L'Africa tardoantica e medievale. Arte copta
di Loretta Del Francia Barocas
Il termine "copto" fu coniato dagli Arabi, i quali, al momento della conquista dell'Egitto, nel 641 d.C., designarono la popolazione con il termine di al-qubṭ, derivante da Αἴγυπτιοι, mentre definirono rūmī, da ῾Ρωμαῖοι, i dominatori romano-bizantini del Paese. Gli stessi Egiziani, tuttavia, continuarono a definirsi premenkemi cioè, dall'egiziano antico, "la gente di Kemi": l'Egitto, la terra nera, quella stretta fascia di terra fertile fecondata dal limo dell'inondazione del Nilo in contrapposizione con desheret, la terra rossa che indica il deserto. Con "arte copta" si definisce la produzione artistica in Egitto dai primi secoli della nostra era fino all'epoca ottomana. L'equazione "arte copta = arte dell'Egitto cristiano", che ancora oggi traspare dalle opere di alcuni studiosi, è vera soltanto a partire dall'epoca islamica.
La cronologia dell'arte copta è tutt'altro che certa e definita nei particolari; nondimeno, in linea generale, si possono riconoscere periodi diversi: 1) la fase definibile "protocopta", dall'Impero di Augusto a quello di Costantino; 2) l'epoca del dominio bizantino e della piena fioritura copta, nonché della massima diffusione del cristianesimo; 3) l'epoca islamica, da Muhammad agli Ottomani, nella quale i Copti, pur ridotti a minoranze, danno vita a una produzione artistica feconda che si realizza soprattutto nelle fondazioni monastiche e nelle icone. La caduta di Costantinopoli, conquistata dai Turchi (1453), mette fine a un'epoca e segna l'ingresso dell'Egitto nelle contese che coinvolgono l'impero ottomano e, di conseguenza, in un tessuto più fitto di rapporti con l'Occidente.
Le prime ricerche sull'arte copta furono promosse dall'Institut Français d'Archéologie Orientale (IFAO), fondato al Cairo nel 1881. E. Guimet aveva commissionato ad A. Gayet alcune indagini nella città di Antinoe allo scopo di conoscere l'estensione del culto di Isis nel mondo romano. In diciassette campagne di scavo, dal 1896-97 al 1911, Gayet mise in luce migliaia di sepolture e di tesori, oggi patrimonio delle principali collezioni, soprattutto francesi. Delle ricerche inglesi di fine Ottocento, condotte con metodologie più scientifiche da W.M.F. Petrie per conto dell'Egypt Exploration Fund (ora Egypt Exploration Society), sono frutto i ritrovamenti dei ritratti funerari del Fayyum. Al 1891 risale, per iniziativa dell'italiano G. Botti, la fondazione del Museo Greco-Romano di Alessandria. Il museo promuoveva anche ricerche sul terreno: fra i rinvenimenti più interessanti sono le pitture di Kom Abu Girgis e di Alam Shaltut, a sud-ovest di Alessandria, e il sito monastico delle Celle (Kellia).
L'inizio del XX secolo vede la pubblicazione del materiale copto allora conservato nel Museo Egizio del Cairo e gli scavi nel monastero di Bawit, il luogo più importante, dal punto di vista artistico e archeologico, dell'Egitto copto. All'iniziativa inglese si devono i rinvenimenti nel monastero di Apa Geremia a Saqqara, in cui si sono conservati resti architettonici, scultorei e pittorici da considerarsi con ogni evidenza strettamente apparentati con quelli di Bawit. Tedesca è la ricerca nel complesso di Abu Mina nel Mariut. Altra tappa importante è la fondazione, nel 1908 a opera di M. Simaika, del Museo Copto del Cairo. Simaika ottenne un'ordinanza patriarcale che lo autorizzava a richiedere materiale di interesse archeologico agli antichi monasteri e alle chiese: infatti, al nuovo museo fu assegnato il materiale copto da Bawit e Saqqara; fece inoltre espropriare materiali incorporati nelle case più antiche dei Copti. Il museo, che ha varato un programma di catalogazione del materiale con la collaborazione di studiosi di diversi paesi, costituisce la più importante collezione pubblica di arte copta.
Alla ripresa delle ricerche dopo la prima guerra mondiale si ascrive l'attività di U. Monneret de Villard, con studi sulla scultura di Ahnas, e sui conventi di Sohag, S. Simeone, Deir al-Muharraq. Negli anni Venti furono pubblicati i cataloghi di importanti collezioni di tessuti copti: quella del Victoria and Albert Museum di Londra e quella dei Musei di Berlino. Nel frattempo l'analisi iconografica delle pitture di Bawit e di Saqqara, in precedenza concentrata sull'individuazione delle fonti che ne erano alla base, si indirizzò verso una più stretta connessione con la liturgia, inaugurando così un campo d'indagine ancora oggi ricco di spunti. Molte località di interesse artistico e archeologico vennero scoperte durante le indagini volte alla ricerca dei papiri: Tebtynis nel 1899 e 1933 e ancora nell'area di Antinoe, dal 1936. Nel 1934 fu fondata al Cairo la Société d'Archéologie Copte che pubblica regolarmente un bollettino e che ha al suo attivo un'interessante serie di monografie. Al 1956 risale la fondamentale scoperta dei codici di Nag Hammadi. Nel 1963 la mostra sull'arte copta, promossa da W.F. Volbach, pose questa produzione all'attenzione di un pubblico più vasto. Da allora in poi si moltiplicarono gli studi; nel 1976 si tenne al Cairo il primo Congresso Internazionale di Studi Copti e nacque l'Associazione Internazionale di Studi Copti.
Nel 1965-66 presero avvio le ricerche archeologiche nell'area delle fondazioni monastiche delle Celle per iniziativa dell'IFAO e dell'Università di Ginevra, inaugurando così un'epoca di indagini intenzionalmente rivolte al mondo copto. Tra le più rilevanti sono quelle di P. Grossmann, per conto del Deutsches Archäologisches Institut del Cairo, nell'area del convento di Apa Geremia a Saqqara, di Abu Mina nel Mariut, di Deir Balayza e Wadi Farain. Parimenti degno di nota è il programma che ha condotto le ricerche verso la pittura murale delle fondazioni monastiche avviato da S. Sauneron, a seguito della scoperta delle pitture cristiane di Nubia, e da lui affidato a J. Leroy, cui poi si è affiancato P. Van Moorsel. Nel 2000 è stato completato, da parte di restauratori italiani per l'American Research Center in Egypt, il restauro delle pitture del monastero di S. Antonio, nel Deserto Orientale, e sono ora in corso nell'ambito dello stesso programma quelli del convento di S. Paolo e del cosiddetto Monastero Rosso a Sohag, dove una missione italiana ha intrapreso ricerche; una missione olandese invece investiga e restaura i conventi del Wadi Natrun. Questi interventi, insieme alle recenti mostre e pubblicazioni, hanno contribuito all'approfondimento degli studi nel campo.
Il linguaggio figurativo copto fonda le sue premesse iconografiche e stilistiche nell'Egitto ellenistico e romano. Compaiono, ad esempio, Dioniso e il suo thiasos, cui si unisce però anche Eracle; Afrodite e il suo corteo di creature marine, che si snoda in un'ambientazione acquatica con forti connotazioni nilotiche; Isis e Serapis con la presentazione delle offerte per salutare la piena del Nilo. Accanto a queste divinità spicca la costante presenza dei putti e degli eroti, una delle caratteristiche salienti dell'ellenismo egiziano, che deriva dall'accentuazione del concetto di rinnovamento della natura espresso dalle cerimonie della piena del Nilo e dal potere "profetico" attribuito ai bambini dalle fonti antiche.
La traduzione della Bibbia in greco apre la via a un'esegesi dei testi sacri che in Alessandria appare largamente impostata in chiave allegorica, a differenza di quella che ebbe vita, ad esempio, in Antiochia. All'introduzione del cristianesimo, tradizionalmente ascritta alla predicazione di Marco, fece poi seguito l'istituzione, sempre in Alessandria e per opera del vescovo Demetrio, di una scuola catechetica, il Didaskaleion, allo scopo di definire una visione "canonica" del pensiero cristiano. Già esistente, secondo la testimonianza di Eusebio, intorno al 180 d.C., il Didaskaleion ebbe noti direttori: Panteno, Clemente di Alessandria (fino al 202, epoca della persecuzione di Settimio Severo), Origene, dal 215, Heraklas, Dionisio di Alessandria e Didimo il Cieco, che si avvicendarono in un contesto caratterizzato da persecuzioni e da violenti conflitti interreligiosi. Fra i cristiani alcuni optavano per un allontanamento (anachoresis) dallo scenario dei conflitti, altri andavano incontro volontariamente al martirio.
La civiltà copta, sia in termini di testi, sia di immagini, sia sul piano delle consuetudini che da allora si adottarono, è fondata sul culto dei martiri e delle loro reliquie. I corpi dei santi martiri furono smembrati e quasi ogni chiesa poteva vantarne il possesso di una parte, al punto che la Chiesa copta dovette intervenire per porre freno a tale usanza, che poteva facilmente aprire le porte all'idolatria.
D'altra parte, la popolazione egiziana aveva nelle sue tradizioni una tale e tanta abbondanza di divinità che il passaggio a una fede monoteista non avvenne senza adattamenti. Il cristianesimo egiziano individuò ben presto gli intermediari ai quali più direttamente rivolgersi per protezione, salvezza, guarigione; riconobbe così una grande importanza non solo alla Vergine Maria e a Giovanni Battista, ma anche alle varie schiere angeliche, che in Egitto appaiono ordinate in gerarchie abbastanza diverse da quelle più diffuse in Occidente. Ma un ruolo da protagonisti, fra gli intermediari, è goduto dai santi: martiri, padri del monachesimo, santi cavalieri; infine santi guaritori, qualificati come medici, o che operavano guarigioni miracolose, come attestano le parti del corpo guarite di metallo cavo che venivano lasciate sulle pareti del santuario a mo' di ex voto. Il martire godeva, nel momento estremo, del sostegno divino e della promessa che sarebbe stato ammesso direttamente nel Paradiso senza dover attendere il Giudizio Finale; nel luogo (topos) a lui dedicato vi sarebbe stata una particolare concentrazione di grazie. Così i luoghi dedicati ai martiri venivano visitati dai pellegrini nel giorno in cui si ricordava il loro martirio; anche l'Islam sciita ismailita dei Fatimidi condivise per alcuni aspetti forme di culto cristiane in Egitto. Tra le persecuzioni che toccarono l'Egitto quella iniziata da Diocleziano nel 303 d.C. fu l'ultima e la più sanguinosa e l'anno in cui l'imperatore salì al trono segna l'inizio del computo copto: l'era dei martiri. Ad Antinoe Ariano, prefetto della Tebaide, organizzò il martirio di decine e decine di persone prima di convertirsi ed egli stesso affrontare il martirio, come vuole la tradizione. Nel 313 Costantino proclamò la libertà di culto per i cristiani e anche in Egitto questo editto trovò applicazione.
L'Egitto precostantiniano era stato teatro di eventi importanti sul piano storico e religioso. Sul finire del III sec. d.C. aveva trovato origine il monachesimo. Tra le varie fedi si segnalano lo gnosticismo e il manicheismo, alla cui diffusione contribuì la dominazione dell'Egitto da parte di Zenobia di Palmira, che fra il III e il IV sec. d.C. aumentò d'importanza. Se da un lato la libertà di culto portava a un'espansione del cristianesimo e delle sue fondazioni, per contro non tacevano i contrasti con gli adepti delle religioni tradizionali e per dirimere le questioni si faceva ricorso all'imperatore. Questi, chiamato in causa anche per la soluzione di contrasti dottrinari interni al cristianesimo, assumeva quindi poteri relativi al campo religioso e si profilava il determinarsi di un rapporto privilegiato fra il papato di Roma e il patriarcato della Nuova Roma, Costantinopoli, minacciando così il ruolo di primo interlocutore di Roma svolto dalla Chiesa di Alessandria. Nel 325 Costantino convocò il primo concilio ecumenico a Nicea che si concluse con la condanna dell'arianesimo. Il vescovo di Costantinopoli diveniva secondo al papa di Roma, soppiantando il patriarca di Alessandria.
Nel 391 Teodosio dichiarò il cristianesimo religione dell'Impero romano; come altrove si scatenò allora in Egitto la furia dei cristiani contro gli dei del passato e i loro templi. Morto Teodosio nel 395 l'Impero che egli aveva riunificato si divise definitivamente in Impero d'Occidente e Impero d'Oriente. L'Egitto passò dunque sotto il diretto dominio di Costantinopoli, non senza contrasti di carattere amministrativo, politico, religioso. Sotto Teodosio II il dibattito dottrinario sfociò in un aspro contrasto fra Alessandria e Costantinopoli sul tema del riconoscimento alla Vergine Maria del titolo di Theotokos. Da una parte Nestorio, vescovo di Costantinopoli, negava alla Vergine tale qualifica; dall'altra Alessandria, per azione del vescovo Cirillo, al pari di Roma si impegnò in una strenua lotta a difesa della qualifica di Madre di Dio, asserendo che una sola natura, quella divina, era nel Verbo incarnato. Il concilio che Teodosio II convocò a Efeso nel 431 (il terzo concilio ecumenico) condannò le tesi di Nestorio e portò a un'enfatizzazione del culto e dell'immagine della Vergine. Sempre sotto il regno di Teodosio II e del suo successore Marciano avvenne il cosiddetto "dramma di Calcedonia". Il quarto concilio ecumenico tenutosi a Calcedonia nel 451 vide la controversia dottrinaria (in gran parte basata su un fraintendimento delle parole del vescovo di Roma Leone I) tra Eutiche, archimandrita di un monastero di Costantinopoli, appoggiato da Dioscoro, patriarca di Alessandria, da una parte, e il vescovo Flaviano, patriarca di Costantinopoli, e l'imperatore Marciano, dall'altra. Il concilio appoggiò la tesi di questi ultimi condannando Eutiche e Dioscoro. Si consumò così quella scissione fra Chiese d'Occidente duofisite e Chiese d'Oriente monofisite che, almeno nelle motivazioni formali, poggia su un fraintendimento, ma che nasconde un dissidio politico profondo: la lotta per la supremazia condotta dai grandi patriarcati. Le comunità di Egitto, Siria e Armenia saranno da allora in poi staccate dalle Chiese di Roma e Costantinopoli e vano sarà ogni successivo tentativo di unificazione.
