narrazioni storiche scritte od orali, d'altra parte, parlano di uomini e di donne, dei quali viene citato anche il nome, e possono, in circostanze favorevoli, fornire informazioni dettagliate sulle loro azioni in occasioni del tutto specifiche. Operare spostandosi indietro o avanti tra questi diversi generi di evidenze in forme che ne valutino l'attendibilità e sfruttino il potenziale di ciascuna è una questione cardinale di molta dell'archeologia delle società africane del II millennio d.C., ma la realizzazione di tale obiettivo è avvenuta lentamente, incoraggiata forse da dibattiti affini nell'archeologia coloniale globale e nell'archeologia storica dell'Europa e del Mediterraneo. Un problema reale è comunque ancora a tutt'oggi costituito dalla nostra abilità a sezionare le evidenze archeologiche con sufficiente precisione cronologica, una difficoltà esacerbata dal fatto che la datazione radiocarbonica e la sua calibrazione possono offrire ampi margini di errore e, soprattutto dopo la metà del XVII sec. d.C., più di una possibile età reale. Allo scopo di testare le inferenze che possono comunque essere formulate sulla base delle datazioni radiocarboniche, ma per evitare una dipendenza acritica dalle fonti storiche, possono essere affinati metodi alternativi di datazione: tipologie di ceramiche e pipe di ceramica; l'utilizzazione critica, nei casi in cui ciò sia possibile, di beni esogeni di importazione cronologicamente ben definiti e lo sviluppo di altre tecniche scientifiche, come la luminescenza ottica diretta (OSL), per la datazione di frammenti fittili.
Vi sono ancora alcune sfide con cui gli archeologi africanisti devono misurarsi. Una di esse è quella di costruire un ponte, nei casi in cui le controversie politiche lo permettano, che attraversi le lacune geografiche nella nostra comprensione del passato del continente africano: la protratta scarsità di sistematiche ricerche sul campo in paesi quali il Ciad, l'Angola e la Repubblica del Congo costituisce un tributo archeologico al conflitto o al malgoverno che ancora affliggono troppe regioni dell'Africa. Un'altra sfida risiede nel superamento delle frontiere linguistiche e politiche, esse stesse generalmente il prodotto delle vicende coloniali europee, ma ora compenetrate nei sistemi di comunicazione e nel sistema educativo superiore. In questo senso le attività dell'Urban Origins Project, fondato da studiosi svedesi, che ha sponsorizzato e coordinato ricerche sulla formazione e lo sviluppo di comunità urbane dal Kenya fino al Mozambico e al Madagascar, hanno costituito un contributo particolarmente importante. Tale progetto e le ricerche condotte da altri progetti finanziati da investimenti esteri hanno spesso tentato di consolidare i rapporti di collaborazione tra studiosi occidentali e studiosi africani e tra le loro rispettive istituzioni. Non si può tuttavia negare che l'archeologia africana sia ancora caratterizzata da una scarsità di mezzi: un numero troppo limitato di archeologi e assenza di attività di formazione, fondi troppo esigui per permettere la tutela dei siti e dei monumenti e accesso limitato a pubblicazioni, sia per i lettori che per i contributori, costituiscono tutti problemi ben noti. Il punto è cosa si possa realmente fare per sopperire a tali difficoltà, considerate le sfavorevoli situazioni economiche di molti Stati africani.
Una componente fondamentale di ogni soluzione praticabile deve essere quella di convincere un'ampia gamma di pubblico dell'importanza dell'archeologia africana. In questo senso le popolazioni africane nel loro complesso sono, ovviamente, della più cruciale importanza nella costruzione di una voce generale indigena che possa persuasivamente parlare in favore della tutela e dello studio delle vestigia archeologiche. Il fatto che la gente possa più verosimilmente provare interesse per il passato recente, piuttosto che per eventi e processi avvenuti migliaia di anni fa, non fa che sottolineare l'importanza dell'archeologia del II millennio d.C. Progetti di ricerca realizzati in Paesi tanto diversi come il Botswana e il Senegal documentano quali risultati possano essere raggiunti in questo senso, soprattutto quando essi sorgono da iniziative centrate sulle comunità locali. È inoltre importante il riconoscimento del fatto che l'archeologia può contribuire a generare reddito; ma l'espansione del turismo, e segnatamente di quello culturale e dell'ecoturismo, non è priva di problemi, che possono includere conflitti tra le esigenze dei turisti e i valori spirituali delle comunità locali e la difficoltà di raggiungere un equilibrio tra le richieste di informazione e di intrattenimento dei visitatori nazionali e internazionali. Purché le società africane non siano presentate come sottratte a ogni divenire temporale, la vitalità del turismo di interesse naturalistico e il fatto che molti tra i principali siti archeologici siano localizzati vicino a importanti parchi naturali lasciano ritenere che l'archeologia possa trarre vantaggio da una più stretta collaborazione con la conservazione del patrimonio naturale. Ma è ovviamente essenziale che in entrambi i settori la popolazione locale ottenga benefici diretti da tali iniziative. Ciò, insieme a una efficace sensibilizzazione delle comunità locali al valore costituito dall'eredità culturale dei materiali archeologici (come nelle aree di Djenné e di Dia, nel Mali), costituisce l'unico cenno di soluzione al criminale saccheggio di tanta parte del passato africano, i cui proventi arricchiscono principalmente non i gruppi africani, ma case d'asta, speculatori e collezionisti privati dei Paesi occidentali.
La tristezza di questa perdita è accresciuta dalla consapevolezza dei numerosi contributi che l'eredità archeologica africana è in grado di apportare non solo alla ricchezza culturale, alla diversità e all'orgoglio dell'Africa contemporanea, ma anche ‒ in senso più ampio ‒ alla storia dell'umanità. Molti dei modelli elaborati per l'archeologia africana sfidano le prospettive teoretiche formulate dalle archeologie di altre parti del mondo, ad esempio nella precoce espansione trans-sahariana dei gruppi di allevatori avvenuta in forma del tutto indipendente dalla coltivazione o da relazioni di scambio con gruppi agricoli, o nell'assenza di élites riconoscibili nei contesti chiaramente urbani del I millennio d.C. nell'area del delta interno del Niger. Con riferimento specifico all'archeologia del II millennio d.C., sembra che ci sia molto da imparare non solo dall'ovvia correlazione dell'archeologia dell'espansione commerciale e territoriale europea in Africa con l'archeologia dei coevi movimenti coloniali nelle Americhe o in Asia, ma anche dal sistematico studio comparativo delle archeologie dell'espansione musulmana nell'Africa subsahariana e della più antica, ma comunque parzialmente coeva, conversione dell'Europa medievale alla cristianità; dalla comparazione della diffusione dell'Islam in Africa con quella prima dell'induismo e poi dell'Islam nel Sud-Est asiatico; infine dallo studio delle relazioni tra le città costiere Swahili e i loro partners commerciali stanziati nell'entroterra, insieme con quelle create mille-duemila anni prima dalle città fenicie (e puniche), greche, etrusche e romane lungo i bordi settentrionali e meridionali del Mediterraneo. E qui, forse, vi è spazio per un commento finale sull'importanza di porre in risalto l'unitarietà dell'archeologia africana e di trascendere la convenzionale separazione della periferia settentrionale del continente da eventi verificatisi nelle regioni più meridionali, una separazione che è ancor meno giustificata dalla condivisione della religione, della cultura e dell'economia musulmana, che costituì il tessuto connettivo del Sahara, da nord a sud e da est a ovest, durante il II millennio d.C. L'ulteriore esplorazione di questa regione, una di quelle in cui i ricercatori italiani sono particolarmente attivi, deve rimanere tra le priorità dell'archeologia africana.
Bibliografia
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di Giovanna Antongini, Tito Spini
L'Africa Occidentale corrisponde alla parte di continente ubicata a sud del Sahara, a ovest dei massicci del Darfur e dell'Ennedi e a nord-ovest del massiccio dell'Adamaoua: un'unità geografica, storica e culturale, nonostante la pluralità dei popoli che la abitano, che comprende oggi gli Stati di Senegal, Gambia, Mauritania, Guinea, Guinea Bissau, Mali, Sierra Leone, Liberia, Costa d'Avorio, Burkina Faso, Ghana, Togo, Benin, Nigeria, Ciad e Niger. Presenze e tracce delle antiche civiltà di fatto vanificano queste suddivisioni: ogni reperto portato alla luce rimanda ad altri lungo una linea continua, e continuamente intersecata, che ripercorre i vasti spazi culturali creati dagli antichi imperi e dalle ondate migratorie delle popolazioni; ne è esempio la cultura Sao, le cui successive fasi di insediamento interessano il Ciad, la Nigeria, il Niger e, sebbene in minima parte, il Camerun.
Alla fine del XIX secolo l'Africa era ancora, nella visione delle potenze europee, res nullius. In realtà le società africane, come ogni altra nel resto del mondo, possedevano all'epoca specifiche e diverse forme di organizzazione, ma anche laddove esistevano vere e proprie entità a livello statale raramente queste venivano riconosciute a livello internazionale. Nella Conferenza di Berlino, che ebbe luogo dal 15 novembre 1884 al 26 febbraio 1885, furono tracciate le grandi linee della spartizione dell'area: uno smembramento di popoli, terre e culture che al termine delle guerre coloniali sarebbe stato definitamente stabilito da confini artificiali.
Il fronte atlantico di questo settore del continente africano presenta coste basse e, lungo i litorali ivoriani e beninesi, formazioni lagunari; l'interno è caratterizzato da un penepiano con altitudini variabili tra 200 e 500 m e da due depressioni costituite dal delta interno del fiume Niger e dal Lago Ciad.
I principali rilievi orografici sono l'altipiano di Jos in Nigeria, la catena dell'Atakora in Togo, il Fouta Djalon in Guinea, da cui nascono i fiumi Senegal e Niger, e la catena dell'Air in Niger. Nella zona si possono individuare tre principali fasce climatiche: equatoriale-guineana (oltre 2000 mm di precipitazioni annue), sudanese (con un massimo di 2000 e un minimo di 500 mm) e saheliana (meno di 500 mm). Lungo i confini guineani è presente una foresta molto fitta come pure lungo il Golfo di Guinea; all'interno dominano le savane arboree e arbustive e la boscaglia saheliana.
Nell'area del Sudan meridionale, scarsamente popolata e dal suolo povero, prevalevano la coltivazione dei tuberi, l'allevamento del "bue africano" resistente al tripanosoma, la metallurgia del ferro e dell'oro, l'arte del bronzo. I contatti con gli Europei, a partire dal XVI secolo, influenzarono l'organizzazione sociale delle popolazioni circostanti il Golfo di Guinea, dando luogo a formazioni statali di tipo monarchico. Al Nord dominavano l'agricoltura dei cereali, l'allevamento del bue asiatico, dell'asino e del cavallo; i fabbri ‒ professione che comportava l'appartenenza a una casta ‒ praticavano la metallurgia del ferro e del rame. L'organizzazione sociale conservava l'impronta dei grandi imperi medievali del Ghana, del Mali e di Gao e soprattutto l'influenza islamica arabo-berbera iniziata già dall'VIII secolo. Sin dal Medioevo il contatto tra queste due zone avvenne tramite il commercio, dalle regioni meridionali verso quelle settentrionali: oro, noci di cola, spezie, schiavi, avorio e, in senso contrario, rame, datteri, cavalli, sale, tessuti e altre mercanzie.
Le più antiche informazioni riguardanti il Bilād al-Sūdān, ossia l'Africa Occidentale a sud del Sahara compresa tra il Nilo e l'Atlantico, provengono da un monumentale repertorio delle fonti arabe dall'VIII al XII secolo compilato dal principe Yussuf Kamal. I siti nominati si limitano ai pochi centri interessati dalle rotte commerciali: Ghana (con capitale Kumbi Saleh, di cui oggi restano le rovine sul confine meridionale dell'attuale Mauritania, a sud-est di Tichitt), Kawkaw (Gao, Mali; altri autori la identificano con Yao nel Ciad), Kugha (Ciad orientale) e le due vie di accesso per raggiungere queste zone, a occidente Sigilmasa (Marocco) e Ghast (Tegdaghost-Awdaghost in Mauritania), a oriente Zawila (a sud della Libia). Con al-Bakri, nel 1068, si hanno maggiori informazioni su città, popolazioni e percorsi, oltre alla prima segnalazione dell'esistenza della città di Takrur, che M. Delafosse situerà presso Podor, sul fiume Senegal. Takrur, musulmana sin dal 1040, era già un centro commerciale di grande importanza anche per la sua prossimità al "Paese dell'Oro", il Galam-Bambouk, quando, dissoltosi il regno del Ghana, Mallel (il futuro Mali) era ancora, secondo la testimonianza di al-Idrisi risalente al XII secolo, "null'altro che una città senza mura" (Cuoq 1975, p. 5). Il toponimo Takrur verrà in seguito applicato alla quasi totalità dell'Africa subsahariana, imprecisione dovuta al fatto che storici e geografi, fatta eccezione per Ibn Battuta, non avevano allora una conoscenza diretta di questi territori, ma attingevano i loro dati sia da fonti antiche, in particolare da Tolemeo, sia da viaggiatori e commercianti dell'epoca o, ancora, come, ad esempio, al-Makrisi (1364-1442), dagli schiavi che affluivano sui mercati del Cairo.
Tra il 1342 e il 1349 le cronache di al-Umari testimoniano della nascita di grandi imperi africani che egli elenca, da est a ovest: il regno degli Habasha (Abissinia, la cui capitale Kabar è stata identificata con Aksum da C. Conti Rossini), il regno del Sudan, ubicato sui bordi del Nilo, e il Paese dei Neri, suddiviso in due imperi: il Mali e il Kanem, oltre al regno del Bornu (Nigeria). Dell'impero del Mali, al-Umari cita la capitale Niani, specificando che questo impero era composto da 13 regni, ognuno governato da un sovrano sottomesso all'imperatore. Sull'economia della zona, il cronista arabo parla dello sfruttamento di una miniera di rame e, soprattutto, della ricchezza delle miniere d'oro. Esse godevano di uno status particolare in quanto le zone aurifere, al fine di garantirne la produttività, erano esenti da imposte, interdette alla razzia e alla guerra santa e, in un periodo di assoluta egemonia islamica della regione, affidate a gruppi di culto animista. Ibn Battuta, che tra il 1352 e il 1353 compì un viaggio nel Mali, così descrisse la sala di udienza dell'imperatore Kankan Musa, costruita a Timbuctù da al-Sahili, un poeta-architetto di Granada: "Una sala a cupola, la cui porta conduce all'interno della sua dimora (...); la sala ha, sul lato del mašwar [grande cortile d'onore], tre finestre in legno rivestite di lastre d'argento e, al di sopra, tre altre rivestite d'oro o d'argento dorato". Circa mezzo secolo più tardi, Ibn Khaldun riporta questa memoria: "Egli [l'imperatore] aveva deciso di far erigere, nella sede del suo impero, una sala solidamente costruita e rivestita di calce, cosa che era sconosciuta nei loro paesi. (...) Questa novità fu realizzata costruendo un edificio quadrato a volta; abili artigiani rivestirono la sala di calce e l'abbellirono di arabeschi colorati".
Alle cronache arabe si sostituiscono i resoconti degli Europei: Portoghesi, Veneziani, Genovesi, Francesi. Nel 1447 Antonio Malfante inviò da Touat un dettagliato rapporto sui commerci con il Paese dei Neri, e nel 1452-53 il portoghese Gomes Eanes de Zurara scrisse la Crónica dos feitos de Guiné, prima cronaca europea sull'Africa Occidentale. Infatti, a partire dalla seconda metà del XV secolo, furono i navigatori portoghesi a far luce sui regni costieri, in quell'epoca in piena espansione. Questo stesso periodo registra anche l'affermazione dell'Islam in gran parte del continente: allo sviluppo del commercio e della scienza si accompagnò l'evoluzione delle tecniche di produzione ed edilizie, in un'unità la cui comprensione è estremamente difficile al mondo contemporaneo, gremito di frontiere (Cornevin 1967). Nel 1900 fu tradotta in francese una cronaca redatta a Timbuctù, e nel 1913 una seconda; ambedue le opere risalgono al XVI-XVII secolo e si devono a due Africani musulmani: as-Sadi (Ta'rīḫ al-Sūdān [Storia del Sudan]) e al-Kati (Ta'rīḫ al-Fattāš [Cronaca del cercatore]). Benché la prima opera, ritrovata dal celebre esploratore H. Barth, tratti quasi esclusivamente dell'impero Songhai e soprattutto della glorificazione di Timbuctù, città natale dell'autore, molti dei dati inclusi provengono da puntuali osservazioni personali che ancora oggi forniscono preziose informazioni sui luoghi di antichi insediamenti suscettibili di indagini archeologiche. Il manoscritto del Ta'rīḫ al-Fattāš, di cui venne in possesso M. Bonnel de Mézières nel 1911 nel corso di una missione a Timbuctù, traccia la storia dell'impero Songhai sotto la dinastia degli Askia di Gao e, in specie, il tragitto del pellegrinaggio dell'imperatore del Mali, Kankan Musa, nel 1324-25. L'elenco delle tappe del suo percorso di andata e di ritorno dalla Mecca, scandite dalla costruzione di moschee e palazzi, consente di recuperare vie di transito e monumenti di cui oggi spesso non vi è più segno.
Nel XVII secolo del palazzo reale eretto a Timbuctù era rimasta solo la memoria, come scrive as-Sadi: "Al suo ritorno [dal pellegrinaggio alla Mecca] il principe passò per il Songhai e fece costruire fuori dalla città di Khâgo [Gao] una moschea con miḥrāb dove fece la preghiera del venerdì. Questa moschea esiste ancora oggi (...). In seguito Kankan Musa prese la strada di Timbuctù e lì fece costruire il palazzo reale, chiamato Ma-dugu, parole il cui senso nella loro lingua è 'palazzo del re'. Sul luogo, ancora ben noto, di questo palazzo hanno stabilito le botteghe dei macellai". Analogamente, la storia delle due grandi moschee ancora oggi esistenti a Timbuctù, più volte rifatte nel corso dei secoli, è ripercorribile solo grazie alle testimonianze raccolte da questi due autori. Ad esempio, sappiamo che la grande moschea, costruita nel 1325 su ordine di Kankan Musa, venne totalmente restaurata nella seconda metà del XVI secolo durante il regno dell'Askia Daud, e che lo stesso Daud fece erigere la moschea di Sankore con le identiche dimensioni della Kaba di cui aveva preso la misura con una corda in occasione del suo pellegrinaggio alla Mecca. I primi passi dell'archeologia nel Paese dei Neri sono orientati dunque da questi, e da altri meno noti, documenti storici.
Dopo la ricchezza delle informazioni del XIV secolo, dovute in specie ad al-Umari, Ibn Battuta e Ibn Khaldun, le cronache arabe sull'Africa subsahariana si fanno rare. Nel 1517 Hasan ibn Muhammad al-Zaiyati, dottore della legge coranica nato a Granada ma residente a Fez, giunse in Italia fatto schiavo da pirati che avevano catturato la nave su cui viaggiava. Battezzato dal papa Leone X con il nome di Leone Africano, le sue memorie, Descrizione dell'Africa e delle cose notabili che ivi sono, sarebbero state pubblicate da G.B. Ramusio nel 1550. Nel capitolo intitolato Divisione della terra negra per ciascun regno Leone Africano scrive: "Né voglio tacer d'essere stato in quindici regni di terra negra, e tre volte più ce ne sono rimasti di quelli dove io non fui, ciascuno assai noto e vicino a' luoghi ne' quali mi trovava. I nomi di questi regni, togliendo il principio dall'occidente e seguendo verso oriente e verso mezzogiorno, sono tali: Gualata, Ghinea, Melli, Tombutto, Gago, Guber, Agadez, Cano, Casena, Zegzeg, Zanfara, Guangara, Burno, Gaogà, Nube. Questi sono quindici regni i quali per la maggior parte sono posti sul fiume Niger, e per quelli fanno la strada loro i mercatanti che partono di Gualata per andare al Cairo" (Ramusio 1978, p. 23).
Tra l'800 e il 1600 esistevano nell'area subsahariana due "poli imperiali", l'uno occidentale e l'altro orientale, ambedue caratterizzati da centri di gravità mobili. A Ovest si succedettero nel tempo: il Ghana, impero Soninke decaduto nel 1076; il Mali, impero Malinke (1200-1400); il Songhai, impero fluviale centrato nell'ansa del Niger (1400-1600). A Est la fusione di gruppi nomadi e sedentari diede origine all'impero del Kanem, che dopo la sua dissoluzione sarebbe risorto nel Bornu attorno al XIV secolo. I "regni" nominati da Leone Africano sono l'esito della frammentazione degli antichi imperi, un fenomeno che continuerà sino e oltre la conquista coloniale.
L'impero del Ghana, fondato nel III secolo dai Sarakole, verso l'anno 1000 conquistò Awdaghost sottomettendo le tribù berbere; tra il 1076 e il 1087 gli Almoravidi si impadronirono della capitale Kumbi Saleh e nel 1203 vennero sconfitti dal re di Sosso, che mantenne il potere sul Ghana sino al 1235, quando Sundiata, sovrano del Mali, lo sottomise annettendolo al suo impero; stesso destino ebbe il regno del Takrur, fondato attorno all'800 e già Stato islamico dall'XI secolo, conquistato dal Mali alla fine del XIII secolo. Del Mali, citato come "regno di Malal" nel X secolo da al-Yaqubi, si ha notizia nelle più antiche cronache arabe perché il sovrano Baramendama Konate fu nell'XI secolo il primo pellegrino sudanese a recarsi alla Mecca; resterà nella storia il fastoso pellegrinaggio del suo successore Kankan Musa nel 1324/5. Durante il regno di Sundiata (1230-1255), Niani divenne capitale dell'impero. Nel XIII secolo il Mali conquistò e annetté il regno Songhai ("regno di Kawkaw", Gao), fondato attorno al X secolo; nel 1337 Gao si affrancherà dalla sudditanza e nel 1493 un colpo di stato militare porterà al potere la dinastia degli Askia, che regnerà sino al 1528. Nel 1337 i Mossi dello Yatenga invasero e saccheggiarono Timbuctù.
A partire dal XV secolo iniziò il declino del Mali, che dette origine a vasti flussi di migrazione e alla nascita di una moltitudine di piccoli regni e di città-stato. Il re del regno sudanese del Kanem, fondato, secondo la tradizione, nel 900 dai successori dell'eroe yemenita Sayf ibn Dhi Yazan, dopo un lungo periodo di guerre civili si rifugiò nel Bornu istituendo una nuova dinastia che estese la sua sovranità sulle città Hausa di Zaria, Katsina e Kano e sul sultanato del Wadai, la cui capitale Ouara è stata oggetto di numerose indagini archeologiche. Caratteristica comune dei maggiori centri Hausa, come di quelli minori anche di epoca più recente, era l'organizzazione in città-stato, delimitate da una cinta muraria, ognuna con un proprio governo, una classe dirigente, una comunità locale e un insieme di sudditi, abitanti in zone limitrofe sulle quali la città esercitava la sua autorità.
Analogamente, il complesso di Stati che raggruppavano i popoli di lingua Yoruba si caratterizzava per un modello di area territorialmente ridotta, comprendente una città e un certo numero di villaggi circostanti. Benché Ife (Ile-Ife) mantenga un posto centrale nella storia Yoruba, i pochi dati accertati riguardano essenzialmente la sua fondazione a opera del leggendario semidio Oduduwa e la straordinaria produzione artistica, arrestatasi nel XVI secolo a causa di un'imprecisata "catastrofe", forse la conquista da parte di una dinastia straniera che avrebbe in seguito eretto il palazzo nella sede attuale e costruito la muraglia che ancora oggi in parte delimita il centro della città. Non diversamente da Ife, da cui rimase a lungo dipendente sul piano politico e religioso, Benin sembra sia stata all'origine un aggregato di piccoli gruppi, uniti dalla sottomissione all'Oba, abitanti le radure della foresta in insediamenti cinti da un fossato; la centralità del potere era rappresentata dall'imponenza della muraglia difensiva, datata al XIII-XV secolo, costruita attorno alla capitale.
Oyo, all'origine anch'essa organizzata come una delle numerose città-stato Yoruba, divenne nel tempo la capitale di un vasto impero che nel XVIII secolo dominò l'insieme dei regni e dei villaggi della zona, imponendo loro pesanti tributi annui. Fondata tra gli anni 1380-1430, essa rimase a lungo sotto la minaccia dei Nupe che nel XVI secolo ne conquistarono la capitale; ma, alla fine di quello stesso secolo, gli Oyo ripresero il controllo del territorio dopo aver costituito un importante esercito la cui potenza era affidata a un corpo di cavalleria composto da un migliaio di uomini, un'arma sconosciuta in quell'area a causa della presenza della mosca tse-tse che impediva l'allevamento dei cavalli. Oyo infatti li importò dal Nord, aprendo così un circuito commerciale con gli Hausa e con le città del Nord-Ovest: Gao, Timbuctù e Djenné. Trasformatosi in stato militare, Oyo proseguì la sua espansione in direzione sud e sud-ovest, imponendo il suo dominio su altri Stati Yoruba e sul regno del Danxomè (Dahomey) abitato dal popolo Adja-Fon. Il movimento di conquista dei territori del Sud, ossia verso la costa dove attraccavano le navi negriere, corrisponde al periodo in cui il commercio degli schiavi raggiunse i massimi livelli. Il capitano H. Clapperton, che visitò Oyo nel 1825, dopo aver descritto il fastoso cerimoniale di corte e i numerosi schiavi al servizio del sovrano, osserva che "Katunga (Oyo) è costruita sui fianchi e attorno a una serie di piccole colline granitiche che le danno l'aspetto di una cittadella. Una fila di alberi accostati segue il perimetro interno della cinta di mura di terra, alta una ventina di piedi e attorniata da un fossato che misura 15 miglia. Nelle mura si aprono dieci porte. La casa del re e quelle delle sue mogli occupano una superficie di circa un miglio quadrato, sono costruite in terra e hanno tetti in paglia; di fronte e sul lato nord vi sono due grandi parchi. La città ha sette mercati aperti sino a sera" (Clapperton 1829). Il potere di Oyo resse sino al 1835-37, data in cui i Nupe di Ilorin invasero e distrussero la capitale, che non venne mai più ricostruita nella sede di origine; gli abitanti in fuga fondarono New Oyo, 150 km più a sud, riproponendo le caratteristiche morfologiche dell'antica capitale: il palazzo dell'Oba davanti al quale si apre l'area del mercato e una cinta fortificata che racchiude il nucleo abitativo. A conferma, i sondaggi archeologici effettuati nell'antica Oyo hanno rilevato il percorso della fortificazione e l'assetto urbanistico di alcuni quartieri.
L'urbanizzazione dell'immediato retroterra, da Arguin in Mauritania alle zone costiere della Nigeria, avvenne per processo indotto dal progressivo insediamento di forti e agenzie commerciali europee a partire dal XV-XVI secolo. La loro presenza, oltre a convogliare gli schiavi verso i punti di imbarco, generò un circuito di attività necessarie al sostentamento del personale delle guarnigioni, all'edificazione e al mantenimento degli edifici; a manovalanze, artigiani, pescatori e piroghieri che risiedevano nei pressi dei forti, si aggiunsero coltivatori e pastori che dalle zone interne trasportavano i loro prodotti per venderli o barattarli con gli Europei. I sovrani di piccoli e grandi regni dell'interno crearono postazioni con funzioni di controllo e dogana sulle merci in transito lungo tutto il tragitto che li separava dalla costa; venne così a formarsi una sorta di economia mercantile il cui maggior prodotto di esportazione era dato dagli schiavi, più tardi sostituiti dall'olio di palma e da altre produzioni locali. La presenza degli Europei incrementò inoltre un movimento espansionistico mirato alla cattura di un crescente numero di schiavi da scambiare contro armi sempre più sofisticate, al fine di aumentare la propria potenza bellica e dunque la possibilità di prevalere su altre regioni, potenziali serbatoi di schiavi. Agaja, re del Danxomè, nel 1727 conquistò e sottomise l'insieme dei territori che separavano la sua capitale dalla costa (per una estensione di 23.502 pertiche di bambù; ogni pertica corrisponde a una lunghezza convenzionale di 5 m), assicurandosi così una via commerciale libera da mediazioni e imposte doganali. Lo stile architettonico dei forti e delle agenzie di commercio influenzò notevolmente l'assetto urbanistico e i modelli abitativi locali; gli edifici a due piani, che si diffusero come simbolo di status tra i re e i notabili, venivano per lo più utilizzati per ricevere le numerose delegazioni e ambasciate straniere che miravano a ottenere trattati di esclusività di commercio.
A partire dalla seconda metà del XVIII secolo il rientro in patria di schiavi neri e mulatti affrancati o liberati, in specie nei paesi ubicati sul Golfo di Guinea, veicolò usanze, conoscenze, nuovi prodotti di coltura e nuovi culti. Lo stile "afro-brasiliano" (esemplificato in architettura da costruzioni unifamiliari massicce a due piani con numerose finestre e una veranda tutt'attorno al piano rialzato) si impose, integrandosi come l'espressione di una borghesia con esperienza di vita urbana, marcando il passaggio da un'economia di sussistenza a un'economia di "capitalismo mercantile" che mise in contatto individui, tecniche e mezzi finanziari, in un complesso gioco di relazioni interregionali e internazionali strettamente connesso al mercato triangolare. Gli esemplari di architettura afro-brasiliana ancora esistenti in Nigeria e in Benin, risalenti al XVIII-XIX secolo, sono stati classificati dai governi locali tra i beni del patrimonio storico da preservare.
Le prime indagini archeologiche in Africa Occidentale ebbero inizio attorno alla seconda metà del XIX secolo essenzialmente a seguito di ritrovamenti occasionali e sulla base di tradizioni orali che riconoscevano a specifiche aree valori storici e/o religiosi e delle antiche cronache, per lo più arabe, di storici e geografi i cui testi iniziavano a essere tradotti. Uno tra i primi scavi di cui si abbia notizia fu quello effettuato nel 1904 dal luogotenente L. Desplagnes sulla base di descrizioni dell'antico impero del Ghana attinte dall'opera di al-Bakri: "Gli scavi del grande tumulo di El-Oualadji sulle rive del Niger hanno consentito di determinare con esattezza i metodi di costruzione usati dalle popolazioni primitive che eressero quei monumenti e i riti funerari in uso in quella lontana epoca (...). Gli oggetti raccolti: ceramiche verniciate e decorate con motivi geometrici, figurine di argilla, armi, strumenti di ferro, gioielli d'agata, d'opale (...) danno l'idea del grado di civilizzazione dei popoli facenti parte del celebre impero del Ghanata visitato da al-Bakri nell'XI secolo dell'era cristiana" (Desplagnes 1906, pp. 89-90). Com'è evidente, più che sul reperto, l'attenzione veniva posta sui dati etnologici ed etnografici del rilevamento.
La ricerca scientifica ha avuto esordio nel momento in cui l'assoggettamento delle popolazioni locali da parte delle potenze coloniali consentì una maggiore sicurezza di movimento. È significativo che nella stessa epoca il capitano Florentin abbia dato corso allo scavo dei tumuli dell'ansa del Niger (1869), che una spedizione inglese abbia portato in Europa nel 1897 le straordinarie placche bronzee di Benin (Nigeria) e che il capitano J.W.M. Carrol abbia reso pubblico il ritrovamento di megaliti in Gambia (1898). In seguito gli archeologi in Africa Occidentale, rispetto ai loro colleghi in Europa o nel Medio Oriente, hanno incontrato maggiori difficoltà nel definire un metodo di classificazione dei reperti: un oggetto, in una data regione, può essere considerato tipico di una data epoca, ma non mantenere lo stesso valore cronologico a qualche centinaio di chilometri di distanza, presso una popolazione meno evoluta (Mauny 1967). La scelta fu dunque quella di avviare una serie di studi regionali, di cui un primo esempio è costituito dalle ricerche effettuate da M. Griaule, J.P. Lebeuf e A. Lebeuf (1948) nei siti Sao del Ciad.
Oltre al supporto di fatti storici, quali, ad esempio, l'avvento dell'Islam nella regione, i contatti e i conflitti con altri popoli, i principali fossili-guida che servirono da base nei primi rilevamenti archeologici furono materiali litici, perle, pipe, oggetti di origine non locale, terrecotte. I siti furono spesso individuati nel corso di campagne militari di ispezione e portati poi a conoscenza di etnologi e storici incaricati di approfondirne l'analisi attraverso indagini archeologiche. Di fatto, militari e funzionari governativi operanti in Africa venivano in maggioranza scelti tra le persone che già avevano esperienze di quel territorio per motivi di studio o di servizio ed è dunque logico che le prime prospezioni e i reperti portati alla luce dagli scavi siano stati letti in un'ottica prioritariamente fondata sulla specifica disciplina di studio del ricercatore. Un esempio è A. Bonnel de Mézières che, approfondendo gli studi storici di Ch. Monteil, dopo avere effettuato saggi di scavo poté identificare nel 1913-14 Kumbi Saleh come la capitale dell'antico Ghana.
Nell'indagine archeologica attuale lo scavo continua a essere l'aspetto centrale della raccolta di dati di un sito e i ritrovamenti non avvengono più, o solo raramente, per scoperte occasionali, com'è accaduto, ad esempio, a Nok o a Igbo-Ukwu (Nigeria). Anche laddove le risorse economiche non consentono piani-programma organici, lo scavo è preceduto da prospezioni sistematiche tali da consentire di registrare il potenziale archeologico di una data regione; tali prospezioni sono fondate su modelli di indagine derivati dall'ecologia, dall'antropologia, dalla geografia umana e dall'etnoarcheologia, superando così la semplice descrizione dei reperti per privilegiare la ricostruzione dell'azione dell'uomo sull'ambiente, il ciclo operativo di produzione e il comportamento umano in un periodo stabilito.
Secondo S.R. Binford e L. Binford (1968), vi è interdipendenza di fatti sociali, tecniche e condizionamenti ecologici, in sistemi in equilibrio, in modo che le scelte culturali possano essere messe in secondo piano". In queste condizioni viene proposto, in linea con l'approccio classico nella storia delle scienze, di utilizzare un procedimento ipotetico-deduttivo che permetta di passare dalle analisi etnografiche ai fatti archeologici. Nasce così il termine di "etnoarcheologia" che consiste in una strategia di ricerca volta ad affinare, arricchire e integrare le tecniche di inferenza archeologica ponendo in opera un'analisi etnologica del presente per proporre ipotesi interpretative del passato. Ovviamente, questi modelli dovranno poi essere messi a confronto con i dati forniti dagli scavi e con gli altri metodi di approccio delle realtà antiche.
Sin dal XIX secolo gli studiosi di preistoria avevano rivolto la loro attenzione a popoli ancora esistenti considerati come "primitivi" allo scopo di identificare le funzioni di oggetti ritrovati negli scavi. Negli anni Cinquanta del Novecento dominò il comparativismo fondato sulla raccolta di dati provenienti dalle più diverse aree del mondo; alcuni studiosi privilegiavano l'interpretazione etnologica, altri, come A. Leroi-Gourhan (1983), criticando gli eccessi della spiegazione per analogia orientarono la ricerca verso l'etnologia preistorica e la sperimentazione. Negli anni Ottanta l'etnoarcheologia è stata recuperata anche dagli studiosi della preistoria africana che si affidano all'analisi dei comportamenti di società contemporanee presso le quali sussistano costumi arcaici per tentare di comprendere usi sociali e religiosi degli uomini di cui hanno portato alla luce i resti materiali. Un importante ruolo affidato all'etnoarcheologia ha riguardato in specie la produzione ceramica; tra gli studi attinenti a questo tema in Africa Occidentale sono da segnalare in specie quelli di A. Adandé in Benin, di L.B. Crossland in Ghana, di A. Gallay, E. Huysecom e A. Mayer in Mali, di N.J. David, J. Sterner e O. Gosselain in Nigeria e Camerun.
Secondo A. Gallay (1986), i modelli etnoarcheologici possono evidenziare analogie o convergenze, ossia un elenco, non esaustivo, di possibilità, e dunque contribuire a ridurre le generalizzazioni archeologiche arbitrarie. A cavallo tra due campi disciplinari, l'etnoarcheologia in Africa ha come scopo essenziale quello di comprendere come fatti o accadimenti attuali, tra cui i dati etnografici, la tradizione orale, il culto o il rispetto per dati luoghi od oggetti, possano essere confermati dalle ricerche archeologiche. Ad esempio, l'analisi delle strutture linguistiche di popoli che abitano la costa del Golfo di Guinea e l'entroterra forestale ha evidenziato una sorta di parentela per affinità lessicali. I ritrovamenti archeologici in siti di superficie e nelle tombe (Ife e Benin in Nigeria) o in profondità (Kintampo, Ntereso in Ghana; grotte di Iwo Eleru e di Afikpo in Nigeria) hanno permesso di ipotizzarne un effettivo legame fisico e culturale risalente al VII secolo. Un procedimento che può anche essere svolto in senso inverso: nel territorio compreso tra i fiumi Senegal e Gambia, dove i giacimenti di minerali ricchi di ferro sono abbondanti e sfruttati sin dall'inizio dell'era cristiana (ne sono testimonianza le numerose vestigia di forni e scorie), non è mai stata trovata alcuna traccia di rame. Tuttavia, negli scavi condotti a Sintiou Bara e a Podor, lungo il corso medio del fiume Senegal, è stata reperita una grande quantità di oggetti di rame frutto di una metallurgia secondaria, di trasformazione di un prodotto necessariamente importato dalle regioni settentrionali, e più precisamente dai centri minerari marocchini di Sous e di Draa, riconoscibile per le peculiari caratteristiche della lega (peraltro, le più vicine miniere di rame della Mauritania, del Niger e del Mali non avrebbero potuto garantire rifornimenti in tale quantità). La profusione dei manufatti ritrovati è il segno tangibile di contatti diretti e regolari tra i commercianti delle regioni settentrionali e le città-stato lungo il Senegal, commercio che può essere messo in relazione con il progressivo declino di Awdaghost (o Tegdaghost) che, conquistata dagli Almoravidi nel 1054, perse il suo ruolo di centro commerciale di distribuzione e venne esclusa dagli itinerari occidentali delle carovane provenienti dal Nord (Garenne-Marot 1995). Come afferma lo storico burkinabe J. Ki-Zerbo, dissotterrare un oggetto isolato è un'azione priva di significato, poiché vi è tutta una vita pietrificata che l'archeologo deve riesumare.
In aggiunta alla difficoltà di reperimento dei luoghi citati dalle fonti storiche (toponimi irriconoscibili, distanze approssimative, collocazioni geografiche imprecise), l'archeologia soffre in Africa di un insieme di altre difficoltà: dislocazione di terreni per frattura o inversione di rilievo, violenza dell'erosione che causa una confusione degli strati, fragilità dei materiali di edificazione e così via. Ad esempio, nel Nord del Ghana gli scavi compiuti da M. Shinnie (1965) hanno dimostrato che in molti casi non era più possibile distinguere i resti dei muri costruiti dalle rocce locali. A ciò si unisce l'effetto distruttore, denunciato da Mauny (1961), di saccheggiatori o di prelievi effettuati da profani, come è avvenuto, ad esempio, a Tondidaru (Mali), dove un importante gruppo di megaliti ha subito, a partire dal 1904, tutta una serie di scavi privi di coordinamento, sino all'ultimo, eseguito negli anni Cinquanta a opera di H. Clerissé, giornalista de L'intransigeant, che si concluse con la dispersione dei reperti, che furono trasportati in Francia, a Dakar e persino utilizzati come ornamento del giardino del governatore a Niafunké (Ki-Zerbo 1972).
Da oltre vent'anni, tuttavia, l'atteggiamento e i metodi sono radicalmente cambiati. Sebbene la scarsità di mezzi a disposizione dei ricercatori sussista, si registra una nuova sensibilità da parte della classe intellettuale africana: nelle università si aprono corsi di laurea in archeologia e il VI colloquio de l'Association Ouest-Africaine d'Archéologie, tenutosi nel 1994 a Cotonou (Benin), è stato dedicato al tema "Archeologia e salvaguardia del patrimonio". Oggetto di recenti studi, restauri e misure di protezione sono, ad esempio, la porta di Idena a Ketou e il palazzo reale Honmè a Porto-Novo (Benin), la cosiddetta "casa degli schiavi" e il forte di Gorea (Senegal), il mausoleo dell'Asantehene a Kumasi (Ghana), le case ipogee del settore settentrionale della Costa d'Avorio. L'Institut Français d'Afrique Noire (IFAN) di Dakar, il Centre Régional Inter-Africain d'Archéologie (CRIAA), con sede a Nouakchott in Mauritania, oltre ai centri di ricerca presenti nella quasi totalità degli Stati africani, utilizzano sempre più archeologi e ricercatori locali in collaborazione con équipes straniere, avendo come finalità non solo il repertorio dei siti archeologici, ma anche la loro conservazione e difesa, con leggi mirate, dai saccheggi e dall'esportazione dei reperti. Il tentativo è di collegare in un unico progetto gli abitanti, le istituzioni e gli archeologi stessi. Ad esempio, l'Università A. Moumouni di Niamey (Niger) si è dotata di un laboratorio di radioisotopi in grado di effettuare analisi di datazione, rendendo così economicamente accessibili ai ricercatori africani i metodi al radiocarbonio.
Dopo un lungo periodo di ricerche "sitocentriche" vengono recuperati gli studi regionali anche dai ricercatori stranieri; il maggior esempio è quello di R.J. McIntosh e S.K. McIntosh a Djenné-Djeno (Mali) nel 1977-81, ispirato dai precedenti lavori di G. Connah a Daima (Nigeria) e di M. Posnanski a Begho (Ghana). Una delle prime immagini satellitari, ampiamente diffusa dai mezzi di comunicazione, è una fotografia a colori del delta del Nilo, presa dalla capsula Apollo nel 1971. Tuttavia, all'epoca, i documenti di riferimento per i geografi e per le ispezioni archeologiche erano ancora le fotografie aeree realizzate dall'Istituto Geografico Nazionale francese nel 1958, che coprivano l'intera area africana francofona. Nel 1975 le immagini realizzate dal satellite Landsat hanno fornito un prezioso supporto al programma archeologico di emergenza nella regione In Gall-Teguidda-n-Tessoum (Niger), il cui obiettivo era inventariare "le vestigia della presenza umana antica e sedentaria in una regione semiarida da almeno due secoli, percorsa da pastori nomadi, dove, a parte le città di Agadez, In Gall e Teguidda-n-Tessoum, nella stagione arida sono presenti solo rari punti d'acqua" (Poncet 1992). In quegli anni la regione era interessata da prospezioni mirate alla ricerca dell'uranio e le presenze archeologiche rischiavano di essere saccheggiate o sepolte dai bulldozers; le immagini satellitari hanno permesso di redigere un inventario non solo descrittivo, ma anche analitico di localizzazioni e tipologie e comporre un quadro di "geografia regionale del passato" su un'area equivalente a un quadrato di circa 250 km di lato.
Ovviamente, immagini satellitari e foto aeree non sono in sé sufficienti, ma richiedono un'interpretazione. "Esiste una logica formale che lega la fotointerpretazione alle strategie di campionatura sul terreno: l'informazione preliminare è d'aiuto alla ricerca dei modelli sulle immagini che sono alla base delle prospezioni sul terreno" (McIntosh - McIntosh 1993, p. 236). E su questa linea si sono mosse le ricerche di R.J. e S.K. McIntosh: una prospezione estensiva (1083 km2) della regione di Djenné, cui ha fatto seguito lo studio in un raggio di 4 km attorno alla città di una specifica struttura del popolamento: i tumuli nucleari che hanno dominato l'urbanizzazione locale. A supporto e integrazione delle carte topografiche 1:200.000, disponibili per la regione in oggetto, una sequenza dettagliata della sua evoluzione è stata ottenuta mediante immagini satellitari Skylab (colore e infrarossi), Landsat (che da oltre 20 anni registra ogni 18 giorni ogni punto della terra) e mediante foto stereografiche b/n 1:50.000. Analogo procedimento è stato applicato dai McIntosh nel 1984 nella regione di Timbuctù, evidenziando importanti elementi sulle progressive fasi di popolamento di questa zona ricca di acqua che hanno seguito il generale inaridimento del Sahel registratosi tra il 250 a.C. e il 250 d.C.
Ci si soffermerà qui di seguito su alcuni aspetti caratterizzanti della produzione culturale e dei suoi correlati materiali in Africa Occidentale, sui quali lo studio delle fonti e la ricerca archeologica hanno aperto nuove e proficue prospettive di indagine.
L'oro: produzione e circuiti di scambio - In Africa Occidentale l'oro venne certamente estratto o raccolto mediante lavaggio delle sabbie aurifere già nell'età del Ferro (1000 a.C. - 1000 d.C.). Le cronache arabe testimoniano dell'esistenza di miniere, tuttavia nessuna tra quelle citate è stata sinora localizzata, ispezionata o datata, e dunque non è possibile stabilire con esattezza quali fossero i metodi di estrazione; i soli oggetti d'oro di scavo, databili alla fine del I millennio d.C., sono quelli ritrovati nei tumuli di Rao, presso Saint-Louis (Senegal): un grande pettorale del peso di 191 g, anelli, un pendente e alcuni ciondoli di guarnizione dell'elsa di una spada.
L'Occidente musulmano iniziò a battere monete d'oro a partire dal X secolo ed è da quest'epoca che le informazioni sulla produzione aurifera dell'Africa Occidentale diventano geograficamente più precise, abbandonando le affabulazioni su "l'oro che spunta dalla terra come le carote". Sino a quel periodo l'oro sudanese era quasi esclusivamente riservato al mercato interno (gioielli, ornamenti d'apparato, tesori conservati dai re e dai notabili) e solo una minima parte attraversava il Sahara in cambio di prodotti mediterranei. Il metallo esportato verso il Nord era in larga misura il tibr, ossia l'oro puro allo stato grezzo utilizzabile per il conio delle monete senza bisogno di affinazione o lega. È probabile che per facilità di trasporto il metallo venisse fuso localmente; J. Devisse ha infatti ritrovato negli scavi di Tegdaghost oro preparato in fili per essere lavorato a filigrana, insieme a cinque mezzi lingotti e a un disco d'oro di 1,75 g dalla superficie martellata.
Sulla carta di Angelino Dulcert (1339) appare la leggenda Iste rex Saracenus dominatur tota arenosa et habet mineries auro in Masima habundancia. Rex Melli, e il cosiddetto Atlante Catalano di Abraham Cresque (1375) include la figura del grande re nero Mansa Musa, imperatore del Mali, che nel suo passaggio al Cairo nel 1324 fece scendere il tasso dell'oro da 25 a 22 dracme. All'epoca i maggiori centri di sviluppo erano localizzati sulle sponde del Mediterraneo, mentre l'Atlantico restò un "mare ignoto" sino alla metà del XIV secolo, quando il Portogallo inventò nuovi metodi di navigazione; nello stesso periodo i cammellieri arabi che trasportavano l'oro abbandonarono le coste mediterranee per dirigersi a oriente, verso l'Egitto. Iniziò così il declino delle città italiane e in specie di Genova, che nel 1445 istituì uno speciale comitato al fine di porre freno alla decadenza della moneta genovese. Vincitrice fu la proposta di Benedetto Centurione di adottare una moneta d'oro: famiglia di grandi commercianti internazionali, i Centurione erano a conoscenza che l'oro dell'Egitto proveniva dal Sudan occidentale, e a Touat avevano un loro agente, Antonio Malfante, che venne incaricato di entrare in contatto con "la terra dell'oro". La missione di Malfante fallì, ma la fama dell'oro esistente al di là del deserto diede origine a un'entità geografica chiamata "Mediterraneo sahariano".
Lungo le piste carovaniere, oro, avorio, schiavi e pepe provenienti dal Sud approdavano sull'altra riva del Sahara; tra l'VIII e il XII secolo nacquero le città maghrebine di Aghmat, Tamdult, Sigilmasa, Ouargla, Ghadames, Tlemcen e, poiché la regola del commercio era il baratto, queste città mercati-fiere dei prodotti sudanesi divennero anche centri minerari, laboratori di industrie metallurgiche e tessili. Dall'altro lato del deserto si affermarono Awdaghost, Azugi, Kumbi Saleh, Tadmekka e, più tardi, in epoca medievale, Timbuctù, Djenné, Gao e Kano. Descrivendo Gao, i cui abitanti erano facoltosi commercianti, Leone Africano commenta: "Vengono in essa infiniti negri, i quali vi portano grandissima quantità d'oro per comperare robbe che vengono di Barberia e d'Europa; ma non ve ne trovano mai tante che supplischino alla quantità dell'oro, e ne portano indrieto sempre la metà o li duoi terzi" (Ramusio 1978, p. 380). Le principali zone di esportazione del prezioso metallo erano il Bouré (Mali), il Galam (Guinea), la Costa d'Oro (Ghana) e la zona Lobi e Poura (Burkina Faso). Sebbene esistano in zona costruzioni e perforazioni a pozzo risalenti al XV-XVI secolo, la conoscenza dei siti auriferi del Burkina Faso è tuttavia rimasta essenzialmente limitata al livello locale.
Nell'area sud-occidentale, abitata dalle popolazioni Lobi, esiste una serie di rovine di grandi edifici di pietra che sono state oggetto delle più fantasiose attribuzioni. La prima segnalazione risale al 1902, quando il luogotenente Schwartz descrisse una costruzione quadrangolare di circa 50 m di lato, delimitata da un muro di pietra alto 2 m, al cui interno erano un secondo muro e una serie di rovine di edifici a più piani. Negli anni Venti, H. Labouret ne identificò altre 20, isolate l'una dall'altra. I materiali impiegati erano blocchi non tagliati di laterite legati da una malta d'argilla gialla, e soprattutto il perfetto allineamento dei muri (ben diverso dalle case polilobate locali, costruite con impasto d'argilla) fece nascere l'ipotesi di un'origine egizia o fenicia; una prima datazione all'XI secolo smentì un'ulteriore congettura che attribuiva queste costruzioni ai Portoghesi. Un recente articolo di M. Père (1992) sembra mettere fine ai dubbi riconoscendone l'origine ai Gan, popolazione di agricoltori proveniente dall'attuale Ghana, giunta in quest'area attorno al XV secolo alla ricerca di campi disponibili e probabilmente anche attratta dalla sua fama di terra ricca d'oro. Gli alti recinti di pietra sarebbero stati costruiti per motivi di difesa (dalle bestie feroci, dai predatori d'oro e dai nemici) in fasi successive tra il XV e il XVI secolo. Resta tuttavia da chiedersi perché il dominio della tecnica di costruzione in pietra sia stato dimenticato dagli attuali Gan, il cui habitat è formato da capanne rotonde con tetti in paglia.