La scissione influì anche sulle comunità monastiche, che in quel tempo erano fiorentissime e popolate da centinaia di monaci. Due chiese furono erette, ad esempio, alle Celle, una per i calcedonesi, l'altra per gli anticalcedonesi. Sembra che si sia sviluppata una diversa liturgia che ha ispirato distinzioni nella planimetria delle chiese: in quelle prossime alle coste del Mediterraneo e in quelle del Sinai, fedeli a Costantinopoli, non appare, ad esempio, la navata di raccordo fra le due navate laterali, che è motivata da una circumambulazione rituale. Questo elemento è invece presente nelle chiese della valle del Nilo e delle oasi, dove talvolta si rivela essere un'aggiunta posteriore.
Dopo il concilio di Calcedonia, Alessandria e il resto dell'Egitto furono teatro di altri conflitti dottrinari. Nel 619 l'Egitto, come altri Paesi del Vicino Oriente, venne conquistato dal sovrano sasanide Khusraw II; dopo un decennio l'imperatore Eraclio riconquistò il Paese. Vent'anni dopo gli Arabi attaccarono l'Egitto e ne operarono agevolmente la conquista. Ma i conquistatori si avvalsero della consulenza di amministratori egiziani e della manodopera egiziana; inglobarono nelle loro costruzioni elementi precedenti, blocchi di granito con iscrizioni faraoniche, colonne, capitelli. La toponomastica fu riformulata in arabo dai termini antico-egiziani o più esplicitamente copti.
Il dominio arabo non fu particolarmente vessatorio. All'arrivo degli invasori molti si rifugiarono nei monasteri. L'élite dei governanti, i cosiddetti rūmī, di fede calcedonese, lasciò l'Egitto, altri si convertirono all'Islam. Ma la religione cristiana rimase viva e i cristiani costituirono diverse comunità, non molto numerose ma attive e vitali. Conquistato dalle truppe arabe nel 641, dal 661 l'Egitto retto da un governatore entrò a far parte del califfato omayyade con capitale Damasco. Nei cent'anni di vita del califfato (661-750) si registrarono alcune discriminazioni come, ad esempio, l'obbligo di portare un bracciale di riconoscimento, l'esclusione della lingua copta dai documenti ufficiali, l'ordine emesso nel 722 di distruggere le icone. Sotto gli Abbasidi (750-868) vi fu l'oppressione più grave e l'ultima delle insurrezioni. La situazione migliorò con una dinastia locale, quella dei Tulunidi (868-905), con i quali i Copti godettero di una rinnovata considerazione; l'architetto copto Ibn Katib al-Firghani fu incaricato della costruzione della grande moschea del Cairo, che porta il nome del committente Ibn Tulun, e del nilometro di Roda.
Anche sotto gli Ikhshididi (935-968) i Copti furono tollerati e coinvolti nei fatti di governo. L'epoca dei Fatimidi in Egitto (969-1171), seguaci della fede sciita, fu tra le più felici. Vi fu una grande fioritura dell'arte copta, in specie nelle fondazioni monastiche, grazie anche all'opera del patriarcato di Alessandria, che ebbe in Gabriele II (1132-1145) una figura di grande capacità ed energia. Il regno degli Ayyubidi (1169-1250) fu quello delle crociate, quando numerose distruzioni furono operate contro i monumenti cristiani. Nondimeno fu un architetto copto a costruire la cinta muraria del Cairo e la relativa cittadella. Il clima di rinascita culturale che i Mamelucchi (1250-1517) determinarono investì, pur con alterne vicende, anche la Chiesa copta. Fra il XIII e il XIV secolo nacque una fiorente letteratura copto-araba relativa alla teologia, alla dogmatica, all'apologetica, alla storia ecclesiastica. Il coinvolgimento dei Copti nella vita civile fu caratterizzato da momenti diversi, ma la comunità era divenuta abbastanza esigua. Con l'avvento al potere degli Ottomani (1517-1798) l'Egitto fu inglobato nel loro impero; i Mamelucchi vi detenevano ancora il potere, fino all'avvento di Mohammed Ali (1811). Le crociate avevano rinverdito i rapporti fra il papato di Roma e l'Egitto. Venne l'uso di far preparare i missionari al loro compito in Paesi islamici presso conventi egiziani.
Nella Chiesa le trasformazioni avvennero soprattutto grazie all'opera del patriarca Cirillo IV, in carica negli anni (1854-1861) che seguirono di poco la morte di Mohammed Ali. Cirillo IV è considerato il padre della riforma, che egli impresse in nome del richiamo ai valori culturali del passato e di programmi educativi con fini e strumenti moderni.
L'architettura copta è documentata fondamentalmente da edifici funerari, da edifici ecclesiastici e da fondazioni monastiche. Numerosi sono gli ipogei, che nelle falesie che costeggiano la valle del Nilo ospitano chiese, celle e monasteri, utilizzando vecchie tombe e cave, prevedendo talvolta una parte scavata e una costruita. L'imponente fenomeno della riutilizzazione di costruzioni preesistenti a fini abitativi e cultuali si è svolto a spese di templi faraonici e di fortezze romane. Si tratta dunque di una consuetudine antica e largamente attestata. L'impiego di determinati materiali e tecniche di costruzione si relaziona con la tradizione preesistente, con le numerose innovazioni introdotte dai Romani, dai Bizantini e dai conquistatori arabi. Presso la basilica di Dendera, sulla pavimentazione del cortile del mammisi romano nella cinta del tempio di Hathor, rimane inciso il tracciato del triconco absidale, in una posizione che fu poi abbandonata in favore di quella attuale. Risalgono alla tradizione l'uso del piede reale nella metrologia e quello del mattone crudo, con strutture murarie di grande spessore. Si deve ai Romani l'uso del mattone cotto (later) e la tecnica costruttiva a corsi alternati di pietre e mattoni legati da gettate di calcestruzzo, come nella fortezza dioclezianea di Babilonia, nel Cairo Vecchio, oltre alla ricerca di pietre di pregio, che dette luogo a un'intensa attività estrattiva.
Città e villaggi - Nei primi secoli della nostra era l'Egitto presenta un quadro in cui figurano, oltre ad Alessandria, poche grandi città, un certo numero di grandi villaggi e numerosi piccoli agglomerati rurali di qualche centinaio di abitanti. I centri urbani ricalcano la collocazione di alcune delle antiche capitali dei nòmi, i distretti amministrativi dell'Alto e del Basso Egitto in cui il Paese era sempre stato diviso, anche se con una certa fluidità di confini e con variazioni numeriche attraverso i tempi. Una zona che appare particolarmente popolosa in questo periodo è l'oasi del Fayyum. I cospicui rinvenimenti papiracei ci parlano di Philadelphia, Karanis (Kom Aushim), Tebtynis, Kleopatris (forse Arsinoe), Theadelphia, Soknopaiou Nesos, centri che, se non sono vere e proprie città, rappresentano aggregazioni abitative consistenti e stabili nonostante occasionali flessioni del numero degli abitanti. Città popolose sono Ossirinco (od. Bahnasa), Hermopolis Magna (od. el-Ashmunein), Herakleopolis (od. Ahnas), Panopolis (od. Akhmim), Licopoli (od. Assiut).
Le maggiori città erano circondate da una cinta muraria nella quale si aprivano porte; vie colonnate collegavano gli edifici pubblici e i numerosi templi. Questi ultimi erano dedicati alle antiche divinità faraoniche e alle divinità olimpiche, ma ovunque era venerato Serapis, il cui tempio era anche il centro della vita amministrativa e commerciale e, in epoca romana, Giove Capitolino e gli imperatori. Un culto speciale riceveva il dio cittadino eponimo: Hermes-Toth a Hermopolis Magna, Pan-Min a Panopolis. Gli edifici pubblici erano il ginnasio, i bagni, l'archivio e la tesoreria, la sala consiliare, il teatro e gli impianti sportivi, fra cui talvolta un ippodromo. Il ginnasio era per i Greci il fulcro della vita cittadina e il centro dell'educazione dei giovani destinati a costituire la classe dirigente e comprendeva un complesso di impianti con aule, sale per conferenze, palestre, bagni. Nel teatro di Ossirinco, che poteva contenere fino a 11.000 spettatori, non si tenevano soltanto spettacoli, ma anche i saggi ginnici degli efebi, danze, gare ed eventi musicali; vi terminavano anche le processioni delle feste religiose e civili, come quella che celebrava annualmente il raggiungimento della massima altezza della piena del Nilo. Nell'ippodromo si tenevano le popolari corse dei carri.
Per ciò che riguarda le tipologie residenziali a Hermopolis Magna, ad esempio, è stato rinvenuto un palazzo di sette piani, forse a destinazione abitativa come a Roma nel periodo imperiale. Se i papiri ci danno notizia di residenze di lusso e di proprietà immobiliari in diverse città, la norma era costituita tuttavia da abitazioni modeste, che potevano comprendere anche una bottega per le attività artigiane. Era praticato l'allevamento di piccioni, alimento ricercato per la nutrizione quotidiana, in piccionaie, ancora caratteristiche dell'Egitto rurale di oggi. Nei villaggi era tutto più concentrato: il tempio, che più a lungo conserva il culto al dio locale, edifici pubblici, sia pure di dimensioni minori, bagni, talvolta caserme se era di stanza un contingente militare.
Architettura funeraria - Le necropoli documentano il passaggio verso una nuova concezione dell'oltretomba e il lento abbandono delle pratiche di mummificazione del corpo. In Alessandria le sepolture venivano effettuate in loculi entro ipogei, mentre ambienti di una certa ampiezza, con rilievi o pitture parietali che evocavano significati escatologici, erano dedicati al culto, di cui era parte il banchetto funebre. Nelle città della chora, proporzionalmente alla loro grandezza e all'utilizzo nel tempo, le sepolture si effettuavano in necropoli ubicate nel deserto. Le più antiche erano organizzate attorno a strade, ai lati delle quali si collocavano cappelle che rivelavano l'appartenenza a etnie e religioni diverse, come, ad esempio, nelle necropoli di Hermopolis (Tuna el-Gebel) e nella necropoli di Hibis a Bagawat nell'oasi di Kharga. Le necropoli potevano avere una grande estensione e conservare suppellettili e oggetti di una vita agiata: particolarmente ricchi sono i materiali provenienti da Akhmim. Talvolta, come nel caso di Antinoe, i diversi quartieri delle necropoli erano talmente estesi da stringere dappresso e da ogni parte le mura della città.
Accanto alle cappelle di famiglia si trovano diverse sepolture collettive. Alcune erano certamente primarie, altre sembrano secondarie e frutto di restringimenti per poter adoperare gli spazi che così si rendevano liberi. Talvolta i corpi erano estromessi e non più inumati, come rivelano parti di membra nei riempimenti dei pozzi effettuati dopo le nuove sepolture. È opinione generale che di natura funeraria fossero gli ambienti riutilizzati dai monaci per la costruzione del convento di Apa Geremia a Saqqara e che da questi ampiamente si fosse attinto per la decorazione architettonica delle nuove fondazioni. Probabilmente di natura funeraria erano le cappelle di Ahnas, dalle quali provengono fregi e nicchie con le immagini di divinità del Pantheon olimpico (Dioniso, Apollo, Dafne, Leda e il cigno, Afrodite) e immagini del Nilo, con i putti che esprimono il numero dei 16 cubiti dell'inondazione ottimale. Una stele funeraria, secondo una tradizione attestata con continuità per millenni in Egitto, era collocata a ricordo del defunto. Le stele cristiane contengono un'invocazione al Dio unico e mostrano un denso affollarsi di simboli; spesso sono centinate, rivelando la collocazione a incastro sul lato breve di una tomba a volta; talora mostrano l'immagine del defunto all'ingresso di una cappella.
I corpi dei defunti venivano distesi su un letto o su una tavola di legno e in un primo tempo, fino in età severiana, avvolti in bendaggi con masse di tessuti usate come riempimento delle parti rientranti (ad es., attorno al collo) e per il migliore allineamento del corpo. Si ricercava l'effetto di un sarcofago mummiforme, talvolta con la parte superiore piana. In corrispondenza del volto era collocata una maschera di stucco, o un ritratto dipinto su tavola, oppure semplicemente un'incannucciata, come un tettuccio a spioventi, di fibre di palma. Rami di palma erano posti ai lati del sepolcro e sopra di esso. Spesso venivano sovrapposte alla deposizione grandi tele di lino, superbamente dipinte, a costituire l'ultimo rivestimento, poi fermato da rade strisce di lino. Rarissimo era, in questo periodo, l'uso del sarcofago (Antinoe, Karara). Più tardi i corpi furono deposti attorniati dai loro oggetti, con fiori e anche con i loro piccoli animali. L'abbigliamento prevedeva l'uso di calzature e l'impiego di molti abiti indossati l'uno sull'altro; nel caso delle donne la fronte era incorniciata da grandi acconciature e i capelli venivano racchiusi in una reticella. Per gli uomini sono stati rilevati, oltre alle tuniche e agli ampi mantelli, soprabiti tagliati e cuciti a redingote con risvolti sul davanti e ai piedi stivali e gambali.
Le fondazioni cristiane: le chiese - La diffusione del cristianesimo e ancor più la liberalizzazione del culto portarono a un grande sviluppo delle fondazioni cristiane. Le divinità dei faraoni e quelle dell'Olimpo lasciarono il posto al culto cristiano, non senza una certa resistenza da parte della popolazione, specie nell'abbandono del culto di Serapis, perché connesso con il buon esito della piena annuale del Nilo. Sono state rinvenute chiese ubicate nei pressi ed entro le cinte murarie dei grandi templi e dei forti romani; alcune costituivano grandi luoghi di pellegrinaggio, spesso a fini di guarigione.
La pianta correntemente adottata fino al VII sec. d.C. era quella basilicale, con caratteristiche che lasciano individuare una versione egiziana della basilica cristiana. Nelle fasi più antiche la struttura basilicale prevede un'aula rettangolare allungata, divisa da colonnati in cinque, o più comunemente in tre navate, con abside semicircolare ma inclusa, poco profonda e orientata verso est. L'abside è affiancata da due ambienti laterali, che possono essere adibiti a battistero o anche a vano scala. Raramente è presente un atrio, talvolta portici colonnati esterni fiancheggiano i lati. Il loro uso, a quanto esplicitamente indicano le fonti, era quello di fungere da riparo per i fedeli che venivano da lontano. L'accesso all'aula avveniva attraverso un ambiente che, a partire dall'inizio del V sec. d.C., viene avvertito come separato: il nartece. Esso è posto più o meno in asse con l'abside, ma può anche essere spostato verso l'estremità di uno dei lati lunghi. In quest'ultimo caso il nartece immetteva in una navatella che, sempre a partire da un certo periodo e per esigenze di carattere liturgico legate alla celebrazione della messa, fu creata per collegare le due navate laterali. In qualche esempio il percorso che si veniva a costituire era continuo, se veniva introdotto un collegamento anche sul lato dell'abside. Ed è proprio la parte absidale a presentare il maggior numero di varianti: l'abside può essere a tre conche (trikonchos), può essere preceduta da un avancorpo separato chiuso da cancelli per l'alloggiamento del coro, può contenere un synthronon per ospitare il vescovo e il clero, può presentare un corridoio posteriore di collegamento fra gli ambienti annessi, secondo un modello attestato in Nubia e in Alto Egitto.
L'evoluzione delle soluzioni planimetriche in relazione anche all'uso di materiali diversi determinò nel tempo modifiche della pianta basilicale e un radicale allontanamento da essa. Si registra la tendenza a separare più nettamente la zona presbiteriale dalle navate: venne introdotto un ambiente di passaggio, il khūrus, la zona riservata ai religiosi. Altro modo di rendere più netta la separazione del presbiterio è quello di chiudere la zona del santuario non più con bassi cancelli oppure con cortine amovibili, ma con iconostasi lignee, in cui si aprivano porte. Una generale tendenza ad adottare coperture a cupola orientò scelte diverse anche circa le planimetrie. La navata venne talvolta dotata di due cupole, l'una successiva all'altra, determinando di fatto una divisione della campata in due ambienti. Piuttosto raro in Egitto è lo schema cruciforme, con sviluppo in altezza della cupola situata nella navata centrale di fronte all'abside. Molto comune divenne invece la pianta centrale con partizioni in ambienti di limitate dimensioni e coperti da piccole cupole, spesso in numero di dodici. Se ne conservano numerosi esempi in Alto e in Medio Egitto, nel Fayyum e nell'area di Giza, probabilmente a partire dall'epoca dei Fatimidi. Il modello si attesta anche nella tarda architettura bizantina e nubiana (X-XIV sec.). Una vicinanza di soluzioni planimetriche con quelle della Nubia cristiana si apprezza soprattutto nella zona di Akhmim, a motivo di eventi storici precisi che vedono contatti e contrasti in Alto Egitto con il regno nubiano di Makuria. La pianta che appare più volte attestata è quella a triplice santuario absidato, con le tre absidi adorne di nicchie, con ambienti laterali al santuario a pianta rettangolare e un corridoio di collegamento fra di essi collocato dietro le absidi (difir). Dinanzi al santuario centrale è una cupola su pilastri e il resto del corpo della chiesa, più esteso in larghezza e coperto da cupolette minori. Una tendenza all'espansione in larghezza divenne più netta dall'epoca dei Mamelucchi (1250-1517), risentendo dei dettami e delle formule architettoniche dell'Islam. Talvolta gli edifici possono risultare notevolmente ampliati perché si tendeva a costruire una chiesa nell'immediata contiguità di un'altra. Nel Fayyum recenti scavi hanno posto in luce una chiesa a sette navate raccorciate, così da configurare un'aula molto più larga che lunga. Rispetto alle aree vicine l'Egitto porta queste soluzioni alle estreme conseguenze, moltiplicando il numero dei santuari, delle separazioni, degli ambienti coperti con piccole cupole. Tali soluzioni sono adottate sia per le chiese dei centri abitati, sia per quelle dei monasteri, fino all'epoca ottomana e oltre.
Fra le chiese egiziane ben poche sono attribuibili con certezza al IV secolo. La piccola chiesa di Leucapsis (Marina el-Alamein), 40 km circa a ovest del santuario di S. Mena, presenta un accesso dal nartece con un tribelon sostenuto da due colonne, un ambiente intermedio tripartito fra il nartece e le navate, tre navate e abside inclusa. A cinque navate è la chiesa rinvenuta nella necropoli meridionale di Antinoe. La sua particolarità risiede soprattutto nelle proporzioni delle navate, lunghe e strette, la navata centrale non molto più larga delle intermedie e le due estreme molto strette; vi sono inoltre le navate di raccordo orientale e occidentale; l'abside inclusa e assai poco profonda è sottolineata da una serie di colonne e affiancata da due ambienti, di cui quello di sinistra include un vano scala. Una scala si trova anche nell'angolo nord-ovest del nartece.
Alla prima metà del V sec. d.C. (410-440) appartiene la grande chiesa episcopale di Hermopolis Magna (66 × 46 m). Grazie a portici esterni correnti su due lati, la basilica si colloca entro un complesso di edifici e di vie porticate che collegano le strutture sorte su quelle antiche e il tessuto urbano. La basilica sorge infatti sul luogo di un santuario dell'epoca di Tolemeo III Evergete, probabilmente un Serapeo, di cui incorpora, nelle fondamenta, elementi architettonici. La pianta è basilicale, a tre navate, con navata di raccordo sul lato occidentale, transetto colonnato con le terminazioni dei bracci a conca, abside non molto profonda e inclusa con coro antistante, nartece e due ingressi entrambi preceduti da un tetrapylon; l'ingresso esterno del nartece non è in asse con l'abside della basilica, ma è spostato a nord, collegandosi con una via colonnata al grande propileo sorto sulle rovine di quello tolemaico che immetteva nel recinto rettangolare del complesso templare. Colonne monolitiche di granito di Assuan dividevano le navate e correvano sul profilo del transetto, che insieme con la conca absidale veniva a disegnare una specie di triconco. Resti di colonnine di minori dimensioni con capitelli appositamente lavorati dovevano riferirsi al piano superiore. Il battistero era accanto all'abside, sul lato nord e i numerosi altri ambienti annessi denotano una notevole articolazione del complesso. Vennero utilizzati anche materiali di reimpiego; i capitelli corinzi delle colonne sono attribuibili al secondo venticinquennio del II sec. d.C. Sotto la parte centrale dell'abside era una cripta di mattoni coperta a botte. Lastroni di granito rosso di Assuan contrassegnano l'area in cui furono impostate le transenne del presbiterio e i sedili del synthronon. È attribuita alla prima metà del V secolo anche la cattedrale di Armant (Hermonthis), la città poco a sud di Luxor intitolata al dio Montu. Ancora parzialmente conservata ai tempi della spedizione napoleonica, ha dimensioni notevoli (46 × 26,5 m), una pianta a cinque navate divise da colonnati di granito di Assuan, con navata occidentale di raccordo, abside inclusa con nicchie, nartece con abside contrapposta a quella del santuario. Due portici colonnati corrono lungo i lati sud e nord della basilica.
La consuetudine di alleggerire le strutture di mattoni con nicchie venne applicata anche alle costruzioni di pietra, che di per sé non lo avrebbero richiesto. Lo si può verificare nella basilica copta costruita, verso la fine del V sec. d.C., nel tempio di Hathor a Dendera, una delle più armoniose e meglio conservate fra quelle che sorsero entro la cinta dei templi faraonici. Il suo caso è diverso da altri esempi appartenenti alla stessa tipologia: è infatti perfettamente inserita fra i due mammisi, quello di Nectanebo e quello romano, in allineamento con essi e con il vicino sanatorium. La chiesa è costruita con blocchetti rettangolari di arenaria, tratti dal mammisi romano; traccia del suo impianto originario a triconco rimane incisa sulla corte antistante; l'alzato si conserva in alcuni punti fino a includere le conche di coronamento delle nicchie. Si apprezza così la mole compatta e geometrica della chiesa (36 × 18 m), che presenta alcune caratteristiche singolari: i due ingressi simmetrici, sul lato nord e sul lato sud, davano accesso ciascuno a un ambiente quadrato da cui ci si immetteva a gomito nel nartece. Questo è provvisto di nicchie e con tre accessi immette nel corpo della chiesa, mentre con altri tre negli ambienti che sono posti contro il lato ovest: un vano scala, una stanza quadrata e un battistero. L'abside è a triconco, con cupola centrale e due ambienti laterali in comunicazione con le conche laterali. Queste comunicano anche con l'area antistante al presbiterio, nella quale quattro colonne dovevano sostenere un arco trionfale; si raccordava così l'area presbiteriale con la più larga navata centrale, che era del tipo a deambulatorio occidentale con piano superiore e con nicchie che sottolineavano le pareti laterali e il profilo della conca absidale.
Fra le chiese costruite entro i templi faraonici è da ricordare anche quella del tempio funerario di Ramesse III a Medinet Habu, consacrata a s. Mena, posta in orientamento trasverso rispetto all'asse del tempio e occupante con i suoi colonnati tutta la seconda corte. Fra le chiese annesse ai templi le più interessanti sono le quattro chiese del tempio di Luxor, la maggiore antistante al pilone di ingresso, le due entro il perimetro del castrum di Diocleziano, una visibile al disotto della moschea di Abul Aggag, nel cortile di Ramesse II, e la chiesa antistante al tempio di Esna. Una basilica che richiama la pianta di quella di Hermopolis Magna è stata posta in luce presso il porto di Huwariya Marea, sulla riva meridionale del Lago Mareotide. Appartiene forse al VI sec. d.C. e vi si manifesta la tendenza all'accorciamento della lunghezza delle navate, che prelude alle scelte delle epoche successive. Le colonne sono in numero di 10 nelle navate e di 12 in ciascuno dei bracci del transetto, che come a Hermopolis Magna terminano a conca. Permangono tracce di rivestimenti di marmo. L'abside invece è aggettante e non inclusa nel perimetro della chiesa, caratteristica che la accomuna alle chiese sul Mediterraneo e che si ritrova nel complesso di Abu Mina. Nello stesso centro esisteva un edificio che è stato interpretato da Grossmann come una residenza per anziani, un gerokomion. La zona era situata sul percorso che i pellegrini seguivano per giungere al santuario di Abu Mina. Dall'encomio di Giovanni di Alessandria (VII sec. d.C.) sappiamo che, a conforto dei pellegrini, vennero realizzati alloggiamenti e luoghi di sosta dal prefetto del pretorio dell'imperatore Anastasio.
Abu Mina è il santuario cristiano più significativo di tutto l'Egitto, tanto che è stato inserito fra i monumenti patrimonio dell'umanità che l'UNESCO intende tutelare. Fu eretto in onore di s. Mena, un santo sulla cui vita mancano notizie certe e di cui si sa quindi poco, di contro all'importanza del santuario a lui dedicato. Giovanni di Alessandria attribuisce i primi interventi sulla tomba del santo al patriarca Atanasio, l'inaugurazione della prima costruzione sotto gli imperatori Valente II e Valentiniano I, un ampliamento sotto l'imperatore Arcadio, cui si era rivolto il patriarca Teofilo, e interventi sotto l'imperatore Zenone. Sul periodo successivo le fonti attestano un contrasto fra il patriarcato monofisita e quello melchita per il controllo del santuario, che dalla conquista araba sarebbe stato stato assegnato ai giacobiti (monofisiti). La contesa ebbe luogo al tempo del patriarca copto Michele I (744-768) e fu riconfermata l'attribuzione ai Copti monofisiti. A seguito di distruzioni, dovute anche a terremoti, furono promossi alcuni rifacimenti da questo patriarca, talvolta con murature rozze e a scopo solamente statico. La grande basilica cadde poi in disuso. La crisi continuò anche durante il patriarcato di Giacomo (819-830). All'epoca del patriarca Giuseppe (830-849) il messo del califfo abbaside, incaricato di cercare per tutto l'Egitto materiali preziosi per la costruzione del suo palazzo, effettuò radicali spoliazioni a danno del santuario. Al-Bakri (m. 1094) descrive la chiesa con la grande immagine del santo di marmo fra due cammelli nell'abside e numerose altre immagini sacre, parla inoltre della lampada sempre accesa e dei frutteti e dei vigneti che sorgevano all'intorno, come rivela il nome di Karm Abu Mina, la "vigna di s. Mena", attribuito alla località situata a nord del centro. Aggiunge anche che in una parte della chiesa era una moschea dove i musulmani pregavano. Nel XIV secolo le reliquie del santo furono traslate nella sua chiesa al Cairo, segno che il luogo non veniva più ritenuto sicuro. Nel 1962 le reliquie del santo furono in parte riportate nella sua sede del Mariut, dove sorge un grande convento a lui dedicato.
Il sito di Abu Mina conserva rovine degli antichi edifici distribuite su una vasta area. Sul luogo della tomba ipogea tradizionalmente attribuita al santo, in realtà una catacomba precristiana, fu eretta inizialmente una chiesa martiriale, la cosiddetta "piccola basilica", o "chiesa della cripta"; essa presentava tre navate, nartece, battistero a due ambienti separati e due vasche, con una scala discendente alla tomba. Fu poi operato un grandioso ampliamento nel V sec. d.C., quando fu costruita una grande basilica a tre navate e transetto mononave in contiguità alla chiesa martiriale, come viene indicato anche dalle fonti. Sempre le fonti attestano che all'epoca dell'imperatore Zenone dovettero essere operati interventi non solo per la fondazione di un centro urbano ma anche per l'abbellimento del santuario. Potrebbe trattarsi del completamento della cosiddetta "grande basilica", di cui fu ampliato il transetto: le fondamenta del primitivo muro perimetrale servirono da stilobate al colonnato che lo percorre lungo tutti i lati. Una delle fasi più significative del santuario resta in ogni caso quella di epoca giustinianea. Sulla tomba del santo fu costruito un nuovo martyrion, tetraconco, a doppio involucro, con aula centrale rettangolare, muro esterno rettilineo e una seconda scala di accesso alla tomba, giustificata probabilmente dal grande aumento dei pellegrini. Il complesso tripartito comprendeva quindi, da est a ovest, la grande basilica con un nartece (terminante sui due lati brevi con un'esedra a colonne), il martyrion tetraconco e il battistero. Quest'ultimo è un ambiente a sé stante, la cui costruzione è in relazione con le diverse fasi di costruzione del martyrion: comprende una sala principale a pianta ottagona con grande vasca centrale, una sala secondaria con la seconda vasca, un ambiente di raccordo con il martyrion e, sul lato sud, un portico colonnato.