La zona di Poura è stata indagata negli anni 1970-80 dall'archeologo burkinabe J.B. Kiéthéga il quale, oltre che con la cronica scarsità di mezzi e la carenza di documenti di archivio, ha dovuto confrontarsi con una pluralità di tradizioni orali dovuta al meticciato tra diversi gruppi etnici insediatisi sulla riva destra del Volta Nero attratti dalla ricerca dell'oro. Una serie di sondaggi ha identificato tre tipologie di filoni auriferi: in giacimenti magmatici, dove il metallo si trova quasi allo stato puro; in terreni permeabili come le rocce arenarie o gli scisti impregnati d'oro per spostamento sotto un'azione fisico-chimica e infine nei depositi alluvionali dei grandi corsi d'acqua, tuttora sfruttati dalle donne con rudimentali metodi di vagliatura e lavaggio delle sabbie, mentre l'estrazione dai pozzi sembra essere riservata agli uomini. L'oro conserva ancora oggi un carattere di pericolosità: considerato "una cosa viva", la sua vendita deve essere preceduta da offerte e sacrifici alla terra che ne ha consentito il ritrovamento. A riprova è una notazione del capitano L.-G. Binger (1892), che attraversò la zona di Poura nel 1888: "Il colore di quest'oro è un bel giallo e le pepite sono in genere più grosse di quelle del paese Lobi. Ne ho visto un esemplare a Wahabou ma, con mio grande disappunto, non potei acquistarlo: il proprietario, per ragioni che ignoro, non volle disfarsene, nemmeno a un prezzo doppio del suo valore".
L'installazione di forti europei - L'incremento dell'installazione di forti lungo le coste africane corrisponde allo sviluppo della tratta negriera, che raggiunse il suo picco nel XVIII secolo ma interessò nel suo complesso un periodo compreso tra il 1680 e il 1830. La costruzione dei primi forti iniziò già dal XV secolo con un'espansione parallela al graduale raggiungimento delle coste da parte dei Portoghesi. Il primo forte di cui si abbia notizia fu quello eretto nel 1466 sull'isola di Santiago (Capo Verde) in un luogo chiamato Ribeira Grande (oggi Citade Velha), che per le sue caratteristiche si prestava come un punto sicuro di scalo, rifornimento e stoccaggio di schiavi per il traffico atlantico; secondo le documentazioni di archivio, con pietre importate dal Portogallo vennero costruiti gruppi di costruzioni che furono protetti da bastioni e muraglie di cinta. L'importanza del traffico è dimostrata dalla proporzione tra la popolazione locale e la massa di schiavi fatta affluire sul posto: 500 abitanti, 5700 schiavi. Malgrado il monopolio portoghese proclamato dal papa Niccolò V nel XV secolo, altri agenti europei (Spagnoli-Portoghesi, Inglesi, Francesi, Brandeburghesi, Olandesi, Svedesi, Danesi) stabilirono postazioni sulla costa. Tra Arguin e Ouidah furono eretti 43 forti, oltre a numerose sedi secondarie. Tra il 1482 e il 1784, sul tratto di 300 km di costa della Mina (Ghana), particolarmente ambito per la fornitura dell'oro, vennero costruiti 32 forti, tra cui quello di Bantama, scavato negli anni Settanta del Novecento da D. Calvocoressi, e un centinaio di postazioni accessorie.
A.W. Lawrence, docente di archeologia classica a Cambridge, fu incaricato negli anni Cinquanta del Novecento del rilievo degli antichi forti del Ghana e del restauro dei principali edifici ancora esistenti. Del castello di Elmina, costruito dai Portoghesi nel 1482 e in seguito conquistato dagli Olandesi, poi dagli Inglesi, non esistono disegni attendibili prima del 1600, tuttavia qualche accenno nelle cronache dell'epoca sullo stile tardomedievale in uso presso i Portoghesi permise a Lawrence di rintracciare l'antico assetto del forte, costituito da un blocco rettangolare a due piani con al centro un cortile, affiancato da due o tre torri aggettanti agli angoli; una torre di maggiore altezza, probabilmente aggiunta in un secondo tempo, si elevava direttamente da un altro angolo. Le torri e le fortificazioni vennero eseguite prioritariamente e in grande fretta (come attesta una cronaca portoghese) dopo che gli operai incaricati di ricavare le pietre da un ammasso roccioso furono attaccati dalla popolazione locale, che considerava la montagna un luogo sacro. Nell'area sottostante il cortile centrale è stata ritrovata una grande cisterna, opera dei Portoghesi, rivestita da mattoni rossi e con tubi a sezione triangolare che raccoglievano l'acqua dei tetti per convogliarla mediante condotti aperti scavati ai margini del cortile sino a un'apertura praticata nella volta della cisterna.
I diversi Stati europei istituirono compagnie di commercio che assicuravano il traffico con l'Africa e l'esportazione di schiavi verso l'America; ognuna di queste agenzie ottenne dai rispettivi governi il monopolio del commercio con l'Africa e in cambio si impegnò a mantenere gli antichi forti e a costruirne di nuovi, in acerrima concorrenza reciproca. Il riflesso sui possedimenti costieri africani dell'alternarsi di vittorie e sconfitte nei conflitti bellici tra le varie nazioni fu il continuo cambio di proprietà dei forti. Un esempio della concentrazione di questo fenomeno fu Ouidah (oggi in Benin, citata sotto vari toponimi nelle relazioni del XVI sec.).
All'origine un villaggio denominato Gléhué ("casa dei campi"), dipendente dal regno di Allada, Ouidah divenne un importante centro della tratta a partire dalla fine del XVII secolo, in concorrenza con il vicino regno di Porto-Novo e i porti di imbarco di Jacquin e di Offra, dove dal 1640 erano installati depositi-magazzini olandesi e inglesi. Nel 1669 il francese Chevalier d'Elbée vi costruì un alloggiamento che divenne il maggior punto della tratta, nonostante la sua distanza di 5 km dalla costa; per l'imbarco degli schiavi e dei prodotti locali come per lo sbarco delle merci importate ci si avvaleva dei piroghieri Mina al servizio dell'Olanda, che controllava il forte e la costa di Elmina. Nel 1671 il forte francese venne costruito con tecniche e materiali locali; nel 1704 un nuovo forte, battezzato Saint Louis de Grégoy, occupò un terreno di 100 × 80 m a ovest del villaggio. I muri erano costruiti con fasce d'argilla sovrapposte e imbiancati con calce ricavata dalla combustione di conchiglie; lungo gli anni venne apportata una serie di migliorie e nel 1727 così esso apparve allo Chevalier des Marchais: "È composto di quattro bastioni, con fossati larghi e profondi (...) e un ponte levatoio. Vi sono 30 cannoni montati sui bastioni e sui muri intermedi in specie su quelli che guardano verso il forte inglese. I quattro corpi della costruzione servono da magazzini, alloggi per gli ufficiali della guarnigione e da depositi di schiavi. Al centro, una cappella ove si dice messa quando vi è un cappellano". Dopo il decreto del 1794 che abolì la tratta, il forte ormai semidistrutto venne concesso in uso alla casa di commercio Regis, che lo occupò sino all'inizio del XX secolo. Nei primi anni del Novecento ogni traccia dell'antico forte venne cancellata per erigere sul sito un ospedale.
Il Fort William fu costruito nel 1682 dagli Inglesi secondo l'ordine del sovrano locale, "a un lungo tiro di fucile" a est di quello francese. Più volte incendiato e ricostruito sullo stesso sito, nel 1725 viene così descritto dallo Chevalier des Marchais: "Quadrato, in luogo dei bastioni i suoi angoli sono occupati da viali con fossati a secco, larghi e profondi senza camminamenti coperti. Vi è un ponte levatoio e 26 cannoni". Il forte rimase attivo sino al 1780; abbandonato definitivamente dagli Inglesi nel 1807, l'edificio fu venduto a una ditta commerciale di Amburgo e in seguito a una ditta inglese. Negli anni Cinquanta del Novecento una parte della cinta muraria era ancora visibile, ma nessun sondaggio archeologico è ormai ipotizzabile poiché, data la sua prossimità al mercato, il sito è stato occupato da moderni negozi.
Primi navigatori a sbarcare sulla costa del Golfo di Guinea, i Portoghesi eserciteranno i loro commerci direttamente dalle navi o da depositi provvisori installati nei villaggi lungo il litorale sino alla fine del XVII secolo. Nel 1721, in un sito indicato dal sovrano, ossia in prossimità di quelli francesi e inglesi, venne iniziata la costruzione del forte São João Batista d'Ajuda. "L'intera opera dovrà essere in terra come le altre erette in questo luogo e che servono da fortificazioni, poiché sotto il nome di factoreries si fa una sorta di fortezza con bastioni, fossati, muraglie, trincee di artiglierie come ne hanno fatto Francesi e Inglesi in questo stesso porto d'Ajuda (Ouidah), e benché siano in terra, si conservano bene perché si dà ai muri uno spessore sufficiente" (Labat 1966, p. 50). Più volte modificato nel suo impianto originario, il forte subì ciclici abbandoni: nel 1861 venne utilizzato per breve tempo da missionari francesi; nel 1865 i Portoghesi ne ripresero possesso e vi installarono un Residente che fece abbattere le antiche costruzioni restanti per costruirsi una dimora a due piani. La "proprietà simbolica" fu mantenuta sino all'indipendenza del Dahomey nel 1960; costretto ad abbandonare il sito, prima di partire il Residente diede ordine di incendiarlo. Trasformato in museo storico, la Francia ne restaurò parte delle fortificazioni e nel 1984 la fondazione portoghese Calouste Gulbenkian eseguì un restauro basato su un progetto previsto nel 1850 per la riabilitazione del forte.
Bibliografia
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Sulla produzione e i circuiti di scambio dell'oro:
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Sull'installazione di forti europei:
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di Samou Camara
Nel bilancio delle ricerche scientifiche condotte nel corso dell'ultimo ventennio in Africa Occidentale si registrano numerose scoperte, effettuate sia da archeologi africani che attraverso programmi di cooperazione con organismi di ricerca statunitensi, europei e asiatici; si darà qui sinteticamente conto delle principali.
Le prime ricerche archeologiche condotte nella valle del Sankarani risalgono agli scavi realizzati nel 1963 e nel 1968 da un'équipe di specialisti polacchi e guineani a Niani, un sito ubicato sulla riva sinistra del Sankarani, in territorio guineano.
A partire dal 1990 alcune prospezioni archeologiche effettuate da S. Camara nei dintorni dei villaggi di Leba e Siekorole, sulla riva destra dello stesso corso d'acqua (in territorio maliano), hanno permesso di identificare numerosi tumuli con strutture abitative, abbondante materiale archeologico di superficie, vari laboratori preposti alla riduzione dei minerali di ferro, grotte e ipogei; tuttavia questi siti non sono stati oggetto di scavi. Dal 2000 al 2003 S. Camara e C. Panella hanno diretto nella regione una missione di ricerca archeologica e antropologica promossa dall'Istituto Italiano per l'Africa e l'Oriente (Roma) e dal Ministero Italiano degli Affari Esteri (Direzione Generale per la Promozione e la Cooperazione Culturale), in collaborazione con l'Istituto di Ricerca di Scienze Umane del Mali. La parte antropologica del programma è stata dedicata allo studio delle dinamiche socioeconomiche legate all'estrazione tradizionale dell'oro, attività svolta dalle donne nei depositi alluvionali presso i siti. La ricerca archeologica, diretta da S. Camara, ha previsto l'inventariazione e la cartografia dei siti della regione e l'apertura di un cantiere di scavo sulla cui base costruire una cronostratigrafia di riferimento per gli studi svolti nella regione.
Ambiente e popolazione - La valle del Sankarani fa parte del territorio originario Mande, ubicato tra i fiumi Sankarani e Niger e culla dell'impero del Mali, che tra il XIII e il XVI sec. d.C. caratterizzò l'evoluzione politica, economica e culturale del Sudan occidentale, grazie alle miniere d'oro del Bouré e del Bambouk.
La valle del Sankarani è localizzata nel bacino dell'alto Niger e nell'area sudanese, una vasta zona caratterizzata da precipitazioni annuali medie che si aggirano, da maggio a ottobre, attorno ai 1600 mm. La stagione secca è caratterizzata da venti regolari (Alisei e Harmattan) che seccano la terra e le piante. La rete idrografica è costituita dal Sankarani, principale affluente di destra del Niger, e dal suo affluente Ouassoulou Balé. Il paesaggio è contraddistinto dal basamento granitico e metamorfico, che affiora in superficie, e da una sequenza di colline con cime spesso corazzate che di rado superano i 300 m di altezza. Poiché presso queste colline alcune diaclasi hanno causato il crollo e lo sgretolamento delle soglie rocciose, i pendii degli altipiani, di solito lievi, sono ricoperti da blocchi di roccia lateritica che vengono frantumati a causa dell'erosione per essere poi trascinati dalle acque di ruscellamento; questi blocchi pertanto ricoprono la parte bassa dei pendii e le pianure sottostanti. La regione è percorsa inoltre da una importante rete di vallate, generalmente ricoperte di sabbia e suolo lateritico, dove cresce una vegetazione di tipo boschivo.
La valle del Sankarani è popolata da agricoltori e allevatori appartenenti ai gruppi linguistici Maninke e Peul. L'amministrazione antica del territorio si sviluppò attorno ad alcune chefferies locali, centri che rappresentavano i poteri politici della regione; testimoniano della loro esistenza numerosi resti di mura di fortificazione, delle quali sono ancora visibili interi tratti attorno agli antichi villaggi. Oltre all'agricoltura e all'allevamento, la valle del Sankarani conserva una ricca tradizione dell'estrazione dell'oro; essa è parte integrante della regione aurifera del Bouré, i cui antichi pozzi di estrazione sono tuttora visibili sugli altipiani corazzati e lungo le valli fossili.
Le indagini archeologiche - Le prospezioni archeologiche effettuate dalla missione italiana hanno permesso di identificare sulla riva destra del Sankarani piccole colline di origine antropica: si tratta di strutture legate ad "attività portuali", formate da gradini di pietre e destinate all'approdo delle piroghe. Inoltre sono stati rinvenuti tumuli di pietra, laboratori di riduzione dei minerali di ferro ubicati lungo le valli degli affluenti del fiume, siti rupestri e ipogei. Quasi tutti i tumuli con strutture abitative ubicati nei dintorni del villaggio di Siekorole sono stati attribuiti a popolazioni Maninke, il cui insediamento nella regione è anteriore a quello dei Peul. Questi antichi insediamenti Maninke (Maninka Tomon), alcuni dei quali sono stati rioccupati dalle popolazioni attuali, si presentano come ampi tumuli alti tra 2 e 4 m, con un diametro o una lunghezza massima che varia tra 100 e 600 m. Il materiale archeologico rinvenuto in superficie comprende strumenti di pietra levigata, frammenti di ceramica ‒ con una notevole frequenza di vasi provvisti di piedi ‒, frammenti di pipe e macine. La presenza di frammenti di pipe induce a ritenere che si tratti di un'occupazione posteriore al XVI secolo, data generalmente considerata come legata all'introduzione di questi manufatti in Africa Occidentale. Tra i tumuli identificati, gli insediamenti che attirano maggiormente l'attenzione per le loro dimensioni e la ricchezza del materiale ritrovato in superficie ‒ e quelli che sono inoltre considerati i più antichi dalla popolazione attuale ‒ sono Guaguala e Welibala. Tali siti, distanti circa 15 km l'uno dall'altro, sono ubicati sulla riva destra del Sankarani e sono in parte allagati dal lago artificiale della diga di Sélingué.
Il sito di Welibala, che presenta una superficie di circa 20 ha, è accessibile soltanto nel periodo compreso tra febbraio e maggio, epoca in cui le acque del lago si ritirano; esso presenta in superficie importanti depositi di materiali ceramici e di frantumazione. Come Welibala e Niani, ubicati circa 10 km a ovest, anche l'insediamento di Guaguala è situato sul margine della pianura alluvionale, a circa 600 m dal letto minore del fiume e a circa 1 km da un altopiano corazzato che sorge più a sud, ai piedi del quale vennero edificati alcuni tumuli di pietra. L'insediamento si distingue nel paesaggio grazie alla presenza di due grandi tumuli, del diametro di 60 e 300 m, e di abbondante materiale archeologico di superficie formato da frammenti fittili, percussori, pietre levigate e frammenti di macine. Grazie alla sua posizione geografica e strategica di villaggio-satellite ‒ che ebbe sicuramente importanti rapporti con le antiche città di Welibala e Niani ‒, nonché per l'abbondanza di resti archeologici di superficie, il settore 1 di Guaguala è stato scelto per tentare di ottenere evidenze stratigrafiche e datazioni.
Il contesto geografico del Mali, che occupa una posizione centrale in Africa Occidentale, è caratterizzato dalla presenza di due grandi fiumi, il Senegal e il Niger, le cui vastissime pianure alluvionali hanno favorito nel corso dei secoli l'insediamento di comunità in prevalenza agricole. Queste condizioni climatiche, in particolare nelle regioni centrali e meridionali, e questa posizione intermedia tra le regioni boschive a sud e quelle sahariane a nord hanno anche permesso la nascita dei più potenti imperi dell'Africa Occidentale. Le regioni centrali del Mali si suddividono nella zona lacustre e in quella del delta interno del Niger; si tratta di due entità distinte del medio bacino del Niger. Oggi esse sono occupate da popoli sedentari (Soninke, Songhai, Bamanan) e seminomadi (Bozo, Peul, Tuareg e Mori).
Grazie alle ricchezze naturali costituite da vaste pianure agricole e da pascoli, ma anche alla grande pescosità delle acque, queste regioni del medio Niger-Bani hanno favorito nel corso dei secoli l'insediamento di popolazioni di agricoltori (Bamanan, Soninke), pescatori (Bozo, Somono, Sorko) e di gruppi seminomadi e di allevatori (Peul, Mori, Tuareg). La pianura alluvionale divenne così parte integrante dei regni del Ghana (III-XI sec.), del Mali (XIII-XVI sec.) e del Songhai (XV-XVI sec.), la cui evoluzione è stata in gran parte legata agli scambi commerciali tra le popolazioni da una parte all'altra del Sahara. La sua morfologia è caratterizzata da numerosi tumuli abitativi, chiamati togue dagli allevatori Peul. Le tracce di occupazione lasciate dalle comunità costituiscono un immenso serbatoio archeologico nel cuore del Mali e sono rappresentate da insediamenti di grandi dimensioni cui spesso si associano necropoli, laboratori per la metallurgia e siti megalitici.
Nella prima metà del Novecento le morfologie a tumulo che dominano il paesaggio attrassero la curiosità di archeologi e dilettanti (militari, ingegneri, medici, amministratori), che aprirono cantieri di scavo o realizzarono raccolte di superficie. Più tardi, tra il 1964 e il 1971, un progetto multidisciplinare del Dipartimento di Antropologia dell'Università di Utrecht (Paesi Bassi) diretto da R.-M.-A. Bedaux si dedicò allo studio di grotte di occupazione Tellem (XI-XII sec.) a Sanga, Nokara e Hombori. Nel 1975 la stessa équipe, in collaborazione con l'Istituto di Ricerca in Scienze Umane del Mali, svolse nuove indagini su tumuli abitativi ubicati tra Mopti e Sévaré e lungo il fiume Bani; questi scavi portarono alla luce alcune inumazioni in giare funerarie. Nel 1977 e nel 1981 gli scavi condotti da S.K. McIntosh e R.J. McIntosh nel sito di Djenné-Djeno dimostrarono l'esistenza di una città fondata nel 250 a.C., che conobbe il suo apogeo tra l'VIII e il X sec. d.C. Tra il 1982 e il 1987 l'Istituto di Ricerca in Scienze Umane del Mali ha promosso numerose campagne archeologiche nella zona lacustre, portate a termine da équipes multidisciplinari composte da specialisti provenienti dal Mali e dalla Francia. Alcuni siti già oggetto di studi anteriori tra il 1900 e il 1950, come quelli scavati da L. Desplagnes e G. Szumowski, sono stati rianalizzati con nuove tecniche di ricerca. Lo studio dei campioni raccolti in questi siti abitativi, tra cui Gania, Konia e Bafou, nell'area di Djenné, ha consentito di stabilire una cronologia per le occupazioni datate tra il III e il XII sec. d.C.
Caratteristiche dei tumuli abitativi - I siti identificati nella zona lacustre sono di solito tumuli antropici ricchi di materiale archeologico di superficie, formato da frammenti ceramici, macine, pestelli, blocchi di pietra e ossa animali. In prossimità dei tumuli erano generalmente ubicati i laboratori adibiti ad attività metallurgiche e le necropoli. Il sito di Dabi, non lontano da Niafunké, presenta, ad esempio, sepolture e megaliti identici a quelli di Tondidaru. Alcuni tumuli abitativi raggiungono una lunghezza di circa 400 m e un'altezza di circa 8 m, mentre le sepolture sono spesso rappresentate da cerchi di pietre e da tumuli di pietre. Altri tumuli abitativi identificati a Diadabougouni, vicino a Niafunké, e a Hoggo Hayré, nei pressi di Tondidaru, presentano muri di cinta in banco o a secco.
I tumuli antropici sono stati spesso descritti come strutture funerarie e analizzati alla luce della descrizione che il geografo arabo al-Bakri (1068), nel suo Libro degli itinerari e dei regni, dà dell'inumazione di un sovrano dell'impero del Ghana: "Alla morte di un re, essi ergono un enorme duomo di legno di sadj sopra alla sua sepoltura. Vi viene condotto il corpo, che è deposto su una specie di letto ornato da tappeti e cuscini. Essi depositano vicino al defunto i suoi ornamenti, le sue armi, i suoi oggetti personali per mangiare e bere, insieme a pasti e bevande. Vengono rinchiusi con lui diversi suoi cuochi e fabbricanti di bevande. Dopo che la porta è stata chiusa, vengono poggiati stuoie e teli sull'edificio che, a poco a poco, viene ricoperto di terra dalla gente presente, per formare alla fine un impressionante tumulo. In seguito viene scavato un fosso tutto attorno, lasciando un passaggio per accedere alla tomba. È infatti tradizione tra di loro offrire ai propri defunti sacrifici e libagioni" (Cuoq 1975, p. 100). Questa descrizione troverà riscontro per la prima volta nello studio della stratigrafia del tumulo di el-Oualadji, vicino a Goumdam, scavato nel 1904 da L. Desplagnes. Il sito fu interpretato da Desplagnes come la sepoltura di un capo militare, inumato con i suoi compagni di armi o servitori. Il rituale funerario dei sovrani pagani del Ghana presenterebbe inoltre alcune analogie con i risultati degli scavi effettuati nel 1954-55 da R. Mauny nel tumulo di Kouga, a nord di Tonka. Benché il sito non abbia fornito un contesto funerario, Mauny non esclude la sua presenza in un altro settore dell'insediamento. Kouga fu datato al radiocarbonio a 950±150 anni fa, ciò che attesta una contemporaneità fra l'insediamento di Kouga e gli scritti di al-Bakri (Mauny 1961).
La stratigrafia dei tumuli presenta nella maggior parte dei casi studiati (Toubel, Kawana, In Talassa, ecc.) strati di argilla cotta e depositi di ceneri, che varie ricerche associano a tecniche di consolidamento delle superfici per proteggere le strutture funerarie. In realtà queste caratteristiche potrebbero attestare periodi o sequenze precise di occupazione di questi tumuli come insediamenti (presenza di cocci, materiali frantumati, focolari, ecc.) o un loro riutilizzo come necropoli. Alcune ricerche privilegiano anche i criteri morfologici: tumuli con pendenze dolci per gli insediamenti, tumuli con pendenze ripide per i tumuli funerari. Tuttavia queste attribuzioni sono destinate a restare imprecise, stante l'assenza di siti-campione integralmente scavati. Allo stato attuale delle ricerche i tumuli antropici delle regioni centrali del Mali sembrano essere stati occupati durante fasi diverse, che corrispondono sia a periodi con forme di insediamento sedentario sia a periodi caratterizzati dall'uso come necropoli, durante fasi di abbandono.
Le ricognizioni nell'area di Dia e Djenné - Tra il 1977 e il 1987 l'équipe di R.J. McIntosh, S.K. McIntosh, T. Togola e F. Garcia ha svolto alcune prospezioni regionali, seguite da scavi estensivi, nelle regioni di Djenné e di Dia. Le indagini hanno avuto come obiettivo l'analisi dei modelli di distribuzione delle comunità antiche nella regione e lo studio dei mutamenti avvenuti nel corso dei secoli nella scelta dei siti di insediamento; scopo della ricerca è stato inoltre la raccolta di dati comparabili da diversi tumuli antropici. Gli studi effettuati su alcuni tumuli dei dintorni di Timbuctù e Mangabeta hanno permesso di identificare sequenze ceramiche, in seguito datate, e quindi di formulare ipotesi relative ai modelli di insediamento, occupazione e abbandono dei siti su scala regionale.
Da questi studi emerge che nella regione di Djenné la maggior parte dei siti ubicati nella pianura alluvionale fu abbandonata per prima e nello stesso periodo; solo più tardi, nel corso del II millennio, sarebbero sorti insediamenti sparsi su rilievi e dune, al riparo delle inondazioni. Gli insediamenti dei dintorni di Djenné furono gli ultimi a essere abbandonati. Il fenomeno degli insediamenti raggruppati, tra cui il sito di Djenné-Djeno fondato nel corso degli ultimi secoli a.C., si rivela un vero e proprio modello di occupazione e rappresenta una delle antiche caratteristiche delle occupazioni nella zona meridionale del delta interno del Niger. L'urbanesimo fu a quell'epoca caratterizzato dal modello dei grandi insediamenti circondati da comunità-satellite specializzate, come Djenné-Djeno e Hambarketo, che raggiunsero tra il IV e il IX sec. d.C. una superficie di circa 40 ha. Sono ancora da chiarire, invece, le dinamiche che hanno portato all'abbandono di questo modello e alla sua sostituzione con quello dei grandi insediamenti isolati.
Il materiale ceramico rinvenuto negli insediamenti dei dintorni di Dia è composto da numerosi frammenti fittili caratteristici della fine del I millennio a.C., ma anche della prima metà del I millennio d.C. In questi insediamenti sono stati anche rinvenuti frammenti di vasi datati all'ultima metà del I millennio d.C., mentre rari sono gli esemplari caratteristici del II millennio d.C. Su scala regionale, quasi tutti i siti dell'area di Dia sembrano essere stati abbandonati nell'ultima metà del I millennio d.C., al contrario dei siti dei dintorni di Djenné-Djeno, che generalmente si spopolarono tra il XII e il XV secolo. Il materiale fittile rinvenuto nelle due regioni, tuttavia, presenta grandi somiglianze durante tutti i vari periodi di occupazione; questa affinità, in particolare nelle tecniche di decorazione, è presente anche nel materiale ceramico trovato nei tumuli antropici studiati nei dintorni di Timbuctù.
Nel contesto geografico del Mali, il Mema è un'antica pianura alluvionale ubicata nella parte centro-occidentale del paese, a ovest del delta interno del Niger e a sud della regione dei Grandi Laghi. Durante il periodo medievale questa regione occupò il centro dei poteri politici degli imperi del Ghana, del Mali e più tardi del Songhai. Le fonti scritte e le cronache arabe, redatte tra l'XI e il XVI secolo, menzionano la presenza di rotte commerciali che la attraversavano o costeggiavano i suoi confini. Il Mema corrisponde quindi all'antico impero del Ghana e si estende su un immenso territorio oggi ripartito tra il Mali e la Mauritania; questa vastissima pianura, spesso chiamata Dead Delta, è ubicata attualmente in pieno Sahel.
I primi studi archeologici sul Mema furono preceduti dai rilevamenti idrogeologici realizzati nel 1930 dagli ingegneri dell'Ufficio del Niger, i quali segnalarono l'esistenza di tumuli di grandi dimensioni tra Sokolo e Niafunké. Uno di essi svolse in seguito alcuni scavi presso l'insediamento di Kolima, ubicato a 22 km a est di Nampala, e in quello di Péhé sulle rive del Fala di Molodo. Tali scavi permisero di portare alla luce perle, vasi, braccialetti e campane di bronzo, oltre a un cavaliere di terracotta; inoltre essi attestarono che i tumuli, attualmente abitati, in passato erano stati necropoli. Le ricerche condotte nel 1950 da G. Szumowski negli stessi siti hanno permesso di individuare resti di lavorazione del ferro e di cremazioni in urne funerarie. Quest'autore ipotizza l'esistenza di relazioni culturali tra il Mema e il delta interno del Niger. Nel 1980 alcune prospezioni aeree realizzate dal Centro Internazionale per l'Allevamento in Africa hanno portato all'identificazione di centinaia di tumuli; nello stesso anno R. Haaland (Università di Norvegia) ha avviato scavi in siti di lavorazione del ferro ubicati a sud della catena rocciosa di Boudel. Il materiale rinvenuto, datato all'890±70 e al 1170±90 B.P. (datazioni calibrate: 1025-1225, 690-970 d.C.), permise a Haaland di sostenere che la produzione del ferro del Mema sarebbe stata legata al potere politico del Ghana, di cui il Mema era uno stato vassallo. Anche per i livelli di occupazione di Kolima e di Toladie (Fontes et al. 1980, 1991) sono state ottenute datazioni al radiocarbonio (1280-1310 e 545-650 d.C.). Nel 1984 le ricerche intraprese dalla Divisione del Patrimonio Culturale del Mali (M. Raimbault, T. Togola, K.C. McDonald) identificarono 348 tumuli, costituiti per la maggior parte da laboratori per la lavorazione del ferro. Nel 1989-90 l'équipe di T. Togola, K.C. McDonald e W. Van Veer condusse indagini nella regione per raccogliere dati sulla natura e la distribuzione dei siti in relazione a diversi tipi di suolo, ottenere sequenze cronologiche del materiale ceramico rinvenuto nei laboratori di lavorazione del ferro e studiare l'evoluzione delle società legate alla metallurgia per analizzare le relazioni culturali tra il Mema e il medio bacino del Niger.
Le prospezioni regionali si sono concentrate sulla parte occidentale della pianura del Mema, in cui sono ubicati i grandi tumuli legati alla lavorazione del ferro, come Akumbu, noto dalle fonti tradizionali locali e associato all'impero del Wagadu (Ghana), i tumuli di Kolima, già datati al XIV secolo da ricerche precedenti, e i tumuli per la lavorazione del ferro di Kobadi, sito noto anch'esso grazie al materiale di epoca neolitica rinvenuto durante ricognizioni di superficie. Nel corso di queste prospezioni sono stati scoperti 137 insediamenti; la presenza di strumenti litici e ossa animali e l'assenza di resti di lavorazione del ferro hanno consentito di attribuire 28 siti alla Late Stone Age. Dei 109 siti dell'età del Ferro, 94 sono tumuli abitativi e 15 laboratori per la lavorazione del ferro. Gli insediamenti sono caratterizzati non solo dall'abbondante presenza di frammenti fittili, frammenti di scorie e di macine, ma anche dall'assenza in superficie di perle e oggetti di rame, probabilmente a causa dell'occupazione periodica dei tumuli da parte dei pastori Peul durante la stagione delle piogge. Caratterizza inoltre questi insediamenti la presenza di strutture di mattoni di argilla cotta, circolari o semicircolari, con un diametro compreso tra 1,5 e 2 m; tali strutture sono state interpretate come resti di focolari e fornaci. In questi siti sono visibili anche alcuni resti di edifici domestici, rappresentati da strutture circolari o lineari.
I laboratori di lavorazione del ferro sono identificabili nel paesaggio grazie alla presenza di tumuli di grandi dimensioni, che possono raggiungere un'estensione tra 1 e 7 ha (Boulel e Boudou Boubou); i tumuli sono ricoperti di scorie e presentano qua e là resti di forni e frammenti di ugelli. Questa abbondante produzione metallurgica va spiegata ponendola in relazione con l'ingente richiesta di ferro per soddisfare i bisogni locali e probabilmente per alimentare una rete commerciale relativamente importante. Dopo avere analizzato il materiale ceramico raccolto e averlo paragonato a quello scoperto ad Akumbu, è stata proposta una cronologia dei siti di superficie, articolata in tre fasi crono-tipologiche.
La fase ceramica più antica (Early Zone), datata al V secolo, è ben rappresentata negli scavi. Essa è frequente negli insediamenti di piccole dimensioni, circa 1 ha, ubicati lungo i rami fossili dei corsi d'acqua. La fase ceramica Middle Zone, successiva alla prima e datata dal VII al XIV secolo, è meglio rappresentata nel materiale raccolto durante gli scavi, e si ritrova nella maggior parte degli insediamenti. Si tratta di siti abitativi concentrati e di grandi dimensioni (da 10 a 20 ha), che talvolta possono addirittura raggiungere un'estensione di 80 ha, come a Toladie. Questo periodo sembra corrispondere a un optimum climatico con piovosità abbondante, contrassegnato da un'espansione demografica. La maggior parte degli insediamenti è ubicata lungo le rive dei corsi d'acqua, ma vengono rioccupate anche zone deteriorate abitate durante i periodi precedenti. L'ultima fase ceramica, la Late Zone, è stata datata a dopo il XVI secolo grazie alla presenza di frammenti di pipe di terracotta. In questo periodo gli insediamenti sono ubicati nelle vicinanze di dune e lungo i rami fossili dei corsi d'acqua; essi sarebbero caratteristici di una fase di regresso climatico e di spopolamento della regione. Alcuni insediamenti verranno più tardi occupati dalle popolazioni Bambara. Durante gli scavi nel tumulo di Akumbu sono stati rinvenuti inumazioni con braccialetti di rame, frammenti di ceramica associati a muri di mattoni crudi, oggetti di rame, cauri, fusaiole e perle di terracotta. Una serie di datazioni al radiocarbonio fissa l'occupazione del sito nei periodi compresi tra il 342 e il 442 d.C., tra il 780 e il 1100 d.C. (AK3) e tra il 1024 e il 1183 d.C. (AK4).
Nel corso degli ultimi decenni particolare attenzione è stata riservata allo studio delle vestigia materiali che documentano comportamenti culturali connessi con la sfera dei riti funerari, di cui permangono imponenti vestigia in vari Stati dell'Africa Occidentale.
Senegal - Dalle prime ricerche in Senegal (in particolare quelle condotte da Th. Monod a Dioron-Boundaw nel 1939 e da J. Joire a Rao-Nguiguela nel 1941) sino alle scoperte effettuate negli ultimi vent'anni e caratterizzate da una notevole partecipazione di ricercatori senegalesi, i risultati degli scavi e alcuni lavori di sintesi consentono ormai di conoscere la cronologia e il contesto culturale dei riti funerari praticati in questa regione tra il IV e il XVI sec. d.C. Le conoscenze sull'archeologia funeraria del Senegal sono basate esclusivamente sui risultati degli studi presso siti megalitici, tumuli di terra e i depositi di conchiglie del delta del Saloum e della valle del Senegal. Come in altre regioni dell'Africa Occidentale, in particolare il Mali e il Burkina Faso, questi insediamenti designano al tempo stesso un contesto storico ‒ fondato sulla cronologia dell'occupazione ‒ e un contesto culturale legato ai riti e ai culti che furono all'origine della loro fondazione od occupazione. In alcune regioni, come il Sine-Saloum, l'edificazione di questi monumenti sarebbe proseguita sino al XIX secolo. Le ricerche nell'area del Senegambia hanno identificato oltre 10.000 tumuli antropici formati da rilievi argillosi o sabbiosi, da tumuli megalitici e depositi conchiliferi.
Chiocciolai. - I chiocciolai sono cumuli di conchiglie marine che in alcuni casi vennero riutilizzati in quest'area come monumenti funerari. La costruzione di queste strutture è da porre in relazione con l'importanza dei molluschi nell'alimentazione delle popolazioni del litorale atlantico. Alcuni siti, come Khant, Yallon e Mbanar, sono stati datati al Neolitico, mentre i monumenti funerari dei delta dei fiumi Saloum, Gambia e Senegal e quelli del litorale atlantico hanno messo in luce diverse fasi di occupazione datate tra il IV sec. a.C. e il XVI sec. d.C. Una scala cronologica più ampia, che va dal II sec. a.C. al XVIII sec. d.C., è stata ottenuta per le tombe scavate a Niomune e Samatite, nel basso Casamance. In esse sono state rinvenute inumazioni accompagnate da oggetti metallici e da ceramica appartenente a tradizioni diverse. I chiocciolai identificati da C. Descamps e G. Thilmans nel delta del Saloum, nelle isole di Niombato, Betanti e Gandoul, sono grandi tumuli con un'estensione da 100 m2 a 15 ha e un'altezza che può raggiungere 8 m, come, ad esempio, il sito di Faboura. Durante i lavori intrapresi nel deposito di Dioron-Boumak, vicino Niombato, sono state scoperte alcune inumazioni multiple e successive, per la maggior parte in connessione anatomica. Per le fasi di costruzione del monumento sono state ottenute alcune datazioni (IV-VIII sec. d.C.), mentre i periodi di utilizzazione del sito come necropoli variano tra il 758±120 e il 1310±120 d.C. È ancora difficile attribuire queste inumazioni a una popolazione insediatasi nella regione, a causa dell'assenza di studi comparativi (in particolare genetici) tra le popolazioni fossili e quelle attuali.
Tumuli funerari del Sine-Saloum. - I tumuli antropici identificati nella provincia del Sine-Saloum sono stati classificati in tre grandi tipologie: i tumuli Sosé, i tumuli dell'area megalitica e quelli Sereer.
I tumuli di terra (podom), attribuiti dalle fonti orali alle popolazioni Sosé anteriori ai Sereer, sono monumenti funerari di grandi dimensioni, spesso raggruppati, ubicati nella parte settentrionale e centro-occidentale del Paese (province di Walo, Kayor, Jolof, Bawol, Sine-Saloum). Si tratta di costruzioni di sabbia circolari, piane, che misurano tra 2 e 10 m di altezza, hanno un diametro tra 10 e 70 m e sono circondate da fossati. A quanto pare la loro costruzione precedette l'occupazione Sereer della regione. Durante gli scavi intrapresi in alcuni tumuli di Rao-Nguiguela e Massar sono stati rinvenuti livelli di ceneri e scheletri datati al 1199±100 d.C. In altri tumuli è stato trovato un ricco corredo funerario composto da armi, monete d'oro o argento, perle e sonagli di ferro. Per i siti di Ndalane e di Rao sono state ottenute due datazioni al radiocarbonio, rispettivamente 1157±119 B.P. (Dak 104) e 751±110 B.P. (Dak 181). Gli scavi effettuati nel 1972 da G. Thilmans nel sito di Ndalane (alt. 2,5 m, diam. 40 m) hanno permesso di scoprire, a una profondità di 2,5 m, ossa umane e carboni datati al 793±119 d.C. (Dak-107).
I tumuli della zona megalitica, come quelli di Kaffrine e Diam-Diam, sono caratterizzati dalla struttura di pietra segnalata dall'erezione di un monolito a oriente. Gli scavi realizzati da R. Mauny nel 1956 a Diam-Diam hanno fatto emergere, a circa 80 cm di profondità, due crani umani e una coppa deposta sopra uno di questi. Nel 1981, durante i lavori condotti da A. Gallay presso il sito di Mbolop-Tobé, ubicato nelle vicinanze del villaggio di Santhiou-Kohel, sono stati identificati alcuni circoli megalitici, circoli di pietre e tumuli. Durante lo scavo di una struttura abitativa sono stati inoltre rinvenuti due scheletri umani e i resti di un cane. I tumuli, di cui sarebbero autrici le popolazioni attuali Sereer, sembrano di dimensioni inferiori rispetto a quelle delle strutture abitative precedenti. Grazie agli scavi effettuati da M. Lam in un tumulo di Yenguele, vicino a Niakhar, è stato possibile scoprire, a circa 60 cm di profondità, ossa umane costituite da frammenti di ossa lunghe e craniche; il corredo era formato da tre collane, di cui due di conchiglia e una di perle di cornalina, uno spillone per capelli di rame e una pipa di terracotta.
Circoli e tumuli di pietra. - I monumenti funerari così definiti sono stati identificati nella parte centro-occidentale e meridionale del Senegal. Oltre ad avere forma circolare, essi sono caratterizzati dalla presenza di una o più pietre frontali, di roccia lateritica, erette a oriente del tumulo. Dei monumenti fanno parte circoli megalitici talvolta doppi, circoli di pietre, tumuli di pietra e tumuli megalitici; la loro costruzione è datata tra il II sec. a.C. e il XVI sec. d.C. Riguardo alla cronologia di questi monumenti, alcune analisi consentono di ipotizzare che la civiltà megalitica sia stata soppiantata da una nuova ondata di popolamento, che avrebbe costruito monumenti con funzioni funerarie o sacrificali. I circoli megalitici si distinguono nel paesaggio grazie a un recinto circolare di monoliti che delimita uno spazio disseminato da blocchi lateritici o vuoto e in virtù di una struttura frontale costituita da una o più pietre, erette a oriente del sito. Negli scavi di G. Thilmans e C. Descamps in tre circoli di Sine-Ngayene sono stati rinvenuti inumazioni con mutilazioni dentarie e un corredo funerario di ceramiche, ornamenti e armi; le inumazioni centrali si trovavano nei livelli più profondi, mentre quelle periferiche erano nei livelli sovrastanti. I siti datano tra il II e la fine del XVI sec. d.C. La tipologia dei circoli di pietra è quella di una costruzione delimitata da blocchi di pietra, appena visibili in superficie, a volte ricoperta da pietre. Durante gli scavi effettuati da Thilmans in strutture abitative di Tiekene-Boussoura e Kodiam sono state rinvenute inumazioni individuali con mutilazioni dentarie, ma non è stato trovato alcun corredo funerario. Per uno dei cerchi di pietra di Kodiam è stata ottenuta una datazione al 738±125 d.C.
I tumuli di pietra, localizzati lungo gli affluenti di destra del Sandougou, si identificano nel paesaggio grazie a un monticolo ricoperto di ghiaiette lateritiche, provvisto in genere di una struttura frontale. I lavori di Thilmans e Descamps nel sito di Sare-Dioulde, ubicato a nord di Koussanar, hanno riportato alla luce numerose "inumazioni simultanee", alcune delle quali, scoperte nei livelli più profondi al centro dell'insediamento, sono state ricondotte a un rito di uccisione collettiva. Il sito è stato datato al 1520±130 d.C. Del materiale rinvenuto in questi monumenti funerari del litorale atlantico fanno parte, oltre a ceramica, alcuni ornamenti, armi (spade, zagaglie e punte di lance) e oggetti diversi, come sonagli di ferro. In un tumulo di Rao-Nguiguela sono stati scoperti un pettorale d'oro del diametro di 18,4 cm, perle d'oro e ciondoli sferici. Una collana con elementi in lega d'argento e rame e una cavigliera d'argento sono stati rinvenuti inoltre in un altro tumulo dello stesso sito. Da Dioron-Boumak provengono invece collane di conchiglia, braccialetti e una cavigliera di ottone e ferro; a Rao-Nguiguela sono infine state recuperate alcune perle di corniola. Alcuni defunti inumati nei pressi dei circoli megalitici recavano braccialetti di metallo contenente rame e cavigliere di ferro.
Burkina Faso - L'archeologia funeraria nel Burkina Faso è nota grazie allo studio di ipogei, necropoli e insediamenti. Numerosi ipogei sono stati identificati nella parte occidentale e sud-occidentale del Paese, in area Senufo, Bwa, Koulango e Lobi, ma anche nella zona centrale, dove essi sono stati attribuiti a un antico popolamento Nyongonsé e Ninsi. Le ricerche di J.B. Kithéga (1993) dimostrano che la maggior parte di questi ipogei è distinguibile nel paesaggio grazie alla presenza di un monticolo, talvolta sormontato da ceramica o stele. Gli scavi hanno identificato l'esistenza di una chiusura realizzata con una lastra, una tavola di legno o semplice terra battuta. Superata la soglia, un corridoio talvolta doppio consente di accedere alla camera funeraria, in genere di forma quadrangolare. Le inumazioni sono individuali o multiple, come si è potuto osservare presso alcuni insediamenti della regione di Gurunsi. I siti di Logofiélé e di Kougribogodo sono stati datati a un periodo compreso tra il XV e il XVIII secolo.
Gli scavi effettuati tra il 1978 e il 1996 (B. Andah, 1978; R. Vogelsang, 1994; K. Lassina, 1996) negli insediamenti all'aperto di Rim, Tougou, Pabré, Gorom-Gorom e Gandafabou hanno portato alla scoperta di inumazioni in giara, che sembrano essere una caratteristica ricorrente nei rituali funerari a partire dal V secolo e si generalizzano verso il XV secolo.
Esse sono caratterizzate dalla presenza di una giara sferica od ovale dal fondo generalmente forato, destinata a contenere il corpo, le cui dimensioni variano a seconda che si tratti di un bambino, di un adolescente o di un adulto. A Tougou le giare funerarie per bambini sono in media alte 41 cm e hanno un diametro di 19 cm; queste dimensioni aumentano nel caso degli adolescenti: 61,5 e 24,5 cm, e degli adulti: 94 e 24,5 cm. La giara è provvista di un coperchio formato da una terrina o dalla metà di una grande giara. I due vasi venivano accostati labbro a labbro, talvolta con un bordo di giunzione, e quindi seppelliti. A Tougou le dimensioni medie in altezza e diametro di questi coperchi sono di 18/18 cm (bambini), 56/14,5 cm (adolescenti) e 74/18 cm (adulti); a Sibiya sono stati rilevati valori corrispondenti, rispettivamente, a 18/26 cm, 56/35 cm e 74/48 cm. I riti funerari in questi insediamenti sono caratterizzati anche dalla presenza di vasi-ossari (Gandafabou), di solito deposti accanto alle giare funerarie. Il corredo funerario rinvenuto in questi vasi comprende, oltre alle ossa, ornamenti (anelli e braccialetti di ferro), armi (punte di freccia), ma anche alcuni vasi contenenti cauri. Queste inumazioni in giare sono state attribuite a popolazioni che occuparono la regione tra il V e il XV sec. d.C.
Presso gli insediamenti di Douroula e Kissi, nell'ansa di Mouhoun, nel 1993 e nel 1997 sono state scoperte alcune inumazioni terragne. Gli individui sono di solito distesi di lato, con le gambe leggermente flesse o ripiegate. Il corredo funerario rinvenuto a Douroula, composto per lo più di vasi, è datato tra il VII e il XV sec. d.C. Le inumazioni rinvenute a Kissi sono state scoperte negli strati compresi tra 1,8 e 2,8 m di profondità. Il corredo funerario è composto da ornamenti (collane di perle, braccialetti, gambiere) e armi (sciabole, armature di frecce, coltelli). Il sito è stato datato tra il 50 e il 250 d.C.
Costa d'Avorio - L'area Eotile, ubicata nella parte sud-orientale della Costa d'Avorio, è popolata esclusivamente da pescatori Eotile che vivono in palafitte sulla riva delle lagune. È stato attestato che, nel mosaico di popoli che vivono oggi in questa regione (Agni, Assouma, Abure, Eotile, Agoua), gli Eotile sono gli occupanti più antichi. Numerose fonti scritte, in particolare francesi, si sono interessate a questa regione, vista la sua posizione strategica sul litorale atlantico per la costruzione di forti e insediamenti commerciali europei durante il XVII secolo. L'area è ricca di depositi di conchiglie, che presentano in superficie frammenti di ceramica e sono stati spesso utilizzati dagli Eotile come necropoli. Alcuni resti archeologici rinvenuti in uno di questi siti a Nyamwan sono stati datati al 24±112 d.C.
Nel 1973-74 sono stati realizzati prospezioni e scavi che hanno consentito la scoperta di alcuni siti fra cui una necropoli ad Assoco-Monobaha, nonché un'analisi approfondita del materiale ceramico. Nel 1975 e nel 1980 un'équipe dell'Università di Abidjan (H. Diabaté, J. Polet) intraprese scavi presso una necropoli scoperta a Nyamwan. Tra i siti identificati vi sono strutture di abitazioni, depositi di rifiuti domestici e necropoli ubicati in zone paludose coperte di mangrovie o su depositi di conchiglie ricoperti da un imponente manto boschivo. Le strutture di abitazione erano composte da punte di pali di legno, sulle quali erano costruite case di bambù. Ad Assoco-Monobaha, presso un chiocciolaio già alterato in seguito allo scavo di tombe, sono stati rinvenuti depositi di rifiuti; da questi ultimi sono stati estratti frammenti di ceramica, tra cui alcuni di fattura europea. Alcune sepolture sono state inoltre identificate a Ettu-Ossika, a Epoueke nell'isola di Bélibété (in questo caso sembra si tratti di una tomba regale) ad Assoco-Monobaha e a Nyamwan. Fonti locali attribuiscono queste inumazioni a popolazioni di pescatori, o le riconnettono all'espressione del potere politico, come, ad esempio, nel caso dell'isola di Bélibété.
Il materiale rinvenuto nei chiocciolai e nei depositi di rifiuti comprende, oltre a ceramica locale, oggetti di fattura europea quali ceramica invetriata, perle di vetro e frammenti di pipe di ceramica bianca; sono stati ritrovati anche oggetti metallici, tra cui un cucchiaio di stagno e una chiave di lega di rame. Del corredo scoperto nelle tombe scavate a Nyamwan e ad Assoco-Monobaha fanno parte pipe e parures composte da perle di vetro blu rigato, braccialetti di ferro, di rame e d'avorio; completavano queste scoperte denti canini forati, conchiglie marine e piccole asce levigate di scisto verde. Quanto alla cronologia degli insediamenti, gli autori delle ricerche ipotizzano una data posteriore al XVII secolo, a causa della presenza di pipe di terracotta. Questa ipotesi è suffragata anche dalla scoperta, nella zona paludosa di Bélibété, di due cannoni da marina di ferro del XVII secolo.
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di Rodolfo Fattovich
L'area culturale dell'Africa Centrale corrisponde agli odierni Stati di Camerun, Repubblica Centroafricana, Guinea Equatoriale, Gabon, Repubblica del Congo, Repubblica Democratica del Congo, Angola e Zambia, con le isole di São Tomé e Principe nel Golfo di Guinea.
L'Africa Centrale si affaccia a ovest sull'Oceano Atlantico ed è delimitata a nord dal bacino del Bahr al-Gazal, a est dalla depressione tettonica della Rift Valley, con i laghi Malawi, Tanganica, Kivu, Edoardo e Alberto, e a sud dal corso dello Zambesi e dai deserti della Namibia. Nel suo insieme questa parte del continente africano corrisponde al bacino dello Zaire (Congo), la cui superficie si estende dal Camerun e dalla Repubblica Centroafricana all'Angola e allo Zambia settentrionali. Nel settore meridionale essa comprende anche il bacino settentrionale dello Zambesi. L'idrografia della regione presenta inoltre alcuni laghi, quali il Bangweulu e il Mweru nelle pianure dello Zambia settentrionale e l'Upemba nella regione del Katanga (Repubblica Democratica del Congo meridionale) e più a nord il Mai Ndombe e il Tumba, nella Repubblica Democratica del Congo occidentale. L'orografia è caratterizzata dalla presenza della catena dei Monti Mitumba lungo il margine occidentale della Rift Valley, nella Repubblica Democratica del Congo sud-orientale, e dai Monti Muchinga nello Zambia orientale.