Anche la tomba del santo venne modificata in relazione alle diverse fasi edilizie del complesso, che è incluso entro un sistema di edifici, strade colonnate, piazze, ambienti di accoglienza, frutteti e giardini, oasi di ristoro per i pellegrini. Sul lato sud del complesso, in corrispondenza del martyrion e del battistero, si apriva un grande emiciclo a portico colonnato avente come centro ideale la tomba del santo. Sul lato nord del complesso era un grande cortile rettangolare, il cosiddetto "cortile dei pellegrini"; verso il centro era situata una fontana sotto un tetrapylon e, proprio in corrispondenza della tomba del santo, una colonna commemorativa. Era da questo cortile che si accedeva alla basilica. Sul lato nord della piazza erano gli xenodochia, alloggiamenti per pellegrini; l'accesso alla piazza era attraverso una via porticata introdotta da un tetrapylon e verso la sua terminazione nord la via incrociava un'altra strada ad andamento ortogonale. Su questo incrocio dava uno stabilimento termale, definito "doppie terme", perché comprendente due impianti; a nord delle terme era un'altra chiesa, la cosiddetta "basilica nord" o "cimiteriale", a tre navate con abside inclusa e navata occidentale di raccordo, accesso da un atrio rettangolare e diversi edifici annessi, fra cui un battistero aggiunto più tardi. Alla distanza di 1,5 km a est dell'abitato si trova un edificio tetraconco con aula centrale quadrata, simile a quello martiriale, con robusti pilastri atti a sostenere una copertura a cupola. La chiesa era preceduta da un atrio e in un piccolo ambiente annesso si trovava un fonte battesimale. Si ritiene che l'edificio possa essere la chiesa di una fondazione monastica e, se così fosse, sarebbe veramente unica nel suo genere. I capitelli e gli altri elementi di decorazione architettonica che il centro di Abu Mina ha conservato sono la testimonianza più ricca e articolata nell'ambito della decorazione lapidea egiziana. I tipi rappresentati sono tra i più variegati e la cronologia oscilla dal III-IV al VI sec. d.C. Sono presenti in gran numero capitelli di marmo, alcuni apparentemente importati allo stato di semilavorato.
Lo studio del santuario di Abu Mina ha portato l'attenzione degli studiosi sulle guarigioni e sui centri in cui venivano effettuate, un ambito su cui l'Egitto vanta una lunga tradizione. Non è da escludersi che si possano ravvisare forme dirette di continuità (ad es., a Menouthis). Significative scoperte sono state effettuate nell'area sinaitica, dove si segnala il complesso di edifici religiosi di Tell al-Makhzan, a est della città di Pelusio (Tell al-Farama), in particolare la grande chiesa dedicata a s. Epimaco, con annesso un ambiente a pianta centrale e una cripta. Le particolarità della planimetria avvicinano questa chiesa alle altre fondazioni del Sinai (fra cui la chiesa del monastero di S. Caterina e le chiese di Faran) e a quelle di Palestina.
La pianta basilicale venne mantenuta anche nel VII secolo negli edifici di maggiore importanza, come le principali chiese del Cairo Vecchio, ove si trovò a lungo la sede del patriarcato copto. Il quartiere copto del Cairo Vecchio sorge sul luogo della fortezza romana di Babilonia, risalente nella sua attuale configurazione all'epoca di Diocleziano. Oggi il quartiere comprende diverse chiese, delle quali le più celebri sono la chiesa di S. Sergio e quella della Vergine al-Muallaqa ("La Sospesa"). La chiesa di S. Sergio è in onore di Sergio, servitore di s. Bacco alla corte di Massimiano. Sergio e Bacco subirono il martirio nel 296 in Siria e sono molto venerati nel mondo bizantino e orientale. La chiesa a loro dedicata è fra le più antiche e venerate di tutto l'Egitto. Una tradizione che secondo gli studiosi non può essere confermata, ma alla quale i Copti prestano grande rispetto, riferisce che la cripta della chiesa sia stata riparo della Sacra Famiglia durante il suo viaggio in Egitto. La chiesa è a pianta basilicale; distruzioni e rimaneggiamenti le hanno conferito l'aspetto attuale a tre navate con abside affiancata a nord dal battistero e a sud da una cappella absidata, haykal e soffitto di legno, ciborio di legno sostenuto da quattro colonne, navata occidentale di raccordo, nella quale è il laqqān, la tanca incassata nel pavimento per la cerimonia della benedizione dell'acqua nell'Epifania e per la lavanda dei piedi nel giovedì santo, elemento sempre presente nelle chiese egiziane. La cripta, posta al disotto dell'area antistante l'abside, è a tre navate con colonne di marmo.
La chiesa della Vergine è denominata La Sospesa perché è costruita sopra i torrioni che fiancheggiavano l'ingresso principale della fortezza dioclezianea. Per questo motivo i materiali impiegati non sono particolarmente pesanti (la copertura è di legno) e l'accesso è servito da una lunga scalinata. Questa immette in un atrio a cielo aperto, porticato sul lato orientale, da cui si accede all'aula che ha due colonnati laterali, di otto colonne ciascuno, che separano due strette navate laterali; verso il centro della navata centrale una serie di tre colonne la spartisce insolitamente in due settori diseguali. Rilevante è l'ambone, con intarsi di vari marmi colorati e marmo proconnesio; esso si data all'XI secolo, periodo in cui la chiesa, dopo alterne vicende che avevano visto perfino la sua trasformazione in moschea, divenne la sede del patriarcato copto. Il santuario è triplice e separato da iconostasi lignee con pregevoli rilievi e pannelli con intarsi d'avorio e d'ebano, di cui quello centrale è dedicato alla Vergine, i laterali a s. Giovanni Battista e a s. Giorgio. I rilievi dell'architrave del portale, oggi al Museo Copto del Cairo, rappresentano l'entrata a Gerusalemme e probabilmente una delle più antiche attestazioni di Cristo in trono fra i Quattro Viventi. La porta che dà accesso alla cappella di Takla Haymanot, la parte più antica dell'edificio, è di notevole pregio, con le sue incrostazioni d'avorio su legno di cedro.
In linea con il generale orientamento del Tardoantico la statuaria viene quasi generalmente a essere sostituita dal rilievo, in tutte le sue modulazioni, dall'altorilievo che distacca di poco dal fondo le figure, concepite in piena volumetria, al rilievo inciso che ricava dal fondo figure di quasi impercettibile spessore. Il rilievo ha per lo più impiego in ambito architettonico e si attua in una pluralità di espressioni derivanti da una comune matrice ellenistica. Con la diffusione del cristianesimo e la dominazione bizantina in Egitto si attesta una lettura del mondo celeste e dei suoi personaggi in chiave di una corte lussuosa, con regnanti incoronati in trono (Cristo, la Vergine), alti dignitari (gli Arcangeli), attendenti e diaconi incensanti (gli Angeli).
L'uomo compare come individuo nelle stele funerarie, come essere simbolico nelle cacce e nei combattimenti con le bestie feroci, le multiformi espressioni del male, con le mani dietro la schiena si trova al cospetto o al disotto dell'imperatore a cavallo, infine compare nei graffiti dei pellegrini nei luoghi santi.
Più rappresentato è il mondo animale. Nell'ambito del cristianesimo la sua interpretazione in chiave simbolica porta alla creazione di un nutrito bestiario di Cristo, con figure attinte dalla tradizione faraonica, da quella ellenistica, da quella ebraica e da quella romana imperiale. Questo straordinario mondo venne elaborato sulla base dell'esegesi alessandrina, che propendeva per un'interpretazione simbolica delle Sacre Scritture. Nella quasi totalità dei casi viene riconosciuto all'animale un valore ambivalente, per cui esso non si presenta quasi mai totalmente positivo o totalmente negativo; incarna invece un insieme di significati ispirati alle sue caratteristiche in natura. Larga parte di tali interpretazioni si rivela artificiosa e ripetitiva, con caratteristiche di un animale passate di peso a un altro (ad es., pellicano e leone), ma queste creazioni hanno comunque ispirato i bestiari medievali e come tali sono giunte a noi. Fra gli animali simbolici rientrano anche esseri fantastici, come la fenice e l'unicorno. La fenice, che nell'Egitto antico era probabilmente il benu, uccello solare che si incenerisce nelle fiamme nella sua casa in Heliopolis e risorge dalle sue ceneri annunciando una nuova era, è animale cristologico, in quanto è Cristo stesso l'artefice dell'inizio di una nuova era. L'unicorno, la cui documentazione iconografica in Egitto è ampia, è prevalentemente associato alla Croce.
Ugualmente il mondo vegetale evoca significati simbolici, recuperando elementi delle civiltà preesistenti: il loto, con i suoi frutti è il fiore che indica la rinascita, l'acanto adombra significati di eternità, l'edera di Dioniso, la rosa, il lauro e la palma, piante della vittoria e del trionfo eterno sulla morte, il melograno e sopra tutte le piante la vite, che con i suoi grappoli collega Osiris, Dioniso e Cristo, espressione dell'abbondanza eterna, così come il vino allude alla trasformazione per eccellenza, quella che riguarda la morte. Anche nella tematica di origine classica si dà la preferenza ai temi che simboleggiano l'unione con la divinità e il rapimento (Leda e il cigno, Europa e il toro), che indicano un viaggio verso le isole dei beati (Afrodite e il suo corteo marino) e l'ascesa all'Olimpo a seguito di imprese meritorie (Dioniso con Arianna, Eracle), ma sono rappresentati anche i protagonisti dei miti, dei racconti e dei poemi che hanno nutrito generazioni di popolazioni greche ed ellenizzate. I temi nilotici sono evocazioni di scenari e di fenomeni che assicurano in Paradiso l'affrancamento dal bisogno. Si ricollegano sempre all'abbondanza dei raccolti e delle offerte: Serapis, con il suo copricapo, il modius, recipiente per misurare il grano; la personificazione del Nilo con i putti e la cornucopia, il corno spezzato della capra Amaltea; la Terra, con la mappula piena di frutti.
Molti ritengono che la maggior parte di questi temi sia stata oggetto di una reinterpretazione cristiana. Ve ne è la prova soltanto per alcuni, ad esempio per Orfeo, il cantore che ammansisce le belve, o per Afrodite che, soprattutto evocata dalla conchiglia, allusiva alla sua nascita dal mare, viene a simboleggiare l'anima che rinasce dopo essere stata purificata dall'acqua del battesimo. Sono illustrati dal rilievo anche molti simboli e temi cristiani, la Croce innanzitutto e, più raramente, temi vetero- e neotestamentari che rappresentano diversi episodi biblici, scelti per lo più fra quelli che possono costituire paradigmi di salvezza e che ricordano il percorso della salvezza disegnato dal sacrificio di Cristo. Un capitolo a parte è quello degli oggetti e delle immagini che alludono a cure e guarigioni, anche miracolose: può essere documentato da pissidi d'avorio, usate come contenitori di unguenti, pettini d'avorio e stele che illustrano i miracoli di Cristo relativi a guarigioni (ad es., del cieco, del paralitico); piccoli rilievi di metallo mostrano la parte del corpo che è stata guarita.
Un caso singolare e di eccezionale interesse è rappresentato da un rilievo del IV sec. d.C. con la rappresentazione a traforo del dio Horo a testa di falco, rappresentato in veste di militare romano a cavallo mentre trafigge con la lancia un coccodrillo. Nel mondo faraonico Horo, figlio di Osiris, è il vendicatore di suo padre, che affronta e vince Seth, raffigurato sotto forma di coccodrillo. Horo è dunque il dio figlio, rappresentato in terra dal faraone. Il dio Horo fu ben accolto dall'esercito romano. A determinare la sua assimilazione iconografica e simbolica presso i Romani, fin dal principato di Augusto, concorse anche il fatto che egli è rappresentato come falco, uccello che richiama l'aquila di Zeus/Iuppiter e soprattutto quella delle legioni romane. Spesso compaiono raffigurazioni di Horo come legionario, come nel caso di una statua di bronzo in cui egli è raffigurato stante, a gambe ben piantate, con il braccio sinistro avvolto nel mantello. Singolare è anche una statua in cui il dio è raffigurato come un imperatore in trono, a figura umana e testa di falco, con le penne che si prolungano lungo il busto a disegnare una corazza sopra la quale è allacciato il mantello. Come vendicatore del padre egli diviene campione contro il male e precursore della figura del santo cavaliere che uccide il drago o altre creature maligne.
Il rilievo di carattere architettonico investe trabeazioni, pilastri, ma soprattutto il modulo base della decorazione architettonica: la nicchia, vero leitmotiv di ogni fase dell'arte copta e diretta filiazione da impianti classici; essa si può presentare con profilo arrotondato o terminante a frontone, spesso interrotto. Dalla scultura a rilievo si trae la testimonianza, vista l'abbondanza della documentazione, del graduale passaggio dai modi figurativi di tradizione ellenistica a quelli tardoantichi e bizantini. La breve dominazione dell'Egitto da parte di Zenobia di Palmira e la perdurante presenza di comunità palmirene in Egitto suggerisce probabilmente sfumature stilistiche simili a quelle di opere palmirene. Di notevole importanza, per varietà e qualità, è la documentazione offerta dai capitelli. Quelli di marmo proconnesio venivano importati, anche allo stato semilavorato. I capitelli di calcare e di arenaria sono prodotti localmente, ma sempre sulla base dei modelli dell'arte ufficiale; gli ordini adottati sono lo ionico e il corinzio, limitato il primo, largamente prevalente il secondo, in un notevole numero di varianti. Si affermano anche il composito e diverse altre tipologie: a calice, a foglie di olivo e di vite, a cesto, bizonale, baccellato. Il capitello corinzio con le sue varietà ad acanto spinoso, dentellato, naturalistico o più astratto rimarrà però sempre in uso. I monumenti bizantini che presentano capitelli che servirono da modello per le costruzioni egiziane sono a Costantinopoli: il grande arco del foro di Teodosio e la chiesa di S. Giovanni di Studio, della metà del V sec. d.C. (ca. 463). I capitelli figurati si attestarono nel VI sec. d.C. e dovevano essere nella chiesa costantinopolitana dei Ss. Apostoli (536-546); i fregi della chiesa dei Ss. Sergio e Bacco (tra il 527 e il 536) mostrano il passaggio da un rilievo pieno alla lavorazione a intaglio, caratteristica del VI sec. d.C. e attestata, ad esempio, in S. Sofia o, a Ravenna, in S. Vitale.
La decorazione delle lastre si effettua con un traforo a giorno e si utilizza per le finestre, per le transenne e le recinzioni del coro nelle basiliche, queste ultime assai diffuse. Un mutamento nel rituale sotto Giustino II (565-578), l'introduzione del rito cosiddetto della "grande entrata", determinò un cambiamento di struttura nel coro, che fu separato dalle navate della chiesa da un recinto continuo, che prelude all'iconostasi. Si attribuisce di norma al IV sec. d.C. la serie di elementi architettonici di fattura classicheggiante provenienti da Alessandria, Bahnasa, Ahnas, el-Ashmunein. La colonna di Diocleziano nel Serapeo di Alessandria, con il suo gigantesco fusto monolitico di granito di Assuan e il suo capitello corinzio, doveva forse servire per sostenere una statua di porfido. Sappiamo dalle fonti che ad Alessandria esistevano diversi edifici ecclesiastici, ma non sono più collegabili a essi gli elementi architettonici che tuttora sussistono in aree aperte e nel locale museo. Diverso è il caso dell'auditorium di Kom el-Dik, che conserva ancora materiale in situ; anche Bahnasa conserva copiosi materiali provenienti dalle costruzioni cittadine e dalla necropoli. La fattura classicheggiante di queste opere si riconosce dall'andamento naturalistico dei particolari architettonici di ispirazione vegetale.
Ahnas è l'area di provenienza di un complesso di rilievi in cui, all'interno di nicchie decorate con foglie di acanto, sono rappresentate figure tratte dal repertorio classico e riferibili per lo più all'arte funeraria. L'insieme appartiene a un medesimo edificio ed è ritenuto abbastanza omogeneo, pur potendovi riconoscere almeno due stili: l'uno volumetrico, l'altro intagliato e con un senso della figura più asciutto. I due stili sono stati valutati come contemporanei e collocabili nel IV sec. d.C. Appartengono al primo gruppo di Ahnas quelle figure che mostrano analogia con immagini palmirene. Senza provenienza sono numerosi altri rilievi in cui sono rappresentati temi mitologici, con stili riferibili sia a quello più addolcito, sia a quello più vigoroso e massiccio. Permane la fortuna dei temi nilotici, con l'evocazione di pesci, anatre, coccodrilli, ippopotami, fiori e frutti di loto, temi di antica tradizione rivisitati in ambito ellenistico. Altro tema ricorrente è quello della caccia, rappresentato entro una fitta vegetazione oppure entro girali di acanto, un motivo caratteristico nel mondo ellenistico sino a quello tardoantico. Compaiono spesso uccelli, di frequente associati a rami di vite con grappoli e rappresentati nell'atto di cibarsene, allusivi al nutrimento eterno del Paradiso e al sacrificio di Cristo. Il tema dei due uccelli che si chinano a bere dall'orlo di un kantharos viene assunto con significato simile in chiave cristiana. Anche la vendemmia e la raccolta dei frutti si trovano rappresentate in pregevoli rilievi del Museo Copto del Cairo. Uno dei frammenti presenta musicanti con nacchere e doppio flauto che accompagnano il lavoro.
Con l'epoca costantiniana temi e simboli cristiani entrano nel repertorio del rilievo. Nel rendere il trionfo della Croce in una corona si ripercorre il modulo dei Geni portatori, in coppia, di clipei o di corone, ma in una nicchia con intrecci di foglie di acanto sono due putti nudi a sorreggere l'immagine della croce, che poi sarà portata da due angeli. Con la vittoria di Costantino si moltiplicano raffigurazioni della croce, associata a simboli del trionfo: è l'aquila delle legioni romane che serra fra i suoi artigli una corona con iscritta una croce; oppure entro una ghirlanda, come nei capitelli dell'auditorium di Kom el-Dik. Probabilmente con Teodosio si diffonde l'immagine della croce gemmata, aprendo la via a una serie di simboli e ornamenti che saranno in particolare replicati nelle pitture delle fondazioni monastiche. Al suo primo apparire in Egitto la croce è spesso associata con il segno geroglifico che indica la parola "vita" e il chrismòn presenta l'occhiello della rho aperto, come a disegnare una ciocca di capelli. Si tratta dell'allusione all'idea del Figlio, con l'evocazione della treccia dell'infanzia, un elemento che si trova anche giustapposto alla croce. Un'antologia di simboli cristiani è proposta dai rilievi delle nicchie della chiesa del monastero di S. Shenute a Sohag (cd. Monastero Bianco). La croce vi appare in contesti vegetali e affiancata da animali, tra i quali si riconoscono unicorni. Questi ultimi compaiono ai lati di una croce trionfale in un rilievo al disopra di una porta della chiesa della Vergine Maria a Delga (Deir Muwas, nell'area di Minya), non lontano da Bawit, e certamente più antico dell'edificio nel quale è collocato. Dallo stesso centro proviene un capitello a calice, con kalathos a grossi grappoli d'uva, quarto superiore a profonde baccellature e abaco con motivo a meandro.
Un gruppo di blocchi di pietra di natura eterogenea fu posto in luce durante i lavori di risistemazione del nilometro di Roda eseguiti fra il 1934 e il 1939. Furono estratti dalle sostruzioni del nilometro ed erano inseriti nello spesso blocco di muratura che costituiva il rivestimento sotterraneo del pozzo. Dovettero esservi collocati al tempo della sistemazione dell'VIII sec. d.C. Il lotto si compone di una stele egiziana della XXVI Dinastia, di altri blocchi scolpiti da tombe di epoca faraonica e di epoca greco-romana; i materiali copti sono una trentina e sono relativi alla decorazione architettonica di edifici diversi: nicchie, piedistalli di colonna, fregi e capitelli di colonne, di pilastri e di pilastri angolari. Si segnalano per il loro interesse: una nicchia con raffigurazione di Europa e il toro, dalla composizione mossa e dinamica in un'ambientazione di acanto dentellato e con due delfini al disopra della nicchia; una nicchia con una croce affiancata da due pilastrini con intrecci di acanto; un piedistallo di colonna, che presenta, in buono stato di conservazione, un campo rettangolare con intreccio di acanto intagliato e sui lati incavi per incastri; un capitello corinzio di pilastro, con croce inserita in una corona trionfale; due capitelli di pilastro.
Appartengono alla decorazione architettonica anche pilastri con lavorazione a intaglio di grande eleganza, come quello dei Musei di Berlino, e due transenne con figure di animali, una gazzella e un elefante, nel Museo Copto del Cairo, che dovevano essere impiegate per finestre. Ma all'interno delle nicchie non intervengono soltanto i simboli del cristianesimo. Più raramente sono evocate anche scene vetero- e neotestamentarie. Una nicchia del Museo Copto del Cairo racchiude la raffigurazione del Sacrificio di Isacco, con interessanti particolarità iconografiche. Alcune lastre a rilievo propongono figure di santi, come, ad esempio, una rappresentazione di s. Tecla e del suo doppio supplizio: fu messa prima al rogo, che sopportò aprendo le braccia per simboleggiare la Croce e, dopo che una pioggia miracolosa lo ebbe spento, fu data ad bestias. Ma raramente i Copti mostrano il tormento inflitto ai loro martiri. Un'altra lastra, stilisticamente molto simile, rappresenta un santo cavaliere nell'atto di trafiggere una figura umana. Alcuni fori, evidenti nella lastra di Tecla, fanno pensare che questi pannelli (dalle dimensioni simili) fossero applicati a supporti o pareti. Una lastra di calcare del Museo Copto del Cairo mostra i Tre Ebrei nella fornace, salvati dall'angelo, che con la lunga asta doma le fiamme.
Gli elementi di decorazione architettonica più significativi appartengono alle fondazioni monastiche: a Sohag, nella chiesa del monastero di S. Shenute, della metà del V sec. d.C., nel suo impianto originario, e in quella del monastero di Anba Bishoi, della seconda metà del V sec. d.C.; inoltre, elementi architettonici significativi si trovano nei complessi di Bawit e di Saqqara, del VI-VII sec. d.C. Con il mutare delle condizioni dei Copti nel Paese, in conseguenza dell'occupazione araba, l'uso della pianta basilicale e dei materiali da costruzione di pietra venne progressivamente abbandonato. Le creazioni più tarde, i fregi e le cornici delle nicchie che si manifestano in una dizione più astratta e calligrafica, furono il patrimonio da cui trassero ispirazione le formulazioni islamiche. L'uso delle pietre di pregio permane a lungo nelle chiese del Cairo, in relazione alla loro maggiore importanza. È conservato un synthronon marmoreo, con intarsi di pietre colorate nella chiesa di S. Mercurio, mentre l'esempio più importante è l'ambone marmoreo della chiesa di al-Muallaqa.
Altrettanto importante per il mondo copto è la produzione di stele di pietra: votive, commemorative o sepolcrali. Non molto numerose sono quelle a carattere commemorativo: si ricorda la stele dell'apa Shenute, che ce ne tramanda con pochi tratti, rozzi ma molto efficaci, l'imponente figura. Una stele con l'immagine di un Pacomio, che si dice provenga dal monastero di Apa Geremia a Saqqara, è forse da riferirsi al fondatore del cenobitismo. Egli è rappresentato nell'atteggiamento di orante, con un ricco abbigliamento di rango, ed è nimbato. Vi è anche un certo numero di stele votive con raffigurati Maria e il Bambino Gesù fra gli arcangeli Michele e Gabriele, o con immagini di santi, come, ad esempio, s. Mena. Infinitamente più numerose sono le stele funerarie, cui si affianca un certo numero di rilievi a carattere ugualmente funerario. Sulla linea di una tradizione che risale in Egitto alle prime dinastie la stele è il punto di comunicazione fra il mondo dei morti e quello dei vivi. La attraversava il ba del defunto (uno dei corrispettivi immateriali del corpo) per tornare nel mondo e poi rientrare nella tomba, la sua casa di eternità. Altre stele non relazionate alla tomba venivano poste nel dominio sacro di Osiris ad Abido, in occasione del pellegrinaggio che ognuno doveva compiere per venerare il sovrano del tempo più lungo dell'esistenza, quello oltremondano. Altre ancora, di carattere votivo, erano offerte ad altre divinità, spesso connesse con l'oltretomba. L'uso della stele funeraria, comune ad altre civiltà presenti in Egitto, la greca, la romana, la palmirena, perdurò nelle forme che da un lato ereditavano i segni dei credi faraonici, dall'altro accoglievano quelli delle nuove convinzioni religiose. Si presentano in forma seriale, in schemi e soggetti ripetuti in un numero che potremmo definire aperto, visto che nuovi ritrovamenti vengono di continuo ad aggiungersi a quelli già noti.
Presso le città dei morti vi erano officine che offrivano prodotti già finiti, cui mancava solo il nome del defunto. Un corpus delle stele funerarie copte non ha mai visto la luce, ma la materia è di estremo interesse e rivela linguaggi locali, che si traducono nella scelta dei formulari, del programma figurativo, dello stile delle rappresentazioni. Un gruppo consistente, ove compaiono temi legati alla tradizione faraonica, proviene da Kom Abu Billo, la necropoli dell'antica Terenouthis. In stile diverso è una stele da Ossirinco, che presenta un personaggio stante entro una profonda nicchia liscia. Affine, quanto a concezione, è una categoria di nicchie che ospitano un fanciullo seduto su un cuscino, che tiene una colomba nella sinistra e nella destra ha un grappolo d'uva o una ghirlanda. Queste nicchie, che portano talvolta un coronamento con acroteri, sono assai numerose. Alcuni ritengono che stele di questo tipo siano da riconnettersi al culto isiaco. Caratteristica è una stele dal Fayyum, a lungo ritenuta un'immagine della Virgo Lactans; presenta la figura di una donna che allatta il suo bambino, nello stesso schema iconografico di Isis che allatta Horo. Un'iscrizione dipinta in giallo la colloca ora, con la sua formula nota al mondo classico, nell'ambito funerario, e la trasformazione in senso cristiano è data dalla presenza di due grandi croci incise ai lati del capo della donna. La formula dell'iscrizione si ritrova anche in stele di Edfu, di Armant e di altri centri egiziani e nubiani. Le stele provenienti dal Fayyum mostrano sovente la figura del defunto o della defunta di fronte a un sacello, che è da intendersi come una cappella funeraria, talvolta nel gesto dell'orante. In alcuni casi compare una conchiglia, simbolo di rinascita. L'indicazione di appartenenza a cristiani è data dalla presenza di croci, talvolta da un segno ankh, dai cui bracci pendono le lettere alfa e omega, come nella stele di Rhodia; due segni ankh possono affiancare una croce con ricciolo laterale, con ai lati alfa e omega. Un pezzo straordinario è una stele in cui i due segni ankh si trovano ai lati di un elemento centrale dalla forma di un geroglifico indicante unione. Il segno della ankh viene dunque accolto nel suo significato di vita eterna.
Le stele con rappresentazioni di uccelli, dalle diverse valenze simboliche, costituiscono un insieme consistente. Sono un gruppo omogeneo quelle che presentano due pavoni ai lati di una coppa posta su di un altare ad alto piedistallo, sotto un frontone triangolare con acroteri molto evidenziati: è possibile che siano repliche di una figurazione bizantina. Altre rappresentano una fenice che rinasce dalle sue ceneri e torna ad annunciare una nuova era. Generalmente la fenice è resa con le ali alzate a racchiudere il disco solare e sotto le sue zampe sono le fiamme del rogo da cui è risorta. Ma il mondo dei simboli è il terreno più fecondo per la genesi di trasformazioni, assimilazioni o fraintendimenti. Così il disco solare diviene progressivamente una corona trionfale che racchiude una croce e l'aquila, che aveva un suo significato distinto, viene a identificarsi con la fenice e si ricollega anch'essa alle fiamme. La presenza di questi uccelli contraddistingue un gruppo nutrito e ben riconoscibile di stele provenienti dall'Alto Egitto, dalle aree di Edfu, Esna, Armant e Luxor. Una forma particolare di stele, alta, stretta, leggermente rastremata e terminante a frontoncino triangolare, contrassegna un gruppo di Armant. Anche l'aquila che vi è rappresentata ha una forma particolare, con corpo globulare in cui le piume sono stilizzate a bolli, ali alzate a racchiudere una corona trionfale con croce e in basso le lettere alfa e omega. In quelle di Edfu e di Luxor, invece, la superficie è fittamente ricoperta da motivi vegetali simbolici, croci, ankh e spesso un'aquila che si leva in volo, di profilo, reggendo nel becco un'ankh e nelle zampe una corona trionfale.