Data la posizione geografica a cavallo dell'equatore e l'esposizione agli Alisei occidentali provenienti dall'Oceano Atlantico, l'Africa Centrale è caratterizzata da zone climatiche abbastanza omogenee, che variano secondo la latitudine. Nel bacino dello Zaire il clima è di tipo tropicale con precipitazioni costanti. A nord e a sud di questo bacino il clima è caratterizzato da piogge estive nel Camerun settentrionale, nella Repubblica Centroafricana, nella Repubblica Democratica del Congo meridionale e nell'Angola settentrionale. Nell'Angola meridionale e nello Zambia esso è contraddistinto invece da precipitazioni periodiche. Infine, le regioni costiere dell'Angola meridionale hanno un clima secco e desertico. Quasi tutta la regione pertanto è soggetta a piogge molto abbondanti, con precipitazioni medie annuali che variano da circa 5000 a 750 mm e un'umidità molto elevata. La vegetazione dominante è costituita dalla foresta pluviale, che si estende dal Golfo di Guinea alla Rift Valley, e dalla regione dei Grandi Laghi dell'Africa Orientale, con alberi che possono raggiungere un'altezza di 50 m e comprendono specie pregiate come il mogano, il teak, l'ebano e il sandalo. A nord della foresta tropicale umida, lungo il margine del Sahel, la vegetazione è costituita da savana, mentre a sud della foresta equatoriale la vegetazione arborea è meno densa, con alberi più bassi, ed è circondata da ampie regioni con savana ad arbusti. Zone paludose più o meno vaste si estendono invece nelle aree circostanti i laghi e lungo i fiumi, dove tuttavia domina una vegetazione rivierasca più fitta. Le regioni a nord e sud della foresta pluviale sono perciò adatte al pascolo del bestiame. Le zone adatte alla coltivazione sono invece poco estese e si concentrano principalmente alla foce e lungo l'alto corso dello Zaire.
Il popolamento attuale dell'Africa Centrale comprende soprattutto popolazioni di lingua Bantu. In particolare, la Repubblica Democratica del Congo centro-occidentale, la Repubblica del Congo e il Gabon meridionale sono abitati da popolazioni del gruppo Congo, che includono Bakongo, Mongo, Bakumu, Balega, Babua, Ngombe, Bambundu, Basakata, Bakele, Bateke e Lingala. Il Camerun meridionale, la Guinea equatoriale e gran parte del Gabon sono abitati da popolazioni del gruppo Bantu nord-occidentale, che comprendono Bakele, Duala, Maka, Fang, Bubi e Mpongue. La Repubblica Democratica del Congo sud-orientale e lo Zambia sono abitate da popolazioni parlanti lingue Bantu del gruppo centrale, quali Baluba, Bemba e Ila-Tonga. L'Angola e i margini sud-occidentali della Repubblica Democratica del Congo e quelli occidentali dello Zambia sono occupati da popolazioni parlanti lingue Bantu del gruppo occidentale, quali Wachokwe, Balunda, Ovimbundu, Herero, Ovambo e Wayeye. Al confine tra Angola e Zambia si trovano inoltre alcuni gruppi parlanti lingue Bantu sud-orientali, mentre nella foresta pluviale tra il Camerun e la Repubblica Centroafricana sono stanziati gruppi parlanti pigmeo-Bantu. Nel Camerun occidentale vi sono popolazioni parlanti lingue del gruppo orientale della famiglia africana occidentale, mentre le popolazioni della Repubblica Centroafricana parlano in prevalenza lingue della famiglia africana centrale. L'evidenza linguistica attesta chiaramente una progressiva espansione delle popolazioni parlanti lingue della famiglia Bantu nella regione da nord-ovest verso sud e sud-est nel corso degli ultimi tre millenni.
I popoli Bantu sono in prevalenza coltivatori, con un'economia basata sulla produzione di piante a tubero e di olio di palma, integrata con la pesca e l'allevamento di caprovini. Queste popolazioni hanno anche generato forme di società complessa con la formazione di veri e propri stati, quali i regni costieri del Loango e del Kongo e quelli interni di Lunda, Shongo e Luba. Un aspetto rilevante della cultura di queste popolazioni è anche la produzione di sculture di legno e talvolta di pietra tenera a scopo rituale, come maschere antropomorfe e zoomorfe e figurine umane, che costituiscono alcune delle più rilevanti manifestazioni di arte africana. Le attestazioni più antiche di quest'arte sembrano risalire al XVII secolo.
I Pigmei, di cui sopravvivono gruppi residuali sparsi nella foresta pluviale, costituiscono le ultime tracce delle popolazioni che abitavano la foresta prima dell'arrivo dei gruppi Bantu. Sono cacciatori e raccoglitori ripartiti in tre grandi gruppi: Pigmei orientali dell'Ituri; Pigmei centrali e Pigmei occidentali del Gabon. Questi gruppi praticano una netta divisione del lavoro in base al sesso. Le donne sono incaricate della raccolta di piante selvatiche, mentre gli uomini cacciano con un piccolo arco ed eccellono soprattutto nella caccia all'elefante. Non usano ceramica e gli utensili sono per lo più di legno, mentre i manufatti di ferro vengono ottenuti mediante scambi con le popolazioni Bantu circostanti. L'organizzazione sociale è di tipo egualitario e le decisioni vengono prese consensualmente da tutto il gruppo. Il matrimonio si basa sullo scambio delle donne tra gruppi diversi. Il mondo animale, infine, ha un ruolo fondamentale nei rituali magico-religiosi e nei riti di iniziazione.
Fattori di dinamica del popolamento - Le conoscenze circa le origini e la progressiva diffusione delle popolazioni Bantu nell'Africa Centrale e subsahariana in genere sono ancora incerte, in quanto fondate quasi esclusivamente sull'esame delle evidenze linguistiche. In base alle ricostruzioni di linguistica storica gruppi parlanti lingue Bantu sarebbero penetrati dalle foreste dell'Africa Occidentale verso il bacino dello Zaire nel IV millennio a.C., occupando progressivamente tutta la foresta pluviale e le savane alberate a sud di essa nel corso dei successivi 3000 anni. Contemporaneamente, alcuni gruppi si sarebbero spinti verso est attraverso le savane a nord della foresta equatoriale, diffondendovi forme di vita agricola. Un gruppo di Bantu orientali (Mashariki) si sarebbe quindi spostato verso la regione dei Grandi Laghi dell'Africa Orientale. Da qui infine le popolazioni Bantu si sarebbero successivamente espanse verso est e verso sud. L'ampia diffusione delle lingue Bantu, parlate oggi in quasi un terzo dell'Africa subsahariana, ha anche suggerito l'ipotesi che gruppi di cacciatori e raccoglitori parlanti queste lingue fossero presenti nel subcontinente già nella Late Stone Age. Le numerose somiglianze grammaticali e lessicali tra le diverse lingue sembrano indicare tuttavia che la diffusione delle popolazioni di lingua Bantu sia un processo relativamente recente e che pertanto queste lingue non abbiano avuto tempo sufficiente per differenziarsi in modo netto.
Allo stato attuale delle ricerche sembra molto probabile che le popolazioni Bantu abbiano avuto origine da gruppi di coltivatori di piante a tubero dell'Africa Occidentale, che da qui si sarebbero spostati verso est e verso sud, introducendo un'economia di sussistenza basata sulla produzione del cibo nelle regioni coperte da foresta equatoriale e nelle savane alberate dell'Africa Centrale, mentre i gruppi più orientali avrebbero adottato anche la coltivazione di cereali venendo in contatto con le popolazioni degli altopiani dell'Africa Orientale. Questa diffusione sembra essere stata anche favorita dalla conoscenza della lavorazione del ferro, che avrebbe permesso l'uso di strumenti più efficienti di quelli litici, più antichi. L'espansione delle popolazioni Bantu sembra perciò essere stata caratterizzata da una progressiva dispersione di piccoli gruppi di coltivatori che avrebbero occupato regioni disabitate, o precedentemente abitate da cacciatori e raccoglitori, stabilendo i loro insediamenti mediante la pratica dell'agricoltura basata sul taglio delle aree di foresta e l'incendio della vegetazione al suolo per la fertilizzazione del terreno (slash-and-burn agriculture). Tale tecnica infatti avrebbe stimolato la dispersione dei gruppi umani che, dopo aver esaurito la capacità di sostentamento di un territorio, si sarebbero spostati verso un altro territorio vergine.
La ceramica costituisce un ottimo indicatore per ricostruire questi spostamenti, in quanto le evidenze etnografiche hanno dimostrato che essa può essere associata in modo abbastanza preciso ai diversi gruppi. Le tracce più antiche di ceramiche attribuibili a gruppi Bantu, da cui sarebbero discese le popolazioni attuali, sono state rinvenute nell'Africa Occidentale, dove risalgono al III millennio a.C. Le evidenze ceramiche suggeriscono inoltre che nel VII sec. d.C. gruppi Bantu si erano già diffusi nell'Africa subequatoriale, introducendo forme di coltivazione di piante e allevamento di animali precedentemente ignoti nella regione, insieme a nuove forme di società e all'uso della metallurgia. È anche probabile che l'area nucleare da cui queste popolazioni si sarebbero diffuse possa corrispondere alla valle del Cross River, nel Camerun. L'espansione Bantu potrebbe infine essere avvenuta in tre fasi successive. In una prima fase, gruppi Bantu si sarebbero mossi da quest'area nucleare verso est in direzione della regione dei Grandi Laghi sulla Rift Valley, mentre altri gruppi si sarebbero diretti a sud verso il fiume Ogooué, nell'attuale Gabon, dando origine a una prima separazione tra Bantu orientali e occidentali con la formazione di una successiva area nucleare di espansione nella Repubblica Democratica del Congo settentrionale.
Nel complesso l'espansione dei Bantu occidentali è molto meno nota di quella del ramo orientale. La presenza di strumenti litici, tra cui asce e zappe, associati alle prime evidenze di ceramica in siti lungo la costa atlantica del Gabon, ha suggerito che i primi gruppi Bantu abbiano occupato questa regione nella seconda metà del I millennio a.C. Le tracce più antiche di ceramica sono state messe in luce in due siti presso Tchissanga, datati rispettivamente al VI e al IV sec. a.C. Nel sito più recente sono stati anche rinvenuti frammenti di ferro che indicano una lavorazione locale di questo metallo. Manufatti e scorie di ferro sono ugualmente emersi nel sito di Mandingo-Kayes, datato al II sec. a.C., a conferma della manifattura e dell'utilizzazione del ferro lungo la costa alla fine del I millennio a.C. Le somiglianze tra la ceramica di Mandingo-Kayes e quelle dell'età del Ferro iniziale nel Botswana e nella Repubblica Sudafricana datate alla seconda metà del I millennio d.C. suggeriscono infine che la penetrazione delle popolazioni Bantu verso sud attraverso il bacino dello Zaire e l'Angola si fosse già completata in questo periodo.
Le origini dei Pigmei sono praticamente ignote, data anche la scarsità dei dati archeologici. Attualmente queste popolazioni parlano una lingua che presenta numerose affinità con le lingue Bantu in seguito al prolungato contatto con gli agricoltori. È possibile tuttavia che i Pigmei parlassero una lingua diversa da quelle di altri gruppi di cacciatori-raccoglitori, come, ad esempio, gli Hadza dell'Africa Orientale o i Khoisan dell'Africa australe, e di cui restano scarse tracce lessicali nei vari dialetti.
Aspetti di storia del popolamento - Il commercio degli schiavi lungo le rotte atlantiche è stato uno dei fattori che hanno maggiormente influito sul processo di consolidamento degli Stati nel bacino dello Zaire, anche se le loro origini sono sicuramente anteriori al contatto con i Portoghesi alla fine del XV secolo.
Benché endemica in gran parte dell'Africa e praticata fin da epoca antica, la tratta degli schiavi subì un grande impulso nel XVI-XVII secolo, quando l'America divenne un possedimento spagnolo e portoghese, e continuò fino al XIX secolo, acquistando il carattere di vera e propria attività commerciale gestita soprattutto da Portoghesi, Inglesi e Americani al fine di fornire manodopera a basso costo alle piantagioni d'oltre Atlantico. Il commercio si svolgeva principalmente attraverso lo scambio di prodotti occidentali, spesso di scarto, con schiavi e altri prodotti forniti dai sovrani dei regni costieri, che a loro volta li ottenevano con razzie nell'interno. Gli scambi avvenivano all'interno di forti costruiti su isole o sulla costa, come, ad esempio, Fernando Po e São Tomé nel Golfo di Guinea e Luanda in Angola. Tutta la costa dell'Africa Centrale, dal Camerun all'Angola, era direttamente interessata a questo traffico. Il tratto settentrionale rientrava in un'area di tratta libera, dove i mercanti delle diverse nazioni europee potevano praticarla in modo concorrenziale, mentre la costa dell'Angola, da Loango a Benguela, era soggetta al monopolio portoghese.
Oltre all'espansione Bantu, determinata principalmente dalla necessità di aprire nuovi territori adatti alla coltivazione, le migrazioni di popoli dalle regioni circostanti sono state un altro fattore che ha influito sulla dinamica recente del popolamento dell'Africa Centrale. È questo, ad esempio, il caso dei Fang, dei Mangbetu e degli Azande, che penetrarono nella regione tra la fine del XVIII e gli inizi del XIX secolo. I Fang, o Pahouins, cui si deve una notevole produzione di sculture di legno e avorio, occuparono le regioni costiere del Camerun e del Gabon provenendo da nord-est agli inizi del XIX secolo. I Mangbetu occuparono il bacino superiore dello Uele, provenendo dalla regione del Lago Alberto, nel XVIII secolo e qui costituirono un loro regno che sopravvisse fino alla colonizzazione belga. Gli Azande penetrarono nelle regioni a nord del fiume Uele verso la fine del XVIII secolo, provenendo forse dal Ciad attraverso la Repubblica Centroafricana; qui essi costituirono una società stratificata caratterizzata da una classe di dominatori e da una di servi assimilati.
La ricostruzione della storia dell'Africa Centrale nell'ultimo millennio si basa soprattutto su fonti scritte esterne, in particolare portoghesi, che attestano l'esistenza di regni indigeni costieri già nel XV secolo. Per le regioni dell'interno tuttavia non vi sono documenti scritti anteriori al 1880 e le nostre conoscenze devono basarsi esclusivamente sulle tradizioni orali e sulla documentazione archeologica.
Le fonti etnostoriche permettono di risalire a un paio di secoli prima del periodo in cui sono state raccolte, tra il XIX e il XX secolo, e per lo più hanno un contenuto leggendario che solo in parte riflette la realtà storica. Esse suggeriscono tuttavia l'esistenza di un regno alla foce dello Zaire già nel XII-XIII secolo. Diversamente dall'Africa Orientale, la documentazione linguistica è di minore aiuto per la ricostruzione della storia del popolamento nell'ultimo millennio, in quanto esso aveva probabilmente già raggiunto le sue caratteristiche attuali alla fine del I millennio d.C., tranne per alcune migrazioni più recenti cui si è accennato sopra. A sua volta, la documentazione archeologica databile all'età del Ferro è scarsa e molto frammentaria; essa pertanto offre un quadro molto approssimativo degli sviluppi socioeconomici e culturali recenti in questa parte dell'Africa. Gran parte dell'Africa Centrale infatti non è stata ancora esplorata in modo sistematico sotto il profilo archeologico. Si pensi, ad esempio, alla Repubblica Centroafricana, dove le uniche indagini archeologiche sono state condotte alla metà degli anni Sessanta del XX secolo e non hanno portato a riconoscere resti che possano essere datati con sicurezza al II millennio d.C. In pratica, ricerche estensive sono state condotte solo nella regione circostante il Lago Upemba, con risultati che hanno permesso di delineare in modo più preciso il processo di formazione del regno Luba. Indagini sistematiche sono state condotte anche nel bacino centrale dello Zaire, ma la sequenza archeologica qui rilevata si conclude agli inizi del I millennio d.C.
La storia delle popolazioni dell'Africa Centrale nel II millennio d.C. è ancora in gran parte ignota. I pochi dati storici ed etnostorici disponibili attestano l'esistenza del regno del Kongo nel XII secolo, ma è probabile che questo stato sia emerso in epoca più antica, forse alla fine del I millennio d.C. Contemporaneamente al regno del Kongo si sarebbe sviluppato nell'interno il regno di Tio, di cui però si hanno pochissime notizie. Successivamente altri regni, sparsi tra la costa e l'interno, sono emersi a Loango, Mbundu, Kuba, Luanda, Lozi e Luba. A eccezione del regno di Luba, il processo di formazione di questi Stati è ignoto. È probabile comunque che si siano formati in seguito all'emergere di circuiti di interscambio regionali e interregionali sempre più estesi.
Secondo le tradizioni orali il regno del Kongo sarebbe sorto in seguito alla conquista delle regioni del basso corso dello Zaire da parte di popolazioni provenienti dalle regioni settentrionali sotto la guida di un capo, Mutinu, che avrebbe annesso inizialmente la provincia del Mbata. Successivamente il regno si sarebbe espanso fino a inglobare, nel XV-XVI secolo, una regione molto vasta che si estendeva dal basso Zaire fino all'Angola e comprendeva cinque province principali: Mbemba, Mbata, Mbamba, Sonio, Nsundi e Mpangu. La capitale era un grande villaggio chiamato Mbanza-Kongo, da cui è derivato il nome del regno e il titolo del sovrano. Fonti portoghesi descrivono la capitale come un abitato abbastanza esteso con a nord un bosco sacro e la necropoli reale e a sud una grande piazza, Mbazi, dove il sovrano sedeva sotto un fico e si riuniva la corte di giustizia. Il tesoro reale si basava sul monopolio dello sfruttamento da parte delle donne delle conchiglie (nzimbu) dell'isola di Luanda, usate come monete. La successione dei sovrani avveniva preferibilmente per via matrilineare, ma la scelta definitiva dell'erede al trono era decisa da un consiglio di tre notabili. In seguito al contatto con i Portoghesi avvenuto nel 1482, pur mantenendo un'indipendenza formale, il regno di fatto divenne uno stato vassallo del Portogallo attraverso il quale passava la tratta degli schiavi. Esso pertanto si disgregò rapidamente nel XVI secolo. Purtroppo la documentazione archeologica di questo regno è praticamente inesistente. La stessa capitale, benché nota, non è mai stata oggetto di scavi sistematici.
Per gli altri regni non si hanno informazioni anteriori al XVII-XVIII secolo, anche se le tradizioni orali suggeriscono che alcuni di essi si siano formati in epoca molto più antica. Soltanto il regno Luba, attestato storicamente a partire dal XVIII secolo, sembra essere stato il risultato di un lungo processo di formazione iniziato nel I millennio d.C., come è attestato dalla sequenza culturale ricostruita nella regione del Lago Upemba. A sua volta, il regno di Mbundu, a sud di quello del Kongo, sembra essere emerso lungo il medio corso del fiume Kwanza nel XVI secolo. A questo regno sono infatti attribuibili alcune tombe reali risalenti al XVI-XVII secolo e alcune tracce di abitazioni in pietra datate al XVII secolo.
L'Africa Centrale è senza dubbio la regione meno indagata dal punto di vista archeologico di tutto il continente africano. Inoltre, la maggior parte delle ricerche finora condotte si è concentrata soprattutto sui periodi più antichi fino agli inizi dell'età del Ferro. Pochissima attenzione è stata invece riservata alla tarda età del Ferro.
Le prime indagini sistematiche finalizzate allo studio del passato recente della Repubblica Democratica del Congo vennero condotte alla fine degli anni Quaranta del XX secolo da H. van Moorsel, che esplorò la regione di Kinshasa. In particolare, lo studioso belga individuò un sito dell'età del Ferro a Kingabwa, sulle rive del Malabo Pool nei pressi di Kinshasa, che identificò con la città di Ngobela descritta da missionari cappuccini nel XVII secolo. Ulteriori indagini furono condotte negli anni Cinquanta da J. Nenquin e J. Hiernaux, che avviarono un progetto di ricerche sistematiche nella regione dell'Upemba conducendo scavi estensivi sui siti di Sanga e Katoto, dove vennero messe in luce due necropoli protostoriche. Infine, scavi sistematici sono stati condotti nella stessa regione negli anni Settanta e Ottanta da P. de Maret, che ha indagato oltre a Sanga i siti di Katongo, Kamilamba, Kikulu e Malemba-Nkulu. Queste indagini hanno permesso di identificare una sequenza caratterizzata da quattro unità culturali principali e di stabilire una cronologia sicura, che copre tutto il periodo dal VII sec. d.C. all'epoca storica recente. L'esame delle numerose sepolture messe in luce ha inoltre permesso di definire in modo preciso lo sviluppo sociale nella regione nel corso del II millennio d.C.
La depressione del Lago Upemba, nella Repubblica Democratica del Congo sud-orientale, è la regione meglio esplorata dal punto di vista archeologico di tutta l'Africa Centrale. La parte settentrionale della depressione, con i laghi Kisale e Kabamba, è stata l'area nucleare di formazione del regno Luba, che nel XIX secolo ha costituito uno dei maggiori Stati dell'Africa subsahariana. Qui sono state messe in luce tre unità culturali, definite Kamilambiano, Kisaliano e Kabambiano, caratterizzate da tipi ceramici attribuibili a un'unica tradizione da cui è emersa la cultura della popolazione Luba moderna. Queste unità pertanto possono essere considerate come fasi successive di un processo di sviluppo sociale ed economico che ha portato alla formazione dello Stato Luba nel XVII-XVIII secolo.
Il Kamilambiano (VII sec. d.C.) rappresenta la fase più antica dell'età del Ferro nella regione. La ceramica presenta analogie stilistiche con quella dell'età del Ferro iniziale nello Zambia. In questa fase la popolazione sembra essere stata abbastanza isolata e autonoma, in quanto non vi sono tracce di scambi con le regioni circostanti o, attraverso queste, con l'Oceano Indiano. Le abitazioni erano costruite con fango e rami. Utensili di ferro sono stati rinvenuti soltanto nell'unica tomba scavata. La densità della popolazione sembra essere stata relativamente bassa e, in assenza di un numero sufficiente di sepolture, per un'analisi funeraria non vi sono elementi che attestino forme di complessità sociale.
Il Kisaliano (VIII-XII sec.) è stato suddiviso in due subfasi: il Kisaliano antico (VIII-IX sec.), rappresentato da 19 sepolture, e il Kisaliano classico (X-XII sec.), con 142 sepolture. Nella fase antica la popolazione era verosimilmente ancora sparsa, ma la presenza di macine e di due zappe di ferro in un contesto domestico indica che venivano sicuramente praticate attività agricole. Utensili tipici di questa subfase sono grandi coltelli ricurvi e punte di lancia. Queste ultime venivano probabilmente considerate oggetti di valore o venivano usate come mezzi di scambio. La maggior parte degli oggetti di metallo tuttavia aveva carattere simbolico ed era destinata alle sepolture. Nelle sepolture sono state rinvenute anche asce di fattura elaborata, che molto probabilmente erano simboli di potere politico e religioso. Una tomba in particolare conteneva un'incudine di ferro deposta presso la testa del defunto quale simbolo di autorità e potrebbe suggerire l'emergere dei primi re, associati simbolicamente ai fabbri. Le tombe contenevano anche vasellame e raramente ornamenti personali di rame. Questi ultimi hanno suggerito la possibilità che in questo periodo la regione fosse inserita in un circuito di scambi con lo Zambia orientale, dove questo metallo è particolarmente abbondante.
Nella fase più recente la popolazione conobbe un notevole incremento demografico, espandendosi probabilmente anche fuori della depressione dell'Upemba. Katongo e Sanga sono i siti principali di questo periodo. L'economia di sussistenza si basava sulla pesca, sull'agricoltura, sull'allevamento di bestiame e pollame e sulla caccia ai grandi mammiferi rivieraschi e di savana, quali, ad esempio, antilopi, elefanti e ippopotami. La pesca sembra essere stata l'attività produttiva predominante, come dimostrano i numerosi ami e le punte di arpione. In questo periodo, inoltre, sono attestati vasi trilobati, usati come bracieri, simili a quelli tuttora usati dai pescatori dell'Africa Centrale. L'agricoltura era comunque una componente economica fondamentale, come attestano numerosi vasi da cucina e macine, nonché vasi per la fermentazione delle bevande.
Le tombe di questo periodo sono molto ricche e contengono, oltre al vasellame, manufatti di metallo, osso e avorio, che comprovano la presenza di artigiani; il rame inoltre era usato in quantità maggiore che nelle fasi precedenti per la produzione di aghi, ami, lame e altri oggetti di uso comune. Cauri provenienti dall'Oceano Indiano erano indossati come ornamento dalle donne. Sia il rame sia i cauri attestano l'affermarsi di scambi su lunghe distanze e un primo inserimento della regione nei circuiti di interscambio tra l'Oceano Indiano e l'interno dell'Africa. Molto probabilmente gli abitanti della depressione dell'Upemba in questo periodo esportavano pesce affumicato. L'analisi delle sepolture ha inoltre indicato il consolidarsi di una marcata gerarchia sociale basata sulla ricchezza e sullo status dei singoli individui. La presenza di simboli tipici della regalità, quali canini di leopardo, incudini, campanelli e asce cerimoniali, indica l'esistenza di personaggi identificabili come sovrani.
Il Kabambiano (XIII-XVIII sec.) è stato ugualmente suddiviso in due subfasi: Kabambiano A (XIII-XV sec.), rappresentato da 54 tombe, e Kabambiano B (XVI-XVIII sec.), con 15 tombe. Il Kabambiano si distingue per vari aspetti dal Kisaliano, ma la ceramica indica una continuità tra le due fasi. In particolare, le sepolture presentano un orientamento diverso da quelle più antiche e i manufatti di metallo sono molto più frequenti. Le sepolture del Kabambiano A indicano un accentuarsi della gerarchia sociale, anche se le tombe più ricche non contengono i simboli di potere reale presenti in quelle precedenti, suggerendo un mutamento nella forma di potere politico. Dato il numero relativamente basso di sepolture scavate non è escluso che le tombe reali costituissero necropoli distinte e non ancora indagate. Nelle tombe di questa subfase sono anche attestati numerosi lingotti cruciformi di rame utilizzati inizialmente come oggetti di prestigio, associati a personaggi più direttamente coinvolti con attività di scambio, e successivamente come monete insieme ai cauri. Le fonti storiche attestano che nel Kabambiano B il regno Luba si era consolidato, arrivando a occupare un territorio molto vasto. La relazione diretta tra la cultura di questa fase e quella Luba moderna è confermata dalla presenza nelle tombe di vasellame simile a quello dei Luba attuali. La documentazione archeologica di questa subfase pertanto corrisponde a quella etnografica del XIX e XX secolo.
Nella parte meridionale della regione dell'Upemba è stata identificata un'altra unità culturale, il Katotiano, datata al XII-XIII secolo e probabilmente in contatto con il Kisaliano. La cultura katotiana presenta numerose somiglianze con quella kisaliana classica, ma si distingue da essa nei tipi di vasellame e nei rituali funerari. Il vasellame comprende principalmente scodelle, vasi a collo e coppe con piede ad anello. Le tombe contengono per lo più sepolture multiple, con l'inumazione di un uomo, una donna e bambini. In alcune di queste tombe sono state anche messe in luce asce cerimoniali, incudini e, in un caso, una campanella, che suggeriscono una struttura sociale gerarchica. In questa cultura sono anche attestate punte di lancia di ferro, usate verosimilmente come mezzi di scambio. La presenza di ornamenti realizzati con conchiglie dell'Oceano Indiano attesta inoltre l'inserimento di questa popolazione in circuiti di interscambio sulle lunghe distanze.
Le evidenze archeologiche databili alla tarda età del Ferro nelle altre regioni dell'Africa Centrale sono estremamente scarse. Un'area di lavorazione di asce di ematite, datata al XVII secolo, con resti di ugelli, scorie di ferro e vasellame, è stata segnalata a Buru, nella Repubblica Democratica del Congo nord-orientale. Nella grotta di Matupi, sul versante occidentale della Rift Valley, sono state raccolte ceramiche non ben classificate e datate al XIII secolo. Vasellame presumibilmente databile al II millennio d.C. è stato segnalato in siti lungo il basso corso del fiume Semliki. A Feti La Choya, nell'Angola centrale, sono stati messi in luce i resti di un sito fortificato, datato tra l'VIII e il XIII secolo e con evidenze di un'intensa attività di lavorazione del ferro, considerato tradizionalmente il luogo di sepoltura della leggendaria regina Choya, fondatrice del regno di Mbundu, che raggiunse il suo apogeo nel XVIII-XIX secolo.
Vasellame databile al XVI-XVII secolo è stato segnalato in alcune località lungo il basso corso dello Zaire (Dimba, Mfabo, Livo, Kamuna, Ntadi Yomba, Kingabwa) e a monte di Kinshasa (Mafanba, Kutu). Questi resti costituiscono le uniche evidenze archeologiche verosimilmente associabili al regno del Kongo. Più a sud, in Angola, vasellame databile al X-XII secolo è stato messo in luce in siti della regione del Kasai. Si tratta comunque di ritrovamenti sporadici che non forniscono alcuna informazione di rilievo. Infine, siti databili tra il IX e il XIII secolo sono stati messi in luce a Kanshansi (Zambia orientale) e Kipushi (Repubblica Democratica del Congo sudorientale). A Kanshansi sono stati individuati i resti di un piccolo villaggio, datato all'XI-XII secolo, i cui abitanti sfruttavano le miniere di rame circostanti con vasellame simile a quello in uso ancora oggi nella regione. A Kipushi sono stati segnalati i resti di un abitato specializzato nella lavorazione del rame, datato tra la fine del IX e il XIV secolo. In entrambi i siti sono stati raccolti numerosi lingotti cruciformi di rame.
Infine, al II millennio d.C. risalgono anche alcune testimonianze di arte rupestre segnalate nella Repubblica Centroafricana, nella regione di Uele e lungo il basso corso dello Zaire, nella Repubblica Democratica del Congo settentrionale e nello Zambia. Si tratta in genere di figure molto schematiche, la cui età è incerta e che in alcuni casi possono risalire a epoca moderna.
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di Rodolfo Fattovich
L'area culturale dell'Africa Orientale comprende gli odierni Stati di Kenya, Tanzania, Uganda, Ruanda e Burundi. In senso più ampio, essa può includere anche la provincia di Equatoria lungo il Nilo Bianco, nel Sudan meridionale, e la regione compresa tra i fiumi Giuba e Tana, al confine tra Somalia e Kenya.
L'Africa Orientale è limitata a nord dai bassopiani sudanesi del bacino del Bahr al-Gazal e dell'alto Nilo, a nord-est dall'Acrocoro Etiopico-Somalo, a est dall'Oceano Indiano, a sud dal fiume Ruvuma, che segna il confine tra Tanzania e Mozambico, e a ovest e sud-ovest dalla frattura tettonica della Rift Valley occidentale. Questa regione è costituita da pianure alluvionali lungo la costa dell'Oceano Indiano, da un vasto tavolato tra i 1000 e 2000 m di altitudine e da altopiani che raggiungono e superano i 3000 m nel Kenya occidentale. Qui si trovano anche le più alte montagne dell'Africa: il Kilimangiaro (5895 m), il Kenya (5200 m) e il Ruwenzori (5110 m). Essa comprende a ovest la regione dei Grandi Laghi che occupano il versante occidentale della Rift Valley: Kyoga, Alberto, Edoardo, Vittoria, Kivu e Tanganica. Tranne il Tanganica, tutti questi laghi sono collegati dal Nilo (Nilo Alberto). La regione dei Grandi Laghi ha anche una notevole importanza economica, essendo costituita da pianure alluvionali molto fertili. A sud di questa regione si trovano i laghi Rukwa e Malawi. Nel Kenya settentrionale si trova infine il Lago Turkana.
A nord-est della regione dei Grandi Laghi tutta l'Africa Orientale è caratterizzata da un clima tropicale, con una stagione umida e una secca, ma con variazioni nel regime di precipitazioni. Procedendo infatti da est verso ovest si possono distinguere una vasta fascia che include le regioni costiere e le pianure nord-orientali con clima secco e desertico, una fascia centrale con precipitazioni periodiche e una fascia più interna, corrispondente alla regione dei Grandi Laghi, con estate umida. La vegetazione è dominata da savana ad arbusti ed erbacea, con foreste nelle regioni più elevate.
Nonostante la relativa uniformità ambientale, l'Africa Orientale si presenta come un mosaico etnico-linguistico, che riflette la complessa storia della regione. Questo vastissimo territorio è abitato infatti da popolazioni parlanti lingue appartenenti alle quattro maggiori famiglie linguistiche del continente: khoisanide, afro-asiatica, nilo-sahariana e Niger-Congo.
Le popolazioni parlanti lingue khoisanidi comprendono gli Hadza e i Sandawe, cacciatori e raccoglitori stanziati nella Tanzania centrale. Le popolazioni di ceppo afro-asiatico comprendono etnie parlanti lingue cuscitiche orientali e meridionali. I Cusciti orientali occupano l'Uganda nord-orientale, il Kenya settentrionale e orientale e le regioni costiere dell'Oceano Indiano. Essi comprendono Yaaku, Dasenech, Arbore, Elmolo, Somali, Rendille, Boni, Oromo e Borana. Sono cacciatori (Yaaku) sulle pendici settentrionali del Monte Kenya; allevatori e coltivatori (Dasenech, Arbore) presso il Lago Turkana; pescatori (Elmolo) lungo il Turkana; allevatori nomadi o seminomadi (Somali, Rendille, Boni, Oromo e Borana) nel Kenya nord-orientale. I Cusciti meridionali occupano il Kenya orientale (Dahalo) e la Tanzania settentrionale (Asa, Aramanik, Iraqw, Gorowa, Alagwa, Burungi, Maa) e sono allevatori e coltivatori. Le popolazioni parlanti lingue nilo-sahariane includono gruppi parlanti principalmente lingue nilotiche meridionali, orientali e occidentali. I Niloti meridionali comprendono Barabaig (Datog), allevatori nomadi della Tanzania, e Okiek, Pokot, Tugen, Nandi, Kipsigis e Keyo, allevatori del Kenya occidentale. I Niloti orientali comprendono due gruppi principali: Ateker (Teso, Jie, Dodoth, Turkana, Karimojong) e Maa (Maasai, Arusha, Baraguyu, Samburu, Ongamo) stanziati nel Kenya centrale e nella Tanzania settentrionale. I Niloti occidentali comprendono i Luo in Uganda. Sono allevatori nomadi e seminomadi e agricoltori-allevatori. Le popolazioni parlanti lingue della famiglia Niger-Congo comprendono soltanto gruppi parlanti lingue Bantu orientali (Swahili, Pokomo, Kikuyu, Kamba, Sonjo, Haya, Luyia). Gli Swahili sono una popolazione parlante originariamente lingua Bantu con la quale si sono progressivamente mescolati e integrati gruppi provenienti anche da altri paesi costieri dell'Oceano Indiano, in particolare dall'Arabia e dall'Iran, dando origine a una società mercantile composita e profondamente islamizzata, che si distingue nettamente da tutte le altre dell'Africa Orientale. Le altre popolazioni Bantu sono agricoltori con allevamento di bestiame, che occupano la regione dei Grandi Laghi e gran parte della Tanzania.
Aspetti di storia del popolamento - La storia dell'Africa Orientale è stata caratterizzata da migrazioni che si sono succedute nel corso del tempo e che hanno portato all'emergere nel corso del II millennio d.C. del popolamento attuale della regione, dallo sviluppo di società complesse e città-stato Swahili lungo le regioni costiere e dalla formazione di Stati tradizionali nella regione dei Grandi Laghi.
I dati archeologici, linguistici ed etnostorici suggeriscono che fin dalla tarda preistoria l'Africa Orientale sia stata esposta a ondate migratorie di popolazioni originarie del Corno d'Africa, dell'alto Nilo e dell'Africa Centrale. Queste migrazioni avrebbero dato origine alle popolazioni cuscite, nilotiche e Bantu che attualmente occupano la regione sovrapponendosi a un più antico sostrato di popolazioni di cacciatori e raccoglitori parlanti lingue khoisanidi. I dati archeologici indicano infatti che gruppi di allevatori e coltivatori si diffusero dal Corno d'Africa sugli altopiani del Kenya tra il III e il II millennio a.C., seguiti da coltivatori provenienti dall'Africa Centrale e in possesso del ferro che avrebbero progressivamente occupato la regione dei Grandi Laghi e da qui la Tanzania e la costa dell'Oceano Indiano tra il I millennio a.C. e il I millennio d.C. L'ultima ondata migratoria, storicamente accertata, sarebbe stata quella degli Oromo e Borana, Somali, Luo, Maasai e Samburu, che sarebbero penetrati nella regione verso la metà del II millennio a.C.
Il processo di formazione e consolidamento delle società complesse Swahili è oggi abbastanza ben definito in base alle evidenze archeologiche e testuali. Esso può essere suddiviso in quattro periodi principali. Nel periodo più antico, databile tra il I sec. a.C. e il III sec. d.C., popolazioni proto-Bantu con cultura affine a quella dell'età del Ferro iniziale delle regioni interne dei Grandi Laghi occupavano la costa dalla Somalia alla Tanzania. Queste popolazioni erano composte da coltivatori e pescatori che lavoravano il ferro ed erano in grado di navigare lungo la costa con canoe. Le fonti classiche attestano che queste popolazioni erano inserite in un circuito di scambi con il mondo mediterraneo e che il commercio era controllato principalmente da mercanti sudarabi. Siti di questo periodo sono stati individuati a Ras Hafun in Somalia, Kwale in Kenya e Misasa in Tanzania.
Successivamente, tra il III e il X secolo, le regioni costiere dell'Africa Orientale furono direttamente incluse nella rete commerciale dell'Oceano Indiano che si estendeva fino alla Persia, all'India e alla Cina. In particolare, la presenza in siti di questo periodo di numerosi oggetti di origine sasanide sembra indicare contatti abbastanza frequenti con la Persia. L'economia di sussistenza si basava comunque sullo sfruttamento di risorse locali, come si può desumere dal rinvenimento di utensili di ferro di produzione locale per la coltivazione e la pesca. Verso la fine del I millennio a.C. sembra essersi intensificato il commercio con l'India, dove venivano esportati soprattutto avorio e ferro. I siti più antichi di questo periodo, databili tra il III e il VI secolo, sono stati messi in luce ad Amboni Tanga, Kiwanga, Limbo, Masurugu, Misasa, Mpiji e Unguja Ukwu, sulla costa del Kenya e della Tanzania, e Chibuene, in Mozambico. Alla seconda metà del I millennio risalgono invece i siti di Gezira, Irodo, Kaole, Kilwa, Mahilaka, Monapo, Pate e Shanga. Le abitazioni erano semplici capanne quadrate costruite con legno e fango, poggianti su fondamenta costruite con blocchi di roccia corallina.
Tra il X e il XV secolo si intensificarono gli scambi con il mondo arabo e la Cina e l'Islam si diffuse lungo la costa dell'Africa Orientale. Secondo le tradizioni storiche locali, in questo periodo, Persiani provenienti dallo Shiraz e Arabi emigrarono verso l'Africa Orientale e si mescolarono alla popolazione locale, dando origine alle prime città-stato Swahili. Tra queste vanno ricordate Kilwa in Tanzania, Manda in Kenya e Mogadishu (Mogadiscio) in Somalia. I materiali importati rinvenuti in questi siti confermano che le città-stato Swahili raggiunsero il loro culmine nel XIV-XV secolo, quando i loro commerci si estendevano alla Persia, all'India, alla Cina e al Madagascar. Il commercio Swahili cominciò a declinare nel XVI secolo, quando il circuito dell'Oceano Indiano cadde sotto il controllo dei Portoghesi.
Infine, le prime tracce di un'incipiente complessità sociale nella regione dei Grandi Laghi sono state messe in luce in Uganda e sono datate tra l'XI e il XV secolo, quando la regione era già abitata da comunità di agricoltori che praticavano la lavorazione del ferro. In particolare, le evidenze raccolte nei siti di Ntusi e Kibiro attestano l'emergere di una specializzazione economica a livello regionale per la produzione di bovini (Ntusi) e la preparazione del sale (Kibiro). A Mubende è stato possibile invece ricostruire il consolidarsi di una società complessa caratterizzata da un sistema gerarchico di insediamenti per il controllo del territorio. I primi regni apparvero nella regione dei Grandi Laghi soltanto nella seconda metà del II millennio d.C. Gli scavi condotti in alcuni siti di questo periodo sembrano indicare che il potere dei sovrani si sarebbe basato principalmente sul controllo rituale della produzione di manufatti di ferro.
Fattori di dinamica del popolamento - Fattori ambientali. - La mancanza di vere barriere fisiche naturali ha certamente influito sulla dinamica di popolamento dell'Africa Orientale, facilitando la penetrazione di popolazioni dalle regioni circostanti e il loro progressivo sovrapporsi a quelle preesistenti e dando origine al mosaico etnico attuale. Le cause di queste migrazioni, che si sono sicuramente verificate nel corso del tempo, sono ancora incerte e vanno probabilmente ricercate sia in una pressione demografica nelle regioni di stanziamento originario di alcune popolazioni sia in eventi catastrofici, quali siccità e carestie, che potrebbero averle spinte a cercare nuovi territori da sfruttare. In particolare, ad esempio, si suppone che le migrazioni e l'espansione dei Somali e successivamente degli Oromo dalle loro sedi originarie nel Corno d'Africa meridionale nel XIV-XVI sec. d.C. abbiano causato spostamenti di popolazioni nelle regioni circostanti, stimolando la penetrazione di popolazioni nilotiche come i Maasai verso gli altopiani dell'Africa Orientale. A sua volta, il ricordo di carestie ed epidemie che avrebbero causato in passato migrazioni si è mantenuto nelle tradizioni storiche delle popolazioni della regione dei Grandi Laghi. Del resto, l'esame delle fluttuazioni del livello del Nilo in Egitto suggerisce che negli ultimi 1300 anni questa regione sia stata soggetta a periodi più o meno lunghi di siccità, verificatisi ripetutamente tra l'VIII secolo e gli anni Sessanta del XVIII secolo e negli anni Trenta e Novanta del XIX secolo.
Più spesso, tuttavia, la penetrazione di nuovi gruppi umani verso gli altopiani dell'Africa Orientale fu probabilmente graduale, in seguito alla progressiva espansione di popolazioni con forme di economia e tecnologie più complesse. Questa è stata verosimilmente l'origine delle popolazioni Bantu, che a partire dal I millennio d.C. diffusero la lavorazione del ferro nella regione. È molto probabile infine che la diffusione della mosca tse-tse, portatrice della tripanosomiasi o malattia del sonno che colpisce sia i bovini sia gli esseri umani, sia stato un altro fattore ambientale che determinò le vie di penetrazione soprattutto delle popolazioni che praticavano l'allevamento del bestiame. Non a caso le regioni popolate prevalentemente da popolazioni Bantu dedite principalmente alla coltivazione di piante domestiche sono quelle in cui è presente la mosca tse-tse, mentre quelle in cui essa è assente sono occupate da popolazioni nilotiche di allevatori, come, ad esempio, i Maasai.
Fattori socioeconomici. - La progressiva inclusione delle regioni costiere nel circuito di interscambio dell'Oceano Indiano fin dal I millennio d.C. è stato un fattore socioeconomico molto importante nella dinamica del popolamento dell'Africa Orientale. Questo processo infatti ha favorito lo sviluppo delle città-stato Swahili lungo la costa dalla Somalia al Mozambico settentrionale e alle Isole Comore e tramite queste ha stimolato la formazione dei primi Stati tradizionali nella regione dei Grandi Laghi.
Le origini del circuito commerciale marittimo dell'Oceano Indiano sono molto antiche. Esse si possono far risalire al IV millennio a.C., quando ossidiana proveniente dall'Eritrea, conchiglie marine originarie delle coste del subcontinente indiano e lapislazzuli provenienti dall'Afghanistan giunsero nella bassa valle del Nilo (Egitto e Nubia inferiore), molto probabilmente lungo rotte marittime che costeggiavano l'Arabia meridionale e il versante africano del Mar Rosso. Il commercio marittimo lungo il Mar Rosso si rafforzò inoltre nel II millennio d.C., quando navi egiziane presero a navigare con una certa regolarità verso il Mar Rosso meridionale e forse verso il Golfo di Aden. Successivamente, il circuito dell'Oceano Indiano si consolidò agli inizi del I millennio d.C., quando navi romane e arabe raggiungevano le coste dell'India a est e dell'Africa Orientale a ovest. In particolare, il commercio con le popolazioni costiere dell'Africa Orientale sembra essere stato controllato da mercanti arabi che nel I secolo si spingevano fino a Raphta, sulla costa settentrionale della Tanzania, e nel II secolo giungevano probabilmente fino alle Comore e all'estremità settentrionale del Madagascar.
Nel VI secolo, in seguito al collasso dell'Impero d'Occidente, il commercio mediterraneo lungo il Mar Rosso e nell'Oceano Indiano declinò e i traffici marittimi si spostarono probabilmente verso il Golfo Persico, sotto il controllo dei Sasanidi. Il commercio marittimo nell'Oceano Indiano riprese comunque con l'avvento dell'Islam nel VII secolo, quando le coste dell'Africa Orientale vennero nuovamente incluse in una rete di scambi tra l'India nord-occidentale e il Mar Rosso. Il commercio arabo si intensificò nell'VIII-IX secolo, quando Baghdad divenne la capitale del califfato abbaside. Particolarmente attivi nel commercio con l'Africa Orientale furono inizialmente i mercanti di Bassora, che ebbero un ruolo rilevante nello sviluppo della tratta degli schiavi in questa parte del continente. Nel IX-X secolo, tuttavia, i porti di Siraf in Persia e Sohar nell'Oman ebbero il controllo dei traffici con le regioni costiere dell'Africa, da cui venivano importati principalmente schiavi, avorio, legno (tra cui pali di mangrovie, usati come materiale da costruzione) e corna di rinoceronte, beni molto apprezzati nel Medio Oriente e in Cina.
Nel X-XI secolo anche i Fatimidi in Egitto ripresero il commercio marittimo lungo il Mar Rosso e nell'Oceano Indiano fino alla costa dell'Africa Orientale, dove si procuravano oro, avorio e cristallo di rocca. È probabile che in questi secoli fossero sfruttati anche i giacimenti auriferi dello Zimbabwe e del Transvaal settentrionale e che pertanto le regioni interne dell'Africa australe fossero incluse attraverso le popolazioni costiere nella rete di scambi commerciali con l'Egitto. Dopo l'XI secolo il commercio abbaside e fatimide nell'Oceano Indiano declinò, in seguito all'indebolimento politico di queste dinastie, aprendo così la via a scambi diretti tra le popolazioni Swahili dell'Africa Orientale e mercanti provenienti da altre regioni del Golfo, dell'Arabia meridionale e dell'India. Le evidenze archeologiche suggeriscono comunque contatti più frequenti con i porti del Golfo e non a caso in questo periodo apparvero anche nei siti Swahili ceramiche indiane e cinesi.
Tra il XIII e il XIV secolo Aden assunse una posizione preminente negli scambi con l'Africa, anche per la sua posizione strategica lungo le rotte verso il Mar Rosso e l'Egitto dei Mamelucchi. Nel XV secolo il commercio arabo con la costa Swahili declinò nuovamente e fu sostituito da quello indiano, che probabilmente si svolgeva lungo rotte transoceaniche dirette e non più lungo la costa come nei secoli precedenti. In questo periodo comunità indiane già risiedevano nei principali porti Swahili, a Malindi, Mombasa, Kilwa e Pate. Tra il 1498 e il 1728 i Portoghesi assunsero il controllo del commercio nell'Oceano Indiano, stabilendo anche basi e forti lungo la costa dell'Africa australe e Orientale, tra cui Fort Jesus, che venne costruito a Mombasa nel 1593. Nel XVIII secolo il commercio con l'Africa Orientale passò sotto il controllo del sultanato di Oman, che incluse le regioni costiere nei suoi domini diretti, sviluppando Zanzibar come centro politico delle province africane. Infine, negli anni Ottanta e Novanta del XIX secolo tutta l'Africa Orientale venne inclusa nei domini coloniali inglesi e tedeschi e il commercio con l'esterno passò sotto il pieno controllo europeo.
La forte integrazione tra l'indagine archeologica basata sull'analisi della documentazione materiale, quella storica basata sulle fonti testuali locali ed esterne, quella etnostorica basata sulle tradizioni orali e quella linguistica basata sull'esame delle affinità tra le lingue delle singole popolazioni è una caratteristica peculiare della tradizione di studi sul passato dell'Africa orientale. Inoltre, notevole impulso hanno avuto le indagini etnoarcheologiche, finalizzate a generare modelli interpretativi delle società antiche in base all'analisi della cultura materiale delle società tradizionali attuali.
Le fonti testuali esterne, anteriori ai primi resoconti portoghesi della fine del XV e del XVI secolo, sono molto scarse. In pratica si riducono a poche notizie da parte di tre geografi arabi: al-Masudi, morto nel 950 d.C., che menziona la presenza di re musulmani sull'isola di Qanbalu (Pemba?) e afferma che l'isola sarebbe stata occupata dagli Arabi all'inizio della dinastia abbaside (circa 750 d.C.); Yaqut, morto nel 1229, che ricorda un movimento di popolazione da Zanzibar verso l'isola di Tumbatu, i cui abitanti erano musulmani; Ibn Battuta, che visitò la costa dell'Africa Orientale nel 1331 e descrisse le moschee di Mombasa e gli edifici di legno di Kilwa. Le fonti testuali locali comprendono le cronache storiche di alcune città-stato Swahili, la più importante delle quali è la Storia di Kilwa, redatta in arabo nel 1530 d.C. Queste cronache in genere ricordano le genealogie dei sovrani, tracciandone la discendenza da presunti fondatori islamici delle singole dinastie. Queste fonti possono essere integrate anche dall'analisi delle monete che i singoli sovrani Swahili coniarono almeno fin dall'XI secolo.
La documentazione etnostorica sulle origini e l'islamizzazione degli Swahili e sulla formazione e lo sviluppo dei regni tradizionali della regione dei Grandi Laghi è particolarmente ricca. Le tradizioni Swahili sostanzialmente concordano nel localizzare l'area originaria della loro espansione nella regione tra il Giuba e il Tana, identificando il loro primo centro urbano con l'insediamento di Shungwaya, nell'Oltregiuba somalo, dove sono stati effettivamente segnalati i resti di un vasto abitato databile tra il X e il XV secolo. Un altro ciclo di tradizioni Swahili, noto fin dal XVI secolo, attribuisce la fondazione delle dinastie regnanti in sette città-stato (Manda, Shanga, Yanbu, Mombasa, Pemba, Kilwa e Anjouan) a principi-mercanti persiani emigrati dalla città di Shiraz. A loro volta, le tradizioni Nyoro in Uganda tramandano il ricordo di un antico regno del Kitara che avrebbe preceduto quello storicamente noto del Bunyoro. La popolazione di questo regno sarebbe stata composta da agricoltori Bantu dominati da re pastori chiamati Chwezi. Un'origine esterna viene anche tradizionalmente attribuita ai Tutsi, che dominavano i regni del Ruanda e Burundi. L'esame delle tradizioni orali ha inoltre suggerito che l'emergere delle prime forme di élite e potere centralizzato nelle regioni dei Grandi Laghi sia da mettere in relazione con il possesso di bestiame e con il controllo della terra da parte di individui particolarmente dotati di un carisma politico.