In tema di rilievi a carattere funerario vanno ricordati un rilievo della Ny Carlsberg Glyptotek di Copenaghen, con un personaggio accompagnato da un arcangelo con globo e asta crociata, in funzione di psicopompo, entro un tempietto a frontone su colonne, e un rilievo di Magonza, nel quale, entro una più complessa architettura, è raffigurato un arcangelo che preleva l'anima di una defunta dormiente sul suo letto. L'anima ha l'aspetto di una bambina in atteggiamento di orante e l'arcangelo la tiene seduta sul suo braccio sinistro ricoperto dal mantello. Si tratta dunque di due raffigurazioni di un arcangelo psicopompo, probabilmente Michele, cui era affidato questo compito.
Nel mondo copto il rilievo si esprime anche in altri materiali: il legno e l'avorio, che viene ricavato da denti di ippopotamo e zanne di elefante. In epoca tolemaica, quando l'avorio era molto apprezzato, il rifornimento avveniva a Meroe e in India; non diversamente dovette accadere in epoca romana. Oggetti di fattura particolarmente curata sono giunti a noi in gran numero, testimoniando una produzione fiorente a uso di classi elevate. Si tratta di piccoli oggetti, parti di giochi, di mobilio, poggiatesta, statuette di animali, bastoni magici, manici di specchi, strumenti musicali; inoltre le pissidi, che erano tratte da sezioni di zanne di elefante ed erano usate anche come contenitori di medicamenti. Tagliato a sottili lamelle, l'avorio veniva anche impiegato per incrostazioni o applicazioni su mobili o su cofanetti, talora con decorazioni incise e policrome. La maestria degli artigiani alessandrini tramandò alle generazioni successive un patrimonio di esperienze che produssero o ispirarono l'esecuzione di oggetti che ancor oggi destano la generale ammirazione.
Al mondo copto appartengono dei piccoli rilievi che tramandano temi e personaggi della mitologia greca. Alcuni sono di espressione naturalistica e dinamica, come il pezzo al Louvre di Parigi con raffigurazione di una Menade e un Sileno, o un avorio di Ravenna con Apollo e Dafne. Anche cofanetti illustrano temi analoghi; è ricorrente la figura del putto impegnato nei lavori di vendemmia. Un pezzo notevole e unico è l'avorio di Trieste, con raffigurati i Dioscuri e Pasife con il toro. Interessanti raffigurazioni compaiono anche sulle pissidi. Quella di Wiesbaden, databile al VI sec. d.C., mostra la celebrazione della festa della piena del Nilo: il Nilo recumbente con cornucopia è attorniato dai putti, la sua paredra sciorina in grembo i frutti contenuti nella sua mappula, si celebrano libagioni e intorno, nell'acqua, sono un coccodrillo e grandi fiori di loto. La pisside del Museo di Bonn, databile fra il VI e il VII sec. d.C., mostra invece la Resurrezione di Lazzaro, uno dei temi ricorrenti nelle rappresentazioni e nelle epigrafi delle stele funerarie in Egitto. Il tema, associato con quello della Guarigione del cieco, ricorre anche in un pettine d'avorio ora al Museo Copto del Cairo.
La pisside del British Museum di Londra illustra s. Mena entro un tempietto ad arco ribassato su due alte colonnine tortili. È nel consueto atteggiamento dell'orante, affiancato dai due cammelli e da supplici che lo invocano a mani tese. Vi compare anche il martirio del santo: inginocchiato davanti a un giudice, le mani dietro il dorso, è afferrato per i capelli da un esecutore che solleva in alto la spada per decapitarlo. S. Mena è raffigurato anche in una placca eburnea, oggi nel Castello Sforzesco a Milano, di fronte al santuario, con le lampade che ricordano uno dei suoi miracoli e con due cammelli inginocchiati, accanto ai suoi piedi. È un'opera raffinata, espressa in un linguaggio di matrice bizantina; fra le ipotesi cronologiche che sono state proposte sembra più attendibile quella del VI sec. d.C.
L'impiego del legno nell'esecuzione di rilievi ripercorre in gran parte temi e stili del rilievo di pietra e d'avorio; le mutate caratteristiche delle chiese ne prevedono la presenza in maniera estensiva e a lungo perdurante nella decorazione architettonica. Pur essendo tra i materiali più deperibili, soggetto all'attacco di microrganismi, in Egitto le particolarità ambientali ne hanno permesso la conservazione. Autentico capolavoro del IV sec. d.C. è la mensola da el-Ashmunein con scena di battaglia e liberazione di una città, che si vuol riferire a una vittoria dell'imperatore Diocleziano. Un altro rilievo notevole raffigura Daniele nella fossa dei leoni: la scena è ambientata fra due colonnine con fusto lavorato, capitello corinzieggiante e acroteri a palmetta espansa. Di legno sono eseguiti fregi a girali, in analogia con quelli di pietra. La policromia, che molto spesso interveniva in entrambi i casi, è meglio conservata nei legni.
Uno dei luoghi in cui furono rinvenuti legni figurati, come un sarcofago dipinto con pavone, è Karara; un altro cospicuo insieme è quello del monastero di Bawit. Il legno è particolarmente impiegato per le delimitazioni degli haykal, la zona del presbiterio, e per le porte delle chiese. Ricordiamo quella di S. Barbara al Cairo Vecchio e quella di al-Muallaqa. Nei quattro pannelli delle due porte, databili attorno al 1300, eseguiti in un rilievo molto basso trattato con estrema cura, sono raffigurati in un linguaggio aulico: Annunciazione e Battesimo di Cristo; Natività e primo bagno; Ascensione; Discesa di Cristo agli Inferi con Cristo che preleva Adamo ed Eva, e nel seguito di Cristo sono riconoscibili il re David e s. Giovanni Battista. Utilizzati in ambito liturgico sono i cosiddetti "troni del calice", baldacchini su colonnine che proteggevano i calici eucaristici. Uno dei settori in cui il legno trova duraturo impiego è quello delle tavole dipinte, pannelli o icone, oggetti della devozione e della liturgia prima che opere d'arte, per i quali i Copti ebbero grande attenzione e che produssero in un'infinità di esemplari.
La pittura copta si rinviene sulle pareti delle tombe ipogee e delle cappelle funerarie, sulle pareti delle chiese, degli altri edifici religiosi e delle fondazioni monastiche, sulle tavolette lignee, che discendono dalla tradizione dei ritratti funerari greco-romani e che preludono alla produzione delle icone, su tessuto e su papiro. Gli antecedenti vanno rintracciati nell'ambito funerario: catacombe alessandrine, ipogeo di Wardiyan, tombe della necropoli di Tuna el-Gebel; ma anche nei mosaici di Alessandria e delle altre città egiziane, di ville o fortini come Sheikh Zueda, nelle pitture romane, come quelle del sacello tetrarchico del culto imperiale nel forte romano che riutilizzava il tempio di Luxor, esempi di una produzione volta alle classi dominanti e di commissione imperiale.
Le attestazioni più antiche sulla pittura copta riguardano l'ambito funerario. Una testimonianza ricorda che nelle catacombe alessandrine di Karmuz, non lontano dalla colonna di Diocleziano, alla fine dell'Ottocento era ancora possibile riconoscere alcune pitture raffiguranti immagini di Cristo; i nomi che sono tracciati al disopra delle figure consentono inoltre di identificare una delle più antiche rappresentazioni della Vergine Maria.
La figura della Vergine si ritrova anche nel complesso delle pitture della necropoli di Bagawat. Alcune delle cappelle di questa necropoli appartengono a giudeo-cristiani, come la cappella dell'Esodo, visto il repertorio di episodi veterotestamentari ivi raffigurato insieme all'Esodo degli Ebrei dall'Egitto. Singolare è la scelta di alcuni episodi, come quello di Ietro che mangia con gli anziani di Israele e che, come primo dei convertiti, prefigura la fondazione della Chiesa dei Gentili; oppure l'uccisione del profeta Isaia per ordine di Manasse o, ancora, Geremia davanti a Gerusalemme. Il grande edificio della Gerusalemme celeste è contrassegnato dal segno ankh, che compare anche affiancato da due croci, alla sommità dell'arco est della cappella. Di norma gli episodi raffigurati sono paradigmi di salvezza, modelli dell'intervento divino a salvezza dell'uomo dopo il peccato originale: l'Arca di Noè; il Sacrificio di Isacco; Daniele nella fossa dei leoni; i Tre Ebrei nella fornace; Giona; Susanna. La salvezza si rinnova nel primo martirio di Tecla: una processione di vergini sale a un tempio con fiaccole e incensieri, l'ultima si trova al disotto del martirio di Tecla e al disopra di una figuretta di orante. Tale figura è stata posta in rapporto con Tecla, tuttavia potrebbe trattarsi della defunta, che trova in Tecla un modello.
Tecla è raffigurata anche in un'altra cappella della medesima necropoli, quella della Pace. Qui le pitture occupano in registri concentrici la sommità della cupola. La composizione è quindi impostata su partizioni geometriche regolari, abbandonando la libertà dell'impianto figurativo della cappella dell'Esodo. Il significato simbolico si arricchisce con la raffigurazione delle personificazioni della Pace, della Giustizia e della Preghiera, ossia: la pace del riposo eterno, la giustizia che presiede alla sentenza di destinazione oltremondana, la preghiera di ricevere la salvezza che hanno avuto, ad esempio, Noè, Isacco, Daniele. Al peccato dei progenitori pone rimedio la Vergine Maria, la quale, raffigurata con una folta massa di capelli biondi, un grande velo chiaro e una tunica con clavi, è posta vicino all'arca di Noè. Nello spazio di risulta sono rappresentate due colombe, quella in basso è la colomba in volo verso l'arca di Noè, in alto la colomba dello Spirito Santo che si avvicina all'orecchio di Maria (conceptio per aurem). Accanto a Maria sono seduti, l'uno di fronte all'altra, Paolo e Tecla. La giovane fu convertita al cristianesimo proprio da Paolo, secondo quanto si dice nel testo apocrifo degli Acta di Paolo e Tecla, che ebbe larga diffusione in Egitto. Un papiro da Antinoe, ad esempio, ne riporta una versione copta. Nella medesima cappella compaiono altre particolarità iconografiche di grande interesse: i due coltelli che cadono dalla grande mano di Dio, in relazione al Sacrificio di Isacco; la presenza inconsueta di Rebecca sulla scena del sacrificio; i familiari di Noè raffigurati nell'arca.
Le pitture rinvenute nella Cappella 25, un edificio di notevoli dimensioni, indicano questa come una fra le più antiche della necropoli. La semicupola dell'abside è decorata con cassettoni, già presenti in epoca più antica (si veda la semicupola da Wardiyan, nel Museo di Alessandria); nella cupola è una grande ruota di fuoco sorretta da quattro fenici ad ali sollevate. La testimonianza delle pitture di Bagawat è dunque importante, perché densa di significati che la ricollegano ad ambienti colti e al contesto culturale di Alessandria (la Grande Oasi fu luogo di esilio di personaggi rilevanti, come Nestorio e Atanasio) e perché, attestando una produzione altrove perduta, presenta temi e personaggi in un aspetto che precede le standardizzazioni successive. Evidente è il caso della Vergine Maria, che non risulterebbe in alcun modo riconoscibile in quell'aspetto se non fosse per il nome che compare al disopra della sua figura, come per gli altri personaggi, sullo sfondo della sottile banda rossa che sovrasta il registro figurato.
È Maria che orienta la pittura funeraria di poco successiva. Ella compare infatti nella cappella di Teodosia ad Antinoe. Alcuni studiosi ne hanno messo in dubbio l'identificazione per la sua collocazione, inadeguata, a lato della defunta, ma le immagini della Vergine vanno valutate entro un percorso diacronico, che ne attesta la progressiva acquisizione di centralità, iconografica e teologica. In Egitto un momento importante è quello in cui, in opposizione a forze consistenti, il patriarcato di Alessandria ottiene il riconoscimento della Vergine come Theotokos, generatrice di Dio. La Vergine è designata in Egitto come Haghia Maria, Santa Maria. La cappella di Teodosia mostra già il titolo di Haghia Maria. La defunta, la giovane ed elegante Teodosia (il suo abito è paradigma dell'abbigliamento dell'epoca) è accompagnata dal venerando s. Colluto, il santo di Antinoe, che le poggia una mano sulla spalla e la introduce nel giardino del Paradiso. La Vergine le mostra la croce nella corona della vittoria, ormai gemmata: Cristo ha vinto la morte. L'abbigliamento della Vergine si avvia alla standardizzazione, essendo costituito dalla cuffia bianca delle matrone romane e dal manto color porpora: un abbigliamento tipico delle donne consacrate e della Vergine nelle pitture dei monasteri, salvo eccezioni.
Cristo è raffigurato in trono, fra i due arcangeli Michele e Gabriele, in una parete dell'ambiente attiguo a quello dell'arcosolio. L'atteggiamento e l'abbigliamento degli arcangeli indica una datazione alla fine del IV - inizi V sec. d.C.: indossano la tunica clavata e sono stanti. Seguendo l'indicazione che lo studio delle modifiche iconografiche nelle raffigurazioni dei santi e l'introduzione di nuove scene ci apporta, vanno collocate a un'epoca di poco posteriore le pitture messe in luce da A.E. Breccia (1912) a ovest di Alessandria, ad Abu Girgis, e da A. Adriani (1933) ad Alam Shaltut, oggi conservate nel Museo di Alessandria. Più antiche quelle di Abu Girgis (IV sec. d.C.), dove fu posto in luce un edificio cristiano dal quale si accedeva a un ipogeo costituito da due ambienti, di cui il secondo provvisto di una nicchia. Qui un giovane martire è rappresentato con nimbo, tunica con sottili clavi e mantello in un paradiso connotato come un ambiente nilotico. La cristianizzazione è indicata da due elementi sorretti da quattro sottili colonnine di cui non è chiara l'identificazione: forse si tratta di tavole, al disopra delle quali è un pane eucaristico con al centro una croce. Nello stretto passaggio di comunicazione con la sala attigua è l'immagine di Cristo in trono. Decorazioni dipinte a cassettoni e imitanti intarsi di marmi arricchivano gli ambienti. Nella prima sala si distingue la parte inferiore di un'immagine di s. Mena (parete est); sulla parete nord, di fronte alla scala, è una scena di Annunciazione di cui si conserva quasi esclusivamente la figura dell'arcangelo Gabriele che indossa una tunica adorna di clavi verticali con grandi clavi caudati che sottolineano l'orlo inferiore e ospitano due tabulae. Egli tende il braccio destro verso la Vergine, la cui figura è quasi completamente perduta, e regge nella sinistra una sottile asta. Poco più tarde dovrebbero essere le pitture di Alam Shaltut, da cui sono stati recuperati riquadri a intrecci geometrici, figure di animali e motivi vegetali.