La linguistica storica ha permesso di delineare la successione delle fasi principali di popolamento dell'Africa Orientale, che almeno in parte si correlano a quelle identificate dagli archeologi. Applicando i metodi della glottocronologia i linguisti hanno anche cercato di datare le singole fasi, ma i risultati si sono dimostrati troppo approssimativi alla verifica del dato archeologico. In base ai dati linguistici, la fase di popolamento più antica sembra essere stata costituita da gruppi di cacciatori e raccoglitori che parlavano lingue khoisanidi, di cui gli Hadza e i Sandawe sono gli ultimi residui. A questi si sarebbero sovrapposti i Cusciti meridionali, che avrebbero introdotto le prime forme di coltivazione e allevamento, e successivamente i Cusciti orientali e i Niloti meridionali. A questi sarebbero seguite le popolazioni Bantu, penetrate nella regione dei Grandi Laghi e diffusesi poi verso sud occupando l'attuale Tanzania e da qui verso nord fino alla Somalia meridionale. Contemporaneamente, una prima ondata di Niloti orientali sarebbe penetrata sugli altopiani. L'ultima grande fase migratoria è rappresentata dalla penetrazione nelle regioni settentrionali di una nuova ondata di Cusciti orientali (Oromo e Borana, Somali), Niloti occidentali (Luo) e Niloti orientali (Maasai e Samburu).
Infine, il confronto tra le evidenze archeologiche e quelle tradizionali delle popolazioni Swahili ha messo in evidenza una notevole stabilità nell'organizzazione sociale ed economica dalla fine del I millennio d.C. al XX secolo, confermata anche dalla continuità di occupazione dei maggiori centri urbani in alcuni casi per oltre mille anni. In base a tale confronto si può affermare che gli Swahili già alla fine del I millennio d.C. erano una società mercantile, con al vertice un patriziato diviso in lignaggi che basavano la loro ricchezza sul commercio e organizzata in città-stato governate da sovrani.
In base alle evidenze archeologiche e storiche attualmente disponibili la società Swahili sembra essere emersa da un sostrato indigeno, identificabile con le popolazioni di agricoltori e pescatori stanziate nella seconda metà del I millennio d.C. principalmente lungo la costa e nell'immediato entroterra tra l'arcipelago di Lamu e il fiume Rufiji. Alla fine del I millennio, molto probabilmente tra il 750 e il 950, queste popolazioni vennero incluse nel circuito commerciale marittimo arabo e in seguito ai contatti con gli Arabi vennero progressivamente islamizzate. La presenza di comunità islamiche sulla costa sembra infatti attestata archeologicamente nell'arcipelago di Lamu, in Kenya, già nell'VIII secolo e potrebbe spiegarsi con l'arrivo di profughi zaiditi, di fede sciita radicale, in fuga dallo Yemen per evitare le persecuzioni del califfato abbaside.
Comunità islamiche sono quindi ben documentate lungo tutta la costa dal Kenya al Mozambico a partire dal X-XI secolo, quando apparvero le prime città-stato e le prime dinastie di sovrani che già coniavano monete. Le tradizioni locali attribuiscono la fondazione di queste dinastie agli Shirazi, ma sembra più probabile che esse vadano attribuite a gruppi Swahili che si sarebbero spostati progressivamente da Lamu verso sud, fino alle coste del Mozambico e alle Comore. È anche probabile che comunità islamiche, affiliate alla setta degli Ibadi, fossero stanziate sulle isole a sud di Lamu, in particolare a Pemba, fin dalla fine del I millennio, venendo progressivamente assorbite dagli Swahili. Queste comunità comunque scomparvero completamente prima del XIII secolo. Nel XIV secolo, quando Ibn Battuta visitò le coste dell'Africa Orientale, tutta la regione era ormai completamente islamizzata e in gran parte sunnita. In questo periodo Kilwa sembra essere stato un centro molto importante, soprattutto per il commercio dell'oro. Il declino della società Swahili iniziò nel XVI secolo a causa della penetrazione portoghese nell'Oceano Indiano e dell'inclusione di gran parte della costa nell'impero portoghese. Ciò determinò l'abbandono delle regioni costiere della gran parte della popolazione locale, come è ben attestato archeologicamente in numerosi siti. Agli inizi del XVIII secolo gli Omaniti cacciarono i Portoghesi dalla costa e la dominarono fino alla fine del XIX secolo, quando vennero sostituiti dagli Inglesi e dai Tedeschi.
La storia delle regioni interne e in particolare dei regni della regione dei Grandi Laghi prima del XVIII-XIX secolo è ancora in gran parte oscura ed è stata ricostruita soprattutto in base alle fonti etnostoriche. Nell'Uganda occidentale il primo regno storicamente accertato è il Bunyoro, governato dalla dinastia dei Bito, discendenti dei pastori Luo che sarebbero migrati in questa regione nel XVI-XVII secolo, causando verosimilmente il collasso di una società statale più antica. Questa è identificata nelle tradizioni con il regno del Kitara governato dagli Chwezi, ai quali vengono attribuite tre capitali a Mudembe, Masaka e Bigo, a sua volta preceduto da un mitico regno dei Tembuzi. Queste tradizioni molto probabilmente adombrano un processo di formazione dello stato, in parte delineato in base alla documentazione archeologica, che avrebbe avuto inizio nella prima metà del II millennio d.C.
Tale processo sembra essere stato caratterizzato dall'emergere di piccoli principati nei primi secoli del II millennio d.C. in seguito alla penetrazione nella regione tra i laghi del Rift e il Lago Vittoria di gruppi di agricoltori e allevatori che avrebbero dato origine a comunità stratificate in competizione tra loro. La regione sarebbe stata quindi in gran parte spopolata a causa di una grave siccità, e ciò avrebbe permesso la penetrazione di gruppi di allevatori, identificabili con gli Chwezi, che avrebbero dato origine ad altri principati. Tra questi si sarebbe imposto quello Ndahura (Kitara), che avrebbe controllato il commercio con le regioni circostanti. Infine, forse in seguito a movimenti di popolazioni dovuti a un'altra grave siccità tra la fine del XVI e gli inizi del XVII secolo, i pastori Luo sarebbero penetrati nell'Uganda occidentale, dando origine ai Bito e al regno del Bunyoro che sopravvisse fino a epoca coloniale. Nel corso del XVII secolo un altro regno, il Buganda, emerse a est del Bunyoro, con cui entrò in competizione nel XVIII secolo, diventando lo stato più potente di tutta la regione dei Grandi Laghi nel XIX secolo.
Ancora più oscure sono le origini dei regni meridionali di Ankole, Ruanda, Burundi e Toro. Secondo le fonti etnostoriche essi sarebbero sorti in seguito a migrazioni di gruppi di pastori Hima e Tutsi, affini agli Chwezi. Il regno del Ruanda si sarebbe formato nell'XI secolo, espandendosi notevolmente nel XIV e XV secolo. Al Ruanda si sarebbe quindi contrapposto nel XVII e XVIII secolo il regno del Burundi. Piccoli principati, le cui origini vengono ugualmente attribuite a gruppi di pastori stranieri, emersero anche in Tanzania, presumibilmente nella prima metà del II millennio, ma la loro storia è praticamente ignota. Poco o nulla si sa infine della storia delle altre popolazioni dell'interno, quali, ad esempio, i Maasai, i Kikuyu e Kaamba, prima del XIX secolo.
Ricerche archeologiche sistematiche nell'Africa Orientale sono iniziate negli anni Venti del XX secolo con le indagini di L. Leakey in siti della tarda preistoria nel Kenya. Queste ricerche si sono concentrate tuttavia soprattutto sull'evoluzione biologica e culturale umana nel corso del Pleistocene e sulle origini e la diffusione della produzione del cibo nell'Olocene iniziale e medio. Al contrario la tarda età del Ferro (X-XIX sec. d.C. ca.) non è stata oggetto di indagini approfondite, se si eccettuano quelle condotte sui siti Swahili lungo la costa. Fino agli anni Sessanta inoltre la ricostruzione del passato delle popolazioni locali negli ultimi mille anni è stata condotta principalmente da storici, spesso residenti coloniali, che hanno privilegiato le fonti etnostoriche alla documentazione archeologica più recente.
Nel periodo coloniale questi studi sono stati dominati dal cosiddetto "mito camitico". Secondo questa interpretazione delle tradizioni indigene e dei dati antropologici, i regni della regione dei Grandi Laghi si sarebbero formati in seguito all'arrivo di popolazioni parlanti lingue cuscitiche, i Camiti, che avrebbero dominato quelle di lingua Bantu dando origine a società stratificate. Anche i Niloti, come, ad esempio, i Maasai, avrebbero avuto origine da una mescolanza tra "Camiti" e Bantu. Altre ipotesi attribuivano l'emergere dei primi Stati agli "Azaniani", ossia a popolazioni costiere, più civilizzate perché esposte a influssi esterni dalle altre regioni dell'Oceano Indiano, che sarebbero penetrate nell'interno introducendo forme di società più complesse. L'origine stessa degli Swahili, fino agli anni Settanta, veniva attribuita ad Arabi e Persiani insediatisi sulla costa. Queste interpretazioni riflettevano sia la mentalità dei colonizzatori, che non potevano accettare una capacità di sviluppo culturale e sociale da parte dei "nativi", sia il paradigma diffusionista della scuola etnologica e archeologica storico-culturale, che ha caratterizzato gli studi sulla preistoria per tutta la prima metà del XX secolo. Al tempo stesso, esse trovavano sostegno in molte tradizioni locali che attribuiscono le origini degli Stati tradizionali all'arrivo di gruppi stranieri allo scopo di legittimare i rapporti gerarchici tra l'élite e il resto della popolazione. Si pensi, ad esempio, alle genealogie dei re Swahili che individuavano i loro capostipite in nobili arabi e/o persiani. Queste ipotesi sono oggi completamente abbandonate in base soprattutto a una più ricca documentazione archeologica raccolta negli ultimi quarant'anni e alla formazione nel periodo postcoloniale di un'ottima scuola di archeologi africani, che hanno prestato maggiore attenzione agli elementi autoctoni delle culture studiate.
Un maggiore impulso alle indagini archeologiche sulla tarda età del Ferro si è avuto negli anni Sessanta con la fondazione a Nairobi del British Institute in Eastern Africa, il cui primo direttore è stato N. Chittick. Scopo dell'Istituto infatti era quello di promuovere le ricerche archeologiche, etnostoriche e linguistiche sulle origini e sulla storia delle popolazioni attuali della regione, con particolare attenzione all'età del Ferro. Tra gli archeologi che hanno contribuito allo studio della tarda età del Ferro vanno ricordati P. Shinnie, M. Posnansky, N. Chittick, J. Sutton, P. Schmidt, F. van Noten, G. Connah, P. Robertshaw e M. Horton. Shinnie e Posnansky furono i primi archeologi a condurre, alla fine degli anni Cinquanta, scavi più estesi sul sito di Bigo, in Uganda occidentale, al fine di identificare possibili evidenze materiali dell'esistenza degli Chwezi. Nel 1958 Posnansky scavò anche nella stessa regione il sito di Bweyorere, tradizionalmente considerato la capitale antica del regno di Nkore, posto tra il Bunyoro e il Ruanda. Negli anni Sessanta e Settanta le ricerche si concentrarono soprattutto sui siti costieri Swahili da parte di Chittick, che condusse scavi estensivi sui siti urbani di Kilwa e Manda. Alla fine degli anni Settanta Schmidt avviò le prime ricerche nella regione di Buhaya, nella Tanzania settentrionale, con un progetto in cui dati archeologici di scavo, evidenze etnoarcheologiche sulla lavorazione del ferro e tradizioni orali vennero integrati in modo esemplare. Negli stessi anni van Noten condusse indagini simili nel Ruanda e Burundi.
Le indagini sia sui siti Swahili sia nelle regioni interne si intensificarono negli anni Ottanta e Novanta, a opera di G. Connah e P. Robershaw nell'Uganda occidentale. Questi studiosi hanno definito le prime sequenze ceramiche basate su analisi quantitative delle caratteristiche del vasellame. Sempre negli anni Ottanta J. Sutton e A. Reid hanno condotto indagini più accurate sul sito di Ntusi, nell'Uganda meridionale, dove hanno messo in luce una sequenza di occupazione dall'XI al XV secolo. A sua volta negli anni Novanta van Noten ha condotto importanti scavi sul sito raccogliendo informazioni dettagliate sui rituali funerari e sui legami molto stretti tra rituale e metallurgia. Negli stessi anni M. Horton ha scavato l'insediamento Swahili di Shanga, nell'arcipelago di Lamu, mettendo in luce una sequenza stratigrafica e culturale che ha permesso di definire meglio lo sviluppo della società Swahili. Accanto agli studiosi occidentali vanno ricordati anche i contributi di archeologi africani, quali F. Chami e C.M. Kusimba, che hanno indagato le origini della civiltà Swahili mettendo in evidenza le sue radici indigene. Nel loro insieme, queste ricerche hanno contribuito notevolmente a imporre l'archeologia come strumento principale per la ricostruzione del passato dell'Africa Orientale e non più come semplice mezzo per confermare ipotesi basate sui dati etnostorici e linguistici.
Origini e sviluppo della società Swahili - Fino alla seconda metà degli anni Settanta del secolo scorso, le origini della società Swahili venivano attribuite a coloni arabi che si sarebbero insediati lungo la costa del Kenya e della Tanzania e avrebbero inserito queste regioni nel circuito commerciale dell'Oceano Indiano, diffondendo l'Islam, imponendo il loro dominio sulle popolazioni indigene e dando così origine alle società complesse Swahili. Oggi questa ricostruzione non è più accettata, in quanto le ricerche archeologiche condotte lungo la costa e nel suo immediato entroterra negli anni Ottanta e Novanta hanno suggerito che gli Swahili siano stati in origine una popolazione locale in grado di lavorare il ferro, verosimilmente di lingua Bantu, che avrebbe occupato le pianure costiere fin dagli inizi del I millennio d.C.
Questa popolazione sarebbe stata inserita in una rete di scambi commerciali marittimi lungo le rotte dell'Oceano Indiano e alla fine del I millennio sarebbe entrata in contatto con mercanti arabi che avrebbero stimolato la diffusione dell'Islam. Nel X-XI secolo l'incremento del commercio marittimo sulle lunghe distanze, accompagnato da una rapida diffusione dell'Islam, avrebbe prodotto una più netta gerarchia sociale tra i "patrizi", che controllavano direttamente le attività commerciali, e la gente comune, che praticava le attività di sussistenza e artigianali, gettando le basi del sistema sociale Swahili che si è mantenuto fino a epoca moderna. Nel XII-XIII secolo infine sarebbero emerse le prime città-stato guidate da sovrani. Secondo questa ricostruzione, la presenza fisica di Arabi ed eventualmente di Persiani sulla costa africana avrebbe avuto soltanto un ruolo marginale nel processo di formazione delle società Swahili.
Le evidenze archeologiche a sostegno di questa ricostruzione sono numerose e, nonostante alcune ambiguità nei dati, sostanzialmente convincenti. Innanzitutto, gli scavi condotti sui siti di Shanga, Manda e Pate nell'arcipelago di Lamu, di fronte alla costa del Kenya settentrionale, hanno dimostrato una continuità di insediamento dal I millennio d.C. a epoca moderna. A Shanga, in particolare, le tracce di abitato più antiche, databili alla metà del I millennio d.C., erano costituite da capanne circolari con le pareti di fango sorrette da pali, simili a quelle rinvenute in numerosi altri siti costieri dell'età del Ferro iniziale localizzati tra il Tana (Kenya) e il Rufiji (Tanzania). A modelli di insediamento africani si può anche ricondurre la cosiddetta "cinta centrale" a Shanga, datata alla metà dell'VIII secolo. Si tratta di una struttura di 100 × 80 m, con due entrate rispettivamente sul lato est e sul lato ovest e al centro un pozzo situato 5 m a est di un albero di cui restano alcune tracce bruciate. Al suo interno sono state trovate solo scorie che attestano attività artigianali. Questa struttura sembra avere delimitato un'area rituale preislamica, simile a quelle tuttora usate da alcune popolazioni Bantu non musulmane stanziate nell'entroterra.
Le ceramiche raccolte negli strati più antichi dei siti Swahili, inoltre, presentano un caratteristico tipo di decorazione a motivi triangolari incisi, per cui viene definito "vasellame a triangoli incisi", che sembra attribuibile a una tradizione indigena, detta "tradizione del Tana". Questo vasellame rientra nell'orizzonte della ceramica dell'età del Ferro iniziale dell'Africa Orientale. L'area da cui questo vasellame si sarebbe diffuso è ancora dibattuta. Secondo alcuni studiosi essa andrebbe ricercata nella Tanzania meridionale, secondo altri nel Kenya settentrionale e più precisamente sull'arcipelago di Lamu e sulla costa di fronte a esso. Attualmente la seconda ipotesi sembra più probabile. Questa tradizione ceramica si è poi mantenuta nei secoli successivi, sia pure con alcune modifiche, confermando la continuità tra queste comunità più antiche e quelle Swahili del II millennio d.C. A sua volta, la presenza di ceramica islamica sasanide e di ceramica cinese del IX-X secolo in numerosi siti costieri, come, ad esempio, Shanga, Manda e Pate nell'arcipelago di Lamu, Pemba e Kilwa di fronte alla costa della Tanzania, associata a vasellame a incisioni triangolari, indica chiaramente che le popolazioni costiere erano ben inserite nel circuito di scambi dell'Oceano Indiano. Al tempo stesso, la presenza di vasellame importato dall'Oceano Indiano in siti dell'interno anteriori al 1000 d.C. in Kenya attesta che un circuito di scambi tra la costa e l'entroterra si era consolidato alla fine del millennio ed erano state gettate le basi per la specializzazione mercantile degli abitati costieri, che caratterizzò la società Swahili per tutta la sua storia successiva. Infine il rinvenimento di frammenti di ceramica islamica sasanide a Chibuene nel Mozambico, dove alcuni frammenti potrebbero datare al VII-VIII secolo, e in siti sulle Isole Comore indica che questo circuito commerciale includeva anche la costa orientale dell'Africa australe.
In base agli scavi condotti a Shanga sembra che l'Islam si sia diffuso sulle coste dell'Africa Orientale nell'VIII secolo, confermando la notizia riportata da al-Masudi di comunità islamiche a Qanbalu. A Shanga sono state infatti messe in luce alcune tombe islamiche databili verso l'800. Inoltre sotto la Moschea del Venerdì, eretta all'interno della "cinta centrale", è stata identificata una sequenza di otto edifici, di cui il più recente costruito nel 1000 in pietra e i sette più antichi in materiali leggeri (legno e argilla). Queste strutture più antiche sono state interpretate come moschee, nonostante l'assenza del miḥrāb, in base al loro orientamento verso la Mecca. Esse inoltre possono rientrare in una tipologia di moschee arcaiche note anche in altre regioni. Le dimensioni di queste moschee suggeriscono anche il progressivo incremento della comunità musulmana che abitava sull'isola. La più antica infatti, datata verso il 750-780, misurava 1,64 × 2,59 m e poteva contenere meno di una decina di individui, mentre la successiva di 6,4 × 4 m poteva contenere almeno 25 individui. L'ultima moschea della sequenza, in uso fino al 1425, era invece un edificio di circa 8 × 12 m.
Una trasformazione della società Swahili avvenne nel X-XI secolo, quando gli insediamenti acquisirono carattere urbano, con i primi edifici costruiti con blocchi di pietra corallina che attestano l'emergere di un'élite. La continuità di questi abitati con quelli precedenti è confermata dalla pianta delle case in pietra, che riproduce quella più antica degli edifici di legno e argilla. Veri siti urbani con edifici di pietra apparvero nel XIII-XIV secolo, quando si consolidarono le città-stato. Evidenze di questi insediamenti sono state segnalate a Shanga, Manda, Pate e Lamu nell'arcipelago di Lamu, a Ungwana sulla costa di fronte a Lamu nel Kenya settentrionale, a Gedi nel Kenya centrale e a Kilwa, Pemba e Zanzibar in Tanzania. Le abitazioni di questo periodo avevano la stessa struttura di quelle più antiche di legno e argilla e di blocchi di corallo con una pianta rettangolare e presentavano internamente diversi vani della larghezza delle case, disposti uno dietro l'altro e con al fondo un cortile interno. Non è escluso che alcune abitazioni avessero due piani, come è attestato da edifici tradizionali del XVIII e del XIX secolo. Le case potevano essere isolate oppure costruite attorno a cortili a formare gruppi con un numero massimo di cinque abitazioni, che probabilmente riflettevano l'organizzazione di famiglie estese. La Moschea del Venerdì e il palazzo reale costituivano gli edifici più rilevanti delle città-stato Swahili.
Esempi di palazzi reali sono stati messi in luce a Kilwa e sull'isola di Tumbatu. A Kilwa il palazzo è un vasto complesso di strutture pubbliche e private che copre una superficie di circa 70 × 100 m e che riprende la tipologia dei palazzi islamici noti anche in altre regioni. Esso comprende tuttavia una piscina ottagonale, larga 8,17 m, che veniva riempita a mano. A Tumbatu il palazzo era costituito da un complesso di locali e cortili interni e da un edificio esterno. Nel loro insieme le città Swahili del XIII-XIV secolo si presentavano come insediamenti compatti, con case di uno o due piani disposte lungo strade strette e circondate da mura alte con doccioni per scaricare l'acqua piovana. Gli abitati inoltre erano sempre allineati lungo la riva del mare o di un estuario.
Oltre agli insediamenti urbani, lungo la costa del Kenya settentrionale sono noti numerosi siti, databili al XIV-XVI secolo, spesso con tracce di mura difensive risalenti al XVI secolo. Si tratta di vaste aree prive di una vera architettura domestica o con rare case in pietra, ma numerose tombe e moschee spesso elaborate. Siti di questo tipo sono stati segnalati a Ishakani, Mwana Mchama, Uchi Juu, Omwe, Dondo, Luziwa, Ungwana, Mwana e Shaka. Molto probabilmente non si tratta di veri insediamenti urbani, ma di abitati che comprendevano serragli per il bestiame, giardini e campi coltivati collegati a quelli urbani sulle isole. Siti simili sono segnalati anche presso Malindi e Mombasa, nel Kenya meridionale. Tra questi, a Jumba, nei pressi di Mombasa, sono visibili le tracce di almeno dieci case e quattro moschee in pietra. Infine, lungo la costa di Mrima, a sud di Mombasa, sono visibili solo moschee e tombe spesso associate a un pilastro e circondate da una cinta. Il significato di questi siti comunque è ancora incerto.
Il conio di monete d'oro, argento e rame è un altro aspetto rilevante della società Swahili antica. Monete di produzione locale infatti sono state rinvenute in numerosi siti, tra cui Shanga, Manda, Kilwa e Pemba e Mafia. Le più antiche sono state rinvenute a Shanga e sono datate al X secolo. A Mtambwe Mkuu, nell'isola di Pemba, è stato scoperto un tesoro appartenuto a un mercante dell'XI secolo con 2600 monete d'argento locali e dieci dinari per lo più fatimidi. Le monete erano usate probabilmente per il commercio, anche se la loro diffusione sembra essere stata limitata. Nel XVI-XVII secolo le città-stato Swahili declinarono anche in seguito alla penetrazione portoghese nell'Oceano Indiano. Testimonianza della presenza portoghese sulle coste dell'Africa Orientale è Fort Jesus, costruito tra il 1580 e il 1640 da un architetto italiano, Giovanni Battista Cairati. Il forte presenta numerose caratteristiche tipiche delle fortezze italiane della fine del XVI secolo, con una pianta quadrata con ampi bastioni triangolari agli angoli e un avancorpo rettangolare sul lato prospiciente il mare.
I regni della regione dei Grandi Laghi - Il processo di formazione dei regni tradizionali della regione dei Grandi Laghi è ancora in gran parte oscuro, nonostante le indagini archeologiche si siano intensificate negli ultimi venti anni.
Agli Chwezi che avrebbero regnato sul Kitara vengono tradizionalmente attribuiti grandi terrapieni eretti in varie località dell'Uganda occidentale, tra cui Bigo, Munsa e Kibengo.
Si tratta di strutture alte fino a 20 m, talvolta con bastioni, che circondavano depressioni scavate fino a 5 m di profondità nella roccia di base e che potevano delimitare aree estese anche 300-400 ha. Esse suggeriscono l'esistenza di una società sufficientemente complessa in grado di controllare la numerosa manodopera richiesta per la loro costruzione e un ampio uso di utensili in ferro. La funzione di questi terrapieni è incerta. Molto probabilmente erano recinti per proteggere il bestiame da razzie. Resti estesi di queste strutture sono stati scavati a Bigo, considerata tradizionalmente una delle capitali del Kitara.
L'età dei terrapieni a Bigo è incerta, ma molto probabilmente essi possono essere associati al vicino insediamento urbano di Ntusi, ritenuto anch'esso tradizionalmente una delle capitali del Kitara. Gli scavi condotti in questo sito hanno messo in evidenza diverse fasi di occupazione datate tra l'XI e il XVI secolo, con un periodo di maggiore sviluppo nel XII-XIII secolo. Nel XIV secolo il sito di Ntusi sembra aver occupato una superficie di circa 100 ha. La documentazione archeologica qui raccolta indica che la popolazione praticava un'economia mista basata sulla coltivazione del sorgo e del miglio coracano e sull'allevamento di bovini. L'allevamento del bestiame sembra aver costituito una componente importante dell'economia di sussistenza, poiché numerosi siti con superficie inferiore a 1 ha, identificabili come recinti per gli animali, sono stati segnalati nella regione circostante Ntusi. La presenza di fornaci nel settore occidentale del sito indica inoltre che il ferro veniva prodotto localmente. Agli Chwezi vengono anche attribuiti altri due grandi siti: Mubende e Masaka. A Mubende, in particolare, è stato possibile identificare due fasi di occupazione. La più antica risale al XIII-XIV secolo e potrebbe confermare la tradizione che questa località sia stata la residenza del re Ndhaura. In questa fase il sito occupava un'area di 5 ha. La fase più recente risale invece al XIX-XX secolo. Anche la documentazione raccolta in questo sito indica che l'allevamento del bestiame era la componente principale dell'economia di sussistenza. La ricognizione della regione circostante Mubende e Munsa ha comunque identificato una sequenza di siti, datati a partire dal XII secolo, che attesta l'emergere di una complessità sociale nel XIV secolo.
Infine gli scavi condotti a Kibiro, sulla sponda orientale del Lago Alberto, hanno portato alla luce i resti di un abitato specializzato nella produzione del sale risalente al XII-XIII secolo. Tutti questi siti sono caratterizzati da ceramiche simili attribuite alla cosiddetta Tradizione Urewe, che è attestata anche lungo i margini del Lago Vittoria, il Nilo e sugli altopiani del Ruanda e Burundi. Queste evidenze quindi suggeriscono che nell'Uganda occidentale, tra il XII e il XIV secolo, una popolazione con un'economia mista, in cui l'allevamento dei bovini costituiva una componente molto importante, aveva prodotto forme complesse di organizzazione sociale, forse a livello di principati.
Ugualmente scarse sono le informazioni sulle origini degli Stati meridionali di Nkore, Mpororo, Ruanda e Burundi. Gli scavi condotti a Bweyorere, nel regno del Nkore, e a Ryamurari, capitale del Mpororo, tra il regno del Bunyoro e il Ruanda, hanno messo in luce i resti di insediamenti databili al XVII-XVIII secolo. In entrambi i siti sono state scoperte aree circolari delimitate da ammassi di ceneri e sterco e circondate da aree simili più piccole. Solo tre sepolture reali, attribuite ai sovrani Cyirima Rujugira (XVII sec.) e Rwabugiri (XIX sec.) e alla regina Kanjogera (XIX sec.), sono state scavate a Gaseke, nel Ruanda. Si tratta tuttavia di tombe recenti, in quanto per motivi rituali i corpi dei sovrani sono stati mummificati e deposti successivamente. Nel caso di Cyirima Rujugira, il sovrano morto verso il 1635, come indicato da una datazione al radiocarbonio, è stato sepolto nel 1930-31. All'atto dello scavo il corpo di questo re appariva completamente mummificato e non vi erano più tracce della pelle di leopardo che lo avvolgeva. Gli oggetti che lo accompagnavano, e che gli erano effettivamente appartenuti, comprendevano due incudini usate come poggiatesta, una spada, punte di lancia, campane, ornamenti personali, un pugnale e una falce di metallo e numerosi modelli in miniatura di falci, coltelli e punte di lancia. Vi erano anche manufatti di osso e ossa di animali forate per poter essere indossate. Il corredo comprendeva anche manufatti di vetro di origine europea del XVII secolo, che confermano l'esistenza di scambi con la costa dell'Oceano Indiano.
Le regioni tra la costa e la Rift Valley - La documentazione archeologica permette di distinguere due fasi successive di popolamento delle regioni dell'Uganda settentrionale e del Kenya occidentale.
Nella fase più antica, databile alla fine del I e agli inizi del II millennio a.C., la regione sarebbe stata occupata da popolazioni che lavoravano il ferro e la cui economia si basava sull'allevamento del bestiame e sulla coltivazione di cereali. Esse si sarebbero sovrapposte a quelle locali rappresentate dalla ceramica della cosiddetta Tradizione Miwtu. Queste popolazioni sono identificate da un tipo particolare di ceramica, caratterizzato da motivi decorativi impressi a rocchetto, derivata da quella prodotta dai pastori della tarda età della Pietra. Alla fine del I millennio a.C. apparve una nuova popolazione, caratterizzata da un più ampio uso del ferro e da un tipo particolare di ceramica definito "vasellame di Lanet", comprendente vasi a collo stretto o a forma di borse, con prese e becchi, decorati con motivi impressi. Si tratta di un tipo di ceramica ampiamente diffuso, da cui deriva quella tradizionale tuttora prodotta nella regione. Varianti di questo tipo di vasellame sono state infatti segnalate presso il Monte Kadami, nell'Uganda nord-orientale, e presso il Monte Egon e a Hyrax Hill, Lanet, Salasun e Akira, nel Kenya occidentale. Alla ceramica di Lanet sono anche associate le cosiddette "fosse di Sirikwa" nel Kenya occidentale. Si tratta di depressioni artificiali, larghe in media 10 m e di solito raggruppate in modo da formare nuclei da 5 a 50 e talvolta 100 strutture. Secondo le tradizioni locali sarebbero state recinti per animali usati dai Sirikwa, considerati gli antenati degli attuali Kalenjin. Gli scavi condotti in alcune di queste strutture hanno dimostrato che esse erano spesso associate a capanne rotonde, cui si accedeva attraverso la stessa entrata dei recinti, e hanno permesso di datarle al XII-XVIII secolo.
Opere imponenti per l'irrigazione artificiale dei campi coltivati sono state scoperte invece più a sud, lungo il fiume Engaruka, nella Tanzania settentrionale. Si tratta di una vasta rete di canali perfettamente livellati lunghi parecchi chilometri e disposti in modo da alimentare griglie di campi coltivati, a loro volta sostenuti da terrazzamenti per prevenire l'erosione del suolo. Nel suo insieme questo sistema di canali e campi terrazzati si estendeva su una superficie di oltre 2000 ha e poteva sostenere una popolazione di parecchie migliaia di individui. A esso erano associati sette grandi villaggi situati a monte dei canali. Queste strutture molto probabilmente si possono datare tra il 1400 e il 1700 d.C., quando l'intero sistema di irrigazione venne abbandonato.
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di Rodolfo Fattovich
Il Corno d'Africa, che nella sua accezione più ampia include gli odierni Stati dell'Eritrea, dell'Etiopia, di Gibuti e della Somalia, si presenta come un mosaico etnico con un notevole dinamismo interno.
Questa vasta regione del continente africano è oggi abitata da popolazioni parlanti lingue semitiche, kushitiche, omotiche e marginalmente nilo-sahariane e Bantu, con forme tradizionali di economia e società molto diverse tra loro, le cui origini sono ancora spesso incerte e la cui distribuzione attuale solo in parte coincide con i confini territoriali degli Stati moderni.
Le popolazioni di lingua semitica occupano prevalentemente le regioni centrali e settentrionali dell'Etiopia e l'Eritrea. Esse includono genti parlanti lingua Tigrè nell'Eritrea settentrionale, dedite all'allevamento di dromedari e di religione prevalentemente islamica; gruppi parlanti tigrino, nell'Eritrea centrale e nel Tigrè, costituiti da agricoltori e allevatori di bestiame sedentari di religione cristiana; gruppi di lingua amharica, nell'Etiopia centrale, rappresentati da agricoltori e da allevatori di religione cristiana; gruppi di lingua Guraghè, nello Shoa sud-occidentale, costituiti da agricoltori e orticoltori sedentari di religione cristiana o islamica; gruppi di lingua hararina, nell'area circostante Harar nell'Etiopia orientale, costituiti da agricoltori di religione islamica; gruppi di lingua araba, nell'Eritrea, costituiti da allevatori di dromedari seminomadi. Le popolazioni di lingua kushitica sono stanziate soprattutto nelle regioni centro-meridionali, occidentali e orientali dell'Etiopia, in quelle settentrionali e sud-orientali dell'Eritrea, nel territorio di Gibuti e in Somalia. Esse comprendono: gli Agaw, che abitano l'Altopiano Etiopico centrale, agricoltori di religione cristiana o ebraica (Falasha); i Begia, stanziati nell'Eritrea settentrionale e lungo i bassopiani nord-occidentali, allevatori seminomadi di religione islamica; i Saho/Irob, che vivono tra le regioni costiere e l'altopiano dell'Eritrea centrale, allevatori seminomadi di religione prevalentemente islamica; gli Afar, localizzati in Dancalia, pastori nomadi di religione islamica; gli Oromo, che occupano tutta l'Etiopia occidentale, meridionale e in parte orientale, allevatori e agricoltori di religione sia cristiana sia islamica; i Somali, stanziati nel-
l'Ogaden (Etiopia orientale) e nella Somalia, allevatori nomadi o agricoltori di religione islamica. Le popolazioni parlanti lingue omotiche (Hamer, Ari, Dime, Dizoid, Gonga, Janjero, Ghimira, Chara, Ometo) abitano principalmente le regioni sud-occidentali dell'Etiopia e sono in prevalenza dediti alla coltivazione dell'ensete o falsa banana. Le popolazioni parlanti lingue nilo-saheliane sono distribuite lungo la zona di confine con il Sudan e sono i Cunama, che formano un gruppo linguistico a sé stante, i Nera (o Baria), i Mekan, i Mao, i Gunza, i Berta e i Nyagatom. Esse comprendono gruppi di agricoltori e allevatori, animisti o di religione islamica. Infine, popolazioni di lingua Bantu, dedite all'agricoltura, occupano le regioni meridionali della Somalia verso il confine con il Kenya.
Nonostante la loro diversità, le genti del Corno d'Africa hanno costantemente interagito tra loro sia mediante scambi di servizi reciproci (ad es., tra pastori seminomadi e agricoltori sedentari) e commercio, sia in modo conflittuale con invasioni, razzie e conquiste da parte dei centri statali verso le regioni periferiche. La costante e complessa interazione tra le singole popolazioni ha quindi portato allo sviluppo di un sistema più ampio di relazioni sociali, economiche, politiche e culturali, che permette di definire in modo chiaro il Corno d'Africa come una regione geopolitica e culturale ben distinta da quelle circostanti della valle del Nilo, dell'Africa Orientale e della Penisola Arabica.
Fattori di dinamica del popolamento - Diversi fattori ambientali, economici, politici e culturali hanno contribuito alla formazione del popolamento della regione.
Dal punto di vista ambientale, il Corno d'Africa si presenta come un mosaico ecologico, costituito da un vasto altopiano a clima prevalentemente temperato (acrocoro etiopico-somalo) circondato da bassopiani aridi o semiaridi e tagliato da una spaccatura tettonica (Rift Valley) che si apre verso il Mar Rosso e il Golfo di Aden formando la depressione della Dancalia. Il clima è caratterizzato da un regime di piogge invernali dovute ai monsoni che soffiano da est e di piogge estive portate dagli alisei occidentali provenienti dal Golfo di Guinea. Questi si caricano di umidità sulla foresta equatoriale del Congo e si scaricano sull'Etiopia portando le grandi piogge estive (tra metà giugno e metà settembre) sul Corno d'Africa e sul Sudan meridionale. Il regime di precipitazioni, combinato con le condizioni orografiche e la localizzazione nella piena zona tropicale, ha generato quindi condizioni ecologiche diverse sia tra le regioni meridionali e occidentali, orientali e centro-settentrionali del Corno d'Africa, sia all'interno delle singole regioni. Le regioni meridionali e occidentali infatti sono ricoperte da foreste montane di tipo tropicale. Quelle orientali presentano formazioni vegetali con savane alberate sulle zone più elevate e boscaglia semidesertica lungo le pianure costiere. Le regioni centro-settentrionali sono caratterizzate invece da praterie e foreste montane tropicali sugli altopiani e savane alberate e boscaglia semidesertica nei bassopiani e lungo le pianure costiere. Inoltre, in base all'altitudine si possono riscontrare condizioni ambientali molto diverse in una stessa regione. Le popolazioni etiopiche distinguono infatti tradizionalmente tre grandi fasce ecologiche in base all'altitudine: quolla, corrispondente ai bassopiani a clima arido o semiarido con savane e boscaglia fino a un'altitudine media di 1800 m; woina dega, corrispondente agli altopiani a clima temperato con foreste montane e praterie, dove è possibile praticare l'agricoltura, fino a un'altitudine media di 2500 m; dega, corrispondente agli altopiani più elevati con clima alpino freddo e ricoperti da steppe a un'altitudine superiore ai 2500 m.
Queste diverse condizioni ecologiche hanno avuto un riflesso molto importante sul popolamento del Corno d'Africa, determinando una dicotomia fondamentale tra popolazioni sedentarie (o semisedentarie), dedite all'agricoltura e all'orticultura sull'altopiano e nei bassopiani occidentali semiaridi, e popolazioni nomadi (o seminomadi) di allevatori di bestiame nei bassopiani e nelle aree semidesertiche, come la depressione della Dancalia. A loro volta, le popolazioni sedentarie praticano sistemi diversi di coltivazione. Sull'altopiano centro-settentrionale domina l'agricoltura con coltivazione di cereali di origine vicino-orientale (frumento e orzo) e locale (teff) mediante uso dell'aratro e integrata con allevamento di bovini, caprini e ovini. Nelle pianure alluvionali fertili dei bassopiani occidentali viene coltivato il sorgo, oggi con uso dell'aratro, ma in origine probabilmente con bastoni da scavo. Nelle regioni sud-occidentali prevale la col-
tivazione dell'ensete mediante orticoltura presso le capanne. A questi sistemi corrispondono anche forme diverse di proprietà terriera e di uso del suolo che hanno dato origine a organizzazioni sociali diverse. Essendo attraversato dalla zona di convergenza intertropicale del fronte dei monsoni e dalla grande faglia tettonica del Rift, il Corno d'Africa è inoltre esposto a grandi rischi ambientali, soprattutto siccità e conseguenti carestie, terremoti ed eruzioni vulcaniche, cui si aggiungono invasioni di locuste ed epidemie, che hanno fortemente influito sulla storia del suo popolamento. A queste catastrofi infatti le popolazioni hanno tradizionalmente reagito spostandosi e migrando verso territori più favorevoli ed entrando spesso in conflitto con quelle che li occupavano. Infine l'orografia dell'altopiano, con valli profonde che lo incidono, ha stimolato soprattutto nelle regioni centrali e settentrionali l'emergere di una frammentazione del popolamento e di comunità ed entità politiche distinte anche all'interno di una stessa popolazione.
La storia del Corno d'Africa è stata inoltre influenzata dalla sua posizione geografica al crocevia tra Africa e Asia e tra Mediterraneo e Oceano Indiano. Ciò ha favorito la penetrazione sull'altopiano di influssi culturali diversi ‒ tra cui nel corso del I millennio d.C. la diffusione del cristianesimo e successivamente dell'Islam ‒ provenienti nel corso del tempo dalla valle del Nilo, dall'Arabia meridionale, dal Vicino e Medio Oriente, dal Mediterraneo e dall'Africa Orientale. Tali influssi si sono innestati su tradizioni locali che hanno sempre mantenuto la loro identità, generando società e culture composite e al tempo stesso originali. In particolare, l'inclusione fin da epoca molto antica dell'Altopiano Tigrino (Etiopia settentrionale ed Eritrea centrale) nel circuito commerciale che collegava il Mediterraneo all'Oceano Indiano e, dopo l'introduzione del cristianesimo, il legame tra la Chiesa etiopica e il Patriarcato di Alessandria hanno favorito i contatti con le regioni mediterranee, al punto che per molti aspetti la civiltà etiopico-semitica cristiana può essere considerata l'estremo lembo meridionale di quella mediterranea.
Al tempo stesso, la progressiva inclusione del Corno d'Africa nelle reti di scambi commerciali tra l'Africa, il Mediterraneo e l'Oceano Indiano ha permesso lo sviluppo di formazioni statali, il cui centro si è spostato dalle regioni settentrionali e orientali verso l'interno in seguito al cambiamento delle direttrici dei circuiti di interscambio nel corso del tempo. L'espansione di questi Stati, in particolare quella dello stato cristiano derivato dal regno di Aksum, ha portato all'inclusione e all'integrazione di popolazioni linguisticamente e culturalmente diverse in unità territoriali più ampie, con un profondo impatto sulla dinamica del popolamento. Talvolta la pressione da parte di popolazioni più forti dal punto di vista economico e politico su minoranze marginali ha prodotto fenomeni di mimetismo culturale, come, ad esempio, nel caso dei Cunama stanziati ai margini dell'altopiano lungo il confine tra Etiopia, Eritrea e Sudan.
I Cunama sono una popolazione molto antica, che ha sicuramente occupato negli ultimi 2000 anni, ma forse anche da 6000-7000 anni, la zona compresa tra il Mareb-Gash e il Takazé ai margini dell'altopiano tigrino. Questa era originariamente una popolazione animista o piuttosto enoteista, cioè con un solo dio che dopo la creazione si sarebbe disinteressato del destino umano. Era una società con antichi caratteri matriarcali, divisa in quattro clan indicati da simboli di animali che venivano posti sul tetto delle capanne fino agli anni Venti-Trenta del Novecento. I villaggi erano composti da quattro lignaggi diversi. L'economia di sussistenza si basava sull'allevamento del bestiame e sulla coltivazione del sorgo. I Cunama sono stati soggetti a pressioni e razzie esterne da parte sia delle popolazioni islamiche sudanesi sia di quelle cristiane dell'Altopiano Etiopico. Dagli inizi del I millennio d.C., in particolare, questa popolazione ha subito razzie da parte delle popolazioni tigrine dell'altopiano, che li consideravano una fonte di schiavi e bestiame. A queste pressioni i Cunama hanno risposto con un fenomeno di mimetismo culturale nell'abbigliamento, nella lingua, negli usi, ecc., che li rende praticamente indistinguibili dalle popolazioni circostanti pur mantenendo piena coscienza della loro identità culturale.
L'interazione tra le singole popolazioni ha anche prodotto in alcuni casi fenomeni di assimilazione culturale, come, ad esempio, tra i Nera (chiamati anche Baria) e i Cunama. I Nera sono molto probabilmente una popolazione penetrata nei bassopiani e lungo i margini dell'altopiano al confine tra Eritrea e Sudan nel I millennio d.C., dove sarebbero entrati in contatto con i Cunama. Pur parlando una lingua diversa di tipo est-sudanese, imparentata con le lingue nubiane del Cordofan, i Nera avrebbero rapidamente assunto la stessa cultura materiale tradizionale della popolazione Cunama locale, al punto che entrambe possono essere facilmente confuse.
Aspetti di storia del popolamento - Il popolamento moderno del Corno d'Africa è il risultato di una storia ambientale, sociale, economica e culturale molto complessa, caratterizzata da un processo continuo di integrazione e differenziazione delle diverse popolazioni, i cui inizi si possono rintracciare nella tarda preistoria e antichità e che sono culminati con la creazione dell'impero etiopico, la penetrazione coloniale europea e l'emergere dell'assetto geopolitico attuale negli ultimi duecento anni.
Questo processo si è intensificato nel millennio compreso tra il declino del regno di Aksum nell'VIII-IX sec. d.C. e gli inizi dell'età moderna, nel XVIII-XIX secolo. Nel corso di questo millennio si è verificata infatti una serie di eventi che alterarono notevolmente la configurazione del popolamento antico del Corno d'Africa e gettarono le basi del popolamento attuale. Eventi principali in questo periodo sono stati: l'espansione del regno etiopico-semitico cristiano di origine aksumita dal Tigrè (Etiopia settentrionale) verso sud, fino a inglobare nel XIV secolo parte dell'Etiopia centro-occidentale; la penetrazione araba e islamica dalle regioni costiere verso l'interno a partire dall'VIII sec. d.C.; le migrazioni somale dalla regione del fiume Tana verso nord nella Somalia meridionale a partire dal 1000 d.C. circa; le migrazioni Oromo dall'Etiopia meridionale verso nord nel XVI sec. d.C.
L'espansione verso sud del regno cristiano ebbe inizio con il declino del precedente regno di Aksum nell'VIII sec. d.C. Essa fu caratterizzata dallo spostamento progressivo della capitale dal Tigrè nell'Etiopia settentrionale, dove era localizzata in epoca aksumita, al Lasta nell'Etiopia centro-settentrionale, durante il regno Zaguè (ca. 1150-1270 d.C.), e successivamente nello Shoa settentrionale con l'avvento del cosiddetto "regno salomonide" (ca. 1270-1527 d.C.). Successivamente, dopo l'invasione Oromo nel XVI secolo, la capitale venne stabilita a Gondar, a nord del Lago Tana. Questo processo culminò nel XIV secolo, quando gran parte dell'Eritrea e dell'Etiopia settentrionale, centrale e orientale vennero incluse nel regno salomonide.
La penetrazione dell'Islam nel Corno d'Africa ebbe ugualmente esordio alla fine del I millennio a.C. Essa interessò inizialmente le regioni costiere dell'Eritrea e della Somalia, dove si stabilirono comunità islamiche fin dal IX-XI secolo, e si consolidò con la nascita di Stati musulmani nella Somalia settentrionale e lungo il Rift nei primi secoli del II millennio, con centri principali a Zeila, sulla costa, e ad Harar, sull'altopiano dell'Ogaden. L'espansione islamica raggiunse il suo culmine agli inizi del XVI secolo, quando gran parte del regno cristiano venne invasa da popolazioni provenienti dall'Etiopia orientale. La dinamica delle migrazioni somale è ancora del tutto oscura, in assenza di fonti testuali e di evidenze archeologiche sicure, ed è stata delineata principalmente su basi linguistiche. Sembra comunque che queste popolazioni si siano mosse dalla regione del Tana verso nord, occupando inizialmente le regioni del Giuba e del Webi Shebeli a partire dalla fine del I millennio a.C. ed espandendosi verso nord nei primi secoli del II millennio d.C. La migrazione degli Oromo è meglio documentata dalle fonti storiche etiopiche. Essa iniziò verso il 1570 dalle probabili sedi originarie nell'alto bacino del Genale, nell'Etiopia meridionale, e si irradiò nel XVII secolo prima verso nord fino allo Shoa nell'Etiopia centrale e successivamente verso ovest fino alle regioni di Gojjam, Wollega e Illubabor, a nord-est fino al Wollo e a est fino all'Ogaden.
Le evidenze testuali suggeriscono che eventi catastrofici quali carestie ed epidemie sono stati abbastanza frequenti nel periodo considerato. Informazioni su questi eventi si ritrovano in numerosi fonti agiografiche che narrano la vita dei principali santi dell'Etiopia cristiana. Benché questi testi siano redatti su manoscritti databili a partire dal periodo salomonide (XIV-XV sec.), essi narrano spesso anche la vita di santi di epoca più antica. Le notizie più antiche su carestie, spesso seguite da epidemie, risalgono alla metà del IX e alla metà del XII secolo. In base alle fonti testuali, le carestie sembrano essere state molto frequenti a partire dal XIII secolo. Episodi severi di siccità sono anche attestati nel XVI e XVIII secolo e una devastante invasione di locuste venne ricordata nel XVI secolo. Si hanno anche testimonianze di terremoti relativamente frequenti. Nel solo Tigrè si ebbero almeno quattro terremoti nel XV e nel XVI secolo.
Due innovazioni tecnologiche ebbero a loro volta un ruolo importante nella storia del popolamento del Corno d'Africa dopo il 1000: la diffusione verso sud della lavorazione del metallo, in particolare il ferro, e l'introduzione delle armi da fuoco. La lavorazione del metallo (bronzo e ferro) è attestata fin dagli inizi del I millennio a.C. nell'Etiopia settentrionale, ma essa rimase apparentemente limitata soprattutto all'area aksumita. Molto probabilmente nel corso del I millennio a.C. la metallurgia si diffuse verso l'interno dell'Altopiano Etiopico e agli inizi del II millennio d.C. spade di metallo, forse ferro, erano già usate dalle popolazioni dell'Etiopia centrale. Ciò potrebbe essere attestato dalla rappresentazione di spade su stele funerarie dello Shoa (Etiopia centrale), databili tra il 1100 e il 1300 d.C. Le armi da fuoco vennero invece introdotte con l'intensificarsi dei contatti con l'Europa nel XVI secolo.
Nella prima metà del II millennio d.C. si verificò un sostanziale declino del fenomeno urbano che aveva caratterizzato l'Etiopia settentrionale e l'Eritrea in epoca aksumita. Città islamiche apparvero lungo la costa del Golfo di Aden e quelle dell'Oceano Indiano tra la fine del I e gli inizi del II millennio d.C., tra cui Zeila e Mogadiscio. Successivamente, insediamenti urbani islamici sorsero sull'altopiano dell'Etiopia orientale nel XV-XVI secolo, con un centro principale ad Harar. In ambiente cristiano il fenomeno urbano sembra essere ripreso inizialmente nell'Eritrea, dove un abitato di grandi dimensioni è documentato ad Asmara già nel XV secolo. Agli inizi del XVII secolo venne infine fondata una nuova capitale a Gondar, a nord del Lago Tana.
Il periodo qui considerato viene spesso diviso in due fasi, che fondamentalmente riflettono la storia del regno etiopicosemitico cristiano.
La prima fase, compresa cronologicamente tra il declino del regno di Aksum nell'VIII-IX sec. d.C. e l'arrivo della prima ambasciata portoghese alla corte del re Lebna Dengel nel 1520, costituisce il cosiddetto Medioevo Etiopico. In questi secoli, l'Altopiano Etiopico rimase isolato dal mondo mediterraneo, anche se notizie su un regno cristiano meridionale, circondato dai musulmani, giunsero in Occidente, dando verosimilmente origine ai racconti sul favoloso Prete Gianni delle Indie. Si tratta di un periodo in gran parte oscuro, per la quasi totale assenza di fonti testuali anteriori al XIV secolo. Queste comprendono, oltre a un'iscrizione etiopica del X-XI secolo e ad alcune iscrizioni islamiche del X-XII secolo, descrizioni di geografi arabi vissuti tra il IX e il XIV secolo e sporadiche notizie nella Storia dei Patriarchi di Alessandria.
A partire dal XIV secolo la documentazione testuale si arricchisce con numerose vite di santi, con le cronache dei re della dinastia salomonide e con alcune cronache arabe. Esse forniscono informazioni soprattutto sulla storia del regno cristiano, sui suoi rapporti con le comunità islamiche dell'Etiopia orientale e sulla sua progressiva diffusione verso sud-ovest, nonché in minor misura sulle origini e l'espansione dei primi sultanati arabi nell'Etiopia orientale e in Somalia. Anche la documentazione archeologica è carente. Questo periodo infatti è stato poco indagato e le indagini finora condotte si sono concentrate soprattutto sulle evidenze monumentali di chiese rupestri, che hanno fornito informazioni sulla progressiva espansione del cristianesimo dall'Etiopia settentrionale verso sud. Particolare attenzione è stata data inoltre allo studio dei numerosi monumenti megalitici dell'Etiopia centrale e meridionale, che costituiscono le uniche evidenze delle popolazioni che abitavano queste regioni nella prima metà del II millennio d.C.
La seconda fase, compresa cronologicamente tra la prima metà del XVI secolo, quando il regno salomonide venne invaso da popolazioni musulmane provenienti dall'Ogaden, e la fine del XVIII secolo, corrisponde al cosiddetto "periodo di Gondar". Questa fase è ben documentata da numerose fonti scritte sia etiopiche sia islamiche e da resoconti di missionari gesuiti e viaggiatori europei, il più noto dei quali è lo scozzese J. Bruce, che si recò in Etiopia alla scoperta delle sorgenti del Nilo negli anni Settanta del XVIII secolo. La documentazione archeologica è invece limitata soltanto allo studio dei palazzi reali e delle chiese della regione circostante Gondar e dei resti islamici della città di Harar.
Architettura monumentale, arte, manoscritti - Il Medioevo e il periodo di Gondar hanno prodotto, soprattutto in ambiente cristiano, notevoli realizzazioni monumentali e artistiche, alcune delle quali possono essere incluse tra i capolavori prodotti dall'umanità. In particolare, i complessi monumentali di chiese rupestri a Lalibela e i palazzi reali di Gondar sono stati inseriti nella lista del patrimonio mondiale dell'UNESCO. L'architettura è caratterizzata tra il X-XI e il XV secolo dal diffondersi dal Tigrè verso lo Shoa di chiese rupestri scavate e/o scolpite nella roccia, che rappresentano una delle manifestazioni più originali della cultura etiopico-semitica cristiana. Nel periodo di Gondar, invece, appaiono palazzi e chiese costruiti in uno stile particolare, detto appunto "gondarino", in cui si integrano elementi locali ed elementi di possibile origine coloniale portoghese.
Sin dal X-XI secolo sono attestate pitture a tema prevalentemente religioso. Le più antiche sono affreschi murali sulle pareti di chiese rupestri, cui si aggiunse progressivamente una cospicua produzione di icone con immagini della Madonna col Bambino. Sempre in contesto religioso va anche ricordata una pregiata produzione di croci di metallo. Infine, in questi periodi si sviluppò anche una ricca letteratura, per lo più a carattere sacro, attestata da numerosi manoscritti spesso decorati con illustrazioni dipinte.
In base alla documentazione testuale e monumentale disponibile, la storia del Corno d'Africa tra l'VIII-IX e il XVII-XVIII sec. d.C. viene convenzionalmente suddivisa in quattro periodi principali, che corrispondono alle fasi principali di sviluppo del regno etiopico-cristiano: 1) periodo altomedievale (ca. 750/800-1150 d.C.); 2) periodo Zaguè (ca. 1150-1270 d.C.); 3) periodo salomonide (1270-1527 d.C.); 4) periodo di Gondar (1527-1770 d.C.). I primi tre periodi vengono inoltre spesso raggruppati in un unico periodo medievale (VIII-XV sec. d.C.). Questa suddivisione, comunque, è valida soprattutto per l'Etiopia e l'Eritrea e riflette l'interesse degli studi etiopici classici per la cultura tradizionale cristiana che, come si è detto, costituisce una delle maggiori componenti culturali (ma non l'unica) della regione.
A sua volta, la storia dell'Islam nel Corno d'Africa, benché ancora mal definita, può essere suddivisa approssimativamente nei seguenti periodi: 1) periodo islamico iniziale (ca. VII/VIII-XIII sec.), che corrisponde alla fase di insediamento di comunità musulmane lungo la costa eritrea e somala e alla prima diffusione dell'Islam verso le regioni dell'interno; 2) periodo dei sultanati (XIV-XVI sec.), corrispondente alla fase di consolidamento di Stati musulmani nelle regioni orientali e centrali del Corno d'Africa; 3) periodo di Harar (XVII-XVIII sec.), corrispondente alla fase in cui questa città dell'Etiopia orientale, benché in declino, fu il principale centro di irradiamento dell'Islam nella regione. Per gran parte del Corno d'Africa, tuttavia, si può parlare di una lunga protostoria, che di fatto si estende fino al XVI-XVII secolo e in alcune regioni marginali verso i confini con il Kenya e il Sudan meridionale fino a epoca più recente. Le prime scarse notizie sull'Etiopia meridionale e sud-orientale sono riportate infatti nelle fonti cristiane e musulmane a partire dal XIV secolo, ma soltanto con l'inizio delle invasioni Oromo nella seconda metà del XVI secolo queste regioni entrano pienamente nel periodo storico.
Il declino del regno di Aksum, l'avvento della dinastia Zaguè e l'inizio della penetrazione islamica - La storia del regno etiopico-semitico cristiano nel periodo medievale fino al XIV secolo è praticamente ignota. Le uniche evidenze testuali sicure di questo periodo sono infatti tre iscrizioni rinvenute ad Aksum e databili verosimilmente agli inizi del II millennio d.C. Esse menzionano l'esistenza di un capo locale, Danel, il quale avrebbe condotto alcune spedizioni militari e razzie verso i bassopiani occidentali con un'incursione fino a Kassala, nel delta del Gash, al confine tra il Sudan orientale e l'attuale Eritrea. Le liste tradizionali dei re etiopici redatte in epoca posteriore riportano i nomi di alcuni sovrani vissuti tra l'VIII e il X secolo, di cui però non sappiamo nulla. La Storia dei Patriarchi di Alessandria sembra indicare che a partire dall'VIII-IX secolo i contatti con l'Egitto si allentarono e i re etiopici ebbero spesso difficoltà a ricevere un metropolita inviato dal patriarca alessandrino quale capo della chiesa etiopica.
Il geografo arabo al-Yaqubi attesta che alla fine del IX secolo un regno cristiano, frequentato da mercanti musulmani, era localizzato sull'Altopiano Tigrino con capitale a Kubar. Questa località non è stata finora identificata archeologicamente, ma fonti tradizionali etiopiche suggeriscono una sua possibile localizzazione presso il Lago Hayq, nell'attuale regione del Wollo. Secondo al-Yaqubi alla fine del I millennio d.C. il regno cristiano era ancora molto vasto ed era suddiviso in territori governati da re locali che obbedivano e pagavano tributi a un Grande Re. Questa stessa fonte attesta che nel IX secolo i territori settentrionali del regno di Aksum erano autonomi ed erano suddivisi in alcuni "regni Begia": Bazin, Jarin, Qata e Baqlin. Tre di questi regni (Bazin, Jarin e Qata) erano verosimilmente localizzati lungo i margini dell'altopiano e i bassopiani occidentali al confine tra Eritrea e Sudan. Baqlin corrispondeva alla regione delle Rore nell'Eritrea settentrionale. Bazin era abitato da agricoltori e allevatori identificabili con gli attuali Cunama. Jarin era abitato da una popolazione che praticava l'avulsione degli incisivi, probabilmente gli attuali Nera. Qata viene descritto come una nazione potente con un clan di guerrieri. Il regno di Baqlin comprendeva numerose "città" e i suoi abitanti erano cristiani, che praticavano l'avulsione degli incisivi.
Le poche notizie sul regno cristiano contenute nella Storia dei Patriarchi di Alessandria sembrano indicare un periodo di forte declino e forse di conflitti interni nella prima metà del X secolo. Infine, le tradizioni etiopiche, confermate da fonti arabe (Ibn Hawqal) e copte, attribuiscono il collasso del regno a un'invasione da parte di una popolazione pagana con a capo una regina, Gudit, che lo avrebbe devastato, distruggendo tra l'altro numerosi monumenti ad Aksum, e avrebbe poi regnato sull'Etiopia settentrionale per quaranta anni; l'origine di questa regina è incerta. Nella Storia dei Patriarchi di Alessandria essa è indicata come la regina dei Bani al-Hamwiyah, che secondo l'etiopista italiano C. Conti Rossini potrebbero essere stati una popolazione dell'Etiopia meridionale.
Le cause del declino e del collasso del più antico regno cristiano e dello spostamento della capitale da Aksum nel Tigrè verso sud alla fine del I millennio a.C. sono ancora oscure. L'evidenza archeologica indica che il regno di Aksum incominciò a declinare nel VII sec. d.C., quando due dei maggiori insediamenti urbani aksumiti in Eritrea, Adulis e Matara, vennero abbandonati. Verso il 650 d.C. i sovrani aksumiti smisero di coniare monete e già nell'VIII secolo la capitale, Aksum, nel Tigrè, si era notevolmente ridotta di dimensioni (da ca. 100 a ca. 40 ha di superficie), assumendo le caratteristiche di un centro provinciale raccolto attorno alla chiesa di Maryam Sion, che tuttora costituisce il più importante edificio religioso della Chiesa Ortodossa Etiopica. A partire dall'VIII secolo, inoltre, il modello di insediamento nel territorio di Aksum indica il riemergere di una società rurale con piccoli villaggi e casolari sparsi. L'esistenza infine, secondo le tradizioni etiopiche, di una tomba reale del VII secolo a Wiqro nell'Agamè, circa 100 km a sud-est di Aksum, potrebbe suggerire che la residenza dei sovrani si era già spostata in questo periodo.
Allo stato attuale delle ricerche sembra che diversi fattori abbiano contribuito al progressivo declino del regno di Aksum negli ultimi tre secoli del I millennio d.C. Innanzitutto, il collasso della società urbana aksumita può essere stato determinato da uno sfruttamento eccessivo del suolo e dalla deforestazione, associati a una riduzione generale delle precipitazioni, che potrebbero avere causato siccità, carestie ed epidemie, con conseguente spopolamento e migrazioni verso sud, tra il VII e il X sec. d.C. Le evidenze archeologiche suggeriscono che il declino demografico, almeno nella regione di Aksum, iniziò già verso la metà del VI secolo, forse in relazione alla grande peste che colpì il Vicino Oriente e il Mediterraneo in età giustinianea (541-544 d.C.), che secondo le fonti contemporanee avrebbe avuto inizio in Etiopia raggiungendo l'Egitto lungo il Mar Rosso. Questa epidemia sicuramente colpì anche l'Arabia occidentale, dove causò la distruzione di un esercito etiopico in marcia verso la Mecca tra il 540 e il 546 d.C.
A questi fattori ambientali si aggiunsero la conquista araba dell'Egitto nel 647 e la successiva espansione araba lungo le coste africane del Mar Rosso, in particolare in Eritrea e in Somalia nell'VIII-IX secolo. La penetrazione araba infatti isolò il regno di Aksum dalle vie commerciali marittime che lo collegavano alle regioni del Mediterraneo e dell'Oceano Indiano, indebolendone l'economia e di conseguenza il potere stesso dei sovrani. Inoltre, molto probabilmente popolazioni Begia penetrarono sull'altopiano in Eritrea assoggettando le popolazioni locali nell'VIII secolo, come sembrano suggerire alcune tradizioni orali. Con il declino del regno di Aksum, il centro politico dello stato cristiano si spostò progressivamente verso l'attuale regione del Wollo e successivamente verso lo Shoa settentrionale. Tale processo fu accompagnato dalla progressiva diffusione del cristianesimo dal Tigrè verso l'Etiopia centrale.
Nel XII-XIII secolo un nuovo regno emerse con capitale ad Adafa, nel Lasta, sotto la dinastia Zaguè, che regnò approssimativamente dal 1150 al 1270. Poiché questi sovrani erano di origine Agau (kushita), essi vennero considerati usurpatori dai successivi re della dinastia salomonide di etnia semitica Amhara. In questo periodo il regno cristiano sembra essersi esteso lungo il versante orientale dell'Altopiano Etiopico, dall'Eritrea centrale allo Shoa centro-settentrionale. La storia dei re Zaguè è in gran parte oscura, in quanto le uniche fonti disponibili sono alcuni testi agiografici di epoca posteriore e poche notizie nella Storia dei Patriarchi di Alessandria. Si conoscono comunque i nomi di sei re che sicuramente costituirono questa dinastia: Marara, Tantawidim, Ymrah-Kristos, Harbè, Lalibela, Naakuto Laab, Yitbarak. Il numero dei sovrani tuttavia varia nelle diverse liste reali da cinque a sedici, suggerendo la possibilità che questa dinastia sia apparsa nel X secolo e abbia regnato per circa trecento anni. Il più noto di questi re fu Lalibela, che venne in seguito considerato santo. Secondo la tradizione etiopica, a questo re si deve la realizzazione del più grande complesso di chiese rupestri dell'Altopiano Etiopico nella località che da lui porta il nome di Lalibela, in prossimità della capitale nel Lasta. Nonostante la successione dei sovrani sembri essere stata spesso conflittuale e determinata da lotte all'interno della corte, il periodo Zaguè fu complessivamente florido e caratterizzato da proficui commerci con le comunità islamiche delle regioni a oriente del regno e da contatti costanti con l'Egitto. In questo periodo, molto probabilmente, si intensificarono anche i contatti con Gerusalemme, dove agli Etiopi vennero apparentemente concesse numerose proprietà da Salah ad-Din, dopo la sua conquista della città nel 1189.
Secondo le tradizioni arabe i primi contatti tra la popolazione cristiana del regno di Aksum e i musulmani risalirebbero al tempo stesso del profeta Muhammad, quando un re aksumita avrebbe accolto tra il 615 e il 628 un gruppo di seguaci della nuova religione che si sarebbero recati in Etiopia per sfuggire a persecuzioni in patria. Nonostante questi primissimi contatti fossero stati amichevoli, le relazioni tra il regno di Aksum e gli Arabi si sarebbero deteriorate rapidamente con conflitti per il controllo del commercio marittimo lungo il Mar Rosso tra la seconda metà del VII e la prima metà dell'VIII secolo, nel corso dei quali Aksum avrebbe progressivamente perso il suo predominio e comunità musulmane si sarebbero insediate sulla costa africana.
I primi avamposti della penetrazione islamica lungo le coste del Corno d'Africa furono il porto di Badi, che fu il maggiore scalo musulmano sulla costa africana del Mar Rosso meridionale alla fine del I millennio a.C., e le Isole Dahlac, di fronte alla costa eritrea. Il porto di Badi è attestato infatti tra la metà dell'VIII e il XII secolo, con un periodo di maggiore importanza tra il 750 e il 1100 d.C. durante i califfati omayyadi e abbasidi. L'ubicazione di questo porto è ancora incerta. Per lungo tempo esso è stato identificato con l'isola di Massaua, ma oggi sembra più probabile che Badi fosse localizzato sulla piccola isola di al-Rih, a sud del delta del Barka, dove sono stati scoperti resti di un abitato antico, tra cui alcune stele funerarie islamiche datate tra il 997 e il 1037 d.C. La maggiore delle Isole Dahlac, Dahlac Kebir, venne usata come luogo di detenzione ed esilio dai califfi omayyadi e successivamente abbasidi tra l'VIII e la prima metà del IX sec. d.C.
Queste isole rientrarono nella sfera di influenza etiopica nel corso del IX secolo e infine in quella yemenita nel X secolo, diventando sede di un sultanato nell'XI secolo. Testimonianza di questa più antica occupazione musulmana sono numerose stele con iscrizioni funerarie rinvenute nella necropoli di Dahlac Kebir e datate tra il X e il XVI sec. d.C. È possibile tuttavia che comunità islamizzate, forse di origine Beja, fossero penetrate dal Sudan orientale nei bassopiani al confine con l'Eritrea già in epoca altomedievale. Necropoli con un tipo particolare di tombe identificabili con forme arcaiche di tombe a qubba islamiche, datate tra il IX e l'XI secolo, sono state infatti segnalate lungo la valle del Barca. Sembra infine che l'Islam si sia progressivamente diffuso verso le regioni interne del Corno d'Africa lungo la Rift Valley a partire dalla fine del IX secolo. Tradizioni arabe ricordano la fondazione di un sultanato nello Shoa (Etiopia centrale) nell'897 d.C. Questo sultanato, la cui capitale Walalah non è stata ancora identificata, sarebbe prosperato soprattutto nel XII e XIII secolo. Inoltre, la presenza di una necropoli islamica con stele funerarie databili tra la fine del X e il XII secolo a Quiha, sull'altopiano del Tigrè (Etiopia settentrionale), lungo il margine del Rift, indica che comunità islamiche erano penetrate sull'altopiano alla fine del I millennio d.C.
L'islamizzazione delle regioni costiere in Somalia sembra essersi consolidata nell'XI-XII secolo. L'isola di Zeila, ubicata di fronte alla costa della Somalia settentrionale, si affermò come importante centro commerciale musulmano nell'XI secolo e rimase prospera fino al XIV secolo. Mogadiscio venne forse fondata dagli Arabi nel VII secolo, ma raggiunse una maggiore prosperità nel XIII. Poco o nulla si sa della storia delle popolazioni delle regioni interne del Corno d'Africa tra la fine del I e gli inizi del II millennio. Fonti arabe suggeriscono che gli Afar occupavano la Dancalia nel XIII secolo e che gran parte dell'attuale Somalia era abitata da popolazioni Bantu.
Il Corno d'Africa tra il XIV e il XVI sec. d.C. - Alla fine del XIII secolo, i re Zaguè vennero sostituiti da sovrani Amhara, originari dello Shoa settentrionale, che fondarono la dinastia salomonide. Il fondatore della nuova dinastia fu Yikunno-Almaq, che regnò dal 1270 al 1285. Altri sovrani particolarmente importanti di questo periodo furono Amda Siyon (1314-44), che condusse numerose campagne contro i sultanati musulmani dell'Etiopia orientale, e Zara-Yaqob (1433-68), il cui regno fu caratterizzato da forti fermenti religiosi. I primi sovrani di questa dinastia avviarono una politica di espansione territoriale verso sud, sud-ovest, est e sud-est, fino a includere nel regno cristiano gran parte dell'altopiano, dall'Eritrea settentrionale all'Etiopia centro-meridionale, creando così il primo impero etiopico ed entrando in diretto conflitto con i sultanati musulmani che si erano consolidati nell'Etiopia orientale. Questo processo di espansione territoriale fu accompagnato e in parte preceduto dall'evangelizzazione progressiva della regione.
Nel corso del XIV e XV secolo si intensificarono anche i contatti tra il regno cristiano e l'Europa. Tali contatti culminarono con l'invio di un'ambasciata etiopica al Papa e al regno di Aragona nel 1450 da parte del re Zara Yaqob e con quello di un'ambasciata portoghese in Etiopia nel 1520, durante il regno del re Lebna Dengel (1508-40). A quest'ultima partecipò Francisco Alvarez, che per primo descrisse i monumenti antichi ad Aksum e Lalibela. Aspetto importante del regno cristiano in questi secoli fu l'assenza di una capitale stabile. I sovrani infatti si muovevano continuamente con la corte e l'esercito, stabilendo di volta in volta la loro residenza nelle diverse regioni in grandi accampamenti temporanei. Al centro venivano erette due cinte concentriche, nella più interna delle quali si trovavano le tende per l'alloggio del sovrano. Questa cinta era separata da quella esterna con tende o palizzate. Nello spazio tra la cinta esterna e quella interna venivano erette le tende dei membri della corte e quella del patriarca. Entrambe le cinte avevano un ingresso principale a ovest e altre 12 entrate disposte a intervalli regolari lungo il perimetro. Esternamente vi erano a nord e a sud gli accampamenti militari e a ovest le tende usate come corti di giustizia, prigioni e chiesa. Attorno a questo nucleo centrale si estendeva infine tutto l'agglomerato di tende del seguito della corte.
L'esistenza di sultanati musulmani nell'Etiopia orientale e centrale è attestata da fonti sia arabe sia cristiane, in particolare le cronache reali. Secondo queste fonti il sultanato dello Shoa sarebbe stato inglobato alla fine del XIII secolo nel più vasto sultanato di Ifat, esteso su gran parte dell'Etiopia orientale e in Somalia settentrionale, le cui origini sono incerte. La capitale di questo sultanato era localizzata inizialmente a Ifat, nell'entroterra di Zeila. Nel 1415 essa venne spostata ad Adal e successivamente, nel XVI secolo, a Harar. Le evidenze archeologiche di queste comunità sono costituite principalmente da numerose tracce di insediamenti islamici, databili al XIV-XVI secolo, nella Somalia settentrionale e nell'Afar meridionale. Si tratta di abitati urbani posti sulla sommità di colline e protetti da mura di cinta di pietre che attestano la prosperità di queste comunità musulmane. Tra il XIV e il XV secolo prosperarono anche le comunità musulmane stanziate lungo la costa somala. Centri più importanti erano infatti Zeila, che costituiva il porto del sultanato di Ifat, Mogadiscio e Merka.
A partire dal XIV secolo le fonti testuali danno anche alcune informazioni sulle popolazioni che abitavano le altre regioni interne del Corno d'Africa. Sono comunque notizie molto generiche che suggeriscono l'esistenza di comunità pagane, talvolta con società complesse rette da capi, stanziate ai margini del regno cristiano e spesso incorporate in esso. Le regioni interne della Somalia sembrano essere state ancora in gran parte abitate da una popolazione di lingua Bantu, gli Zendj, in diretto contatto con gli Arabi della costa. Il XVI secolo fu infine un periodo di grandi sconvolgimenti nel Corno d'Africa. Esso fu caratterizzato dallo scontro tra il sultanato di Adal e il regno salomonide, con conseguente invasione del territorio cristiano da parte dei musulmani sotto la guida dell'imam Ahmad ibn Ibrahim al-Ghazi detto "il Mancino", che tra il 1527 e il 1541 devastò gran parte del regno fino alla sua sconfitta da parte del re Galawdewos con l'aiuto dei Portoghesi. Questo lungo conflitto indebolì entrambi i contendenti, aprendo la via all'espansione degli Oromo che entrarono così nella storia della regione.
Gli inizi dell'età moderna (XVII-XVIII sec. d.C.) - La penetrazione ottomana lungo il Mar Rosso e portoghese nell'Oceano Indiano nel corso del XVI secolo e l'insediamento di una missione cattolica di gesuiti nell'Etiopia settentrionale alla fine di questo secolo segnarono l'inizio dell'età moderna nel Corno d'Africa.
Dopo la sconfitta dell'imam Ahmad il regno cristiano, benché ridotto di estensione in seguito alle invasioni Oromo, si riconsolidò e nel 1636 il re Fasilidas stabilì una nuova capitale a Gondar, a nord del Lago Tana. Il regno iniziò a declinare nuovamente nella prima metà del XVIII secolo e quando l'esploratore scozzese J. Bruce visitò Gondar tra il 1770 e il 1773 esso stava entrando in un periodo di debolezza e crisi interna, che si concluse nel 1855 con l'avvento al trono dell'imperatore Tewodros. Nonostante le lotte intestine e i conflitti che continuarono a dilaniare il regno cristiano, il periodo di Gondar fu caratterizzato da un notevole sviluppo culturale che si manifestò soprattutto nell'arte e nell'architettura civile e religiosa, di cui restano importanti testimonianze quali, ad esempio, i palazzi reali. Nel XVI secolo iniziò anche il declino progressivo di Harar, in seguito sia alle guerre con il regno cristiano sia alle invasioni Oromo che occuparono parte dell'Ogaden. La città tuttavia rimase un importante centro di irradiamento dell'Islam fino al XIX secolo. Il XVII e il XVIII secolo, infine, furono un periodo di progressivo declino delle comunità musulmane costiere della Somalia, in seguito agli scontri tra Turchi e Portoghesi per il controllo del commercio nell'Oceano Indiano e la conseguente presenza inglese e francese che porterà alla colonizzazione nel XIX secolo.
La prima notizia dell'esistenza di monumenti medievali risalenti al periodo Zaguè si trova nella descrizione del viaggio compiuto in Etiopia tra il 1520 e il 1527 da Francisco Alvarez quale cappellano dell'ambasciata portoghese presso il re Lebna Dengel. Alvarez venne infatti invitato dal Papa a fornire una relazione completa su quanto aveva visto e appreso durante la sua permanenza nel paese. Questa relazione venne pubblicata nel 1540 col titolo Ho Preste Ioam das Indias. Verdadera informaçam das terras do Preste Ioam, segundo vio y escreveo ho Padre Francisco Alvarez. In essa il sacerdote portoghese menziona il grande complesso di chiese rupestri a Lalibela, nel Lasta (Wollo), che tuttora costituiscono una delle maggiori aree archeologiche del Corno d'Africa. Questo vasto centro sacrale venne nuovamente visitato nel 1868 dal viaggiatore tedesco G. Rohlfs, che descrisse brevemente le chiese rupestri tentando di stabilire una sequenza cronologica approssimativa di questi monumenti e segnalando la presenza di altri edifici antichi nella stessa regione. Le chiese di Lalibela vennero successivamente visitate da A. Raffray e G. Simon. In particolare, Raffray descrisse, sia pure in modo incompleto, queste chiese nell'album Eglises monolithiques de la ville de Lalibela e nel volume Voyage en Abissinie, pubblicati a Parigi nel 1882. Questi lavori servirono a far conoscere a un pubblico più vasto questi monumenti considerati fino ad allora misteriosi. Raffray, tuttavia, propose una datazione del tutto erronea di questi monumenti al V-VI sec. d.C., ossia anteriore di circa 700 anni rispetto alla loro antichità reale.
Agli inizi del XX secolo, C. Conti Rossini pubblicò la prima descrizione di monumenti islamici antichi in Eritrea in un articolo apparso nel 1903 nei Rendiconti della Reale Accademia dei Lincei. Si tratta di torri quadrate e a gradini con l'interno a volta conica, tradizionalmente attribuite ai Furs (Persiani), localizzate lungo la valle del Barca. Nello stesso articolo l'etiopista italiano dette anche notizia di numerose incisioni rupestri di età storica, rappresentanti dromedari, cavalli e figure umane molto schematiche, visibili nella stessa regione. Alla spedizione tedesca ad Aksum (DAE) del 1905-1906, diretta da E. Littman, si deve invece la prima descrizione dettagliata a opera dell'architetto D. Krenkcker di due chiese medievali costruite in muratura: la chiesa del monastero di Debra Damo nell'Agamè (Tigrè), che costituisce l'unica chiesa medievale intatta sopravvissuta fino ai nostri giorni, e la chiesa antica di Asmara, oggi purtroppo distrutta. Alla stessa spedizione si deve anche il rilevamento abbastanza preciso della chiesa di Maryam Sion ad Aksum del periodo di Gondar.
Sempre nei primi anni del Novecento venne avviata anche l'esplorazione archeologica dell'Etiopia centrale e meridionale e della zona di confine tra l'Eritrea e il Sudan. Nel 1904 V. Chollet e H. Neuville rilevarono le stele megalitiche del Soddo, in particolare nei siti di Tiya e Seden, fornendo in un articolo apparso nel 1905 nel Bulletin de la Société Philomatique de Paris una prima informazione abbastanza precisa su questi monumenti fino ad allora praticamente sconosciuti. In questo lavoro gli studiosi francesi sottolinearono il carattere assolutamente originale delle stele decorate con figure scolpite a rilievo, che aprivano un campo completamente nuovo per la conoscenza del passato dell'Etiopia. Ulteriori notizie su queste stele vennero successivamente fornite da F.-J. Bieiber nel 1905, da L. de Castro nel 1907 e da M. Cohen nel 1911. Nel 1907 J.W. Crowfoot effettuò una ricognizione lungo la costa del Mar Rosso, tra Tokar e il confine eritreo, spingendosi anche nell'interno lungo la valle del Barca, in territorio sudanese. I risultati di queste indagini furono pubblicati in un articolo apparso nel Geographical Journal del 1911. Sulla costa l'archeologo inglese notò la presenza di cisterne antiche ‒ forse di età medievale ‒ a Bahdur e di resti di un porto islamico antico, identificabile forse con Badi, sull'isola di al-Rih.
Dopo un'interruzione dovuta allo scoppio della prima guerra mondiale, l'esplorazione dei monumenti megalitici in varie regioni dell'Etiopia orientale, centrale, occidentale e meridionale riprese negli anni Venti a opera di un missionario francese, F. Azäis. I risultati di queste ricerche vennero pubblicati a Parigi nel 1931 nell'opera Cinq années de recherches en Éthiopie, in collaborazione con R. Chambard. Nella regione tra Harar e Dire Dawa (Etiopia orientale) Azäis segnalò due tumuli, oggi datati a epoca medievale. Nell'Etiopia centrale, occidentale e meridionale lo studioso francese segnalò invece numerosi campi di stele megalitiche, localizzati soprattutto nelle regioni del Soddo, di Guraghè e Sidamo. Queste scoperte ebbero grande importanza, in quanto attirarono l'attenzione degli studiosi sulla presenza in Etiopia di culture con manifestazioni megalitiche simili a quelle europee. Tra il 1931 e il 1934 lo studioso inglese A.T. Curle condusse alcune indagini nel territorio di Hargeisa e presso Zeila, nella Somalia settentrionale, dove segnalò resti di villaggi islamici del XV-XVI secolo con monete egiziane e vasellame cinese, indizio della fiorente attività commerciale di queste popolazioni.
Le ricerche si intensificarono alla fine degli anni Trenta, dopo l'occupazione italiana dell'Etiopia. Nel 1937 Conti Rossini individuò un cimitero islamico antico nell'Enderta (Tigrè) ed E. Rossi esaminò alcuni monumenti islamici sulle Isole Dahlac. Nel 1939 A. Monti della Corte esplorò insieme all'architetto e pittore L. Bianchi Barriviera le chiese rupestri di Lalibela, rapidamente visitate negli anni Venti anche dalla viaggiatrice inglese R. Forbes. In questa occasione Bianchi Barriviera effettuò un rilevamento completo di queste chiese rupestri, che costituisce tuttora la base essenziale per il loro studio. Negli stessi anni Monti della Corte condusse la prima indagine sistematica dei palazzi reali (i cosiddetti "castelli") di Gondar. Tra il 1937 e il 1944 fu in Etiopia anche A. Mordini, quale responsabile del Servizio Etnografico dell'Africa Orientale Italiana; a lui si devono la scoperta dei resti di alcune chiese medievali in muratura in Eritrea e uno studio più dettagliato della chiesa di Debra Damo.
Dopo la seconda guerra mondiale un contributo di grande rilievo allo studio delle chiese rupestri venne dato da D. Buxton, che rilevò e classificò numerosi monumenti nell'Etiopia settentrionale, oltre a quelli di Lalibela, e suggerì una loro prima classificazione e datazione tra il X e il XV secolo. I risultati delle ricerche vennero presentati in una serie di articoli apparsi sulla rivista Archaeologia della Società degli Antiquari di Londra nel 1946, 1947 e poi anche nel 1971. Nel 1948 fu nel Tigrè anche l'architetto inglese D. Matthews, con l'incarico da parte dell'imperatore Hailè Selassiè di restaurare la chiesa di Debra Damo. Ciò permise a Matthew di studiare il monumento in tutti i suoi dettagli, completando così i rilevamenti di Krencker e Mordini, e di fornire una descrizione precisa di questa chiesa, che rappresenta una testimonianza preziosa dell'architettura etiopica medievale di tradizione aksumita. Negli anni Cinquanta un residente italiano in Eritrea, G. Puglisi, descrisse alcuni monumenti di epoca islamica sull'isola di Dahlac Kebir.
Un contributo importante allo studio del periodo post-aksumita nell'Etiopia settentrionale venne dato negli anni Sessanta da H. de Contenson e F. Anfray, che segnalarono numerosi siti altomedievali nella regione di Aksum (Tigrè) e Matara (Akkelè Guzai), pubblicando le prime evidenze ceramiche databili tra la fine del I e gli inizi del II millennio a.C. Numerosi siti post-aksumiti vennero quindi identificati agli inizi degli anni Settanta nella regione di Aksum da una missione americana, diretta da J. Michels, e da una missione italiana, diretta da L. Ricci. Un contributo molto importante alla conoscenza delle chiese rupestri venne dato nei primi anni Settanta dall'archeologo francese C. Lepage, che esaminò e classificò metodicamente tutte le chiese rupestri del Tigrè, in particolare nel massiccio del Gheralta a nord di Macale. Qui Lepage distinse due tipi di chiese: chiese a valle e chiese su altura. Le prime, databili al X-XIII secolo, erano scavate in collinette rocciose al centro di valli; le seconde, databili al XIII-XV secolo, erano scavate sulla sommità o sui fianchi di montagne in posizioni spesso difficili da raggiungere. Esse erano decorate con numerose pitture in stile paleocristiano o bizantino, simile talvolta a quello delle pitture nelle chiese nubiane del X-XIII secolo. Alla fine degli anni Settanta venne anche condotta dall'archeologo inglese R. Wilding una ricognizione lungo il margine orientale della Rift Valley, in Etiopia, nel corso della quale vennero segnalati numerosi insediamenti di epoca islamica. Contemporaneamente Anfray riprese con la collaborazione di E. Godet lo studio sistematico dei monumenti megalitici del Sud, pubblicando nel 1982 sulla rivista Annales d'Éthiopie il primo censimento completo di questi monumenti. Negli stessi anni G. Oman e M. Schneider pubblicarono separatamente numerose iscrizioni su stele funerarie dei primi secoli dell'Egira a Dahlac Kebir. Nel corso degli anni Ottanta l'archeologo inglese N. Chittick condusse scavi nel quartiere medievale di Hamar Weyn, a Mogadiscio, e lo svedese S. Jönsson effettuò una ricognizione in Somalia segnalando numerosi insediamenti di epoca islamica. Negli stessi anni, e successivamente negli anni Novanta, R. Joussaume condusse scavi sistematici sui siti di Tiya (Etiopia centrale) e Tuto Fela (Etiopia meridionale), che hanno permesso di comprendere meglio il significato e l'età delle stele megalitiche del Sud.
Espansione del regno cristiano - Dal punto di vista archeologico il periodo medievale, corrispondente alla progressiva espansione del regno cristiano dall'Etiopia settentrionale a quella centrale tra l'VIII-IX e il XV secolo, viene definito genericamente periodo "post-aksumita", in quanto caratterizzato da un tipo di ceramica marrone scura o nera decorata con croci, che deriva da quella aksumita più antica ed evolve nel tempo verso le forme tipiche del vasellame tradizionale prodotto dalle popolazioni etiopico-semitiche cristiane attuali. Questa ceramica, di fattura sempre più grossolana, comprende grandi vassoi che suggeriscono un maggior consumo di injera (il pane tradizionale etiopico) fatto con un cereale locale, il teff. Nella regione di Aksum i siti in cui questa ceramica è presente sono stati datati al radiocarbonio tra l'VIII e il XIII secolo. Essi attestano il riemergere dopo il declino di Aksum di una società rurale caratterizzata da piccoli villaggi e casolari sparsi. Le capanne presentavano una pianta quadrangolare o circolare simile a quella delle abitazioni tradizionali tigrine attuali.
Finora il processo di espansione dello stato cristiano dall'Etiopia settentrionale a quella centrale in epoca medievale non è stato oggetto di indagini archeologiche sistematiche. Al di fuori della regione di Aksum, infatti, siti post-aksumiti sono stati segnalati soltanto nell'Eritrea centrale e nel Tigrè settentrionale, ma nessuno di essi è stato a tutt'oggi scavato. Inoltre pochissimi sono i resti di edifici databili a questo periodo. Secondo la tradizione, ciò sarebbe dovuto alle distruzioni compiute nella prima metà del XVI secolo dagli invasori musulmani originari dell'Etiopia orientale sotto la guida dell'imam Ahmad ibn Ibrahim al-Ghazi, detto Gragn ("il Mancino"). All'inizio dell'epoca medievale (X-XI sec.) risale comunque una chiesa costruita in muratura a Debra Damo (Tigrè), che costituisce uno dei pochissimi esempi di edifici di tradizione aksumita conservatisi fino a oggi. Essa presenta una pianta di tipo basilicale e ha le mura perimetrali a sporgenze e rientranze e rinforzate con le tipiche "teste di scimmia" secondo i canoni dell'architettura aksumita più antica. Il soffitto del vestibolo era decorato con pannelli di legno scolpiti, che costituiscono una delle pochissime evidenze di arte altomedievale etiopica.
Resti di altre 14 chiese in muratura, databili tra il X-XI e il XV-XVI secolo, sono stati segnalati sull'Altopiano Tigrino e nel Lasta, ad Asmara, Dera, Aramo, Baraknaha, Ham (Debra Libanos), Gunda Gundiè, Zarema, Yeha, Makina Ledata Maryam e Makina Medhane Alem, Yemerhanna Krestos, Jammadu, Argobo Tcherqos. Due di esse (Asmara e Yeha) sono state distrutte nei primi decenni del XX secolo. Purtroppo solo alcune di queste chiese sono state visitate e descritte anche all'interno. In genere, esse presentano una pianta di tipo basilicale con vestibolo, tre navate e santuario con abside rettangolare. All'ingresso del santuario vi è spesso un arco trionfale e l'abside è sempre coperta da una volta costruita con un'armatura lignea. La navata centrale è di solito più alta di quelle laterali ed è separata da queste da pilastri lignei ad angoli smussati che sorreggevano mensole su cui poggiavano gli archi. Spesso lungo le navate tra gli architravi e il soffitto si sviluppa un fregio di metope quadrate a teste di scimmia di sicura tradizione aksumita. Soltanto le chiese di Zarema e Jammadu, a pianta cruciforme, si discostano dal modello generale. La chiesa di Zarema presenta pianta basilicale a tre navate con abside, affiancata da due locali, e con due corpi aggettanti esterni all'altezza della terza campata. Non si può escludere l'esistenza in origine di una controabside sul lato occidentale. La chiesa di Jammadu ha pianta quadrata a tre navate, con atrio e abside rettangolari posti sul prolungamento della navata centrale e aggettanti rispetto al corpo dell'edificio.
In base a criteri stilistici si possono distinguere tre gruppi principali di chiese in muratura: 1) chiese con evidenti elementi strutturali e decorativi di diretta derivazione aksumita, che potrebbero risalire all'VIII-XI secolo (Asmara, Dera, Ham, Debra Damo, Zarema); 2) chiese in cui gli elementi aksumiti sono ridotti a semplici motivi ornamentali e che presentano somiglianze con quelle rupestri di Lalibela, databili presumibilmente al XII-XIII secolo (Aramo, Yemerhanna Krestos, Makina Medhane Alem); 3) chiese prive di evidenti elementi aksumiti e databili al XIV-XV/XVI secolo (Yeha, Gunda Gundiè, Jammadu). Soltanto le chiese rupestri sono state studiate in modo più sistematico; tali chiese sono infatti l'espressione più spettacolare dell'architettura medievale etiopica. Esse sono state segnalate in numerose località, dall'Eritrea e dal Tigrè al Bale e al Kaffa. Le chiese rupestri più antiche sembrano concentrarsi nel Tigrè, soprattutto nel massiccio del Gheralta, e nel Lasta, a Lalibela.
Il complesso più imponente è localizzato a Lalibela, presso Roha, l'antica capitale dei re Zaguè. Qui sono visibili 12 tra chiese e cappelle, che formano due gruppi separati da un torrente. Il primo gruppo comprende le chiese di Beta Medhane Alem, Beta Masqal, Beta Maryam, Beta Debra Sina, Beta Golgota e la Cappella della Trinità (Sellase). Il secondo gruppo comprende Beta Amanuel, Beta Abba Libanos, Beta Merkurios, Beta Gabrael Rufael e Beta Lehem. A esse va aggiunta Beta Giyorgis, che rimane separata dalle altre. Questo complesso, databile verosimilmente a epoca Zaguè, aveva lo scopo di riproporre l'impianto di Gerusalemme sull'Altopiano Etiopico.
Nel loro insieme, le chiese rupestri possono essere suddivise in quattro tipi principali: 1) chiese ipogee, interamente scavate nelle pareti rocciose di una montagna; 2) chiese monolitiche, sagomate in un unico blocco roccioso isolato dal resto della montagna con profonde trincee e scolpito internamente ed esternamente in modo da riprodurre fedelmente tutte le strutture e decorazioni di una chiesa; 3) chiese semimonolitiche, in parte sagomate in un blocco di roccia, come le precedenti, e in parte scavate nella parete della montagna; 4) chiese semirupestri, in parte costruite in muratura e in parte scavate nella parete della montagna. La maggior parte di queste chiese è scavata in pareti rocciose di difficile accesso. Alcune, però, nel Tigrè sono scavate in collinette rocciose al centro di aree pianeggianti (ipogei di Degum, Hauzien, Berakit; semimonoliti di Abreha e Asbeha e di Tcherqos Weqro). Esse perciò vengono raggruppate in una categoria distinta di "chiese a valle".
In genere, le chiese rupestri ripetono, adattandola alle esigenze dei singoli casi, la struttura di edifici a pianta basilicale con atrio affiancato da due vani, vestibolo, aula a tre navate e santuario con abside rettangolare o rotonda con due vani laterali. Solo la chiesa monolitica di Medhane Alem ("Salvatore del Mondo") a Lalibela ha un'aula a cinque navate. Essa riproduce molto probabilmente la chiesa aksumita di Maryam Sion ad Aksum, di cui oggi non restano che poche tracce delle fondamenta. Da questo schema si discosta il piccolo gruppo di chiese a valle del Tigrè. Gli ipogei di Degum, Hauzien e Berakit presentano un primo vestibolo, più largo che profondo, da cui si accedeva a una sala rettangolare con pilastri addossati alle pareti, seguita da un terzo vano ‒ rettangolare a Degum, emisferico a Berakit ‒ che dava accesso a due o più locali laterali. L'entrata di questi monumenti era dissimulata da un atrio semirupestre. I semimonoliti di Abreha e Asbeha e di Tcherqos Weqro presentano invece una pianta cruciforme inserita in un ambiente quadrato. Infine, la chiesa monolitica di Beta Giyorgis a Lalibela presenta pianta cruciforme. Nel loro insieme le chiese rupestri riproducono tutte le strutture di quelle in muratura. I pilastri sono in genere a sezione quadrata o cruciforme, con capitelli cubici o a mensola. Le porte riproducono quelle a teste di scimmia di età aksumita. Le finestre, talvolta a teste di scimmia, presentano transenne elaborate con croci, svastiche, archi a tutto tondo o a fiamma su mensola. I soffitti sono a cassettoni con riquadri incrociati. I fregi lungo le navate sono a metope quadrate con teste di scimmia. Frequenti sono gli archi e le volte.
La datazione delle chiese rupestri etiopiche è incerta. Tuttavia, le tradizioni locali e le caratteristiche stilistiche dei singoli monumenti permettono di tracciare approssimativamente la loro sequenza cronologica. Le tradizioni locali attribuiscono la fondazione di queste chiese a sovrani e santi vissuti tra il VI e il XV secolo. Ovviamente tali attribuzioni non sono probanti. Va notato tuttavia che le chiese attribuite ai personaggi più antichi presentano evidenti caratteristiche di diretta derivazione aksumita e potrebbero perciò effettivamente risalire alla fine del I millennio. In particolare, le tradizioni concordano nell'attribuire ai re Zaguè il complesso di chiese rupestri di Lalibela.
Secondo lo studioso inglese D. Buxton, le chiese rupestri potrebbero essere suddivise in cinque gruppi: 1) basiliche arcaiche, caratterizzate da numerosi elementi di tipo aksumita, databili al X-XI secolo; 2) chiese a pianta cruciforme in un ambiente quadrato, databili all'XI-XII secolo; 3) basiliche classiche, comprendenti alcune chiese di Lalibela, databili al XII-XIII secolo; 4) basiliche tigrine arcaiche, databili al XIII-XIV secolo; 5) basiliche tigrine tarde, databili al XIV-XV secolo. Gli ultimi due gruppi comprenderebbero, secondo lo studioso, la maggior parte delle chiese rupestri segnalate nel Tigrè. Esse sarebbero caratterizzate dal progressivo inaridirsi della tradizione architettonica aksumita e da un numero sempre maggiore di volte. Non è escluso tuttavia che alcune chiese a valle del Tigrè siano più antiche e possano risalire al IX-XI/XII secolo, come è stato suggerito da C. Lepage che le ha accuratamente esaminate. Nel complesso le chiese medievali etiopiche, sia in muratura sia rupestri, si ricollegano direttamente alla tradizione aksumita, di cui mantengono numerose caratteristiche strutturali. Questa, a sua volta, è riconducibile a modelli bizantini soprattutto di ambiente siriaco. Resta tuttavia oscura l'origine delle chiese rupestri. Secondo alcuni studiosi, tra cui Conti Rossini, esse potrebbero derivare da un'antichissima tradizione religiosa locale con luoghi di culto in grotte. Non si può escludere tuttavia una relazione con le cappelle bizantine scavate nella roccia.
Nessuna evidenza sicura delle residenze dei re di età medievale è stata ancora messa in luce, anche se tradizioni orali raccolte a Lalibela indicano le località dove sorgevano i palazzi dei re Zaguè. Le uniche tracce di un possibile accampamento reale, attribuito al re Bä-Eda (1468-1478), sono state individuate sul sito di Mashala Maryam nel Manz (Shoa settentrionale), in prossimità di una chiesa che si ritiene fondata nel XV secolo. Le indagini qui condotte hanno infatti individuato i resti di circa 40 strutture lineari, circolari o ellittiche, tra cui alcune tradizionalmente interpretate come gli appartamenti reali del sovrano.
Il periodo di Gondar, infine, è ben rappresentato dai palazzi eretti nella capitale dai sovrani del XVII e XVIII secolo e da numerose chiese sparse nella regione circostante il Lago Tana. Tutti questi edifici sono costruiti in uno stile particolare, detto "gondariano", che apparve agli inizi del XVI secolo e rimase in uso fino alla fine del XVIII secolo. Esso è caratterizzato da mura costruite con blocchetti di pietra esposti sulla faccia esterna, intonacati all'interno e sostenuti da supporti di legno che rinforzavano la struttura. Gli edifici presentavano spesso balconi sostenuti da travi di legno e agli angoli erano erette torrette quadrate o circolari con una copertura a cupola. In questo periodo le chiese a pianta di tipo basilicale vennero definitivamente sostituite da quelle a pianta circolare, che molto probabilmente riproduceva la pianta delle abitazioni. Le chiese pertanto presentano una struttura tripartita con al centro un locale quadrato (maqdas) corrispondente al presbiterio con l'altare, circondato da un corridoio circolare interno (qeddest) destinato al clero e alla distribuzione dell'eucaristia e da un secondo corridoio esterno (qene mahlet) destinato ai cantori e al popolo.
Espansione dell'Islam - La documentazione archeologica delle prime fasi di penetrazione dell'Islam nel Corno d'Africa tra la fine del I e gli inizi del II millennio è ancora scarsa. Le testimonianze più antiche sono state segnalate sulle isole di al-Rih, di fronte alla baia di Aqiq lungo la costa sudanese al confine con l'Eritrea, e di Dahlac Kebir, di fronte a Massaua. Sull'isola di al-Rih sono state segnalate le rovine di un porto antico con tracce di un insediamento e di una necropoli. Nell'area dell'abitato sono visibili i resti di case e cisterne. Le case avevano dimensioni diverse ed erano costruite con blocchi di corallo. Quelle di dimensioni maggiori probabilmente servivano come magazzini o edifici pubblici. Nella necropoli sono state rinvenute molte iscrizioni databili al III-IV secolo dell'Egira (IX-XI sec. d.C.). Numerose iscrizioni databili agli stessi secoli sono state inoltre segnalate sulla costa, lungo la baia di Aqiq. A Dahlac Kebir sono visibili i resti di un vasto abitato, che venne in apparenza occupato fino a epoca relativamente recente, e diverse cisterne attribuite tradizionalmente ai Furs (Persiani), alcune delle quali con copertura ad arco inflesso. Sulla stessa isola sono state anche segnalate numerose tombe delimitate da lastre infisse nel terreno e attribuite ai Furs, due tombe monumentali a qubba e una necropoli con stele iscritte databile tra il X e il XVI sec. d.C.
Tombe a qubba arcaiche sono anche visibili in numerose località lungo le valli del Barka e dell'Anseba, al confine tra il Sudan e l'Eritrea. Esse sono state segnalate ad Assarema Darheib, Gebel Maman, Gebel Sangadeieb, Khor Seieb, Khor Odareb, Khor Dageint, Adarmish, Gebel Hambolaieb, Carcabat, Adardè e Dura Tahat. Si tratta di strutture monumentali, in genere a pianta quadrata e talvolta a due piani, con una volta conica interna. Nella necropoli di Gebel Maman, lungo la media valle del Barka, all'interno delle tombe sono visibili piccoli tumuli di pietra che coprono fosse scavate nella roccia. L'età di queste strutture è incerta. Sembra tuttavia che esse risalgano al IX-XI secolo. Esse confermano la presenza di comunità islamizzate in questa regione e una loro possibile penetrazione verso l'Altopiano Etiopico direttamente dal Deserto Orientale. Tracce di insediamenti islamici, databili al XIV-XV secolo, sono state inoltre individuate lungo la Rift Valley, sia nella valle dell'Awash (Tukur Beret, Kulai, Dofan, Fantale) sia sull'altopiano presso Harar (Boko, Lange, Djogola, Bio Harla, Bio Caraba, Kadana). Si tratta di villaggi spesso posti sulla sommità di colline e difesi da cinte murarie, cui erano associate necropoli. La ceramica raccolta in alcuni di questi siti presenta comunque alcune analogie con quella post-aksumita. Ad Harar, infine, sono ancora visibili alcuni tratti delle mura di cinta antiche.
Resti di approdi islamici sono stati individuati lungo la costa dell'Oceano Indiano in Somalia. In molti casi, tuttavia, si tratta di insediamenti relativamente recenti. Tra i siti antichi vanno menzionati quello medievale nel quartiere vecchio di Hamar Weyn a Mogadiscio e l'abitato di Abai Dakhan, a sud di Mogadiscio, con ceramica monocroma databile al XV-XVI secolo. Siti islamici sono noti anche sull'altopiano nelle regioni interne della Somalia. Tra questi vanno ricordati i siti di Abasa e Maduna, nell'entroterra di Zeila. Ad Abasa sono stati segnalati i resti di una moschea, associati a ceramica del XV secolo. A Maduna sono stati identificati i resti di un vasto abitato con capanne circolari costruite in muratura con pietre a secco e una moschea rettangolare al centro, associate con ceramica presumibilmente del XVIII secolo. A popolazioni islamizzate dell'Oltregiuba in Somalia possono essere invece attribuite le rovine di un insediamento di tipo urbano a Shungwaya, presso Bur Kawo. Queste rovine sembrano risalire al X-XV secolo.