La produzione pittorica di questo periodo costituisce il punto di partenza di temi e stili che troveranno la più compiuta espressione nei monasteri di Bawit e Saqqara. Degne di nota sono le decorazioni pittoriche delle chiese del Fayyum e quelle delle chiese del Cairo Vecchio. Siamo comunque in un'epoca molto più tarda, quando il Paese è sotto il pieno dominio dell'Islam. Rinvenimenti straordinari furono effettuati nel Fayyum da B.P. Grenfell e A.S. Hunt, a Tebtynis nel 1899 e ancora qualche decennio più tardi, negli anni Trenta del Novecento, da C. Anti e G. Bagnani. Nello stesso centro gli studiosi che li effettuarono erano concentrati sul rinvenimento di papiri, al punto che le pitture scoperte nel 1899 furono studiate novant'anni più tardi da C.C. Walters, mentre i rinvenimenti del 1933 furono pubblicati dal Bagnani in un articolo rimasto a lungo ignorato.
Queste pitture non sono di norma prese in considerazione nei recenti studi sull'arte copta, eppure il loro interesse è notevole e le iconografie spesso uniche. Uno degli ambienti posti in luce nel 1899 è, a evidenza, una chiesa ove sono state riutilizzate colonne provenienti da templi faraonici. L'abside è decorata nella parte inferiore da una fila di colonnine con capitelli corinzi; la conca absidale ospita Cristo in trono con i Quattro Viventi e i medaglioni del Sole e della Luna, quest'ultima segnalata dall'iscrizione Selene; al disotto figurano tre venerabili personaggi seduti: al centro s. Atanasio, alla sua destra s. Antonio, che l'iscrizione definisce "anacoreta", a destra s. Pacomio. Sulla parete occidentale della seconda stanza, evidentemente il khūrus, è rappresentato uno degli episodi della vita di s. Teodoro Stratelate, con la vedova supplice dinanzi al santo a cavallo e i due figli di lei che egli salverà dal drago. Vi è raffigurato anche un altro santo cavaliere. Se le iscrizioni trascritte in occasione del rinvenimento delle pitture possono riferirsi a lui, si tratterebbe dunque di s. Sisinnio Stratelate mentre combatte con un essere semiumano che dalla vita in giù ha corpo di serpente, qualificato in un'iscrizione come Mastema, uno dei nomi di Satana. Un'iscrizione di un donatore, o dell'esecutore della pittura, invoca la benedizione e la protezione di Cristo. Le pitture conservano altre immagini e scene: s. Mercurio, monaci con grandi libri in mano, un gallo rappresentato al disotto di una finestra. Vi è poi una scena che allude alla resurrezione di Cristo: un angelo, accanto al sepolcro vuoto, indica che Cristo è altrove, tre grandi figure, forse le tre Marie, sono conservate soltanto in parte.
Ma davvero unica, per iconografia e stile, è una scena di Inferno con rappresentazione di Abbaton e delle anime dei dannati. Qui il pittore ha elaborato con fantasia una composizione che vede al centro la grande figura di un angelo; non è conservato il suo volto, ma nella parte inferiore sembra esservi una grande lingua tirata fuori dalla bocca. Egli indossa un'armatura e un grande mantello; in vita, come cintura, è annodato un serpente; i suoi piedi sono artigli, il braccio destro è alzato a reggere una corda a più estremità cui sono legati teste, busti, corpi interi di dannati con iscrizioni che indicano i peccati commessi da ciascuno. Sulla sinistra di questa sorta di catena è leggibile la figura di una donna con due serpenti attaccati ai seni: è la donna che vive con un marito pagano. All'opposto un demone a figura umana e testa di coccodrillo tormenta un uomo: colui che prende il salario dei lavoratori. Altri particolari mostrano una coppia in cui il pene dell'uomo e i seni della donna sono morsi da serpenti, mentre un altro grosso serpente si rizza contro il volto dell'uomo. Infine una donna emette dalla bocca l'anima, che viene divorata dal "decano che mastica (?) le anime".
Una grande figura seduta è rappresentata nella parte superiore, a fianco dell'ala di Abbaton, e regge nella sinistra un rotolo aperto in cui è scritto: "Enoch, lo scriba che registra i peccati dell'umanità". Infine, un'iscrizione recita: "Signore Gesù Cristo, benedici e proteggi la vita di nostro fratello Papas, figlio di Mercurio, per quello che ha donato a questo arcangelo con le sue fatiche, così che il mio signore Gesù Cristo possa dargli la sua ricompensa centuplicata nella Gerusalemme celeste, la città di tutti i giusti. Amen. Così sia, A. M. 669 (953 d.C.)". Frammenti di un'altra iscrizione relativa al donatore menzionano il nome dell'arcangelo Michele, a conferma dell'ipotesi che la chiesa appartenesse a un monastero dell'Arcangelo. Queste pitture di così alto interesse, che vanno oggi poste in relazione con quelle recentemente messe in luce nel Wadi Natrun, concernenti il destino dei beati (di cui sempre Enoch aveva descritto la sorte), sono da rapportare a quelle rinvenute nel 1933 nella stessa città di Tebtynis, che sono state distaccate e si conservano nel Museo Copto del Cairo. La missione italiana rilevò sul sito, nell'area nord, tre chiese, una delle quali conservava pitture di non minore interesse e per qualche aspetto simili a quelle sopra descritte. La scena più interessante mostra Adamo ed Eva nel Paradiso terrestre. Adamo porta alla bocca con la mano destra un frutto, mentre nella sinistra ne tiene due; anche Eva ha in mano frutti e con la destra ne solleva uno. Nella sequenza successiva Adamo alza la destra, a rivolgere la parola a Eva. Le espressioni sono intense: le due figure, prima nude, si coprono ora con larghe foglie; il Paradiso è lussureggiante, con alberi carichi di frutti; le figure hanno capelli biondi; Adamo porta barba e baffi. In altri frammenti ivi rinvenuti sono raffigurati, fra gli altri, due santi cavalieri, di cui uno di dimensioni minori. In un altro lacerto è rappresentata la scena di s. Pietro e il gallo. Tebtynis è uno dei maggiori centri del culto del dio-coccodrillo Sobek. Le pitture dell'Inferno conservano un'eco di tale tradizione nell'iconografia, ad esempio della dea che allatta due coccodrilli. La presenza di serpenti riflette la realtà di quel distretto umido e fertile.
Notevolmente differenti, perché di diversa destinazione e collocazione, sono le pitture che si trovano nelle chiese del Cairo Vecchio: S. Sergio (Abu Sarga), S. Shenute, al-Muallaqa. A S. Sergio frammenti di pitture, probabilmente risalenti all'XI-XII sec. d.C., mostrano, in maniere simili a quelle di S. Macario e di Deir al-Baramus, figure di santi dipinte su pareti e su alcune colonne. Un santo in armi e un vescovo sono rappresentati nella chiesa di S. Shenute. Nella chiesa di al-Muallaqa una colonna presenta l'immagine di un arcangelo; nel santuario di Takla Haymanot, nella conca absidale, è raffigurata la Vergine con al disotto le immagini di venti personaggi nimbati, dai volti affilati e dalle lunghe barbe; ancora al disotto è una scena di Natività. La Vergine è semisdraiata su di un letto e indica il Bambino, avvolto in fasce rosse, che giace su una greppia. Intorno sono angeli e pastori e fra gli altri, un'insolita figura di s. Giuseppe stante. I canoni iconografici tipici della tradizione bizantina sono qui rivisitati; la pittura, in cui predominano i toni brillanti del verde, del rosso e dell'azzurro, è di buona fattura.
L'Egitto copto nell'ambito delle pitture su tavola si attesta come erede di una tradizione eccezionale. Tale produzione nasce nell'Egitto ellenistico e dà luogo ai famosi ritratti funerari, i cosiddetti "ritratti del Fayyum". La pratica di sepoltura che giustificava questo impiego dovette prolungarsi nel tempo, ma gli stessi pittori che dipingevano per la necropoli avevano da tempo prodotto anche dipinti su tavola di destinazione diversa, dedicati alle case o a edifici pubblici, come lascia intendere, ad esempio, uno dei pezzi più celebri dell'Egitto romano: il tondo di Settimio Severo, Giulia Domna, Geta e Caracalla. Ma gli eredi copti di questa tradizione sono per lo più lontani da quest'aulica raffinatezza. Un rinvenimento singolare fa comprendere la natura di tali realizzazioni. In una tomba di Antinoe, scavata nel 1938, furono poste in luce sette tavolette lignee dipinte. Erano raccolte insieme entro un vaso; alcune portavano ancora traccia del foro in cui passava un cordoncino per appenderle. Rappresentavano ciascuna un santo, il cui nome e la cui funzione si leggevano ai lati in colonne verticali di scrittura. Recentemente è stata individuata l'iscrizione che identifica l'apa Victor. Non molto numerose sono le tavole dipinte di questo genere; ricordiamo quella di Cristo con apa Mena, proveniente da Bawit e conservata nel Museo del Louvre, l'immagine del vescovo Abraham, della stessa provenienza e oggi nei Musei di Berlino, entrambi databili al VI-VII sec. d.C. Con qualche incertezza si pensa possa provenire dallo stesso luogo una tavola dipinta sui due lati in uno stile differente: da un lato figura l'arcangelo Gabriele, dall'altro s. Teodoro (VI-VII sec. d.C.).
Molto più tarde sono le icone, che trovano largo impiego in Egitto. Esse costituiscono un patrimonio che è stato oggetto di distruzioni casuali o programmate e alcune di esse erano bruciate annualmente per il fuoco con cui si estraeva l'olio santo per le cerimonie. Le fonti riferiscono che alle icone era riconosciuto il potere dell'immagine che rappresentavano. Per uso privato, dunque, furono oggetto di un culto che rasentava l'idolatria. Ma ben più vasto è il loro impiego nelle chiese e nei monasteri come parte integrante delle celebrazioni liturgiche. Nel Sinassario ogni giorno era destinato alla celebrazione di un evento legato a personaggi divini, a santi e martiri, alle festività dell'anno liturgico; le icone che ritraevano il personaggio o l'evento che si doveva celebrare venivano allora portate in processione e presentate all'omaggio dei fedeli, talvolta espresso con fervente fisicità. Così, attraverso questo rituale, l'Egitto, che non aveva mai dato largo spazio a immagini narrative, finì per introdurle a corredo visivo e segnico dei racconti evangelici, delle vite dei santi, delle passioni dei martiri e dei miracoli dei divini personaggi, che i fedeli ascoltavano dagli officianti e dai predicatori durante le omelie. Le icone sono dunque parte integrante della liturgia; come tali vengono esposte nelle iconostasi delle chiese e conservate in gran numero negli ambienti annessi alle medesime. Molte icone copte si trovano oggi nel Museo Copto del Cairo, una delle più significative collezioni, ma quasi ogni fondazione cristiana in Egitto, antica o moderna, ne possiede un buon numero. Una collezione importante è anche quella del monastero di S. Caterina sul Monte Sinai, che ben testimonia l'ampiezza dello sviluppo di tali immagini nel mondo bizantino.
Le icone copte rappresentano di preferenza la Vergine Maria, con il Bambino o anche in molti episodi della sua vita, ivi compresi la Fuga in Egitto, la Dormizione e l'Assunzione. Inoltre, è raffigurato Cristo, in trono, o nelle sue vicende terrene, come la Crocifissione, che è rappresentata altrove quasi esclusivamente nei manoscritti, e l'Ascensione. Ancora, gli Arcangeli, presenze molto vicine all'uomo egiziano e ai quali erano affidate per tradizione specifiche funzioni. Viene poi l'innumerevole schiera dei santi. I martiri, i santi cavalieri, le cui leggende si arricchirono di particolari avventurosi ed eroici, distanziandosi nel tempo dalla sobrietà degli Acta antichi e determinando sovrapposizioni e contraddizioni; i santi guaritori, che si finì per definire medici; i padri del monachesimo. Questi temi, più volte ripetuti, sono realizzati in una sorprendente pluralità di linguaggi. Se ne distinguono alcuni filoni: uno, che potremmo chiamare locale, è quello che maggiormente si collega alle pitture su tavola più antiche e alle pitture delle fondazioni monastiche più recenti; un altro, più aulico e legato a formulazioni bizantine; un terzo, connesso con l'Etiopia e il suo particolare stile. Molte icone portano frasi scritte in arabo, dediche e anche firme di artisti. Il riconoscimento di cifre stilistiche particolari ha condotto all'individuazione di singole figure di artisti, fra cui vanno menzionati Ibrahim al-Nasikh, attivo fra il 1742 e il 1780, e Yuhanna al-Armani, la cui attività si colloca fra il 1742 e il 1783. Alcune differenze tuttavia lasciano individuare il linguaggio dei due artisti, passato, attraverso le loro rinomate scuole, alle successive generazioni di pittori.
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di Mario Cappozzo
L'utilizzazione del papiro, o meglio della "carta di papiro", come materiale librario è attestata in Egitto sin dal III millennio a.C. e durò sin oltre la conquista araba del Paese (641 d.C.). Diffusa in tutto il bacino del Mediterraneo, la carta di papiro fu impiegata come supporto scrittorio fino all'avvento della pergamena che, utilizzata principalmente per confezionare codici per opere letterarie tra il I e il XV sec. d.C. (soprattutto tra il IX e il XIV sec.), non la sostituì mai completamente.
Il più antico esemplare scritto di carta di papiro giunto fino a noi è datato alla V Dinastia, anche se nel Museo del Cairo è conservato un rotolo non utilizzato datato alla I Dinastia. Questi primi esemplari non erano tuttavia illustrati. L'usanza di arricchire il testo con raffigurazioni è attestata solo a partire dal Medio Regno, documentata da un celebre papiro proveniente dal Ramesseo che, datato al 1980 a.C. circa, ci tramanda una cerimonia per la festa di ascensione al trono di Sesostris I, secondo sovrano della XII Dinastia. In seguito, durante il Nuovo Regno, le illustrazioni divengono cosa comune sia sui papiri contenenti il cosiddetto Libro dei Morti, sia anche su papiri non funerari; tra questi il celebre papiro delle miniere d'oro conservato nel Museo Egizio di Torino. I Greci conobbero la carta di papiro presumibilmente intorno al VII sec. a.C., all'epoca della fondazione della città di Naukratis, ma fu soprattutto con il dominio macedone e con la fondazione di Alessandria che vennero a contatto con i volumi illustrati. La nuova capitale divenne, inoltre, il più grande centro di produzione e commercio dei rotoli di papiro.