Popolazioni indigene dell'Etiopia orientale e della Somalia - Le tracce delle popolazioni che vennero in contatto con l'Islam nell'Etiopia orientale e nella Somalia sono molto scarse. Alla fine del I millennio d.C. risale una cultura caratterizzata da grandi tumuli funerari individuata nella regione del Tchercher, presso Harar, e attribuibile a una popolazione indigena in contatto con il mondo musulmano, ma apparentemente non ancora islamizzata. Si tratta per lo più di monumenti con un diametro di circa 15 m e con una camera centrale circolare e una cella laterale, che poteva essere costruita direttamente sulla superficie del suolo o in parte scavata nella roccia. Ciascun tumulo conteneva sepolture collettive, con i corpi deposti in compartimenti distinti (da quattro a sei) delimitati da lastre di pietra infisse nel suolo. I corredi funerari comprendevano giare sferiche a collo cilindrico, vasi polipodi e scodelle, nonché collane con elementi di corniola, calcare, vetro, rame, argento e oro, e altri ornamenti personali. La presenza in alcuni tumuli di monete islamiche indica che queste popolazioni avevano contatti con gli Arabi della costa. Alle necropoli erano associati villaggi fortificati con mura ciclopiche, datati con il radiocarbonio all'VIII-X secolo.
Tumuli sono anche molto frequenti lungo la costa e sull'altopiano dell'entroterra somalo, soprattutto in Migiurtinia (Somalia settentrionale). L'età di questi monumenti è spesso ancora incerta. Alcuni tumuli, localizzati in siti al margine della fascia costiera lungo il Golfo di Aden, risalgono sicuramente agli inizi del I millennio d.C., per la presenza in essi di frammenti di vetro romani. Altri sembrano risalire a epoca molto recente, talvolta non più di uno o due secoli fa. Tra questi possono essere ricordate alcune "piattaforme monumentali" di 24 × 17 m e piccole piattaforme all'interno di un muro di cinta nella regione di Alula.
Megaliti del Sud. - La dinamica del popolamento sull'Altopiano Etiopico centrale, occidentale e meridionale anteriormente alla metà del II millennio d.C. è ancora praticamente sconosciuta in termini di evidenza archeologica. Le indagini infatti sono limitate soltanto alla ricognizione, descrizione e classificazione di alcune migliaia di stele funerarie megalitiche "protostoriche" visibili nello Shoa (Etiopia centrale) e nel Sidamo (Etiopia meridionale).
Attualmente sono noti 151 siti con stele decorate nello Shoa. Essi includono quattro tipi di monumenti: a) stele antropomorfe riproducenti in modo molto schematico la parte superiore di una figura umana; b) stele decorate con spade e altri simboli scolpiti a rilievo; c) stele decorate con figure umane "mascherate" scolpite a rilievo; d) stele con decorazioni complesse scolpite a rilievo su entrambe le facce, raffiguranti schematiche figure umane con gli elementi essenziali dell'abbigliamento e dell'acconciatura dei capelli. In particolare, le stele decorate con figure antropomorfe mascherate sono di due tipi distinti: lastre di pietra con figure scolpite a rilievo e stele cilindriche che riproducono una figura umana con testa molto schematica. A esse si aggiungono numerose "stele a tamburo", ossia grandi pietre emisferiche deposte sul terreno. Le stele antropomorfe con elementi dell'abbigliamento si concentrano nella regione del Guraghè. Il sito più rappresentativo è Tiya, a sud-ovest di Addis Abeba. Altri siti di rilievo sono Silte e Harmuffo Dildilla.
Le stele antropomorfe, quelle decorate con spade, quelle con figure umane mascherate e le stele a tamburo si concentrano nella regione del Soddo, a sud di Addis Abeba, dove formano tre gruppi geograficamente distinti: stele antropomorfe a nord, lungo la valle dell'Awash; stele decorate con spade e stele a figure antropomorfe mascherate al centro; stele a tamburo a sud. Queste stele rientrano in un'unica tradizione culturale. La loro età è incerta, ma sembrano risalire al X-XIV sec. d.C. Le più antiche sono le stele del Soddo, che vengono oggi datate al X-XII secolo. Alcune migliaia di monoliti sono state segnalate nel Sidamo settentrionale. Essi possono essere isolati o raggruppati in vasti campi di stele. Si tratta di monoliti cilindrici che rappresentano in modo molto schematico figure umane. Sono stati distinti due tipi principali: stele "falliche" e stele antropoidi. La loro età è incerta; le più antiche tuttavia sembrano risalire alla fine del I millennio d.C. Il sito più rappresentativo è Tuto Fela.
Arte - La civiltà etiopico-semitica cristiana è stata caratterizzata dallo sviluppo a partire dal periodo medievale di un'arte figurativa tipica della regione, che comprende pitture e, molto raramente, rilievi murali in chiese rupestri, dipinti su pergamena in manoscritti e icone. Le pitture su manoscritti non sono comunque vere e proprie miniature, come invece quelle dei manoscritti di tradizione medievale latina e bizantina, in quanto mancano le grandi iniziali arabescate. I temi rappresentati hanno sempre carattere religioso e lo stile è caratterizzato da una fissità ieratica e da temi molto semplici. Sono completamente assenti le sculture, secondo la tradizione cristiana orientale nella quale rientra la Chiesa Ortodossa Etiopica. Anche le rarissime rappresentazioni di santi a bassorilievo, presenti a Lalibela, si staccano appena dalla parete di roccia e molto probabilmente in origine erano dipinte.
Le più antiche attestazioni di arte figurativa sono costituite da alcuni pannelli di legno che decoravano il soffitto del vestibolo della chiesa di Debra Damo nel Tigrè, datata al X-XI secolo, e dalle pitture che ornano il Vangelo d'Oro del monastero di Abba Garima (Tigrè), databili al XII-XIII secolo. Le figure sui pannelli di Debra Damo, in particolare, rappresentano motivi geometrici con croci variamente articolate e figure animali che riflettono possibili influssi dell'arte copta egiziana. Affreschi sono visibili anche sulle pareti di alcune chiese rupestri del Tigrè, databili ai primi secoli del II millennio d.C. Nel XV secolo venne introdotto l'uso di icone dipinte, molto probabilmente in base a modelli greci. Nel XVII-XVIII secolo si affermò infine presso la corte di Gondar un nuovo stile pittorico, detto appunto "gondariano", che risente in parte di influssi occidentali.
Nel suo insieme la pittura etiopica medievale si ricollega chiaramente alla tradizione bizantina, soprattutto siriana, e in parte a quella della Nubia, sia per lo stile figurativo sia per i temi trattati. Essa tuttavia presenta caratteri originali che la distinguono da quella delle altre regioni dell'Oriente cristiano. Questi caratteri sono riconoscibili nelle caratteristiche etniche dei volti, nelle lunghe mani affusolate e nei grandi occhi incavati. La rappresentazione di occhi molto grandi rispetto alle proporzioni del viso, in particolare, costituisce un elemento tipico di tutta l'arte etiopica, dalle origini fino a oggi, e appare già su statue di epoca preaksumita, databili alla metà circa del I millennio a.C. Non è escluso che, come l'architettura, anche la pittura medievale derivi da modelli introdotti in età aksumita. Fonti arabe del VII secolo attestano infatti che la chiesa di Maryam Sion ad Aksum era decorata con affreschi di cui purtroppo non è rimasta alcuna traccia. Essa perciò conferma la capacità delle popolazioni etiopiche di appropriarsi di modelli esterni e di rielaborarli in forme autoctone originali. Le corone dei sovrani e le croci rappresentano un altro aspetto dell'arte medievale etiopica. In particolare le croci presentano una grande varietà di tipi, in cui il motivo fondamentale della croce viene elaborato in forme sempre più articolate e complesse, che attraverso la ripetitività ne accentuano il carattere simbolico.
Manoscritti - La presenza di una tradizione scritta, attestata da numerosi manoscritti spesso decorati con figure dipinte, costituisce un altro aspetto del regno cristiano d'Etiopia. Finora l'esemplare più antico sembra essere il cosiddetto Vangelo d'Oro del monastero di Abba Garima, datato al XII-XIII secolo e pertanto risalente al periodo Zaguè. Su basi paleografiche i manoscritti etiopici antichi vengono suddivisi in cinque gruppi databili rispettivamente alla fine del XIV secolo con una grafia di tipo monumentale; alla prima metà del XV secolo con una grafia più regolare e geometrica; al XV-XVI secolo con una grafia più arrotondata; al XVI-XVII secolo con una grafia sempre più uniforme e regolare e al XVII-XVIII secolo con una grafia molto ornata. Questi manoscritti attestano una ricca letteratura agiografica e annalistica, costituita da vite di santi e cronache reali.
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di Peter J. Mitchell
Il II millennio d.C. fu nella storia dell'Africa Meridionale un periodo di rilevantissimi mutamenti, che furono resi possibili dai progressi registratisi nel corso dei secoli precedenti e costituiti essenzialmente dalle pratiche agricole, dalla lavorazione dei metalli e da forme complesse di organizzazione sociale. Tali importanti innovazioni comprendono la nascita dei primi Stati indigeni, la crescente partecipazione di tali Stati e di molte altre comunità a reti intercontinentali di scambio e la comparsa di forme di cultura materiale (frequentemente definite Later Iron Age) chiaramente connesse con le società di lingua Bantu che occupano attualmente la regione. Anche le comunità di allevatori e di cacciatori-raccoglitori di lingua khoisanide perdurarono per gran parte del II millennio d.C., sebbene successivamente marginalizzate e numericamente ridotte, generalmente come conseguenza della colonizzazione europea. L'insediamento europeo, i cui esordi possono essere rintracciati nei viaggi di scoperta della fine del XV secolo, vide lo stanziamento nel subcontinente di comunità di lingua portoghese, olandese e inglese. Le interazioni di queste ultime con le società africane incontrate e l'apporto fornito da quei gruppi che gli Europei condussero in Africa Meridionale come schiavi aggiunsero ulteriori fili a quel ricco arazzo che è la storia della regione.
Disponendo di fonti scritte che risalgono a poco più di 500 anni fa, spesso riguardanti ambiti territoriali limitati e generalmente opera di un gruppo ristretto di autori europei, l'archeologia ha un ruolo privilegiato nel documentare la complessità di tale storia, gettando luce sul passato dell'intera popolazione odierna dell'Africa Meridionale. Nel far ciò, essa si avvale non solo delle fonti documentarie esistenti, ma anche delle tradizioni orali delle società indigene e dei dati forniti dalla linguistica storica e dalla ricerca paleoambientale. Il prodotto è una testimonianza che ha mutato le ricostruzioni razziste del passato e che potrà nel futuro potenziare le società dell'Africa Meridionale.
Si evidenzieranno qui innanzitutto alcuni tratti della geografia e del clima dell'Africa Meridionale che appaiono di particolare rilevanza per la comprensione della sua archeologia; sarà quindi presentata una sintesi dell'archeologia di tale area sulla base di coordinate geografiche e cronologiche, a partire dalla tradizione Zimbabwe e dai coevi sviluppi verificatisi a nord del fiume Limpopo. Si esamineranno poi le archeologie delle comunità agricole localizzate più a sud, delle società di allevatori stanziate nel terzo occidentale dell'odierna Repubblica Sudafricana e nella Namibia e dei cacciatori-raccoglitori di quest'area e dei settori interstiziali tra gli insediamenti agricoli; infine si tratterà dello studio archeologico dell'esplorazione e dell'insediamento europei, della resistenza dei gruppi indigeni all'espansione europea e delle trasformazioni che tale espansione implicò.
Numerosi tratti della geografia dell'Africa Meridionale aiutano a comprendere il suo passato, il principale dei quali è costituito dalla distribuzione e dalla stagionalità delle precipitazioni. Circa il 90% del territorio a sud dei fiumi Zambesi e Kunene è caratterizzato da estati piovose e da inverni asciutti, con precipitazioni che iniziano a decrescere verso occidente fino ai territori aridi del deserto del Kalahari e del Karoo. Solo nell'estremo Sud-Ovest, dove gli inverni sono umidi e le estati secche, si osserva il modello opposto; tra le due aree vi è una piccola zona di sovrapposizione in cui le precipitazioni possono verificarsi durante tutto il corso dell'anno. Da un lato all'altro del continente le temperature sono relativamente miti, sebbene nelle regioni interne le gelate siano un tratto delle notti invernali; nella stessa stagione le montagne del Drakensberg e del Capo Fold Belt sono spesso innevate. Tali montagne costituiscono la caratteristica più rilevante del rilievo dell'Africa Meridionale, con il Drakensberg facente parte del Great Escarpment, che si estende dagli altopiani della Namibia a occidente ai Monti Chimanimani dello Zimbabwe a est. Verso la costa, le aree di bassopiano sono generalmente strette, eccetto che nel Mozambico e nel KwaZulu-Natal, mentre le regioni interne dell'Africa Meridionale sono occupate da un altopiano lievemente inclinato. I principali sistemi fluviali sono pochi: lo Zambesi, l'Orange/Vaal e il Limpopo costituiscono i più importanti. La scarsità di laghi conferma il fatto che l'Africa Meridionale è un'area del pianeta essenzialmente arida.
I tratti sopra descritti conformano la distribuzione del ricco patrimonio di risorse naturali dell'Africa Meridionale. Gran parte dello Zimbabwe è coperta da una savana boscosa umida che si estende a nord attraverso lo Zambesi, mentre verso sud dominano savane più secche. Alberi e arbusti sono rari nelle più aride regioni occidentali, mentre arbusti nani e foresta spinosa sono predominanti nella gran parte delle province di Limpopo e Mpumalanga, nello Swaziland e nelle aree a bassa altitudine del KwaZulu-Natal e della Provincia Orientale del Capo. Praterie (highveld) coprono l'elevato altopiano centrale della Repubblica Sudafricana, che si estende verso est nelle montagne del Lesotho e del Drakensberg. Più a ovest, le estese pianure del Karoo presentano terreni con arbusti erbosi nani, con molte specie di piante succulente immediatamente nell'entroterra del Cape Fold Mountain Belt, nel Namaqualand e nella Namibia meridionale. Verso nord, il Deserto del Namib si estende lungo la costa atlantica fino all'Angola, mentre il settore sud-occidentale del subcontinente è occupato da arbusti e brughiere (fynbos) che ricordano quelli del Mediterraneo.
Queste regioni sono popolate da una varietà di animali di grande taglia. In termini generali, l'antilope che si nutre di piante erbacee e la zebra dominano i biomi della savana e delle praterie, con specie maggiormente adattate ai climi siccitosi, quali l'antilope saltante (Antidorcas marsupialis), l'orice (Oryx gazella), ecc., comuni nel Karoo e in Namibia. In contrasto, nella regione fynbos e nelle piccole chiazze di foresta sempreverde un tempo presente nell'area di Wilderness/Knysna della Provincia Occidentale del Capo è predominante la più piccola antilope che si nutre di piante arbustive. Allo stesso modo varia la distribuzione delle piante edibili: se gli alberi da frutto sono più frequenti nelle aree di savana boscosa, bulbi, tuberi e altri geofiti dominano nelle aree di prateria e di fynbos e nel Karoo, mentre le Leguminose sono predominanti nel Kalahari e nel deserto della Namibia.
Tavola
Tutti gli abitanti dell'Africa Meridionale sfruttarono queste piante e questi animali selvatici, ma durante gli ultimi mille anni la gran parte dei gruppi era costituita da agricoltori che associavano la coltivazione con il mantenimento di bestiame o da allevatori. La geografia del subcontinente ha profondamente influenzato la praticabilità di questi modi di vita. L'agricoltura precoloniale dipendeva dall'associazione di cereali, quali il sorgo, il miglio perlato e il panico indiano (Eleusine coracana), noci Bambara, fagioli (Vigna unguiculata) e zucche. Il sorgo e il miglio, in particolare, le cui origini si situano nel Sahara o appena più a sud, richiedono temperature calde e precipitazioni durante l'estate. Fu dunque impossibile agli agricoltori espandere tali colture nelle regioni in cui le precipitazioni sono distribuite nel corso dell'anno o nella stagione invernale che coprono il terzo occidentale dell'Africa Meridionale, mentre la siccità fece sì che l'agricoltura fosse impraticabile nella maggior parte della Namibia, del Botswana centro-occidentale e del Capo Settentrionale. La cura del bestiame domestico fu meno influenzata dal clima e agli allevatori di lingua Khoi fu dunque possibile mantenere greggi di pecore e capre, così come mandrie di bestiame, in aree da cui gli agricoltori erano stati esclusi. La regione della Provincia Occidentale del Capo, caratterizzata da precipitazioni invernali, risultava comunque idealmente adatta per la coltivazione di grano e di altri cultigeni europei, ciò che rese questa la prima area dell'Africa Meridionale in cui si sviluppò una consistente comunità di coloni. Anche se il modello sopra descritto è stato tracciato per grandi linee, i mutamenti climatici verificatisi nel corso dell'ultimo millennio sono stati relativamente modesti. In termini generali, le precipitazioni hanno subito un incremento nelle aree con un regime pluviale estivo durante episodi di innalzamento della temperatura, diminuendo sotto condizioni climatiche più fredde. Il clima fu abbastanza più caldo rispetto al presente fino a circa 650 anni fa, e successivamente, dal 1300 al 1800 d.C. circa, più freddo (Little Ice Age).
Le comunità di agricoltori iniziarono a stanziarsi, nei primi secoli del I millennio d.C., a sud dello Zambesi. In seguito esse si espansero rapidamente attraverso i margini settentrionali e orientali del Kalahari, nell'altopiano dello Zimbabwe e nei settori settentrionali e orientali della Repubblica Sudafricana. Le analisi della ceramica rinvenuta nei loro villaggi consentono di ipotizzare che i primi gruppi agricoli dell'Africa Meridionale avrebbero avuto molteplici origini, rintracciabili essenzialmente in Angola, Zambia, Malawi e Tanzania. Nonostante la rapidità di questa espansione, è comunque improbabile che l'agricoltura si sia diffusa soltanto attraverso un processo di espansione demografica, non importa quanto siano stringenti le correlazioni tra le distribuzioni dei siti archeologici e delle odierne comunità di lingua Bantu, o tra le cosmologie di questi ultimi e il modello di organizzazione insediativa dei siti di villaggio scavati. È inoltre necessario valutare i processi di incorporazione di gruppi aborigeni di cacciatori-raccoglitori e l'adozione dell'agricoltura da parte di questi ultimi. A partire dalle fasi finali del I millennio d.C. alcune di queste comunità di agricoltori stavano già partecipando, da un ambito periferico, all'espansivo sistema economico dominato dai musulmani dell'Oceano Indiano, come dimostrano, per la fase iniziale di tali contatti, le perle di vetro rinvenute in regioni dell'entroterra anche molto distanti, come i Monti Tsodilo; i rinvenimenti effettuati in questa regione, così come in altri luoghi, suggeriscono comunque che il movimento di questi beni esotici fosse connesso con quello di altri materiali esclusivamente africani, tra cui rame e conchiglie marine.
Nel X sec. d.C. il bacino formato dai fiumi Shashe e Limpopo emerse come parte attiva di queste reti. A Schroda, il più vasto sito di quest'area, sono state rinvenute centinaia di perle di vetro e consistenti evidenze della lavorazione dell'avorio e del probabile trattamento di pellicce di carnivori. Pelli e avorio sono citati come esportazioni dell'Africa Meridionale dallo scrittore arabo al-Masudi intorno al 915 d.C. e Schroda fu probabilmente coinvolta in questo commercio attraverso l'insediamento costiero di Chibuene (Mozambico), dove sono presenti perle di vetro simili, insieme a vetro e ceramica del Medio Oriente. Verso il 1030 d.C. una nuova tradizione ceramica (Leopard's Kopje) apparve nel bacino formato dai fiumi Shashe e Limpopo e il nucleo delle attività si spostò da Schroda a K2 e successivamente nella vicina collina di Mapungubwe. Entrambi i siti hanno prodotto abbondanti evidenze di commercio con la costa orientale dell'Africa e costituivano chiaramente il centro di un'importante entità politica. Le sepolture consentono di ipotizzare l'esistenza di diseguaglianze sociali; in alcune di esse sono state rinvenute migliaia di perle di vetro importate, e tre sepolture della collina di Mapungubwe comprendevano inoltre oggetti d'oro. L'ipotesi dell'esistenza di diseguaglianze sociali è rafforzata da evidenze isotopiche sulla variabilità della dieta, dalla concentrazione delle attività di lavorazione del rame nella collina di Mapungubwe e dalla quantità molto maggiore di metalli di tutti i tipi rilevata in questi siti rispetto ad altri di dimensioni minori ubicati nelle vicinanze. Anche se la cronologia di Mapungubwe consente di ipotizzare che fosse implicata una serie complessa di eventi sociopolitici piuttosto che singole decisioni, questi dati, congiuntamente con il trasferimento dell'occupazione sulla collina di Mapungubwe, la costruzione in questo luogo di muri di pietra intorno ad aree residenziali di élite e la sepoltura in esse di individui di alto rango, attestano un incremento della stratificazione sociale che culminò nella segregazione spaziale di leaders dal resto della comunità. Analizzati complessivamente, tali elementi suggeriscono che le origini della tradizione Zimbabwe siano da collocarsi a K2 e a Mapungubwe e che fu qui che si svilupparono le prime società stratificate e a livello statale dell'Africa Meridionale.
Mapungubwe era il più vasto e, in termini di beni di importazione, il più ricco di una serie di siti della regione. Esso potrebbe avere dominato un'area di circa 30.000 km2, all'interno della quale altri insediamenti associavano anch'essi una localizzazione sulla sommità di colline con la presenza di muri di pietra eretti intorno a piattaforme artificiali che sostenevano abitazioni costruite con fango pressato (daga), anziché con la più comune cannicciata. La ceramica del tipo Mapungubwe ha una diffusione ancora più ampia, ma l'intensità delle relazioni a lunga distanza del centro è meglio documentata dalle sue decine di migliaia di perle di vetro, dalle numerose conchiglie Cypraea dell'Oceano Indiano, dall'ottone (di probabile origine indiana) e da rare ceramiche cinesi; rotelle di fusaiole attestano che in questo periodo era stato introdotto anche il cotone, sebbene gli alti costi di produzione e la mancanza di tinte idonee spingessero a privilegiare i tessuti importati.
L'avorio continuò probabilmente a essere un importante bene di esportazione durante il periodo di occupazione di K2. A Mapungubwe sono invece assenti evidenze della lavorazione dell'avorio, a suggerire che in questo periodo altri beni erano diventati più importanti. Le pelli potrebbero essere state uno tra questi, ma l'oro godeva probabilmente di importanza maggiore. Mapungubwe è uno dei più antichi siti dell'Africa Meridionale ad avere restituito oggetti d'oro e la sua caratteristica ceramica si ritrova in numerose miniere d'oro dello Zimbabwe; potrebbero inoltre essere state sfruttate le vicine risorse degli ambienti alluvionali. Questo metallo, forse insieme al ferro prodotto nei Monti Tswapong del Botswana, raggiunse probabilmente varie località dell'Oceano Indiano, confluendo in un sistema di commerci intercontinentale che era localmente dominato da mercanti indonesiani e forse indiani e dalle emergenti città-stato Swahili della costa dell'Africa Orientale.
La teoria antropologica di un'economia di beni di prestigio aiuta a spiegare questi sviluppi. Il fatto che le perle di vetro e i tessuti importati fossero prodotti esotici deve avere reso tali beni altamente desiderabili. La loro rarità e le difficoltà connesse con la loro produzione potrebbero avere ulteriormente differenziato questi oggetti da più "democratiche" risorse, come il bestiame, la probabile base del potere politico presso le società agricole del I millennio d.C. Vaghi e tessuti potrebbero dunque essere stati utilizzati dalle élites emergenti per ricompensare individui subalterni della loro fedeltà, una fedeltà parzialmente attestata dal pagamento di tributi in avorio e oro che potrebbero essere stati usati per gestire il movimento dei flussi interni di tessuti e perle. L'archeologia evidenzia tale fenomeno rilevando come a K2 alcune perle di vetro venissero rese più rare e appariscenti rifondendole e rilavorandole in matrici fittili più grandi, di cui si conoscono esempi rinvenuti fino a 450 km di distanza. Anche altre tecnologie innovative, come la lavorazione del bronzo, che apparve a Mapungubwe per la prima volta nell'Africa Meridionale, erano probabilmente impiegate per distinguere membri dell'élite. Il potere dei governanti di K2 e di Mapungubwe non era comunque basato soltanto sui commerci; il bestiame era probabilmente accumulato mediante l'esazione di tributi e pagamenti di doti nuziali, mentre condizioni climatiche più umide rispetto a quelle attuali consentivano al bacino formato dai fiumi Shashe e Limpopo di supportare una popolazione molto più cospicua, la cui economia era basata sulle pratiche agricole e inoltre sulle attività pastorali. In quest'area, in origine probabilmente popolata da un gran numero di elefanti, un fenomeno rilevante potrebbe essere stato costituito dalla loro scomparsa e dal conseguente incremento delle attività agricole nei ricchi suoli alluvionali del bacino, soggetti a inondazioni stagionali. Le attività agricole potrebbero essere state determinanti nel sostenere un aumento della popolazione in questi territori nell'epoca di occupazione dei siti di K2 e Mapungubwe.
A occidente del bacino formato dai fiumi Shashe e Limpopo i siti della tradizione Toutswe si collocano a cavallo dei secoli precedenti e successivi al 1000 d.C. Molti di essi sono localizzati sulla sommità di colline e questo elemento può implicare finalità difensive, sia di ciascun centro rispetto agli altri sia verso l'entità politica K2/Mapungubwe. Il bestiame potrebbe essere stato la principale base per l'incremento in quest'area della complessità sociopolitica, ma le perle di vetro erano certamente reperibili, forse come contropartita per la fornitura di avorio o bestiame alle comunità del bacino formato dai fiumi Shashe e Limpopo. I siti di dimensioni minori, nel contesto di un'articolata gerarchia degli insediamenti, possedevano pochi capi di bestiame e probabilmente la loro economia di sussistenza era essenzialmente fondata sulla coltivazione, sebbene siano anche noti siti specializzati nella produzione di ferro e ceramica. La ceramica Toutswe presenta affinità con quella rinvenuta a Schroda (tradizione Zhizo), mentre le ceramiche Leopard's Kopje identificate a K2 e a Mapungubwe mostrano disegni, tecniche decorative e forme molto diversi. T. Huffman ritiene che le origini di Leopard's Kopje siano da collocarsi nel settore settentrionale della Repubblica Sudafricana e che la sua presenza nel bacino formato dai fiumi Shashe e Limpopo e più a nord, nello Zimbabwe centrale, rifletta l'espansione in queste aree di una popolazione di cui gli odierni gruppi di lingua Shona sarebbero i discendenti; uno stile ceramico connesso, lo stile Gumanye, si rinviene più a est, compreso anche il sito di Great Zimbabwe.
Tali correlazioni tra motivi ceramici ed entità etnolinguistiche, che emergono distintamente in molti dibattiti sull'archeologia dei gruppi agricoli dell'Africa Meridionale, sono soggette a critica, in quanto esse stabiliscono una corrispondenza troppo diretta tra specifici gruppi culturali e particolari stili fittili. La possibilità che processi, oltre che fenomeni di migrazione, giacciano dietro ai mutamenti nella tipologia ceramica richiede una valutazione maggiore di quanta ne abbia finora ricevuta, mentre alcune differenze, ad esempio quelle tra Zhizo e Leopard's Kopje, potrebbero essere state sovrastimate. L'ipotesi di un modello di dislocazione integrale della popolazione, in ragione del quale gli artefici della ceramica Zhizo si sarebbero spostati a occidente al di là del bacino formato dai fiumi Shashe e Limpopo fino al Botswana orientale, appare certamente troppo semplicistica; invece, almeno alcune ceramiche Zhizo continuarono a essere realizzate nel bacino dei fiumi Shashe e Limpopo fino al XIII sec. d.C. da una popolazione soggetta ai governanti di K2 e Mapungubwe.
Attualmente il bacino dei fiumi Shashe e Limpopo riceve meno di 350 mm di precipitazioni annue, troppo poco per supportare l'agricoltura pluviale dei cereali. Tra il 900 e il 1300 d.C. il livello delle precipitazioni era certamente più alto, ma, come già evidenziato, le pratiche agricole potrebbero anche essersi avvalse delle inondazioni stagionali lungo la pianura alluvionale del Limpopo. L'evoluzione verso condizioni climatiche più asciutte verificatasi agli inizi della Little Ice Age potrebbe dunque essere stata una delle cause dell'indebolimento dell'entità politica Mapungubwe e dell'accelerazione dello spostamento del potere regionale verso il margine orientale dell'altopiano dello Zimbabwe, caratterizzato dalla presenza di maggiori risorse idriche. Più recenti analisi suggeriscono che lo spopolamento non fu tanto generalizzato e rapido come precedentemente si era ritenuto e che i mutamenti climatici seguirono una traiettoria più complessa, all'interno della quale la scala e l'ampiezza di mutamenti di più breve durata potrebbero essere state importanti almeno quanto le tendenze di lungo periodo. Anche altri fattori furono dunque probabilmente implicati nella formazione di uno dei più noti siti archeologici dell'Africa Meridionale, Great Zimbabwe, tra cui la sua maggiore prossimità alla costa orientale e ai giacimenti auriferi dell'altopiano. Mentre occorre cautela nell'interpretare sia la storia globale di Great Zimbabwe che quella della tradizione Zimbabwe nei termini di un prodotto della partecipazione a sistemi commerciali marittimi su lunga distanza, il declino approssimativamente coevo di Mapungubwe e dei chiefdoms (domini) Toutswe del Botswana orientale consente di ipotizzare che, su scala più limitatamente locale, la perdita di accesso a tale rete commerciale abbia interessato politicamente un'ampia area.
Great Zimbabwe è il più vasto e complesso tra decine di siti cinti da muri di pietra datati al II millennio d.C. e ascrivibili alla tradizione Zimbabwe (il termine madzimbabwe, appartenente alla lingua Shona, venne utilizzato almeno fino al XVI sec. d.C. per indicare la corte, la sepoltura o l'abitazione di un governante); la maggior parte di essi si localizza nell'altopiano dello Zimbabwe, ma si estendono anche oltre, fino al Kalahari orientale, al settore settentrionale della Repubblica Sudafricana (Thulamela) e alla pianura costiera del Mozambico meridionale (Manyikeni). Anche se certamente appartengono tutti a una tradizione culturale comune, non è certo che essi abbiano realmente formato parte di una specifica entità politica posta sotto l'egemonia di Great Zimbabwe. La situazione documentata storicamente a partire dal XVI sec. d.C. suggerisce che ciò potrebbe non essere vero, ma il fatto che in alcuni siti si rilevi un impiego di stili di apparati murari comparsi in epoche precedenti a Great Zimbabwe e che le ceramiche di quest'ultimo sito appaiano intrusive in altre aree potrebbe lasciare ritenere il contrario. Analisi comparative delle dimensioni degli insediamenti residenziali confermano la posizione dominante di Great Zimbabwe all'interno del coevo sistema insediativo, una posizione rafforzata dal suo monopolio di ceramiche importate e da oggetti d'oro e bronzo prodotti localmente. Se questi elementi implicano una dominazione politica, comunque molto fluttuante come risposta a specifiche circostanze non documentate dalle evidenze archeologiche, allora certamente i governanti di Great Zimbabwe controllarono la più vasta entità politica precoloniale dell'Africa Meridionale.
In che modo tale potere venne creato e mantenuto? Sono state avanzate numerose ipotesi, nessuna delle quali totalmente soddisfacente. P. Garlake, ad esempio, ha identificato nel controllo sul pastoralismo transumante un'importante attività economica, notando come i siti si concentrino lungo il margine dell'altopiano dello Zimbabwe, in una localizzazione particolarmente idonea per allevare il bestiame, spostandosi in estate nei territori elevati in cui le mosche tse-tse sono assenti e in inverno nelle aree di bassopiano infestate stagionalmente. Il fatto che a Great Zimbabwe, a Manyikeni e in altri siti il bestiame sia predominante nei campioni archeozoologici potrebbe confermare tale interpretazione, ma è stato anche sostenuto che ciò potrebbe indicare un accesso esclusivo delle élites al consumo di manzi in tenera età. Tale conclusione è opinabile, ma sembra plausibile che il bestiame, se non interamente di proprietà dei membri dell'élite, fosse certamente sotto il loro controllo e da essi utilizzato, come documentato tra i Bantu dell'Africa Meridionale, in quanto simbolo di ricchezza, veicolo di comunicazione con gli antenati attraverso i sacrifici e mezzo per assicurarsi e mantenere alleanze politiche. È stata inoltre segnalata come significativa, a livello di insediamenti singoli, la prossimità a terreni arabili di ottima qualità; le analisi hanno confermato la coltivazione di sorgo, miglio perlato, panico indiano e noci Bambara, così come la raccolta di piante selvatiche. Il controllo dell'accesso ad aree produttive a fini agricoli potrebbe avere costituito un altro mezzo attraverso cui le élites si assicuravano il dominio sul resto della popolazione.
Non dovrebbe comunque sorprendere che un'efficiente economia agricolo-pastorale fosse il sostegno di Great Zimbabwe; d'altra parte, la molta enfasi ‒ di lunga durata, ma poco mutevole ‒ posta dagli archeologi sui siti cinti da muri di pietra (e sui settori con muri di pietra di questi stessi siti) ha messo in ombra gli insediamenti comuni in cui risiedeva la maggior parte della popolazione. Più interessanti sono le evidenze dello sfruttamento e del controllo di altre risorse indigene ‒ metalli, bestiame e commerci con le regioni interne dell'Africa ‒ e quelle di contatti con la costa dell'Oceano Indiano. Qualunque sia stata la sua importanza, l'oro venne impiegato come un bene ornamentale aggiuntivo durante la fase di apogeo della tradizione Zimbabwe ed esso appare sostanzialmente limitato alle sepolture di élite. A conferma della sua importanza come bene esportato piuttosto che come materiale di impiego locale, l'oro non forma attualmente parte degli oggetti rituali dei gruppi Shona. Anche il bronzo fu impiegato essenzialmente dalle élites per scopi ornamentali, lo stagno necessario alla sua lavorazione provenendo dai Monti Rooiberg, localizzati nel settore settentrionale della Repubblica Sudafricana.
La storia del ferro potrebbe essere stata diversa. L'area di Great Zimbabwe era nel XIX secolo un importante centro per la sua produzione e questo metallo era chiaramente di fondamentale importanza per numerosi scopi, comprese le attività di disboscamento e l'agricoltura. Esistono evidenze sia storiche che etnografiche del fatto che zappe di ferro potrebbero essere state usate per il pagamento di doti nuziali, soprattutto dagli individui comuni, ed è stato ipotizzato che la facilità con cui il ferro poteva essere trasformato in armi o in beni rituali e la necessità di questo metallo da parte della maggioranza dei contadini potrebbero avere conferito a esso un valore di scambio universale, in senso opposto alla più limitata circolazione di oro, tessuti e perle su cui si è tradizionalmente soffermata l'attenzione degli archeologi. La grande quantità di oggetti di ferro rinvenuti nel settore definito Renders Ruin di Great Zimbabwe (forse una tesoreria reale) assume dunque una nuova importanza, accresciuta dalla possibilità che la fusione del ferro abbia avuto luogo nel sito, contrariamente alle recenti pratiche Shona, e riconducendo tale produzione sotto il diretto controllo del potere reale. I gong di ferro rinvenuti qui ‒ simboli dello status reale a nord dello Zambesi, nel Katanga (Repubblica Democratica del Congo) e in Zambia ‒ potrebbero confermare questa teoria; quanto meno, la loro presenza (insieme a quella di lingotti e fili di rame a forma di croce tipici di queste regioni più settentrionali, che sono stati rinvenuti in altri madzimbabwe) potrebbe indicare uno scambio a doppio senso di questi metalli. Il sale, reperibile nella valle dello Zambesi o nel margine orientale del Kalahari, rappresenta un altro importante bene commerciale potenziale che merita attenzione.
Esaminato su una scala geografica molto più ampia, è degno di rilievo che l'altopiano dello Zimbabwe fosse la sola area dell'Africa Orientale o Meridionale a permettere ai commercianti Swahili, e successivamente ai Portoghesi, di garantirsi un accesso simultaneo all'avorio e all'oro. Questa associazione, alla quale si potrebbe aggiungere il rame dello Zimbabwe settentrionale e lo stagno proveniente dal settore meridionale del fiume Limpopo, diede i massimi risultati rispetto al limitato capitale disponibile per i mercanti stranieri. Agli inizi del 1300 i più importanti di essi provenivano da Kilwa, che probabilmente esercitava il controllo sul più meridionale porto di Sofala (Mozambico). Il fatto che sia Kilwa che Great Zimbabwe sperimentarono un periodo di auge agli inizi del 1300, quando la domanda mondiale di oro subì un incremento, consente di ipotizzare che in questo periodo il loro sviluppo sia stato strettamente interconnesso. Tale legame non fu comunque indissolubile: la temporanea decadenza di Kilwa alla fine del XIV secolo sembra non avere avuto ripercussioni a Great Zimbabwe, perché altre città Swahili presero il suo posto e/o perché lo Stato era sufficientemente consolidato da poter sopravvivere inalterato a tali mutamenti attraverso l'utilizzazione di fonti di potere indigene alternative.
Le evidenze dirette della produzione dell'oro nell'altopiano dello Zimbabwe sono scarse, e molte sono state cancellate dalle moderne attività estrattive. Alcune teorie postulano che la sua esportazione, insieme con quella dell'avorio, pose Great Zimbabwe e altri Stati dell'Africa Meridionale in una posizione di dipendenza politica ed economica rispetto al mondo esterno, dalla quale essi sono ancora incapaci di affrancarsi. Teorie alternative ritengono plausibile che le attività di estrazione dell'oro fossero condotte essenzialmente dalla popolazione rurale (soprattutto dalle donne) nei periodi in cui non si svolgevano lavori agricoli e che esse fossero dunque attività economicamente marginali, un equivalente africano della produzione massiva di perle di vetro e tessuti con cui esso era principalmente scambiato. Rinvenimenti di crogioli e di strumenti per la lavorazione dell'oro nei madzimbabwe lasciano ipotizzare comunque che gli orafi lavorassero sotto il controllo dell'élite. Anche altre attività artigianali potrebbero essere state arti di corte, forse praticate per produrre beni idonei alla redistribuzione come doni di pregio a subordinati: ornamenti di rame, ceramiche brunite con grafite e piatti di steatite.
Molto è quanto ancora non si conosce della tradizione Zimbabwe e delle modalità attraverso cui l'élite fondò il proprio potere. Appare probabile che esso non sia mai stato del tutto solido, soprattutto data l'assenza di mezzi di ausilio al trasporto, quali cavalli, veicoli a ruota o imbarcazioni, in un'area di molte migliaia di chilometri quadrati. Episodi di distruzione in alcuni madzimbabwe potrebbero documentare una violenta resistenza all'autorità, e tensioni tra Great Zimbabwe e le élites provinciali debbono essere sempre esistite, non essendo tra le meno importanti quelle per il controllo dell'accesso ad apprezzati beni di prestigio. Le strategie impiegate dalle élites per mantenere il proprio potere variarono senza dubbio nel tempo. La limitazione dell'accesso a importazioni straniere attraverso la rifusione di perle di vetro, come documentato a K2, ne costituisce un esempio. Forse nei periodi successivi, quando i capi si segregarono su sommità collinari in luoghi cinti da muri di pietra, il ruolo sacrale del sovrano nell'intercedere attraverso i suoi antenati per ottenere la pioggia e la prosperità potrebbe essere diventato più importante. Riferimenti a pratiche di élites di altre località, in cui venivano impiegati ceramiche esotiche del Medio Oriente o gong di ferro di stile katangano/zambiano, potrebbero anch'essi essere stati di centrale importanza. Forse ciò aiuta a comprendere almeno in parte l'espansione geografica della tradizione Zimbabwe; l'incorporazione in essa di altre comunità come élites locali fornì nuovi modi per consolidare ed estendere il suo potere. Ulteriori studi di tali processi potranno indubbiamente trarre vantaggio dall'analisi della tradizione Zimbabwe all'interno di un più ampio contesto politico ed economico di comparazione, di natura sia africana che extra-africana.
Un obiettivo di tali studi dovrebbe essere costituito dal chiarimento delle relazioni intercorse tra la tradizione Zimbabwe e altre culture identificate archeologicamente nello Zimbabwe. Dal XII al XV sec. d.C., dunque in epoca coeva allo sviluppo sia di Mapungubwe che di Great Zimbabwe, l'area centrata intorno ad Harare fu occupata da gruppi che praticavano uno specifico rito funerario, in alcuni casi comprendente la deposizione di ornamenti di ferro, rame e conchiglie, oltre che di perle di vetro, all'interno di sepolture ubicate sia in ripari rocciosi che all'aperto. Tale rito funerario e la produzione fittile pongono in relazione i gruppi Harare con la tradizione Musengezi del Mashonaland settentrionale. Decorata essenzialmente con impressioni di perle avvolte in fibre, la ceramica Musengezi si differenzia nettamente da quella della tradizione Zimbabwe e mostra invece affinità con la produzione fittile identificata nella necropoli di Ingombe Ilede, ubicata lungo il fiume Zambesi nel territorio appartenente allo Zambia, così come con vasellame similare proveniente dalle aree di Hurungwe e Makonde, nello Zimbabwe. In senso più ampio, il vasellame Musengezi e Ingombe Ilede è associato con la tradizione Luangwa, che documenta probabilmente un importante spostamento di gruppi matrilineari di lingua Bantu occidentale nello Zambia verificatosi agli inizi del II millennio d.C. Le analisi ceramiche consentono di ipotizzare dunque che gli artefici delle ceramiche Musengezi, Ingombe Ilede e forse anche Harare non fossero di lingua Shona. Ciò concorda con i dati forniti per l'area di Ingombe Ilede dai cronisti portoghesi, così come con la permanenza fino all'epoca attuale di tratti associati ai Bantu occidentali, quali la matrilinearità e la norma in base alla quale il futuro marito deve lavorare per i parenti acquisiti prima o negli anni immediatamente successivi al suo matrimonio, in quanto opposti ai pagamenti di doti nuziali, nell'area in cui si rinviene ceramica Musengezi. Un lento e certamente incompleto processo di espansione della tradizione Zimbabwe (e forse della lingua e dei modelli culturali Shona) è evidente in parte di quest'area, segnalato, ad esempio, dall'installazione di insediamenti con muri di pietra di tipo Zimbabwe sulle più antiche occupazioni Musengezi a Ruanga e Wazi. L'accesso al rame dello Zimbabwe settentrionale potrebbe avere costituito per l'élite della tradizione Zimbabwe uno stimolo a spostarsi in quest'area, ma non può essere ignorata la possibilità che le élites locali ritenessero vantaggioso acquisire elementi culturali provenienti dallo Stato di Great Zimbabwe.
Che sia stato provocato dal mutamento dei modelli di commercio internazionale, da alterazioni ecologiche a lungo termine o da eventi politici che l'archeologia non è in grado di ricostruire, il predominio di questo Stato ebbe termine nelle fasi finali del XV secolo. Successivamente si formarono numerosi Stati, noti attraverso fonti portoghesi e tradizioni orali. Uno di essi era quello del Mutapa, la cui area nucleare si colloca nello Zimbabwe nord-orientale e che si estese temporaneamente fino alla costa intorno al 1550. In seguito ai numerosi tentativi di conquista dei Portoghesi, lo Stato del Mutapa trasferì più tardi il suo centro nella valle dello Zambesi. Gli scavi hanno evidenziato commerci con i Portoghesi e sono stati inoltre individuati numerosi siti ubicati su sommità collinari, grossolanamente cinti da muri, con pochi oggetti di importazione e una ceramica del tutto distintiva. Tale tradizione, denominata Mahonje, potrebbe documentare i gruppi indigeni dello Zimbabwe nord-orientale e/o una reazione a una situazione via via più incerta a seguito del crollo dello Stato del Mutapa.
Se, in termini comparativi, in altre aree dello Zimbabwe settentrionale e centrale sono state compiute scarse ricerche sull'archeologia dell'ultimo millennio, più a est, negli altopiani di Nyanga e nelle aree limitrofe, si verificò a partire dal XIV e fino al XIX secolo un distintivo processo di sviluppo. Con un'estensione di circa 8000 km2, è questa un'area di insediamento agricolo caratterizzata dalla presenza di alcuni tratti che vennero elaborati al fine di conservare e concentrare i suoli, disboscare il terreno e facilitare il drenaggio, in un'ubicazione a grande altitudine, potenzialmente marginale per le pratiche agricole. Recinti seminterrati delimitati da muri di pietra erano utilizzati per custodire una locale razza nana di bovini, così che il loro letame potesse essere concentrato nei terreni in modo da ricostituire la fertilità dei suoli. I mutamenti nella localizzazione e nella distribuzione dei siti attestano probabilmente gli effetti associati di mutamenti climatici verificatisi durante e dopo la Little Ice Age e quelli del disboscamento della foresta per attività agricole e di approvvigionamento di legna e di materiali da costruzione. Il tratto innovativo costituito dal terrazzamento di versanti montuosi, affermatosi nel XVII-XVIII secolo, potrebbe rappresentare un'altra strategia adattativa alle mutate condizioni e forse alle necessità imposte da incrementi demografici. Sono stati inoltre identificati "forti" cinti da muri che, come il sito di Muozi, in cui si impetrava la pioggia, potrebbero essere stati centri abitati da capi locali. Il loro potere sembra comunque essere stato relativamente limitato e, a eccezione di un numero ridotto di perle di vetro e dell'introduzione del mais in epoca tarda, nell'area di Nyanga sono generalmente assenti evidenze di relazioni commerciali con la costa dell'Africa Orientale.
Torwa, un altro Stato che succedette a Great Zimbabwe, si trova sul lato sud-occidentale dell'altopiano dello Zimbabwe. La capitale, inizialmente localizzata a Khami, venne trasferita a Danangombe quando la prima fu conquistata, alla fine del XVII secolo, dai Rozvi, un lignaggio le cui origini risalivano allo Stato del Mutapa. A differenza di quest'ultimo, dove la pratica era stata abbandonata alla metà del 1500, a Torwa perdurò la tradizione di utilizzare muri di pietra per demarcare aree residenziali di élite, sebbene con una grande complessità di motivi decorativi all'interno dei muri e la tendenza al terrazzamento di basse colline in sostituzione delle sommità collinari sature d'acqua (Naletale). Come a Great Zimbabwe, gli scavi hanno posto particolare enfasi nello studio di probabili aree di élite: ad esempio, Vumba costituisce uno dei rari esempi di sito occupato da individui comuni, organizzato spazialmente in modo da dare rilevanza al bestiame della comunità, secondo un modello di insediamento noto come central cattle pattern.
Questo modello di insediamento è associato in Africa Meridionale alle società patrilineari di lingua Bantu Orientale, che adottarono un'economia agricola mista, integrata in maniera determinante dall'allevamento di bovini. Gli armenti, simbolo di ricchezza e di status, utilizzati come dote nei matrimoni o come strumenti per entrare in contatto con gli antenati attraverso i sacrifici, erano custoditi in un recinto ubicato al centro dell'insediamento. All'interno del recinto si trovavano fosse utilizzate per l'immagazzinamento delle granaglie e sepolture di rango, in genere maschili, mentre non distante sorgeva una corte riservata agli uomini. Le unità abitative erano distribuite intorno al recinto principale, rispettando un modello in base al quale la residenza del leader sorgeva nel punto più alto dell'insediamento e al di sotto, sulla destra e sulla sinistra, si trovavano le abitazioni dei componenti di rango inferiore della comunità. Altre divisioni all'interno dei singoli nuclei residenziali (destra, sinistra, fronte, retro) erano riferibili a ripartizioni di carattere sessuale e a distinzioni tra aree sacre e settori pubblici.
Il central cattle pattern, osservabile ancora in epoca odierna, viene datato sulla base della documentazione archeologica, recuperata in siti come Broederstroom, al I millennio d.C. Tale modello è stato ricostruito in maniera particolarmente dettagliata dagli scavi estensivi compiuti nel villaggio di Kgaswe (Botswana), risalente all'XI sec. d.C. Come modello tipo, tuttavia, esso non include tutte le varianti osservabili negli insediamenti moderni, l'interpretazione e il significato delle quali richiedono maggiore attenzione. Alcune varianti, ad esempio la possibilità della forgiatura di oggetti di ferro nell'area centrale dell'insediamento, potrebbero modificare in modo sostanziale il quadro comunemente accettato per le società agricole del I e del II millennio d.C. in alcune zone dell'Africa Meridionale, non essendo questa una pratica documentata presso le comunità recenti di lingua Sotho-Tswana o Nguni.
Torwa rimase sostanzialmente al di fuori della sfera di influenza portoghese, sebbene cultigeni non africani (arachidi e olio di castoro) siano stati rinvenuti a Khami e sebbene l'oro fosse con certezza esportato da questo luogo. Fino al crollo dello Stato dei Rozvi, verificatosi negli anni Trenta del XIX secolo, quando esso subì le incursioni degli Ngoni, il potere reale era comunque saldamente fondato sul controllo del bestiame e della terra piuttosto che sul commercio a lunga distanza. Gli influssi di Torwa e quelli dei suoi tardi governanti Rozvi si estesero non solo attraverso lo Zimbabwe occidentale e il Botswana orientale, ma anche a sud del fiume Limpopo. Allo stesso modo di Thulamela, siti come Tshitaka-tsha-Makolani utilizzarono apparati murari di pietra dall'andamento regolare in cui sono stati rinvenuti ceramiche della fase Khami e rari beni di prestigio di rame e avorio, perle di vetro e ceramiche di importazione. Le analisi della ceramica hanno consentito di rilevare come una nuova tradizione, definita Tavhatshena, si fosse sviluppata dalle ceramiche Khami e dalla locale ceramica Moloko, parallelamente all'evoluzione della lingua Venda da fonti Shona e Sotho. L'espansione verso sud di Torwa potrebbe essere stata finalizzata ad assicurarsi l'accesso a nuove fonti di rame, oro e avorio per il commercio con mercanti lungo la costa dell'Africa Orientale. Il rame era qui con sicurezza reperibile a partire dal 1500 e nel sito di Phalaborwa, un importante centro di produzione di questo metallo ubicato appena a ovest del Kruger National Park, è stata rinvenuta ceramica Tavhatshena.
Le fasi più tarde della tradizione Zimbabwe all'interno della Repubblica Sudafricana sono note come Dzata, dal nome della capitale dello Stato di Singo, fondata dalle élites Rozvi nelle fasi finali del XVII secolo. Nuovi stili di apparati murari di pietra sono associati a questo periodo e gli scavi suggeriscono che le élites Singo potrebbero avere goduto di un accesso preferenziale al bestiame e alla fauna selvatica, così come al controllo dello stagno, del rame e dell'avorio ricercati dai mercanti portoghesi e olandesi. Lo spostamento, avvenuto intorno alla metà del XVIII secolo, dell'area focale delle loro attività dal Mozambico centrale a sud, verso la Baia di Delagoa, potrebbe avere accelerato il collasso di un'entità politica unificata Singo; numerosi nuovi modelli di architettura insediativa caratterizzano le fasi successive della storia dei gruppi Venda, la lingua, le ceramiche (note come Letaba dopo il 1550) e le pratiche rituali dei quali influenzarono molti altri gruppi etnici delle province di Limpopo e Mpumalanga.
A eccezione dei casi sopra citati, le comunità agricole a sud del fiume Limpopo non sperimentarono nel corso del II millennio d.C. gli stessi processi di mutamento registrati da quelle partecipi della tradizione Zimbabwe. Non vi sono, ad esempio, evidenze dello sviluppo di società stratificate articolate in classi, sebbene possano essere identificate affinità nella crescente specializzazione dei sistemi di produzione e di scambio, nella concentrazione degli insediamenti e negli incrementi di centralizzazione politica, processi incoraggiati nei secoli più recenti dalle conseguenze del contatto con gli Europei. Ma, in termini generali, questo settore dell'Africa Meridionale può essere differenziato da quello in cui si sviluppò la tradizione Zimbabwe non solo per il suo più basso livello di complessità socioculturale, ma anche per il fatto che l'archeologia delle comunità agricole qui insediate per gran parte del II millennio d.C. è in larga misura rappresentata dalla cultura materiale dei suoi odierni abitanti di lingua Sotho/Tswana e Nguni.
Tali espressioni materiali differiscono marcatamente dalle evidenze risalenti al I millennio d.C. e numerosi tratti di queste prime comunità agricole sembrano non essere perdurati per molto tempo oltre il 1000 d.C. Come esempi possono essere citate differenze nelle pratiche funerarie, nelle relazioni di genere, nel sistema di credenze e di pratiche connesso con la fusione del ferro e nella dimensione e localizzazione degli insediamenti. Inoltre, dettagliate analisi delle ceramiche prodotte nel corso del II millennio d.C. mostrano come esse non derivino dalla tradizione Kalundu dei secoli precedenti, che perdurò nella forma della ceramica Eiland nella provincia di Limpopo fino al XIII sec. d.C. e ancora più a lungo nel Botswana. Invece, una marcata rottura stilistica è evidente tra questa e la tradizione Moloko, che iniziò a manifestarsi nel XIV sec. d.C. nelle province di Mpumalanga e Limpopo, e la di poco antecedente tradizione Blackburn del KwaZulu-Natal. La ceramica Moloko è storicamente associata con gruppi di lingua Sotho/Tswana e la ceramica Blackburn con gruppi di lingua Nguni. Gli idiomi più strettamente imparentati con queste lingue si localizzano nell'Africa Orientale. Tale evidenza, insieme con le affinità riscontrate in alcuni complessi ceramici qui rinvenuti e con l'impossibilità che entrambe le tradizioni derivino da più antiche ceramiche dell'Africa Meridionale, lascia ipotizzare che le ceramiche Blackburn e Moloko possiedano un'origine interrelata da collocarsi al di fuori delle regioni in cui entrambe sono state rinvenute, essendo lo Zambia orientale e la Tanzania meridionale la localizzazione più verosimile.
Per confermare tale ipotesi sono necessarie ulteriori ricerche, ma una causa di questa possibile migrazione potrebbe essere costituita dalle condizioni climatiche più secche registratesi in Africa Orientale durante la Medieval Warm Epoch (900-1290 d.C. ca.). Il numero ridotto degli insediamenti agricoli risalenti a questi stessi secoli a tutt'oggi noti nell'Africa a sud della valle del Limpopo ostacola la comprensione di quanto ebbe realmente luogo, mentre alle relazioni tra i gruppi giunti in quest'area e le comunità agricole, forse più numerose, in essa già insediate sono state dedicate ricerche estremamente limitate. Non è del resto affatto certo che le tradizioni Moloko e Blackburn costituiscano le uniche testimonianze di tradizioni ceramiche (e delle popolazioni) note attraverso la documentazione etnografica. Recenti ricerche condotte nello Swaziland hanno invece appena iniziato a indagare le origini di un altro gruppo di popolazioni, gli Tsonga dell'area tra il Mozambico meridionale e il settore più settentrionale del KwaZulu-Natal (Simunye). Gli scavi condotti qui e nel Kruger National Park hanno inoltre portato al rinvenimento di ceramiche (definite Mpofu o Mahlambamedube) che non possono a tutt'oggi essere sicuramente ricondotte a qualsiasi altra tradizione ceramica risalente sia al I che al II millennio d.C. Datato all'XI-XII sec. d.C., il gruppo Mpofu ci ricorda quindi che non tutte le comunità agricole del passato possono essere poste in relazione diretta con le società note attraverso le fonti etnografiche.
Per il periodo successivo al 1300 d.C. le evidenze archeologiche relative agli insediamenti agricoli divengono più abbondanti. Una delle prime manifestazioni di ciò è rappresentata dall'espansione dei siti nelle regioni di prateria precedentemente non occupate da gruppi agricoli. Nelle regioni interne del KwaZulu-Natal, siti come Moor Park occupano di frequente posizioni facilmente difendibili sulla sommità di colline e spesso utilizzano rozzi apparati murari per delimitare aree destinate ad abitazioni e a recinti per il bestiame. Molti di essi sono datati al XIV sec. d.C., un periodo che stime dendrocronologiche indicano come particolarmente secco e dunque in grado di stimolare un'intensificazione della competizione per l'approvvigionamento di risorse. La vasta espansione nelle regioni di prateria costituite dagli highveld dell'altopiano interno della Repubblica Sudafricana fu un processo più recente e né la prima, né la seconda fase della ceramica Moloko della valle del Limpopo, del Botswana meridionale o della Provincia del Nord-Ovest appaiono associate all'impiego di apparati murari di pietra. In merito a quest'ultimo aspetto i gruppi Fokeng (che, forse provenienti dal KwaZulu-Natal, potrebbero essere penetrati nel Free State nel corso del XV sec. d.C.) differiscono, e Ntsuanatsatsi è uno dei molti insediamenti cinti da muri di pietra associati a tali gruppi. Comunque, negli highveld lo stanziamento agricolo-pastorale subì un'accelerazione solo intorno al 1640, raggiungendo in breve tempo i limiti praticabili per l'agricoltura pluviale del sorgo e del miglio perlato, agli odierni 550-600 mm di isoieta/1500 m di linea di livello. L'archeologia e le evidenze costituite dai toponimi lasciano ipotizzare che successivamente, nel corso di una fase leggermente più fredda verificatasi verso la fine del XVIII secolo, in alcune aree l'insediamento si contrasse.
Per un'efficiente occupazione dell'highveld fu necessario che i gruppi modificassero il loro modo di vita. L'importanza dell'allevamento crebbe, come documentato in alcuni casi dalle figurine di bestiame e dalle dimensioni dei recinti per gli animali. L'incremento di tale attività potrebbe avere aiutato a prevenire le carenze di fonti alimentari e a offrire ulteriori opportunità di accumulare ricchezza e di creare obbligazioni clientelari, cedendo in prestito il bestiame ad altri. In termini più prosaici, in un ambiente povero di alberi lo sterco del bestiame costituisce una fonte addizionale di combustibile. Analisi dell'isotopo stabile eseguite su scheletri umani confermano che le popolazioni agricole della regione dipendevano in misura più consistente dai prodotti animali rispetto a quelle insediate nelle regioni più settentrionali. Alcuni scheletri attestano un consumo sorprendentemente elevato di risorse vegetali selvatiche, che potrebbe forse documentare problemi nell'ottenimento costante di raccolti adeguati. L'assenza di legno produsse anche altre conseguenze. In primo luogo, in nessuna località del Free State sono state identificate evidenze della fusione del ferro in contesti indigeni. I manufatti di metallo sono perciò rari e per sostituirli vennero di frequente utilizzati materiali alternativi quali la ceramica e l'osso. Il metallo, quando venne utilizzato, veniva presumibilmente importato dalle regioni ubicate oltre il fiume Vaal o il Drakensberg Escarpment. Infine, per la costruzione non solo di recinti per il bestiame, ma anche dei muri di abitazioni, i gruppi utilizzarono di regola le pietre al posto del legno. Fortunatamente per gli archeologi, ciò significa che i loro insediamenti si sono conservati abbastanza bene e possono essere agevolmente individuati attraverso fotografie aeree. Sono state identificate numerose varietà di costruzioni; esse e le ceramiche associate possono essere con certezza poste in connessione con i gruppi di lingua Sotho/Tswana noti attraverso la documentazione etnografica.
Insediamenti con muri di pietra non sono stati rinvenuti solo nelle praterie del Free State o immediatamente a nord del fiume Vaal. Numerosi altri, a tutt'oggi poco studiati, si trovano nel Mpumalanga meridionale e nell'highveld dello Swaziland occidentale. Alcuni settori del KwaZulu-Natal sono stati sottoposti a ricerche molto più intense; essi comprendono l'altopiano del Babanango, dove insediamenti del tipo B appaiono maggiormente concentrati rispetto a quelli degli odierni Nguni e hanno una distribuzione compatibile con quella del chiefdom (dominio) Khumalo del XVIII secolo. È differente anche la loro organizzazione architettonica, ad esempio nella localizzazione del recinto principale per il bestiame nelle aree più elevate dell'insediamento. Più in direzione del Drakensberg, in siti come Mgoduyanuka si rileva ancora un'altra tipologia insediativa. Tale variabilità consente di ipotizzare che mutamenti sostanziali in tale modello ebbero luogo (forse come parte della formazione dello Stato Zulu) soltanto poche generazioni prima della definizione dei modelli etnografici standardizzati su cui si fondano molte interpretazioni archeologiche.
Importanti ricerche sono state intraprese nello studio della produzione di metalli dei gruppi agricoli stanziati nell'estremo Sud dell'Africa nel II millennio d.C. Una fonte di approvvigionamento del ferro utilizzato nell'highveld era probabilmente costituita dall'alto bacino del Thukela, dove l'area Mabhija ha fornito evidenze di un pozzo per l'estrazione di minerale di ferro e della sua successiva fusione. Questa è un'area di pascoli e di suoli coltivabili di scarsa qualità e le tradizioni orali riportano che il ferro era scambiato attraverso il Drakensberg con i gruppi di lingua Sotho, che in cambio fornivano bestiame e granaglie. Una produzione concentrata è nota anche in altre località, ad esempio a Itala, dove il minerale era trasportato, per parecchi chilometri e su un terreno accidentato, in località che offrivano affidabili risorse di legna da ardere. In tali circostanze le relazioni storiche e antropologiche chiarificano le evidenze archeologiche e a partire dal XIX secolo, se non anche nei periodi precedenti, la produzione d'oro del KwaZulu-Natal era concentrata nelle mani di specifici lignaggi e molti metallurghi lavoravano principalmente sotto la protezione di un mecenate, sebbene in taluni casi essi fossero in grado di esercitare un certo livello di autonomia politica. L'highveld non era la sola area dove la produzione del ferro risultasse ardua, se non impossibile. Pochi siti di fusione sono stati identificati a sud di Durban e le fonti di minerale sono particolarmente scarse nella Provincia Orientale del Capo. Le relazioni commerciali in quest'area sono a tutt'oggi poco chiare, ma si sa che il ferro era fortemente ricercato dai marinai europei naufragati e che il legno e la pietra talvolta sostituivano gli utensili e le armi di metallo.
Tra gli altri metalli, il rame era quello di maggiore importanza. I giacimenti localizzati nei Monti Dwarsberg vennero sfruttati nel corso del XVI secolo e Phalaborwa fu un'altra importante area di produzione sia di rame che di ferro. Anche qui comunità la cui economia era fondata sulla produzione di metalli scambiavano i loro prodotti con altre, in questo caso con quelle stanziate nelle aree montuose occidentali, più produttive dal punto di vista agricolo. Il rame veniva di frequente scambiato sotto forma di lingotti; ne sono note varie tipologie, mentre altri esemplari sono di stagno. Proveniente esclusivamente dai Monti Rooiberg, da dove in epoca precoloniale vennero estratte circa 18.000 t di minerale, la maggior parte di tale stagno veniva forse esportata per via marittima attraverso il centro di Great Zimbabwe e le entità politiche che gli succedettero. Mentre si possiedono scarse evidenze della manifattura indigena del bronzo, la domanda di ornamenti di ottone, realizzati impiegando metallo importato, era considerevole. Non sono stati a tutt'oggi compiuti esaurienti studi sulle reti commerciali esistenti nel II millennio d.C. nell'estremità più meridionale dell'Africa, ma ‒ allo stesso modo di metalli, granaglie e bestiame ‒ essi dovrebbero prendere in esame il sale, che era ad esempio ottenuto dalle cave di Mpumalanga, gli ornamenti di conchiglie marine, la Cannabis sativa (e, in epoche successive, il tabacco) e le perle di vetro. I gruppi di cacciatori-raccoglitori sopravvissuti assolvevano un importante ruolo per gli spostamenti sul territorio di numerosi beni, alcuni dei quali prodotti da loro stessi, come pigmenti, cuoio, piume e grani di gusci di uova di struzzo. Le vaste miniere di specularite (ematite) di Blinkklipkop e di Doornfontein attestano compiutamente la scala di tali reti di scambio.
Il controllo sul commercio giocò un ruolo importante nello sviluppo di entità politiche più centralizzate, soprattutto dopo l'affermazione della presenza commerciale europea sulla costa del Mozambico. Quando le aree controllate da singoli capi si estesero, vennero emergendo competizioni tra di essi, forme di resistenza al loro potere e nuove modalità di integrazione di più vasti gruppi di individui. Gli insediamenti Tswana del Gauteng e della Provincia Nord-Occidentale offrono alcune tra le migliori evidenze di questi processi. A partire dagli inizi del XVII sec. d.C. le comunità Moloko vennero definendo un paesaggio con insediamenti densamente occupati e caratterizzati da una maggiore stanzialità, come attestato dalla presenza di muri di pietra a demarcazione di confini di fattorie, recinti per il bestiame e singole abitazioni. In epoche successive, una consistente espansione dei siti si verificò agli inizi del XVIII secolo, periodo in cui i chiefdoms si svilupparono fino a formare "città" di 10.000 e più abitanti. Questi vastissimi siti (Kaditshwene) erano dotati di suddivisioni interne a fini amministrativi e di sussistenza, ma possedevano poche delle funzioni caratteristiche dei central places generalmente associate con gli insediamenti urbani. Spostandosi dopo un numero ridotto di anni, una volta che le risorse locali fossero esaurite, e sempre soggetti a processi di fissione durante fasi di successione particolarmente controverse, di essi restano oggi solo pali di recinti temporanei per il bestiame e terreni agricoli.
Molti di questi tardi siti Moloko Tswana si trovano su terreni più elevati e accidentati e sono localizzati in posizioni idonee alla difesa. Le tradizioni orali documentano una crescente competizione per i terreni agricoli e da pascolo. Essa era probabilmente stimolata dalla crescita demografica, da un ritorno a condizioni climatiche più secche e fredde verificatosi verso il 1675 e dal progressivo esaurimento di risorse quali il legno: a partire all'incirca da questo periodo, in alcune aree nella produzione ceramica si iniziò a fare uso di mica muscovite come additivo per mantenere il calore. Le razzie di bestiame si intensificarono e assunsero particolare importanza, in quanto un incrementato accesso al bestiame permetteva agli uomini di possedere più mogli e dunque di avere una maggiore disponibilità di forza-lavoro per i campi agricoli. I mutamenti nelle relazioni di genere possono essere identificati archeologicamente, con ruoli man mano diversificati e con una maggiore dipendenza delle donne; alcune attività maschili, come la lavorazione del ferro, divennero con tutta probabilità più strettamente associate al potere politico, a giudicare almeno da rinvenimenti quali la sepoltura di un giovane individuo di sesso maschile collocata in una posizione centrale di Mabyanamatshwaana e contenente un martello e un'incudine di pietra. Conflitti per l'accesso all'avorio da utilizzare nei commerci a lunga distanza potrebbero essere implicati anche nella centralizzazione di molti insediamenti Tswana e, a partire dal secondo decennio del XIX sec. d.C., commercianti Tsonga provenienti dalla vicina Baia di Delagoa erano attivi in distanti aree occidentali, dove scambiavano perle di vetro in cambio di zanne di elefante. L'espansione verso nord dei lignaggi Sotho/Tswana fino al Kalahari, avvenuta nel XVIII e nel XIX secolo, potrebbe essere stata parzialmente stimolata dalla ricerca di aree idonee alla caccia agli elefanti.
Nel settore orientale della Repubblica Sudafricana fotografie aeree e ricognizioni di superficie hanno portato all'identificazione di numerose rovine di pietra lungo il Drakensberg Escarpment della provincia del Mpumalanga. Esse comprendono villaggi, recinti per il bestiame, sentieri e aree terrazzate; alcuni di questi elementi appaiono riprodotti in incisioni rupestri. Le ceramiche associate appartengono alla fase Marateng della tradizione Moloko e sono identiche a quelle realizzate dai gruppi Pedi di lingua Sotho che abitano attualmente la regione. Ricerche di scala comparabile a quelle condotte negli altopiani di Nyanga devono ancora essere intraprese, ma le fonti storiche consentono di ipotizzare che la competizione per i terreni agricoli e il commercio stimolarono un aumento della supremazia dei Pedi. I capi Pedi tentarono inoltre di aumentare il proprio potere attraverso il controllo della produzione del ferro e l'acquisizione dell'avorio, limitando l'accesso a tessuti e perle importati, praticando la poligamia per incrementare la propria forza-lavoro, accumulando bestiame e rivestendo un ruolo nelle cerimonie per impetrare la pioggia e nelle dispute. Tutte queste strategie potrebbero essere state utilizzate in altri contesti, compresa la formazione della tradizione Zimbabwe, ma nonostante ciò i Pedi non furono mai in grado di stabilire un controllo permanente sui gruppi assoggettati.
Questo discorso sembra potersi applicare per molti aspetti anche agli emergenti poteri politici di altri luoghi del settore sud-orientale dell'Africa Meridionale, sebbene in molte aree del KwaZulu-Natal e della Provincia Orientale del Capo modelli di insediamento dispersi e la predominanza di materiali da costruzione organici si traducano in un'ancora scarsa conoscenza archeologica di queste stesse aree. In termini molto generali è comunque probabile che in entrambi i settori vi sia stata un'ulteriore espansione delle comunità agricole nell'entroterra e nelle zone alte dei sistemi vallivi, con un'assimilazione di gruppi di allevatori e cacciatori-raccoglitori. A suggerire ciò sono le evidenze costituite dai nomi di clan e dai dati linguistici, ma è necessario che, nel tentativo di comprendere le relazioni tra gruppi con modelli di sussistenza e strutture ideative distinti, gli archeologi evitino di formulare generalizzazioni sulla base di contesti etnografici forse troppo specifici.
L'aridità, il freddo e il mutamento da un regime pluviale concentrato nella stagione estiva ad altri modelli di precipitazioni costrinsero i gruppi di agricoltori a rimanere fuori da un vasto settore dell'Africa Meridionale anche dopo il loro spostamento, avvenuto nel XVII secolo, sull'highveld. Quando, ad esempio, gli Europei dapprima commerciarono e successivamente si insediarono nei pressi del Capo di Buona Speranza, la popolazione qui predominante (i Khoikhoi) era composta di gruppi che parlavano lingue Khoi e allevavano bestiame e pecore. Gruppi connessi dominavano il paesaggio del terzo occidentale dell'Africa Meridionale, dalla vicina Grahamstown a est fino ad aree settentrionali tanto distanti come la Namibia centrale e l'entroterra lungo il basso corso del fiume Orange, fino alle vicinanze di Upington. Intensi dibattiti hanno riguardato le origini di queste comunità e le esatte associazioni tra l'introduzione della ceramica e quella delle pecore, avvenute intorno ai primi anni dell'era cristiana. Allo stesso modo, si sono verificate aspre dispute in merito alle relazioni intercorrenti tra i gruppi in possesso di bestiame e quelli che allevavano pochi animali domestici, se addirittura non ne erano privi. Non è stata a tutt'oggi trovata una risposta a tali questioni, e il quadro è reso più complesso dalle limitate evidenze in merito alla presenza, in epoca precoloniale, di gruppi di allevatori nella Provincia Occidentale del Capo, area alla quale fa riferimento la maggioranza delle più antiche relazioni scritte; in quest'area Kasteelberg rappresenta virtualmente il solo sito scavato del II millennio d.C. che possa plausibilmente essere attribuito a comunità pastorali.
Un'interpretazione della sequenza di Kasteelberg è quella secondo cui una serie di mutamenti nella sua cultura materiale, verificatisi verso l'800-1000 d.C., segnalerebbe l'arrivo nella regione del Capo del gruppo Khoikhoi noto attraverso le fonti storiche. Uno di questi mutamenti è rappresentato dall'apparizione di ceramica dotata di prese, una tradizione che nei resoconti etnografici appare strettamente connessa con i gruppi di lingua Khoi. A sostegno di questa teoria, i più antichi esempi conosciuti di tale ceramica provengono dal Botswana settentrionale, l'area di origine delle lingue Khoi. Mentre la teoria di un arrivo in epoca recente dei gruppi di allevatori Khoi nel Capo resta controversa, sembra plausibile che lo sviluppo delle società e delle economie documentate dagli osservatori europei sia stato un processo di lunga durata. Introdotto qualche secolo dopo le pecore, dal XVII secolo il bestiame venne allevato in grandi quantità, incoraggiando regolari spostamenti transumanti tra diverse aree del paesaggio come misura contro un eccessivo sfruttamento dei terreni da pascolo e contro malattie del bestiame.
L'allevamento di un maggior numero di capi di bestiame probabilmente rese possibile lo sviluppo di comunità più complesse e gerarchiche contraddistinte da relazioni patron-client fortemente strutturate e da un aumento delle razzie. Potrebbe essere interessante sapere se tali modelli siano stati meno evidenti in aree in cui il mantenimento del bestiame era meno agevole. Nella più asciutta valle del Seacow, ad esempio, sebbene non si sappia se i resti di ripari riflettano le azioni di gruppi di cacciatori-raccoglitori piuttosto che quelle di allevatori, i complessi faunistici del periodo precoloniale contengono molte più pecore che non bestiame o capre. Centinaia di recinti con muri di pietre per il bestiame, concentrati intorno a pozze d'acqua nel settore alto delle valli, documentano una presenza preistorica degli allevatori in quest'area. È interessante notare che gli allevatori erano scomparsi da queste regioni dal 1770, forse in ragione di periodi di siccità. Evidenze toponimiche e rinvenimenti di ceramiche dotate di prese suggeriscono che in un determinato periodo gruppi di allevatori potrebbero essere stati presenti anche in regioni tanto settentrionali come a Mpame, sulla costa dell'Oceano Indiano, essendo forse rimpiazzati in queste aree dall'arrivo di gruppi agricoli. Più a occidente, nella Provincia Orientale del Capo, emersero gruppi di origini miste Khoi e Nguni, portatori di una nuova tradizione ceramica dal collo orlato. Analisi dell'isotopo stabile suggeriscono che alcuni di questi gruppi Gonaqua/Gqunukhwebe adottarono anche la coltivazione di cereali, mentre la distribuzione dell'arte rupestre segnala la graduale ritirata di gruppi autonomi di cacciatori-raccoglitori dai promontori costieri verso le aree montuose.
Per ragioni ancora sconosciute, i gruppi di allevatori sembrano non essersi diffusi lungo l'intero corso del fiume Seacow fino all'Orange, né al di là di esso fino all'highveld, anche quando esso non era stato ancora occupato dai gruppi agricoli. Molto più a valle, essi si insediarono lungo il basso corso del fiume Orange. Qui tumuli funerari individuati nei pressi di Upington e Kakamas aiutano a documentare la presenza di una consistente popolazione di pastori. Studi antropologici consentono di ipotizzare che queste comunità contraessero matrimoni con i gruppi di lingua Tswana insediati più a monte, dai quali ottenevano specularite e ferro. In epoca precoloniale una certa quantità di questo metallo potrebbe avere anche raggiunto aree tanto distanti come il Capo, ma esistono più chiare evidenze del commercio di Cannabis sativa, che potrebbe essere stata coltivata dagli stessi gruppi Khoi lungo il basso corso dell'Orange. A tutt'oggi è stato scavato un numero limitato di siti abitativi, e molti sono andati probabilmente distrutti dall'agricoltura intensiva, sebbene nelle regioni più a valle del Richtersveld si conoscano siti temporanei all'aperto, come Bloeddrift 23. I complessi associati si caratterizzano per la presenza di ceramiche dalle pareti sottili, dotate di prese, per uno strumentario litico altamente informale e per solchi in fondi rocciosi esposti, utilizzati per frammentare l'ocra; tutti questi tratti ricordano elementi caratteristici di Kasteelberg. Tali complessi sono stati denominati Doornfontein, dal nome di una delle due miniere di specularite citate sopra.
Nel corso del II millennio d.C. la Namibia, come la Repubblica Sudafricana, era occupata da gruppi di agricoltori, allevatori e raccoglitori. I primi, ancora scarsamente conosciuti, erano certamente concentrati, come in epoca odierna, nella zona più settentrionale, dove è solo possibile praticare un'agricoltura pluviale (sito di Vungu-Vungu). Ricerche molto più estese hanno avuto luogo nei siti associati ad antiche attività pastorali, ubicati a sud e a occidente. Nell'area di Hungorob del massiccio del Dâures, ad esempio, nel corso del II millennio d.C. vennero costruiti numerosi recinti e case di pietra. Come nel caso delle società di allevatori della Provincia Occidentale del Capo, il latte, il burro e la carne ottenuti da bestiame domestico erano integrati da risorse selvatiche. Nel caso dell'area di Hungorob esse comprendevano semi di piante erbacee ricavati da formicai, mentre nella costa del delta del !Khuiseb, in Namibia, venivano sfruttate risorse marine, insieme a !nara (Acanthosicyos horrida), dai quali si otteneva e si immagazzinava un succo edibile. Scavi realizzati a //−Khîsa-//gubus, un sito del XVIII sec. d.C., attestano che i gruppi consumavano pesci, uccelli acquatici, foche e balene spiaggiate, ma rilevano anche che il bestiame era condotto al pascolo nei territori più interni delle pianure della Namibia; studi isotopici su scheletri umani suggeriscono che nella dieta la carne (soprattutto di montone) rivestiva un ruolo più importante del latte. I vaghi di rame rinvenuti a //−Khîsa-//gubus e in altri siti del delta del !Khuiseb erano probabilmente manifatturati nella Namibia centrale, dove la fusione del rame è documentata almeno a partire dal XVII sec. d.C.; parte di questo processo era ottenuta utilizzando una tecnica particolare, che impiegava ugelli di pietra piuttosto che di ceramica. Vaghi di ferro e conchiglie di Cypraea introdotti dalle comunità agricole attraverso il Kalahari circolavano anch'essi in queste reti di scambio, che potrebbero essere state di ausilio nel ridurre i rischi di insuccesso nelle strategie di sussistenza (soprattutto perdita di bestiame), creando vincoli di reciprocità e permettendo lo scambio del bestiame con altri beni.
Attraverso e al di là delle aree occupate dalle comunità di allevatori e agricoltori, in molti settori dell'Africa Meridionale perdurarono nel corso del II millennio d.C. gruppi di cacciatori-raccoglitori. Come già indicato, distinguere le occupazioni dei raccoglitori da quelle degli allevatori non è agevole, in quanto nelle evidenze archeologiche si possono verificare sovrapposizioni e i resti di bestiame possono non essere presenti o non essersi conservati in tutti i siti di allevatori. Il dibattito è stato particolarmente intenso in alcuni settori della Provincia Occidentale del Capo, dove è stato ipotizzato che molti siti possano essere agevolmente ricondotti a due gruppi caratterizzati da differenze nello strumentario litico, nelle densità della ceramica, nella fauna e nelle dimensioni delle perle di guscio di uova di struzzo; tale teoria è stata posta in discussione dalle recenti ricerche condotte a Kasteelberg. Gli allevatori sembrano avere evitato le regioni montuose, concentrandosi invece nei territori più vicini alla costa, dove i pascoli erano forse migliori. I gruppi di cacciatori-raccoglitori si trovarono probabilmente via via circoscritti nelle aree più marginali del territorio e negli spazi interstiziali tra altre comunità; nelle regioni in cui i gruppi pastorali praticavano definiti spostamenti stagionali ciò potrebbe avere offerto a essi possibilità. Vi sono inoltre alcune evidenze, meglio definite nella Provincia Occidentale del Capo, del fatto che la competizione degli allevatori e dei loro armenti ebbe per i cacciatori-raccoglitori conseguenze negative sulla disponibilità di prede animali e di altre risorse; l'assimilazione all'interno di comunità pastorali o l'adozione di bestiame domestico potrebbero avere costituito una risposta a tale situazione.
Due tipologie principali di siti archeologici sembrano associate ai gruppi di cacciatori-raccoglitori della Provincia Occidentale del Capo durante i secoli immediatamente precedenti l'intrusione coloniale. Nell'entroterra vennero occupati molti piccoli ripari rocciosi ubicati in terreni accidentati, generalmente secondo modalità che hanno lasciato un caratteristico modello spaziale, con un'area centrale di focolari circondata da aree di letti realizzati in materiali vegetali e con resti di pasto e manufatti organici in buone condizioni di conservazione. In molti di questi siti sono state inoltre individuate pitture rupestri, sebbene l'assenza di raffigurazioni di bestiame e quella di riferimenti a questa produzione nelle fonti olandesi lascino ipotizzare che nel XVII sec. d.C. l'arte rupestre fosse di scarsa ricorrenza. De Hangen rappresenta un buon esempio di questa tipologia di siti. Come altri appartenenti a tale tipologia, esso ha fornito evidenze di un'economia di sussistenza fondata sullo sfruttamento di piante alimentari sotterranee, piccole antilopi che si cibavano di piante arbustive, tartarughe e iraci (Procavia capensis). Sebbene i regolari spostamenti stagionali possano essere stati inusuali, tali comunità dell'entroterra mantennero legami di qualche natura con le regioni costiere, non da ultimo condividendo uno stile comune di ceramica incisa. Nei pressi del litorale, i ripari rupestri erano integrati da chiocciolai all'aperto. Dunefield Midden è uno di tali numerosi siti in cui le attività di sussistenza erano centrate sulla caccia ad antilopi, sul consumo di carne di balene spiaggiate e sulla raccolta di molluschi. Ossa di foca con tracce di morsi documentano la presenza di cani, che ‒ sebbene le evidenze in merito siano realmente molto scarse ‒ a partire da questo periodo erano probabilmente diffusi tra i raccoglitori dell'Africa Meridionale. Rare ossa di pecora consentono di ipotizzare contatti con i vicini gruppi di allevatori.
Oltre a conservare tracce di insediamenti precoloniali appartenenti a comunità di allevatori, la valle del Seacow ha restituito per il II millennio d.C. alcune delle migliori evidenze dell'occupazione delle regioni interne dell'Africa Meridionale a opera di gruppi di cacciatori-raccoglitori. Gli studi condotti sulla produzione fittile rilevano la presenza di marcate differenze nella dimensione, nella forma e nell'argilla tra la ceramica degrassata con quarzo prodotta dai ceramisti Khoikhoi e il vasellame degrassato con fibre vegetali fabbricato dalle comunità di cacciatori-raccoglitori. Attualmente per questi ultimi è stata elaborata una sequenza stilistica, ma i tentativi di ricostruire la geografia sociale dei suoi artefici sono risultati ardui. I modelli di utilizzazione dei ripari rocciosi suggeriscono che i gruppi assecondassero strettamente i mutamenti climatici: il periodo di siccità verificatosi circa 400 anni fa vide una netta intensificazione della raccolta di uova di struzzo, ricche di proteine, finalizzata a compensare decrementi nel numero delle prede animali. I complessi di manufatti litici associati hanno ricevuto diverse denominazioni, quali Ceramic Wilton e Smithfield, ma le differenze tra i due complessi sono state sovrastimate ed essi non furono parte di una semplice successione cronologica. I raschiatoi Smithfield, dalla caratteristica forma allungata, documentano probabilmente l'uso di cornubianite piuttosto che di opalina come materia prima, mentre è oggi chiaro che i microliti a dorso, che anteriormente erano considerati assenti dal complesso Smithfield, perdurarono fino alle fasi finali del XVIII secolo. Punte di osso erano inoltre utilizzate come armature di freccia, mentre la distribuzione di altre probabili tipologie di proiettile (punte e microliti a dorso scheggiati mediante la tecnica della pressione) permette di ipotizzare che i gruppi di cacciatori-raccoglitori della valle del Seacow formassero parte di una rete che si estendeva a oriente fino al Drakensberg Escarpment. Se non erano ottenuti direttamente dagli agricoltori di lingua Sotho dell'highveld, i rari oggetti di ferro e le perle di vetro potrebbero avere raggiunto la valle del Seacow attraverso tali reti di relazioni.
Punte di freccia scheggiate per pressione sono state identificate anche nella Provincia Settentrionale del Capo, dove sia i cacciatori-raccoglitori che i gruppi pastorali praticavano scambi con i coltivatori. Come la già citata specularite, l'ocra rossa era altamente apprezzata e commerciata. Mentre i complessi Doornfontein, ritenuti attribuibili agli allevatori, si concentrano nelle aree vicine all'Orange, rinvenimenti del complesso Swartkops ‒ che comprendono ceramica d'uso, priva di decorazione e spesso degrassata con fibre vegetali, e una più alta frequenza di strumenti di pietra ritoccati ‒ documentano probabilmente la presenza di gruppi di cacciatori-raccoglitori. La maggior parte dei siti Swartkops è successiva al 1400 d.C., quando condizioni climatiche leggermente più fredde e umide produssero incrementi nella disponibilità di risorse in questo ambiente semiarido. La fase terminale dell'industria è associata con gli /Xam Bushmen storici e con molti graffiti rupestri dell'area. Incisioni puntinate, che comprendono rappresentazioni di animali domestici e motivi geometrici interpretati come immagini allucinatorie realizzate in uno stato alterato di coscienza, sono invece più probabilmente opera degli allevatori Khoikhoi.
L'arte rupestre è una delle componenti più visibili del paesaggio archeologico dell'Africa Meridionale (Pitsaneng, Sehonghong). Nella maggior parte dei casi essa fu opera delle comunità boscimane e viene generalmente interpretata come memoria e parte integrante di credenze relative alle pratiche e alle esperienze sciamaniche. Di importanza centrale presso gli sciamani di tale gruppo ‒ così come presso gli odierni Boscimani del Kalahari ‒ era l'abilità a curare le malattie, a impetrare la pioggia, a controllare i movimenti della selvaggina e a compiere "viaggi" al di fuori del proprio corpo. Purtroppo, a tutt'oggi la gran parte delle incisioni e delle pitture rupestri può essere datata solo in forma approssimativa, sebbene a questo riguardo siano stati compiuti progressi (Giant's Castle). Le difficoltà di datazione implicano spesso una non agevole correlazione tra l'arte rupestre e il suo complesso contesto sociale e ideologico e altri aspetti documentati dal materiale archeologico. Un esempio in senso opposto proviene da Rose Cottage Cave, nel settore orientale del Free State. Stringenti analogie tra i comportamenti di gruppi recenti di Boscimani del Kalahari, la grande quantità di accumuli di ossa e l'ampia varietà di selvaggina rinvenuta, insieme alle evidenze di un'organizzazione formale nell'uso dello spazio all'interno di ripari rocciosi e della manifattura di perle di guscio di uova di struzzo, sono state utilizzate per inferire che questo esteso sito aveva la funzione di nucleo aggregativo per i cacciatori-raccoglitori della valle del Caledon. A conferma di tale teoria, le pitture comprendono scene che mostrano una leonessa tra una mandria di antilopi, alludendo alla minaccia di scissione connessa con le vaste aggregazioni di gruppi e alla "danza della medicina" attraverso cui veniva mantenuta l'armonia sociale. Altre rappresentazioni di quello che potrebbe essere stato un pesce mormoride, taxon identificato in aree non più vicine del KwaZulu-Natal settentrionale, si associano alla presenza di conchiglie dell'Oceano Indiano, a documentare contatti a lunga distanza, forse analoghi a quelli che avvenivano all'interno delle reti di scambio di doni hxaro delle società boscimane note attraverso la documentazione etnografica. Mediante tali reti di scambio non si trasmettono solo doni: esse rinsaldano vincoli sociali, consentono la circolazione di informazioni, aiutano all'acquisizione di partners matrimoniali e contrastano la carenza di risorse creando legami di reciprocità con gruppi di aree vicine. Il ricorso a studi antropologici sullo sciamanismo, sulle modalità di aggregazione e sugli scambi di doni è in tal modo divenuto per gli archeologi che si occupano dei gruppi di cacciatori-raccoglitori dell'Africa Meridionale un approccio progressivamente più diffuso e fecondo, sebbene sia importante ricordare anche che la documentazione etnografica disponibile probabilmente non rappresenta l'intera gamma di variabilità esistente tra le società del passato.
I contatti tra cacciatori-raccoglitori, allevatori e agricoltori e i mutamenti che tali relazioni possono avere stimolato sottolineano ulteriormente questo punto. Nel XIV-XV sec. d.C., ad esempio, Rose Cottage Cave venne abbandonato ed esso fu forse rimpiazzato come nucleo aggregativo dai primi villaggi agricoli. Proseguì (e forse aumentò) l'utilizzazione di molti ripari rocciosi di dimensioni minori, frequentati più sporadicamente, e in alcuni casi la loro ricca arte rupestre potrebbe avere contribuito a sostituire la "reale" aggregazione di una popolazione ora maggiormente dispersa. La sostituzione del vasellame Smithfield degrassato con fibre vegetali con altre ceramiche fabbricate dai Sotho suggerisce anch'essa che le relazioni dei raccoglitori si fossero riorientate verso le comunità agricole sopraggiunte. Gli agricoltori non penetrarono nelle regioni più meridionali della valle del Caledon, e qui le pitture di bestiame, di pecore e di scudi Sotho, presumibilmente scelti dagli artisti cacciatori-raccoglitori come simboli del potere soprannaturale emanato dagli sciamani, sono numerose. Più a nord, i cacciatori-raccoglitori sembrano essere stati spodestati o assimilati più velocemente; tale assimilazione è documentata in quest'area e tra i gruppi di lingua Nguni del KwaZulu-Natal e della Provincia Orientale del Capo da evidenze genetiche e linguistiche e dalle tradizioni orali. Relazioni patron-client del genere forse indicato da rinvenimenti di perle di vetro e ferro, di sorgo e di ceramica dei gruppi agricoli nel contesto di ripari rocciosi del bacino del Thukela possono documentare la fase iniziale di questo processo, che trova parallelismi più a nord nelle regioni del Magaliesberg e del Waterberg. In almeno un caso, comunque, i gruppi di cacciatori-raccoglitori adottarono con successo alcuni elementi dell'economia agricola. Lungo il fiume Riet del settore occidentale del Free State siti appartenenti al tipo R, con i loro caratteristici recinti di muri di pietra, con ceramiche e tumuli funerari, possono essere posti in relazione con i Boscimani incontrati dai viaggiatori europei degli inizi del XIX secolo; resti di fauna e studi dell'isotopo stabile delle sepolture umane confermano i loro resoconti, secondo cui questi gruppi associavano attività di caccia e raccolta con l'allevamento di bestiame, pecore e capre.
Gli Europei penetrarono per la prima volta nelle acque dell'Africa Meridionale nel 1485, quando i Portoghesi discesero la costa della Namibia. Doppiato il Capo di Buona Speranza nel 1488, essi giunsero nell'Oceano Indiano dieci anni più tardi, aprendo le rotte marittime tra l'Europa e le Indie. L'interesse dei Portoghesi per l'area del Capo fu limitato all'acquisizione di bestiame dagli allevatori Khoikhoi e cessò alla morte, avvenuta nel corso di una schermaglia, del viceré dell'India nel 1510. Gli scavi eseguiti in siti di naufragio ubicati lungo la costa, come quelli del São João (1552) e del São Bento (1554) hanno fornito maggiori informazioni dei padrões (croci commemorative di pietra). I resoconti dei sopravvissuti forniscono le prime importanti testimonianze sulle popolazioni native del settore più meridionale dell'Africa; essi sono integrati, nel caso del São Gonçalo, da scavi effettuati nell'accampamento temporaneo che il suo equipaggio costruì nel 1630 nella Baia di Plettenberg.
Il principale interesse dei Portoghesi per l'Africa Meridionale risiedeva più a nord, sulla costa del Mozambico, dove il porto di Sofala venne conquistato nel 1505. Piccole comunità di commercianti furono rapidamente fondate lungo la valle dello Zambesi quando il Portogallo tentò di garantirsi l'accesso esclusivo alle esportazioni di oro dello Zimbabwe. Molta parte di questo commercio venne presto controllata dai prazeros locali, proprietari terrieri a cui erano state date concessioni reali e che contrassero matrimoni con la popolazione locale, dando vita a una società creolizzata che per mantenere il proprio status utilizzava simboli di rango africani. Virtualmente non sono stati condotti scavi archeologici nei siti associati ai prazeros, ma essi sono stati intrapresi nell'altopiano dello Zimbabwe. Tra di essi occorre citare quelli nei siti di Mtoko (Luanze) e Hartley (Maramuca), dove strutture di mattoni essiccati al sole o abitazioni a cannicciata erano circondate da terrapieni o fossati; a Mtoko vi erano anche una chiesa e un recinto di muri di pietra separato, contenente altre abitazioni e una necropoli. Le fonti storiche identificano entrambi i siti come luoghi per l'immagazzinamento e la vendita di mercanzie, come confermerebbero rinvenimenti di ceramica cinese ed europea, di perle di vetro e oro e di polvere d'oro.
A partire dalla fine del XVI secolo le nazioni europee iniziarono a minacciare la supremazia dei Portoghesi nell'Oceano Indiano. Per i sessanta anni precedenti alla fondazione, a opera della Compagnia Olandese delle Indie Orientali (VOC, Verenigde Oostindische Compagnie), di una base nel luogo in cui attualmente sorge Città del Capo, navi sia inglesi che olandesi facevano regolarmente scalo a Table Bay, scambiando dapprima ferro e successivamente rame e tabacco contro bestiame. Un esito di tale fenomeno potrebbe essere stato quello di incoraggiare le locali tribù Khoikhoi ad aumentare il numero dei loro capi di bestiame e a competere le une contro le altre in forma più aggressiva per avere accesso a questi beni altamente apprezzati; se così fosse, occorrerebbe ancora maggiore cautela nel proiettare indietro nel tempo alcuni particolari delle osservazioni sulla società Khoikhoi datate al XVII-XVIII secolo. L'effettivo insediamento europeo nell'area occupata dall'odierna Repubblica Sudafricana avvenne più per caso che per progetto, iniziando con l'avamposto VOC a Città del Capo nel 1652 e con la comparsa dei primi agricoltori liberi cinque anni più tardi. I tentativi di sviluppare un'intensiva economia agricola mista fallirono presto per l'assenza di capitali e di manodopera e questi coloni (freeburghers) si orientarono invece verso l'agricoltura estensiva del grano e l'allevamento di bestiame. Nondimeno, gli alti costi del trasporto terrestre ebbero come conseguenza che l'agricoltura fosse un'attività praticabile solo nelle aree vicine a Città del Capo.
Più nell'entroterra, i coloni (noti come trekboers) si orientarono progressivamente verso l'allevamento del bestiame, la caccia e il commercio con gruppi indigeni, dipendendo dal Capo per l'approvvigionamento di armi da fuoco, di manifatture e beni come caffè e zucchero, ma essendo man mano più autonomi rispetto alla dominazione del VOC. Sebbene numericamente ridotti, furono questi coloni a sospingere in avanti la frontiera dell'insediamento europeo almeno fino al fiume Orange a partire dal 1800. Poco tempo dopo il controllo della colonia del Capo passò alla Gran Bretagna e nel secolo successivo l'intero subcontinente cadde sotto il dominio europeo.
Con il supporto delle evidenze sia materiali sia testuali, l'archeologia si è venuta progressivamente evolvendo nella comprensione della complessità dei processi sopra descritti. Tra i temi di maggiore importanza vi è l'archeologia di quei settori della popolazione coloniale (donne, schiavi, impiegati ordinari del VOC) generalmente sottorappresentati nei documenti dell'epoca; le relazioni tra etnicità e cultura materiale; le strutture cognitive attraverso cui i colonizzatori e i colonizzati organizzarono la propria esistenza in circostanze nuove e in rapido mutamento; le conseguenze per i gruppi indigeni dell'espansione del commercio e degli insediamenti europei. Per il periodo della presenza olandese molte di queste ricerche hanno avuto luogo nella stessa Città del Capo e nelle sue immediate vicinanze. Tra i siti, scavi sono stati intrapresi a Castle of Good Hope, a Paradise, una stazione per l'approvvigionamento di legno ubicata sui fianchi del monte Table, in numerosi siti abitativi all'interno della città moderna e in siti di naufragio di imbarcazioni nella Table Bay (Oosterland). I rinvenimenti documentano come la cultura materiale fosse utilizzata per supportare le distinzioni di classe, ad esempio nell'accesso differenziale a porcellana di alta qualità, a bicchieri di vetro o a tagli selezionati di carne.
Oltre a quelli di Città del Capo, gli scavi a Oudepost 1 e Vergelegen sono stati quelli in cui sono stati raccolti i dati più interessanti. Quest'ultimo sito è una tra le più imponenti delle molte fattorie costruite nel Capo durante il XVIII secolo. La loro caratteristica architettura, che diede infine adito a castelli simmetrici con pianta a U, fu una strategia attraverso cui i ricchi freeburghers poterono installarsi fisicamente e permanentemente nel paesaggio in forma impossibile da negare, nonostante essi fossero esclusi da qualsiasi forma significativa di condivisione del potere politico dal governo VOC. A tutt'oggi gli insediamenti rurali sono stati comunque oggetto di ricerche relativamente scarse, sebbene vi siano evidenze dello sviluppo di stili architettonici locali a partire da una tradizione edilizia nord-europea che impiegava materiali locali. Più a est, piccole e meno elaborate costruzioni agricole ubicate nell'Overberg occidentale documentano lo status economicamente più marginale dei loro proprietari. Di poco successivi, e localizzati nella Provincia Orientale del Capo, gli insediamenti edificati dai coloni britannici a partire dal 1820 sono stati interpretati come forma di segnalazione sul territorio africano di una "memoria" idealizzata dell'Inghilterra rurale. Questi studi, che analizzano la formazione di una specifica frontiera culturale dei coloni britannici in Africa Meridionale, trovano evidenti parallelismi con i più antichi sviluppi verificati in America Settentrionale.
Fino all'abolizione della schiavitù nel 1838, il Capo fu una società schiavista; nel corso del XVIII secolo gli schiavi ammontavano a circa la metà della sua popolazione. L'immigrazione europea venne strettamente controllata dal VOC, che non aveva interessi espansionistici ma tendeva piuttosto alla creazione di una base strategica e a una stazione di sosta per le sue navi e i suoi equipaggi, mentre i coloni inizialmente trovarono i Khoikhoi locali riluttanti a lavorare nelle fattorie. L'importazione di schiavi fu la soluzione al problema. Gli arrivi complessivi ‒ provenienti per la maggior parte dal Madagascar e dall'India ‒ probabilmente ammontavano ad alcune centinaia ogni anno. Numerosi schiavi di proprietà del VOC erano condotti a Città del Capo e utilizzati in progetti della Compagnia; qui risiedevano anche molti di quelli che costituivano la proprietà di privati, essendo utilizzati come servi domestici o come forza-lavoro qualificata e non; i restanti costituivano la struttura portante della forza-lavoro che produceva vino e granaglie nell'hinterland di Città del Capo. Molti studi sono stati finalizzati a stabilire se possa essere identificata archeologicamente una cultura materiale caratteristica degli schiavi. Un fattore che complica la questione è che molti schiavi del Capo potrebbero essere già stati familiarizzati alle ceramiche utilizzate nella colonia; analisi dei complessi ceramici consentono di ipotizzare una rapida adozione di ingredienti e metodi di preparazione del cibo indonesiani e malesi, sebbene i bicchieri suggeriscano legami più persistenti con consuetudini europee. Forse più significativamente, il pavimento di un mulino di Vergelegen conteneva i resti di numerose e poco profonde cavità di focolari, circondate da mattoni, che ricordano i luoghi di cucina del Madagascar e di altre località africane. Scavi nell'alloggiamento di schiavi del VOC a Città del Capo hanno aggiunto ulteriori dati a questa ricostruzione, che è per altri versi integrata dalle evidenze funerarie. Tra gli esempi più interessanti vi sono le sepolture della necropoli di Cobern Street, risalente agli inizi del XIX secolo, e quella di una donna in età matura rinvenuta in uno dei quartieri di schiavi di Vergelegen. In entrambi i casi analisi dell'isotopo stabile attestano che a una dieta ricca di granaglie tropicali (che confermerebbe origini nell'Oceano Indiano) in età infantile faceva seguito un'alimentazione ricca di granaglie proprie di climi temperati e di pesci appartenenti a specie di cui frequentemente si cibavano gli schiavi.
Ma la colonia VOC non era composta soltanto di schiavi e di individui liberi di razza bianca. Un altro gruppo sociale era costituito dai freeblacks, alcuni dei quali erano schiavi affrancati, altri esiliati politici provenienti da possedimenti olandesi in Indonesia. Insieme essi formavano un'importante parte della popolazione della Città del Capo del XVIII secolo, che introdusse e diffuse l'Islam, contribuendo inoltre con molti elementi alla cucina tradizionale e allo sviluppo della lingua Afrikaans, inizialmente trascritta con caratteri arabi. Ardue da identificarsi archeologicamente, alcune delle sepolture di Cobern Street potrebbero appartenere a individui musulmani; le tombe di membri della comunità di alto rango divennero peraltro importanti centri locali di pellegrinaggio.
I gruppi indigeni di cacciatori-raccoglitori e di allevatori dell'area del Capo non accettarono senza resistenza la presenza del governo del VOC, ma due guerre (1659-60 e 1673-77) posero fine al potere dei gruppi Khoikhoi più vicini a Città del Capo. Nei decenni successivi il commercio ufficiale di bestiame del VOC venne progressivamente affiancato da spedizioni illegali, che accelerarono una permanente perdita di bestiame alla colonia. L'espropriazione dei migliori terreni da pascolo per l'insediamento europeo, la carenza di manodopera quando gli individui iniziarono a lavorare per gli Europei in modo da ottenere tabacco e cibi, l'interferenza del VOC nella politica Khoikhoi ed epidemie di vaiolo furono fattori che contribuirono al crollo delle comunità indipendenti Khoikhoi dei settori sud-occidentale e meridionale del Capo. Sebbene il VOC insistesse che i Khoikhoi restassero individui liberi (essi non potevano infatti essere schiavizzati), molti di essi vennero progressivamente incorporati in un'economia coloniale come classe lavoratrice dipendente. Un'alternativa era quella di allontanarsi dalla colonia in espansione. Due importanti gruppi fecero ciò, ricalcando gli spostamenti nell'entroterra di coloni bianchi. Gli Oorlam erano in larga parte formati da Khoikhoi che avevano lasciato la Colonia, mentre le comunità Bastaard erano di razza mista, cristianizzate e parlanti la lingua olandese. Altri gruppi, come i Namaqua, furono sospinti nelle regioni più interne dalla loro avanzata. Le ricerche archeologiche condotte a //Khauxa!nas, nella Namibia meridionale, un'antica base Oorlam del XIX secolo, hanno analizzato l'architettura e l'organizzazione interna del sito. Esistevano restrizioni all'accesso ad abitazioni rettangolari, di grandi dimensioni, che erano dotate di sistemi di drenaggio nonostante l'aridità del clima, mentre il muro meridionale dell'insediamento, rivolto verso la lontana Città del Capo, era il più elaborato. Tali tratti indicano non solo la volontà di impressionare i potenziali visitatori, ma anche lo sviluppo all'interno della comunità Oorlam di relazioni sociali fortemente asimmetriche; la maggior parte della popolazione viveva probabilmente in abitazioni di pietra a pianta circolare o nelle strutture tradizionali realizzate con stuoie di canne (matjieshuise). Nella Repubblica Sudafricana gruppi Korana e Griqua Bastaard equipaggiati con fucili e cavalli costituirono l'avanguardia dell'avanzata della frontiera coloniale lungo il fiume Orange e in aree orientali tanto distanti come il Lesotho. Pitture, realizzate con l'impiego delle dita, raffiguranti cavalli o uomini a cavallo nel corso di battute di caccia a elefanti potrebbero essere attribuite ai Korana, mentre l'analisi delle sepolture identificate nelle necropoli Griqua del XIX secolo attesta una dieta ricca di vegetali coltivati e una popolazione sostanzialmente di origine Khoisanide e negroide piuttosto che europea.
Quando i trekboers si espansero nelle regioni interne della Repubblica Sudafricana, essi iniziarono a utilizzare la razza e il cristianesimo per distinguere se stessi dagli Oorlam, dai Bastaard e da altre comunità di razza mista. Concentrandosi in aree che offrivano le migliori risorse idriche e i migliori terreni da pascolo, essi ingaggiarono aggressive competizioni con gli allevatori e i cacciatori-raccoglitori indigeni, uccidendo sistematicamente o schiavizzando i gruppi che opponevano resistenza. La valle del Seacow fu il centro di una lotta particolarmente prolungata, che dal 1770 si protrasse fino agli inizi dell'Ottocento. Dalle sequenze individuate nei ripari rocciosi si rilevano una graduale comparsa di beni commerciali europei, alcuni dei quali erano stati distribuiti per acquistare pace od occupazioni lavorative, e la decadenza delle tradizioni indigene nella manifattura di oggetti di pietra, osso e ceramica. L'estinzione delle mandrie selvatiche prodotta dalle attività di caccia europee accelerò la trasformazione dei Boscimani sopravvissuti in lavoratori agricoli e le sequenze dei ripari rocciosi documentano il loro crescente accesso a bestiame domestico e a piante coltivate.
In altre località è l'arte rupestre quella che meglio documenta la progressiva espropriazione subita dai cacciatori-raccoglitori del settore più meridionale dell'Africa. Nell'area di Koue Bokkeveld, nella Provincia Occidentale del Capo, rozze pitture, realizzate essenzialmente con le dita e probabilmente successive al 1750, comprendono rappresentazioni di cavalli, di carrozze e di individui che indossano abiti europei. È comunque nel Drakensberg che si rinviene la più grande concentrazione di arte rupestre del XIX secolo. In questa regione i Boscimani iniziarono a essere impegnati nel commercio dell'avorio con gli Europei a partire dagli anni Venti dell'Ottocento; le rappresentazioni dipinte di scene di caccia a elefanti possono essere poste in relazione con tale commercio. Le scene che ritraggono individui europei, cavalli o altre immagini coloniali riconoscibili non possono comunque essere interpretate in senso letterale. Piuttosto, esse forniscono evidenze di un'intensificazione delle attività degli sciamani boscimani, che probabilmente utilizzavano i propri poteri per proteggere la comunità da nemici, impetrare la pioggia e coordinare razzie e commerci, ottenendo perciò un ruolo di leadership. Nelle fonti storiche non solo si fa cenno all'esistenza di modelli non egualitari di organizzazione sociale tra questi gruppi di cacciatori-raccoglitori, ma viene anche sottolineato come essi, una volta che ebbero acquisito i cavalli, costituissero una minaccia militare per gli agricoltori neri e bianchi. Tali mutamenti furono nondimeno insufficienti al mantenimento di un'esistenza indipendente dinanzi all'espansione dei coloni europei, Sotho e Nguni, e prima della fine del XIX secolo le ultime comunità boscimane a sud del Kalahari erano state annientate. Nel Botswana e nella Namibia, dove sopravvivono numerosi gruppi boscimani, scarsi sono stati i progetti archeologici specificatamente indirizzati allo studio della loro storia. Resta dunque poco chiaro il grado in cui essi vennero modificandosi, economicamente e socialmente, attraverso la partecipazione alle reti locali di scambio che, nella seconda metà del XIX secolo, comprendevano la fornitura di avorio, pelli e piume di struzzo a commercianti europei.
Ritornando a sud dei fiumi Limpopo e Orange, la presenza europea ebbe importanti conseguenze nel settore sud-orientale del continente. A partire dal 1800, la Baia di Delagoa si era venuta configurando in quest'area come un importante centro per l'esportazione di avorio e tra i chiefdoms locali Nguni era intensa la competizione per il suo approvvigionamento. Le esportazioni annue di questo materiale raggiunsero alla fine del Settecento le 50 t e si è già accennato a quanto nelle regioni interne l'avorio fosse ricercato. In cambio, i gruppi africani ottenevano perle di vetro, stoffe e ottone, che i capi utilizzavano per ricompensare i loro sottoposti e per accumulare maggiori quantità di bestiame per se stessi. I conflitti tra le emergenti leaderships vennero accresciuti da razzie di bestiame, da una flessione nel numero degli elefanti, da conflitti per la terra e da mutamenti climatici e delle strategie di sussistenza. Particolarmente importante fu l'adozione del mais, introdotto in Africa Meridionale dai Portoghesi e già coltivato nel Capo Orientale dal 1635. Con raccolti fino a tre volte maggiori rispetto a quelli di sorgo e miglio perlato e con un impegno lavorativo molto ridotto, la coltivazione del mais venne favorita nelle fasi finali del XVIII secolo da un più alto regime di precipitazioni. L'aumento del numero dei siti, una dislocazione degli insediamenti finalizzata a un maggiore sfruttamento di terreni precedentemente marginali, rinvenimenti di tutoli di mais e un aumento nel numero di pietre da macina più grandi e più profondamente scavate sono elementi che attestano questo mutamento nel settore sud-orientale dell'Africa Meridionale, sebbene esso non possa ritenersi generalizzato. Il mais non ebbe, ad esempio, particolare importanza per i gruppi Tswana prima degli anni Venti dell'Ottocento e lo sviluppo di un maggiore grado di centralizzazione politica, di modelli insediativi concentrati e della competizione, evidente nella Provincia Nord-Occidentale, fu causato pertanto da altri fattori, che sono già stati citati. Le stesse sequenze dendrocronologiche ottenute nel KwaZulu-Natal, che attestano un incremento delle precipitazioni, mostrano che agli inizi del XIX secolo si verificarono numerosi periodi di intensa siccità. Le fonti storiche riportano che esse furono aggravate da malattie che colpirono sia le colture sia il bestiame. Si ebbero dunque periodi di scarsità di cibo, che spinsero numerosi gruppi a introdurre altri mutamenti nella propria organizzazione, comprendenti la creazione di reggimenti militari permanenti che avrebbero potuto essere impiegati per ottenere terra, donne, bestiame e granaglie da altri gruppi.
A partire dal 1810 tre confederazioni dominarono il settore settentrionale del KwaZulu-Natal, con alcuni chiefdoms minori che già si stavano spostando per cercare rifugio in altre località, e tra di essi i lignaggi che successivamente avrebbero fondato lo Stato Swazi. Altri si diressero verso le regioni nord-occidentali e contribuirono, insieme ai Korana e ai Griqua, a incrementare i conflitti nell'highveld. Molti degli insediamenti cinti da muri di pietra cui si è fatto cenno sopra vennero abbandonati in quest'epoca. Nel KwaZulu-Natal il capo Zulu Shaka emerse come il protagonista principale, guidando un movimento espansionista che alla sua morte, avvenuta nel 1824, lo aveva portato a controllare tutti i territori tra i fiumi Phongolo e Thukela. Altre vaste entità politiche che emersero da questo modello molto complesso di conflitti furono i regni Ndebele del Mzilikazi, inizialmente localizzato nel settore centro-settentrionale della Repubblica Sudafricana e successivamente nello Zimbabwe occidentale, lo Stato Gaza del Mozambico, le formazioni politiche Basotho e Tlokwa dell'highveld e un risorto chiefdom Pedi.
L'archeologia offre numerose prospettive di osservazione di questi processi. Essa ha documentato, ad esempio, come in alcune aree la definizione del potere Zulu comprese l'imposizione di un modello di insediamento Zulu nei bassopiani, in comunità che avevano precedentemente posseduto tipi diversi di organizzazione spaziale. I ricercatori hanno inoltre condotto ricerche in alcuni centri reali dello Stato Zulu, soprattutto a Mgungundlovu e Ondini. Tutti mostrano la caratteristica pianta di un centro governativo Zulu, sostanzialmente una versione fortemente ingrandita delle fattorie organizzate secondo il central cattle pattern. Ma, nonostante le loro dimensioni e la loro importanza amministrativa, questi insediamenti continuarono a essere approvvigionati dai villaggi da cui provenivano i guerrieri in essi residenti. Le attività artigianali erano troppo limitate, essendo centrate sulla produzione di oggetti destinati a essere usati dal sovrano. La distribuzione di manufatti di ottone realizzati in questi siti, insieme con la circolazione di perle di vetro importate, continuarono a essere strategie attraverso cui i capi potevano ricompensare i loro sottoposti. Il controllo della produzione di ferro, l'utilizzazione di una grande quantità di individui di entrambi i sessi che si occupavano del bestiame e dei campi agricoli reali, l'abolizione delle tradizionali scuole di iniziazione e l'imposizione di donne della stirpe regnante al comando di centri reali minori furono altri mezzi attraverso cui i sovrani Zulu tentarono di affermare la loro autorità.
Oltre al KwaZulu-Natal, è stata a tutt'oggi intrapresa una quantità relativamente limitata di ricerche sull'archeologia di questo periodo, che viene spesso definito Mfecane. I siti reali di Gaza, Swazi e Basotho sono stati scarsamente studiati, sebbene vi siano solide evidenze della vastità dei fenomeni di distruzione subiti in questo periodo da molte comunità. Nel Mpumalanga, ad esempio, KwaMaza, la capitale del gruppo Ndzundza Ndebele di lingua Nguni (che era stato insediato in quest'area per alcuni secoli), fu distrutta dal sovrano Mzilikazi e successivamente venne trasferita in un'altra località caratterizzata da un'ubicazione maggiormente atta alla difesa. Elemento di particolare interesse, gli Ndzundza costruirono le loro abitazioni secondo forme che presentano più strette affinità con quelle dei loro vicini, i Pedi di lingua Sotho, forse per differenziarsi dai gruppi di invasori, che parlavano una lingua simile alla loro. Essi ricoprirono inoltre con maggiore regolarità e accuratezza i loro rifiuti, allo scopo di evitare che le streghe avessero possibilità di accesso agli scarti domestici, potenzialmente pericolosi. In altri siti, come in quello di Lepalong, è documentato lo spostamento di alcune comunità in grotte sotterranee, allo scopo di difendere da attacchi individui, animali e granaglie. Nello Zimbabwe sono stati inoltre identificati siti isolati, ubicati in ripari rocciosi o in nascondigli tra massi di granito. Associati in forma caratteristica con contenitori per granaglie di argilla e ceramica, generalmente si ritiene che essi testimonino una risposta Shona alle invasioni degli Ndebele e dei più antichi Ngoni. Qui, nel Matabeleland, dove gli Ndebele fondarono il loro regno dopo che gli Ngoni ebbero distrutto lo Stato Rozvi, gli scavi si sono concentrati a Old Bulawayo, sito che rappresenta l'ultima capitale degli Ndebele.
Old Bulawayo, come l'ultimo centro reale Zulu, Ondini, fu distrutto dalle forze britanniche alla fine del XIX secolo. Tali eventi marcarono le fasi terminali della conquista europea dell'Africa Meridionale. L'archeologia acquista progressivamente maggiori capacità di documentare aspetti di questo passato molto recente, rimosso o trascurato dalle fonti documentarie. Tra gli studi di maggiore rilevanza occorre citare quelli effettuati a Schoemansdal, un'importante stazione boera di approvvigionamento di avorio risalente alla metà del XIX secolo, e a Sandwich Harbour, ubicata sulla costa della Namibia, che divenne un importante approdo per le imbarcazioni euroamericane per la pesca e per la caccia alla balena. Sono stati inoltre indagati alcuni siti industriali e alcune fortificazioni risalenti alla guerra anglo-Zulu e alla prima e alla seconda guerra sudafricana (anglo-boera). Non dovrebbe esistere più alcuna esitazione a condurre ricerche sui mutamenti culturali prodotti dalla crescita di un'economia capitalista e da strutture più formalizzate di oppressione razziale. Gli studi effettuati a Mabotse rappresentano in questo senso un esempio: qui è stata documentata l'adozione di un'architettura rettangolare di stile europeo nei recinti per il bestiame associati agli individui di sesso maschile, nelle corti e nelle aree che appaiono essenzialmente contrapposte alla persistenza di abitazioni di forme circolari. L'intenzionale sostituzione di ceramiche tradizionali potrebbe anche documentare il crescente impiego lavorativo degli individui di sesso maschile secondo modalità che permisero loro di avere accesso a vasi di ferro proprio mentre stavano scomparendo le tradizionali pratiche, controllate dai maschi, di lavorazione del ferro. Più a occidente, nel Botswana (Phalatswe), sono state identificate altre evidenze di come le società africane incorporassero attivamente nei propri modelli di vita aspetti della società europea, in questo caso la cristianità. Mentre essi facevano ciò, i coloni europei e i loro discendenti stavano iniziando a fondare l'archeologia come disciplina che avrebbe potuto fornire dati sul passato di tutti i gruppi dell'Africa Meridionale.
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di Zoe Crossland
Il Madagascar si trova nel settore occidentale dell'Oceano Indiano, 400 km al largo della costa orientale dell'Africa. Con un'estensione territoriale superiore a quella della Francia e della Svizzera insieme, i suoi diversificati ambienti sono stati occupati dall'uomo solo negli ultimi 2000 anni. Alcune tra le principali questioni di interesse archeologico riguardano: il popolamento dell'isola e il ruolo rivestito dai gruppi umani nell'estinzione della megafauna che la abitava; la partecipazione del Madagascar alle reti commerciali dell'Oceano Indiano; la formazione di Stati nelle regioni montuose e nelle aree costiere; infine, il significato sociale e politico delle pratiche funerarie e delle tradizioni megalitiche specifiche di quest'isola, e le modalità attraverso cui esse contribuirono al mutamento delle percezioni del paesaggio.
Il Madagascar può essere diviso in tre aree principali, che corrono parallele per tutta la lunghezza dell'isola, conformate dalla presenza di una dorsale montuosa nella zona centrale. I settori centrale e orientale dell'isola sono costituiti da formazioni metamorfiche e ignee, che digradano rapidamente in falesie verso la costa orientale; la maggior parte delle foreste pluviali dell'isola è localizzata lungo tale falesia orientale. L'area orientale dell'isola è quella in cui si registra il più alto tasso di precipitazioni annue e la sua costa è particolarmente soggetta a cicloni provenienti dall'Oceano Indiano. Generalmente lungo le coste i gruppi umani costruirono le proprie abitazioni con materiali vegetali leggeri e rinnovabili; i villaggi degli altipiani erano invece composti da case di pisé, e vi venivano praticati l'allevamento del bestiame e la risicoltura.
Il settore occidentale dell'isola è formato da depositi sedimentari di epoca più recente, che digradano dolcemente dagli altipiani centrali. Le attività agricole svolte nelle regioni montuose incrementarono la formazione di depositi alluvionali nelle zone di estuario dal lento corso e nei delta fluviali ubicati lungo la costa occidentale, costituendo un habitat ideale per le foreste di mangrovie. In senso generale si può affermare che i settori occidentale e meridionale godono di un clima più secco e sono abitati da gruppi con un'economia essenzialmente pastorale. L'estremo Sud è ben noto per la sua foresta spinosa xerofitica, molta della quale è endemica del Madagascar.
Nonostante la prossimità spaziale del Madagascar all'Africa, la lingua malgascia parlata nell'isola appartiene al gruppo linguistico austronesiano; la forma più strettamente imparentata a essa è stata identificata 7000 km a est, nel Borneo. Oltre alle evidenze che attestano origini indonesiane, vi sono anche abbondanti testimonianze riguardanti l'importanza di pratiche culturali e linguaggi dell'Africa Orientale nella formazione dell'odierna identità malgascia. Sebbene il malgascio sia parlato in tutta l'isola, esso contiene molti termini derivanti dal Bantu e vi sono evidenze storiche della presenza di individui di lingua Bantu sulla costa occidentale nel corso del XVII sec. d.C. Inoltre la maggior parte dei termini calendariali deriva dall'arabo. Recenti analisi genetiche effettuate sul DNA mitocondriale hanno dimostrato che elementi africani e polinesiano-austronesiani coesistettero nell'isola nel corso di molti secoli.
Considerata la profondità temporale dell'occupazione umana dell'Africa continentale, è sorprendente che la storia della presenza umana nel Madagascar si dati al massimo a 2000 anni fa.
Sedimenti conservatisi in depositi lacustri hanno fornito importanti testimonianze sul periodo in cui i gruppi umani giunsero in differenti settori del Madagascar e sul ruolo che essi rivestirono nell'estinzione di molta della fauna endemica di quest'isola, come l'Aepyornis maximus (il cd. "uccello-elefante") alto circa 3 m, l'ippopotamo pigmeo, la tartaruga gigante e i lemuri giganti. Evidenze delle più antiche attività umane sull'isola sono suggerite dalla comparsa di polline di Cannabis sativa in bacini lacustri delle regioni montuose oltre 2000 anni fa. Probabilmente introdotta da marinai che avevano bisogno di canapa per la fabbricazione di funi e di altri oggetti, la Cannabis sativa sembra essersi diffusa con molta rapidità, precedendo nel tempo l'arrivo dell'uomo in molti settori dell'isola. Dalle analisi condotte sui pollini identificati in diversi siti lacustri da D. Burney è stato possibile rilevare che prima dell'arrivo dell'uomo si era verificato un periodo di progressiva aridità e che nelle regioni montuose dominava un mosaico di praterie boscose e di foreste, in cui periodicamente avvenivano incendi non dipendenti dall'intervento umano. Dopo il 1900 B.P. circa sulla costa sud-occidentale e il 1300 B.P. nelle regioni interne, si registra comunque un visibile incremento nella quantità di particelle di carboni identificate nei sedimenti lacustri, insieme con una diminuzione della quantità di polline proveniente da piante legnose e un incremento nel polline di piante erbacee. Questi mutamenti furono probabilmente associati con le attività di disboscamento condotte da gruppi numericamente ridotti di pastori. Questo modello perdurò e, dopo il 600 B.P. circa, venne intensificandosi nelle regioni montuose, a suggerire un aumento di tali attività per la coltivazione a maggese, come confermano anche le evidenze archeologiche in merito alla colonizzazione umana dell'area. Le recenti ricerche condotte su spore fossili del fungo Sporormiella, che prolifera all'interno degli escrementi prodotti dai grandi mammiferi, consentono di ipotizzare che nello stesso periodo dell'arrivo dei primi gruppi umani si sarebbe verificato un decremento nel numero della megafauna, sebbene le evidenze archeologiche e storiche indichino che alcune specie sopravvissero fino a pochi secoli fa. Vi sono testimonianze di attività umane di caccia a fauna localmente estinta nella gola di Andavakoera, nelle regioni settentrionali, e ad Andranosoa, in quelle meridionali, ed è inoltre probabile che i gusci di uova di Aepyornis venissero utilizzati come contenitori. La predazione umana, insieme con l'introduzione di specie quali bovini, pecore, cani e topi nel contesto di mutamenti ambientali, potrebbe avere avuto un impatto significativo sulle specie endemiche. Burney ha dunque ipotizzato che l'estinzione della megafauna potrebbe essere stata il prodotto dell'interazione di questi differenti fattori.
Le più antiche evidenze di attività umane sull'isola sono costituite da incisioni prodotte da uno strumento di ferro su ossa di ippopotamo pigmeo coeve. Esse sono state rinvenute a Lamboharana e Ambolisatra e in altri siti ubicati nell'area sud-occidentale e risalgono agli inizi del I millennio d.C. Tali ossa possono rappresentare evidenze di attività sporadiche, forse realizzate da marinai che si erano accampati sull'isola. Altre testimonianze precoci di occupazione umana sono state identificate nell'estremo Sud, nel sito costiero di Enijo, sul fiume Menarandra, dove vennero recuperati frammenti di ceramica simile alla Triangle Incised Ware esposti dall'erosione del greto fluviale. Questo stile fittile si rinviene lungo la costa dell'Africa Orientale tra il VII e il X sec. d.C. In un sito vicino, datato tra il X e il XII sec. d.C., vennero rinvenute altre ceramiche affini allo Swahili Plain Ware. La natura delle relazioni tra queste comunità del Madagascar e quelle dell'Africa Orientale non è a tutt'oggi chiara. Dal momento che non sono stati ancora rinvenuti nello stesso contesto ceramiche di stile Swahili e vasellame indigeno del Madagascar, si può ipotizzare l'esistenza di una comunità Swahili autonoma lungo la costa meridionale.
Le più antiche datazioni assolute provenienti da contesti archeologici affidabili sono quelle ottenute nel riparo roccioso di Lakaton'i Anja, localizzato nell'estremità settentrionale dell'isola e scavato da R.E. Dewar e S. Rakotovololona, che si collocano nel V e nell'VIII sec. d.C. Sempre nell'area settentrionale, nell'isola di Nosy Mangabe contesti di scavo sono stati datati radiometricamente all'VIII sec. d.C. avanzato e hanno fornito alcune evidenze di pratiche di deforestazione e di incendio del territorio dopo l'arrivo dei primi gruppi umani nell'area. Nei livelli più bassi sono state rinvenute semplici ceramiche locali, insieme con scorie di ferro e frammenti di vasi di cloristoscisto. Materiali affini provengono dall'area intorno al fiume Mananara, nel settore nord-orientale dell'isola. Alcuni di questi antichi siti sembrano essere stati costituiti da occupazioni di breve durata, ma globalmente essi non risultano a tutt'oggi del tutto chiari. Vaste aree della costa restano inesplorate, ed è indubitabile che aree di antica occupazione devono ancora essere identificate.
A partire dal X sec. d.C. le evidenze divengono più consistenti e certamente dal XII sec. d.C. comunità erano insediate lungo tutta la costa del Madagascar. Tra il X e il XIV secolo in diverse aree del Madagascar si sviluppò un'ampia gamma di pratiche economiche e sociali, prefigurando spesso i modi di vita dei periodi successivi, documentati da fonti storiche. Per lo stesso periodo si registrano notevoli somiglianze tra i complessi ceramici in uso, sebbene con alcune differenze regionali, particolarmente tra quelli delle regioni settentrionali e quelli del settore meridionale dell'isola. A questo punto appare utile suddividere l'isola in tre grandi aree e iniziare ad analizzare le evidenze identificate nei settori settentrionale, nord-occidentale e nord-orientale della costa, esponendo successivamente quelle provenienti dalle aree meridionali e trattando infine dell'archeologia delle regioni montuose.
Durante il II millennio d.C. le comunità delle regioni settentrionali erano stanziate sulla costa e nelle aree limitrofe; esse erano coinvolte in differenti gradi nelle reti commerciali. Le ricerche condotte fino a oggi si sono concentrate essenzialmente sullo studio dei meccanismi di sviluppo degli antichi porti commerciali e sulle loro relazioni con l'hinterland locale e con altre aree. Nel XVII e nel XVIII secolo sulla costa occidentale e su quella orientale si assistette allo sviluppo di potenti entità politiche stratificate, che vennero descritte da viaggiatori europei e lo studio delle quali è ancora in una fase iniziale.
Nell'area nord-occidentale, nella baia di Ampasindava, nel X sec. d.C. o in epoca successiva, una comunità era insediata nel sito di Mahilaka, che divenne un importante centro per il commercio dell'Oceano Indiano. All'estremo Nord, nella gola di Andavakoera, i ripari rocciosi vennero probabilmente frequentati da gruppi coinvolti in tali commerci. Frammenti di cloristoscisto ed evidenze della lavorazione del ferro sono comunemente rinvenuti in siti datati tra il X e il XIV sec. d.C. e la presenza di vasi di cloritoscisto in diversi siti dell'Africa Orientale consente di ipotizzare che essi fossero probabilmente un elemento-chiave nelle esportazioni. La coeva ceramica locale, rinvenuta nel settore nord-occidentale intorno alla baia di Boeny, in quello settentrionale nei pressi di Mahilaka e Irodo e in quello nord-orientale nella valle di Mananara, comprende varianti di giare sferiche decorate da impressioni di conchiglie e da incisioni a zig-zag oppure ondulate, tracciate a pettine in prossimità dell'orlo, e ciotole poco profonde con ingobbio rosso. Queste ceramiche sono inoltre comparabili con quelle della fase Hanyundru, identificata nelle Isole Comore e datata tra l'XI e il XIV sec. d.C. e, come nelle Comore, sono presenti anche ceramiche importate quali vasellame sgraffiato, nero e giallo invetriato proveniente dal Golfo Arabico e vasi della dinastia Song. In Africa Orientale non sono stati recuperati esemplari fittili di produzione locale provenienti dal Madagascar, ma l'ampia distinzione tra ciotole con ingobbio rosso e giare inornate sembra essere stata predominante in Africa Orientale nel corso di questo periodo.
Durante il XIV sec. d.C. nuovi centri di commercio associati con mercanti islamizzati vennero fondati nell'area settentrionale del Madagascar e nelle Comore. Come in Africa Orientale, essi erano caratteristicamente costruiti su piccole isole o penisole, orientati verso il commercio costiero e protetti da possibili attacchi provenienti dalle regioni interne. Il centro di Mahilaka continuò a essere occupato fino al XV sec. d.C.; sulla costa nord-occidentale, Kingany (baia di Boeny) e l'isolotto di Nosy Manja furono importanti centri portuali nel corso del XIV e del XV sec. d.C., così come Vohemar, ubicato sulla costa nord-orientale. Questi siti hanno restituito materiali importati dall'Asia orientale e dal Golfo Arabico; sono stati identificati archeologicamente anche influssi islamici. A Vohemar gli individui erano sepolti in semplici tombe di pietra orientate verso nord, in accordo al costume islamico, insieme con una varietà di beni di corredo, dai quali può essere inferita l'esistenza di qualche forma di differenziazione sociale. Il commercio del cloristoscisto sembra avere rivestito a Vohemar una certa importanza; la materia prima proveniva da vicine cave e i vasi finiti sembrano essere stati prodotti nel centro stesso.
La ceramica locale di Vohemar e della costa nord-orientale ripropone più antiche tradizioni ceramiche, a differenza di quella del settore nord-occidentale, dove compaiono impressioni di motivi triangolari e ingobbiature di grafite. In un sito ubicato nell'estuario del Tsiribinha e risalente al XV-XVI sec. d.C. sono state rinvenute ceramiche affini a quelle provenienti da Kingany, localizzato centinaia di chilometri a nord. Sono stati identificati nei pressi di queste città gruppi di villaggi più piccoli e di frazioni rurali, ma la maggior parte di essi deve ancora essere studiata in dettaglio. Le ricerche archeologiche condotte nei pressi di Kingany da H.T. Wright e dai suoi collaboratori consentono di ritenere che esso non fu un centro regionale, ma che piuttosto derivò la sua importanza dai commerci oceanici.
In qualche momento nel corso del XVII sec. d.C. si costituì l'importante entità politica Menabe del Sakalava centro-occidentale, che successivamente avrebbe conquistato la maggior parte della costa occidentale e del suo hinterland. Sebbene nelle regioni dell'entroterra siano state intraprese scarse ricerche, alcune ricognizioni e scavi sono stati condotti da un team multidisciplinare di studiosi americani, malgasci e francesi nei pressi della baia di Boeny, sulla costa nord-occidentale, un'area che venne incorporata nella formazione politica Sakalava nelle fasi tarde del XVII sec. d.C.
La città di Antsoheribory, scavata da P. Vérin, rappresenta un sito-chiave per questo periodo, essendo datata tra la fine del XVI e gli inizi del XVIII sec. d.C. Ubicata in un isolotto nella baia di Boeny e circondata da piccoli villaggi-satellite, essa era probabilmente la città descritta da marinai europei, che annotarono la sua conquista a opera dei Sakalava. Le tradizioni orali riportano che essa venne fondata dagli Antalaotra, mercanti islamizzati che erano insediati sulla costa. In questo sito sono stati rinvenuti resti di una moschea in muratura e una varietà di ceramiche importate, insieme a pipe, pietre focaie e vasellame di produzione locale. Come nella più antica città di Kingany, sembra che la lavorazione del ferro venisse praticata solo nella città e nessuna evidenza di essa è stata identificata nei villaggi limitrofi. Anche se politicamente Antsoheribory non sembra essere stata un centro principale, essa mantenne un orientamento verso il mare e il commercio esterno. Lo studio dei processi di formazione e di espansione del regno Sakalava costituisce un obiettivo centrale di future ricerche, allo stesso modo della definizione delle interazioni con il potente Stato Merina degli altipiani, da cui venivano tratti schiavi e che potrebbe avere successivamente tentato di sottomettere i Sakalava e di incorporare i loro territori all'interno dei suoi confini.
Sulla costa nord-orientale la formazione politica Betsimisaraka, storicamente documentata, si affermò intorno alla metà del XVIII sec. d.C. Associata al regno di un potente sovrano, essa si frammentò dopo la sua morte. Le ricognizioni condotte da H.T. Wright e F. Fanony nella valle di Mananara hanno documentato che i gruppi vivevano in piccoli villaggi autonomi e che scarsi mutamenti sono rilevabili nelle tradizioni ceramiche nel corso della storia dell'occupazione della valle, fino al XVIII-XIX sec. d.C. A differenza di altri settori dell'isola, in quest'area sono state rinvenute limitate evidenze di commerci, di differenziazione sociale o di un'articolata gerarchia degli insediamenti, compatibili con la fondazione di un'entità politica dominante a opera di un solo individuo, piuttosto che attraverso mutamenti strutturali nelle formazioni sociali, sebbene per confermare ciò sia necessario condurre ulteriori ricerche nell'area limitrofa alla capitale. In quest'area ebbero luogo sovvertimenti sociali e politici, prodotti dai crescenti contatti con gli Europei e dall'imposizione del controllo dello Stato Merina verificatasi nel XIX sec. d.C.
Le ricognizioni condotte da J.-A. Rakotoarisoa lungo il fiume Efaho, nella regione sud-orientale di Anosy, e da M. Parker Pearson e i suoi collaboratori nell'arido Androy meridionale e sud-occidentale hanno fornito un quadro regionale dell'occupazione umana del settore meridionale del Madagascar. Tali ricognizioni hanno consentito di rilevare che tra il X e il XIII sec. d.C. i gruppi umani praticavano diversi modi di vita e di identificare evidenze di migrazioni e di una progressiva differenziazione sociale, che confermano quanto riportato dai resoconti storici e dalle tradizioni orali.
Nel corso del periodo tra l'XI e il XIII sec. d.C., in siti costieri dell'Anosy sud-orientale come Mokala, i gruppi fondavano la loro economia sullo sfruttamento delle risorse marine e degli ambienti di estuario, che a Tsiandrora era integrato dall'allevamento del bestiame. Nelle regioni interne, a Maliovola, potrebbe essere stata praticata un'agricoltura per debbio, ma per questo periodo le evidenze in grado di documentare la risicoltura appaiono poco chiare. Nelle regioni meridionali risultano invece attendibili le testimonianze, risalenti a questo stesso spazio cronologico, della lavorazione del ferro. La ceramica di questo periodo è molto simile a quella del settore settentrionale dell'isola. Le ciotole ingobbiate di rosso rinvenute ad Anosy costituiscono comunque evidenze di una specifica tradizione decorativa locale, consistente nell'uso di erbe impresse all'interno dei vasi prima della cottura, che una volta carbonizzate producono una banda "in negativo". La produzione fittile proveniente da Anosy presenta affinità con le ciotole ingobbiate di rosso e con gli ampi bacini aperti provvisti di prese che sono stati rinvenuti nei siti, risalenti al periodo tra il X e il XIII sec. d.C., dell'arida regione dell'Androy, ubicata a occidente. Nel settore sud-orientale sono stati inoltre recuperati pochi esemplari di ceramiche importate databili a questo periodo, anche se sembra che il cloristoscisto venisse tratto dalle regioni settentrionali dell'isola.
Per lo stesso periodo, nell'Androy vasti siti con apparati murari ubicati nei pressi di corsi fluviali, quali Andaro e Andranosoa, hanno fornito ceramica sgraffiata importata e vetro, mentre ad Andranosoa sono state identificate evidenze di una dieta diversificata, che comprendeva animali domesticati così come risorse selvatiche e marine. A valle, una produzione fittile affine è stata rinvenuta nel sito costiero di Talaky, associata ad ami da pesca, ossa di pesce e molluschi marini. M. Parker Pearson ha ipotizzato che la scarsità di piccoli villaggi o frazioni rilevata in questo periodo possa indicare che i siti con apparati murari vennero fondati da coloni; a partire dal XII-XIII sec. d.C. intorno a questi centri apparvero villaggi-satellite. Nell'area meridionale gli stili ceramici mutarono nel corso del XIV sec. d.C. Identificata per la prima volta nei siti di Rezoky e Asambalahy e caratterizzata da piccole ciotole aperte e giare globulari con decorazione a pettine, la produzione fittile delle regioni sud-occidentali mostra anch'essa similarità con quella della fase Ambinanibe del settore sud-orientale. Frammenti somiglianti a questo vasellame sono stati rinvenuti sia nell'estremo Nord che nella piccola città di Maintirano, ubicata sulla costa occidentale.
Sebbene negli stili ceramici siano rilevabili mutamenti, nell'Anosy i gruppi continuarono a vivere lungo la costa e i corsi fluviali nel corso del XIV e del XV sec. d.C. In quest'area i siti con apparati murari vennero abbandonati e nelle regioni meridionali e orientali venne fondato un numero inferiore di nuovi siti, alcuni dei quali mostrano più chiaramente di avere avuto funzioni difensive. Parker Pearson ha rilevato che durante questo periodo iniziò inoltre a manifestarsi un certo interesse per il controllo delle fonti di minerale di ferro, a suggerire un periodo di conflitti nelle regioni meridionali che a tutt'oggi è comunque scarsamente noto. Nel corso di questo periodo vetro e ceramica continuarono a essere importati dall'Asia Orientale.
Durante il XVI e il XVII sec. d.C. si verificarono importanti mutamenti nelle regioni meridionali, con uno spostamento generalizzato dalle aree costiere verso le regioni interne e, nel settore sud-occidentale, anche un allontanamento dalle aree fluviali. In questo periodo apparvero centri più vasti circondati da villaggi-satellite. La lavorazione del ferro continuò a rivestire grande importanza, e negli insediamenti più vasti sono stati rinvenuti ceramiche e vetro importati, insieme con ciotole da portata di fattura più accurata, a conferma delle fonti storiche che attestano l'importanza politica ed economica di tali insediamenti, che avevano funzioni essenzialmente residenziali.
Attorno ai villaggi iniziarono a essere costruiti sistemi di difesa. Questi mutamenti possono riflettere un incremento nel numero degli Europei che approdavano nell'isola e i conseguenti potenziali pericoli della costa e delle aree fluviali, come attestato dalla distruzione della città di Fanjahirambe avvenuta verso la metà del XVII sec. d.C. a opera dei Francesi guidati da Etienne de Flacourt. Nello stesso periodo gli stili ceramici subirono mutamenti sostanziali e le giare globulari con motivi ondulati realizzati a pettine e decorazione puntinata, insieme con le ciotole ingobbiate con grafite e decorate da impressioni di motivi triangolari, divennero più comuni, forse per influsso degli stili fittili delle regioni montuose, perdurando con alcuni piccoli mutamenti fino al XVIII sec. d.C. L'apparente rottura con le pratiche culturali delle fasi precedenti può essere posta in relazione con le già citate migrazioni interne descritte da Flacourt 150 anni dopo. Solo in un sito, Efangitse, ubicato nell'Anosy, le tradizioni più antiche di manifattura del vasellame sembrano essere perdurate accanto a queste nuove forme, ma le esatte relazioni tra i due stili fittili restano da chiarire.
Infine, dal termine del XVII sec. d.C. in poi, nell'Anosy si verificò un abbandono dei centri abitati più antichi e uno spostamento in piccole frazioni e nei centri fortificati di Ifarantsa e Fenoarivobe, in quanto la zona divenne progressivamente più esposta ad attacchi. Nell'area dell'Androy giunsero durante il XVIII e il XIX sec. d.C. molti rifugiati in fuga dalle razzie delle formazioni politiche Sakalava e Merina. I gruppi divennero più mobili, mentre centri come Fenoarivo crebbero di dimensioni. Nelle regioni meridionali si rilevano un netto incremento nel numero delle pietre focaie e un mutamento nella produzione fittile, in cui appaiono ceramiche inornate e grossolane. Il diario di Robert Drury, un resoconto scritto agli inizi del XVIII sec. d.C. da un marinaio scampato a un naufragio, descrive le guerre tra differenti capi della regione, che comprendevano incursioni e la cattura di schiavi. Nel XVIII sec. d.C. i Francesi ristabilirono postazioni lungo la costa, e nel XIX sec. d.C. i Merina inviarono un esercito nell'Anosy per conquistare quest'area; l'impresa ebbe parzialmente successo, anche se la regione dell'Androy non venne mai conquistata e rimase fuori del loro controllo. Con l'arrivo degli Europei vennero introdotti nuovi cultigeni, essenzialmente il fico d'India, ora predominante nella regione e dal quale i gruppi pastorali dipendono come fonte di foraggio.
In termini comparativi l'archeologia delle regioni montuose appare maggiormente sviluppata, soprattutto nell'importante regione dell'Imerina centrale, area di origine dello Stato Merina, che si formò intorno alla fine del XVIII sec. d.C.
Le caratteristiche pratiche di sepoltura secondaria e le tradizioni megalitiche dei Merina dell'altopiano sono ben note agli archeologi grazie alle ricerche di M. Bloch. Nelle regioni montuose le tombe sono dotate di una cripta sotterranea, tradizionalmente costruita con 11 grandi lastre di pietra; sopra di essa viene poi eretta una sovrastruttura, la cui entrata è orientata verso ovest. Nei periodi più antichi la sovrastruttura era costruita con terra e muri di pietre a secco, mentre attualmente sono impiegati blocchi di pietra e malta, in alcuni casi dipinti con colori brillanti.
Attualmente le tombe sono il punto nodale delle pratiche conosciute con il nome di famadihana ("la rotazione delle ossa"), in occasione delle quali i defunti sono condotti fuori delle tombe di famiglia e riavvolti in sudari prima di essere nuovamente deposti nella stessa tomba o trasferiti in un'altra. Questo evento costituisce il culmine di attività commemorative che si svolgono nel corso di due o tre giorni e spesso coinvolgono centinaia di individui. Il pomeriggio precedente la cerimonia membri della famiglia si recano presso la tomba, dove essi chiamano gli antenati, invitandoli a fare ritorno. La notte e la mattina che precedono la cerimonia vengono trascorse danzando e cantando, e quindi una processione si reca nel luogo in cui sorge la tomba. Durante il famadihana i defunti che sono ricordati meno bene sono avvolti insieme ad altri o incorporati nell'involto funerario dell'antenato principale (razambe). In questo modo, nel corso delle generazioni, gli individui defunti in tempi più recenti sono trasformati in antenati generici (razana), le identità individuali dei quali non saranno ricordate a lungo. Nel Madagascar la terra ancestrale (tanindrazana) riveste fondamentale importanza nel mantenimento e nella riproduzione dell'identità sociale. Per i Merina essa indica contemporaneamente un territorio della famiglia, così come esso è stato ereditato dagli antenati, il luogo abitato dagli antenati stessi e il punto in cui si verrà sepolti; tale luogo è demarcato dalla tomba di famiglia. Tradizionalmente gli schiavi non avevano il diritto di costruire tombe e ancora oggi i loro discendenti sono privati dei diritti civili dall'assenza di un territorio ancestrale. Il culto e il rispetto per gli antenati sono dunque intimamente connessi con la segnalazione del luogo appartenente a specifici gruppi di individui, nello stratificato mondo dei vivi.
Basata sugli scavi condotti dal Museo di Arte e Archeologia, la cronologia ceramica elaborata da H.T. Wright per l'area degli altopiani centrali fornisce le basi per la comprensione dell'organizzazione temporale delle migliaia di siti fortificati identificati da A. Mille negli anni Sessanta del Novecento. Lo scavo estensivo realizzato da numerosi ricercatori in siti-chiave dell'area e la ricognizione sistematica condotta da Wright e S. Kus nell'Imerina centrale, nei pressi dell'antica capitale di Ambohimanga, hanno permesso di collocare tali siti all'interno del loro contesto territoriale e costituiscono le prime testimonianze archeologiche dello Stato Merina.
Intorno al XIII sec. d.C. i gruppi si spostarono nell'altipiano interno. In siti quali Ankadivory, scavato da Rakotovololona, la popolazione viveva in strutture rettangolari di pali costruite su basse colline nei pressi di aree paludose. I villaggi più vasti erano circondati da fossati ovali poco profondi, nei quali forse veniva custodito il bestiame. Gli scavi hanno consentito il recupero di ossa di bovini, ma per questo periodo sono state rinvenute scarse evidenze della coltivazione del riso. Gli scavi ad Ankadivory hanno portato all'identificazione di alcuni esemplari di ceramiche sgraffiate, di porcellane bianche e vasellame litico proveniente dall'Asia Orientale. La lavorazione del ferro è inoltre attestata dal rinvenimento di ridotte quantità di scorie.
Le comunità delle regioni montuose del periodo tra il XIII e il XIV sec. d.C. produssero un caratteristico complesso ceramico, nel quale si rilevano alcune stringenti affinità con forme fittili provenienti dalle regioni costiere, segnatamente nell'uso di giare sferiche con corto collo e decorazione impressa al di sotto dell'orlo, ma anche alcune innovazioni stilistiche, ad esempio nell'uso di impressioni di motivi triangolari e di ingobbiature di grafite. Dewar e Wright hanno ipotizzato che alcuni gruppi potrebbero essere giunti in quest'area dalle regioni orientali, introducendo qui un modo di vita adattato alla costa orientale, con strutture di pali e rastrelliere rialzate per l'immagazzinaggio di beni. La presenza di ciotole con ingobbio rosso con impressioni di erbe suggerisce anch'essa l'esistenza di relazioni con il settore sud-orientale.
A partire dal XV sec. d.C. si verificò un mutamento nelle modalità di occupazione del territorio a opera delle comunità, sebbene nella produzione fittile perdurassero tradizioni locali. Alcune comunità si insediarono su crinali montuosi posti a maggiore altitudine, spesso nei pressi di sorgenti. I siti di dimensioni minori, forse occupati stagionalmente, continuarono a essere localizzati nei fondovalle. Nel corso del XV sec. d.C. si rilevano indizi di differenziazione sociale sia nella distinzione tra i centri principali, quali Ambohidahy e Antanambe, localizzati su sommità montuose e dotati di sistemi difensivi, e i villaggi minori, costruiti ad altezze inferiori, sia in ambito funerario. Le tombe presentano modalità costruttive variabili e appaiono ubicate all'interno e all'esterno dei fossati dei villaggi. Il rinvenimento di ceramica Celadon importata dall'Asia Orientale aggiunge ulteriori dettagli a questo quadro di differenziazioni sociali in incremento.
Fino a epoca molto recente la maggior parte delle ricerche condotte nelle regioni montuose è stata concentrata nell'area dell'Imerina centrale, nella zona limitrofa alla città capitale. La ricognizione effettuata da Raharijaona nel Sud della regione Manandona ha consentito il rinvenimento di ceramiche affini in siti ubicati su sommità montuose, ma datati a epoca di poco più tarda, intorno al XV sec. d.C. Nel corso di una ricognizione della regione di Andrantsay, localizzata 50 km a ovest di Antsirabe, nell'area in cui gli altipiani iniziano a digradare verso la costa occidentale, sono stati inoltre rinvenuti materiali simili alle antiche ceramiche dell'Imerina centrale, provenienti da contesti affini, localizzati su basse colline nei pressi di aree paludose.
Nel corso del periodo tra il XV e il XVI sec. d.C. le evidenze archeologiche attestano rilevanti mutamenti sociali nelle regioni montuose. Si verificarono un decremento del numero dei siti e uno spostamento in territori più elevati, come nell'importante sito di Ankatso scavato da Mille. Le ceramiche rinvenute in questo e in altri siti, quali Mangabe e Ilafy, attestano il perdurare delle tradizioni di decorazioni impresse e incise. In epoca approssimativamente coeva, o forse di poco successiva, apparve comunque uno stile fittile del tutto distinto, che è stato rinvenuto in un numero limitato di siti ubicati nell'Imerina orientale, quali Angavobe, Lohavohitra (scavato da R.R. Andrianaivoarivony) e Fanongoavana (scavato da D. Rasamuel), e assegnati alla fase Angavobe. A eccezione di alcuni esemplari accuratamente levigati e con un ingobbio brillante di grafite, i vasi appaiono inornati e mostrano una varietà di forme nuove, tra cui una caratteristica ciotola dotata di un'alta base-piedistallo. Gli scavi condotti da Rasamuel hanno portato all'identificazione di terrazze residenziali e piattaforme di pietra di abitazioni, oltre che di recinti per il bestiame, fosse di immagazzinamento ed evidenze della fusione del ferro. La flottazione di sedimenti ha fornito le prime evidenze di risicoltura nelle regioni altiplaniche e sembra probabile che con le nuove tipologie fittili mutarono nell'area anche le pratiche di consumo di alimenti. Come i siti Ankatso, i siti Angavobe erano localizzati sulle più elevate sommità montuose, ma a tutt'oggi non sono stati rinvenuti materiali Ankatso e Angavobe in relazione stratigrafica, e dunque il rapporto tra le due fasi resta da chiarire.
La flessione nel numero dei siti consente di ipotizzare che nel periodo tra il XV e il XVI sec. d.C. abbia avuto luogo una sostanziale riorganizzazione della popolazione. Anche nei siti della fase Angavobe le tombe erano collocate sia fuori che dentro i fossati; spesso tali tombe appartenevano a individui celebri. Le tradizioni orali riportano l'arrivo nell'area, nel corso di questo periodo, di immigranti Merina, che avrebbero costretto i locali abitanti Vazimba a spostarsi. Ciò potrebbe costituire la memoria di un reale spostamento, ma non si può tralasciare di osservare che potrebbe anche essere stato un modo attraverso cui vennero interpretati significativi sovvertimenti sociali in cui si svilupparono nuove formazioni sociali, con distinzioni gerarchiche più rigide tra gruppi.
Nel corso del XVII e del XVIII sec. d.C. i mutamenti verificatisi nelle fasi precedenti vennero consolidati. Villaggi-satellite apparvero nelle aree limitrofe a centri dotati di efficienti sistemi di difesa e là sembra essersi prodotta una flessione demografica. Il sito di Ambohimanga crebbe di dimensioni e di importanza e i vasti siti isolati di Merimandroso e Ambohidrabiby vennero costruiti probabilmente come fortezze di frontiera. Si registrano incrementi di differenziazione sociale, evidenti tra le tombe e nella loro localizzazione in villaggi. Negli scavi condotti ad Ambohinanjakana e Ambohitsitakady sono state rinvenute pietre focaie, insieme a tracce della lavorazione del ferro e del consumo di bovini e riso. Il XVIII sec. d.C. fu un periodo di aspre lotte, che vennero registrate nelle tradizioni orali e che portarono alla fondazione dello Stato Merina. Ciò è rilevato anche dalle evidenze archeologiche, che documentano la crescente importanza di siti dotati di efficienti sistemi di difesa, come Ambohinanjakana e Ambohimanga, insieme con la fondazione nel corso dello stesso periodo di molti piccoli villaggi. Wright e Kus hanno ipotizzato che ciò possa indicare un mutamento da razzie ad attacchi più diretti contro importanti centri, mentre differenti gruppi combattevano per il controllo della regione. A partire dalle fasi finali del XVIII sec. d.C. l'organizzazione degli insediamenti divenne più complessa, con l'apparizione di centri secondari e la fondazione di numerosi villaggi di dimensioni più ridotte. Allineamenti di posti di frontiera strettamente difesi vennero costruiti a nord e a sud della regione indagata da Wright e Kus. Sistemi di difesa progressivamente più efficienti e spessi muri di pisé a prova di proiettile vennero costruiti intorno ai siti-chiave, insieme con innovative porte di pietra circolari, come ad Ambohimanga e Amboatany. Analizzati congiuntamente con la riorganizzazione interna dei siti, questi mutamenti forniscono attendibili evidenze archeologiche della formazione dello Stato Merina e della costruzione e legittimazione di nuove forme di autorità regale.
Kus ha studiato il significato sociale e simbolico delle capitali gemelle di Imerina nella formazione e nel consolidamento dello Stato Merina durante il regno del sovrano Andriampoinimerina, nelle fasi finali del XVIII sec. d.C. Ricordato dalla storia per avere unificato le conflittuali formazioni politiche dell'Imerina e per le opere irrigue su larga scala che egli realizzò, Andrianampoinimerina reinterpretò creativamente gli accordi precedentemente stabiliti in materia territoriale, con l'obiettivo di riconfigurare le relazioni reciproche tra gruppi e con il mondo che essi abitavano come parte della formazione dello Stato Merina. In questa ristrutturazione dello spazio sociale e simbolico Andriampoinimerina si fondò su due sistemi di organizzazione spaziale che privilegiavano rispettivamente l'area centrale e quella nord-orientale. La prima, in cui le quattro direzioni cardinali girano intorno al centro, trova eco, ad esempio, nell'importanza del palo centrale delle abitazioni e venne utilizzata per enfatizzare l'idea di unità, nel riunirsi dei quattro distretti di Imerina intorno al leader dello Stato, rappresentato dai capitelli centrali. La seconda costituisce un sistema astrologico più elaborato, noto come vintana. In questo sistema diversi periodi temporali, fondati essenzialmente sui mesi dell'anno, sono considerati differentemente e tracciati nello spazio. Essi possono essere utilizzati per determinare la pianta di un villaggio o di una abitazione o il luogo e il momento di costruzione di una tomba. Nei termini del vintana la direzione del nord-est è la direzione della nobiltà e del sacro, e Kus ha rilevato che nel caso delle capitali gemelle di Ambohimanga e Antananarivo, Andriamponimerina enfatizzò la loro posizione in modo tale che esse assumessero senso all'interno di entrambi gli schemi spaziali. Analizzate congiuntamente, si potrebbe ritenere che entrambe le capitali si trovassero nel settore nucleare dell'Imerina e che ciascuna di esse si identificasse simbolicamente con l'altra, ma allo stesso tempo il villaggio natale di Andriamponimerina, Ambohimanga, era ritenuto localizzato a nord-est della capitale rivale conquistata di Antananarivo e così stabiliva la sua posizione relativa di nobiltà e di sacralità vis-à-vis Antananarivo. Quando i Francesi presero possesso di Antananarivo alla fine del XIX sec. d.C. e stabilirono qui la capitale coloniale, essi compresero l'importanza simbolica dell'altra capitale del Nord-Est e trasferirono le salme dei sovrani lì conservate ad Antananarivo.
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