Di carta di papiro furono realizzati anche i più antichi codici che, a partire dai primi secoli dell'era cristiana, rimpiazzarono progressivamente il rotolo (volumen). Da un rotolo iscritto non più utilizzato si tagliavano dei fogli che poi venivano sovrapposti e incollati faccia scritta contro faccia scritta, ottenendo un foglio vergine. Il foglio così ricavato veniva poi piegato in due in modo da ottenere un quaderno. È questo anche il principio di composizione in cui furono realizzati i codici gnostici rinvenuti nel 1945 a Nag Hammadi, che, oltre al notevole interesse che suscitano per i testi che tramandano, rivestono anche una grande importanza per la storia del libro. Questi volumi, datati tra la fine del III e la metà del IV secolo, presentano delle pagine di 23-30 cm di altezza per 12-18 cm di larghezza e sono protetti da un astuccio di cuoio, in alcuni casi ornato da simboli. Vi sono numerosi altri esempi del IV e VI secolo che presentano questa tecnica di realizzazione, tra cui il manoscritto della Pierpont Morgan Library a New York, che tramanda gli Atti degli Apostoli in dialetto mesokemico (od. ossirinchita), e il Codice Mudil del Museo Copto del Cairo, che ci restituisce i Salmi nello stesso dialetto. Del IV secolo è anche il manoscritto Copto 135 della Bibliothèque Nationale di Parigi, che conserva frammenti dell'Esodo in dialetto akhmimico e che proviene da Akhmim, uno dei centri di più intensa attività letteraria in Egitto.
Tra queste realizzazioni di grande interesse letterario si inseriscono anche delle rare raffigurazioni su papiro, purtroppo mutile, che documentano per il V-VI secolo l'usanza della miniatura. Si tratta di un papiro, rinvenuto da una missione italiana e proveniente dalla necropoli settentrionale di Antinoe, che raffigura la Vergine Maria nimbata che allatta Gesù. Presumibilmente da Bahnasa proviene anche un'illustrazione tratteggiata sul verso di un frammento di foglio papiraceo che raffigura una scena ispirata ai Vangeli: Gesù riposa sulla barca di Pietro, mentre sul Lago di Tiberiade infuria una tempesta; i discepoli preoccupati per la loro sorte lo svegliano ed egli placa i venti con la sola forza della sua parola. Al centro è posto Gesù con alla sua sinistra i discepoli, uno dei quali, Pietro, tiene l'indice e il medio della mano destra uniti e alzati, nell'atto di rivolgersi al Signore. Tracce di colorazione violacea rimangono ancora sulle teste degli Apostoli.
Lo studio della produzione manoscritta egiziana si arricchì di nuovi elementi nel 1880, quando J. Maspero scoprì il luogo di provenienza di numerosi fogli di pergamena apparsi nel mercato antiquario. Si trattava di testi in dialetto saidico provenienti dalle vicinanze del monastero di S. Shenute a Sohag. Questi manoscritti, pervenutici quasi tutti in un cattivo stato di conservazione, furono acquistati in gran parte dalla Bibliothèque Nationale di Parigi, mentre il resto della collezione è stato disperso. Di grande pregio è il Manoscritto 129 datato all'VIII-IX secolo; ci tramanda, tra l'altro, il testo di Isaia, ma si caratterizza per l'estrema raffinatezza degli elementi decorativi. Il titolo della profezia è scritto in inchiostro rosso e con un modulo differente rispetto al resto del testo, mentre la prima lettera del testo biblico è riccamente decorata con motivi a spirale neri e rossi. Originali, per gli elementi decorativi, sono anche altri fogli dello stesso manoscritto che, diversamente datati al X secolo, presentano nel margine inferiore varie rappresentazioni di animali, sia reali che immaginari. Queste pagine di pergamena furono probabilmente realizzate da un copista che operava nel Fayyum e poi acquistate dai monaci del monastero di S. Shenute a Sohag.
È proprio, infatti, con i codici scoperti nel 1910 tra le rovine di un convento del Fayyum dedicato all'arcangelo Michele, presso il villaggio di Hamuli, che si assiste all'utilizzo sempre maggiore di elementi decorativi: motivi vegetali spesso colorati, lettere ingrandite e dipinte, uccelli e animali vari. Questi codici appaiono meglio conservati rispetto a quelli del monastero di S. Shenute a Sohag, possedendo quasi tutti ancora la rilegatura originale. Acquistati tutti per conto della Pierpont Morgan Library di New York contengono sia testi biblici, sia omelie e testi agiografici. Di formato più grande rispetto ai manoscritti più antichi, presentano il testo scritto su due colonne ed elemento nuovo, dei ricchi colofoni che ci tramandano la data di copiatura, il luogo in cui questa venne effettuata e il nome del copista. Informazioni utili che ci fanno anche capire l'importante ruolo svolto dai monasteri del Fayyum, area che si configurava come uno dei centri di copiatura di opere letterarie più importanti d'Egitto, tale da approvvigionare anche la biblioteca del monastero di S. Shenute a Sohag. Un altro elemento decorativo che si ritrova comunemente nei codici di Hamuli è l'abitudine di rappresentare, all'inizio del volume, una grande croce o, al posto di essa, un santo, un arcangelo (spesso Michele) o la Vergine Maria. Ne è un esempio il Manoscritto 612, datato all'892/3, che è impreziosito da un'immagine di Maria, seduta su un trono che allatta Gesù, alle cui spalle sono rappresentati due angeli che protendono le mani in segno di venerazione. I personaggi hanno uno sguardo fisso e tratti stilizzati; la rappresentazione è sottolineata da colori vivaci e porta la firma del copista: "io, Isacco, prete, il più piccolo, ho scritto [o dipinto questo]".
Dalla stessa collezione proviene anche il Manoscritto 603, datato al 902/3, che presenta un frontespizio ornato con la figura dell'arcangelo Michele, riccamente vestito con una tunica e coperto da un mantello di porpora, che tiene nella mano sinistra un globo segnato dalla croce. Ma l'elemento decorativo non si limita al frontespizio: lettere e segni di punteggiatura assumono, di volta in volta, un ruolo decorativo. Arricchito con due illustrazioni è anche il Manoscritto 6782 conservato nella British Library di Londra e proveniente dal Fayyum. Copiato dal diacono Philotheos nell'anno 706 dell'era dei Martiri (989-999 d.C.), presenta il frontespizio con un'immagine della Virgo Lactans, assisa su un trono maestoso e affiancata dall'apostolo Giovanni. Alla stessa epoca appartengono anche i manoscritti di pergamena in dialetto boairico della biblioteca del monastero di S. Macario, nel Wadi Natrun, oggi in gran parte conservati nella Biblioteca Apostolica Vaticana.
Datato al 1178/9 è il manoscritto Copto 13 della Bibliothèque Nationale di Parigi. Si tratta del più sontuoso codice copto che ci è stato tramandato, un esemplare di lusso. Sotto il patriarcato di Marco III (1166-1189), fece parte della biblioteca del cardinal Mazzarino ed entrò nella Biblioteca Reale di Francia nel 1661. Secondo una leggenda sarebbe stato portato in Francia direttamente da Luigi IX. Il codice, che ci trasmette una versione dei Vangeli, presenta delle illustrazioni inserite nel testo caratterizzate da un estremo realismo e da una vivacità di colori e di motivi ornamentali che discendono direttamente dalla più ricca tradizione ereditata dai manoscritti greci di lusso.
I secoli XII e XIII vedono infatti la realizzazione dei più begli esemplari di codici di lusso. Tra questi spicca il codice Vaticano Copto 60, che raccoglie estratti di più manoscritti contenenti opere agiografiche, tra le quali il martirio dei ss. Giovanni e Simeone. Il foglio 60 presenta, sotto otto linee di testo elegantemente scritte, una grande immagine rappresentante due santi in piedi, separati uno dall'altro da una sottile linea rossa verticale. A sinistra il santo martire Giovanni è raffigurato nell'atto di liberare la figlia del re, posta ai suoi piedi, dal serpente che fuoriesce dalla bocca della ragazza; il re e la regina sono seduti su un seggio cubico. A destra di questa rappresentazione vi è l'immagine di s. Simeone, imberbe e con una tunica turchese. Il tutto segna l'inizio della passione dei due santi che è descritta a partire dal foglio successivo. Altrettanto ricco e finemente realizzato è il codice boairico-arabo Vaticano Copto 9, proveniente dalla ricca biblioteca del monastero di S. Antonio nel Deserto Orientale e datato al 1205. Il foglio 20 di questo manoscritto è decorato con una croce che presenta un medaglione con la figura di Cristo, mentre altri quattro medaglioni con l'immagine degli evangelisti occupano gli spazi fra i bracci della croce. Nel foglio 146 è ritratto invece l'evangelista Marco seduto davanti all'arcangelo Michele, suo ispiratore, mentre il foglio 388 presenta la Vergine Maria, qui definita come Madre di Dio, che ispira l'evangelista Giovanni, anche lui seduto e nell'atto di scrivere. Si tratta di miniature raffinatissime eseguite con un'estrema cura dei particolari.
Nei secoli seguenti la tradizione manoscritta si perpetua e talvolta si arricchisce con dei veri e propri capolavori, come il manoscritto Copto 114 della Bibliothèque Nationale, datato al 1555, oppure il manoscritto Orientale 1316 della British Library, datato al 1733, che contiene i quattro Vangeli in boairico e arabo, ciascuno introdotto da una raffigurazione a pagina piena dell'evangelista che ne è l'autore con l'animale apocalittico a lui connesso. La pagina di fronte a queste rappresentazioni ha delle lettere maiuscole sontuosamente decorate, mentre altre 134 miniature impreziosiscono il resto dell'opera. L'arte della miniatura è ancora viva nel XIX secolo e ne sono testimonianza l'evangeliario copto-arabo commissionato da Sergios Ghali nel 1801, nonché altri manoscritti di questo periodo che presentano decorazioni aniconiche d'ispirazione islamica che si limitano a volte solamente alle pagine iniziali.
L. Delaporte, Catalogue sommaire des manuscrits coptes de la Bibliothèque Nationale de Paris, Paris 1912; A. Hebbelynck - A. van Lantschoot, Codices Coptici Vaticani Barberiniani Borgiani Rossiani, Roma 1937; A. Minto, P.S.I. 920. Cristo dorme nella barca di Pietro mentre infuria la procella sul Lago di Tiberiade, in Studi in onore di Aristide Calderini e Roberto Paribeni, II, Milano 1957, pp. 97-101; M. Cramer, Koptische Buchmalerei, Recklinghausen 1964; V. Bartoletti, La Madonna con Bambino in un papiro copto di Antinoe, in Studi in onore di Luisa Banti, Roma 1965, pp. 29-31; K. Weitzmann, Illustrations in Roll and Codex, Princeton 1970; J. Leroy, Les manuscrits coptes et coptes-arabes illustrés, Paris 1974; K. Weitzmann et al., The Place of the Book Illumination in Byzantine Art, Princeton 1975; K. Weitzmann, Spätantike und frühchristliche Buchmalerei, München 1977; J.M. Robinson, The Facsimile Edition of the Nag Hammadi Codices, Introduction, Leiden 1984; B. Layton, Catalogue of Coptic Literary Manuscripts in the British Library Acquired since the Year 1906, London 1987; J. Gascou, Les codex documentaires égyptiens, in A. Blanchaid (ed.), Les débuts du codex, Turnhout 1989, pp. 71-101; U. Horak, Illuminierte Papyri, Pergamente und Papiere, Wien 1992; L. Depuydt, Catalogue of Coptic Manuscripts in the Pierpont Morgan Library, Löwen 1993; G. Gabra, Der Psalter im oxyrhynchitischen (mesokemischen/mittelägyptischen) Dialekt, Heidelberg 1995; Ägypten. Schätze aus dem Wüstensand. Kunst und Kultur der Christen am Nil (Catalogo della mostra), Wiesbaden 1996; U. Horak, Illuminierte Papyri, Pergamente und Papiere der Berliner Papyrussammlung. Vorbericht über ein Forschungunternehmen, in Akten des 21. Internationalen Papyrologenkongresses (Berlin, 13.-19.8.1995), Stuttgart 1997, pp. 461-72; S. Bacot, Un évangéliaire copte-arabe illustré du début du XIXe siècle, in Études Coptes, V, Louvain - Paris 1998, pp. 93-106; L'art copte en Égypte, 2000 ans de christianisme (Catalogo della mostra), Paris 2000; C. Nakano, Le manuscript des épîtres catholiques BNF Copte 129 (11), ff. 112-127, in Études coptes, VI, Louvain - Paris 2000, pp. 147-55; T. Orlandi, The Library of the Monastery of St. Shenute at Atripe, in A. Egberts - B.P. Muhs - J. van der Vliet (edd.), Perspectives on Panopolis. Acts from an International Symposium (Leiden, 16-18 december 1998), Leiden 2002, pp. 211-32; A. Boudhors (ed.), Pages Chrétiennes d'Égypte. Les manuscrits des Coptes, Paris 2004.
di Loretta Del Francia Barocas
La produzione tessile è uno degli ambiti artistici in cui l'Egitto si esprime con maggior eloquenza. I tessuti giunti a noi sono migliaia, conservati in collezioni pubbliche e private e circolanti nel commercio antiquario, anche con un certo numero di falsi. Le radici di tale vasta produzione risiedono nell'epoca della dominazione tolemaica, con l'incontro fra la tradizione tessile egiziana e quella greca, l'una incentrata sul lino, l'altra sulla lana. La produzione si svolgeva nelle botteghe, ma anche in ambito privato, in casa o fuori, mediante telai portatili appesi agli alberi: tessere faceva parte della vita quotidiana. Non si insisterà mai abbastanza sull'importanza delle condizioni climatiche e ambientali, che favoriscono sia la coltivazione del lino sia la conservazione di materiali altrimenti facilmente deperibili, per spiegare l'abbondanza della documentazione.
Il Nilo, con la fertilità che assicura al Paese, permette due raccolti l'anno; la fascia di coltivazione del lino era immediatamente successiva a quella del grano. Durante le fasi di trattamento dei fusti di lino era necessario utilizzare acque limacciose, perché i microrganismi che vi proliferavano erano importanti per il rapido svolgimento del processo di decomposizione delle parti legnose. Il lavaggio non presentava problemi, vista la vicinanza all'acqua di tutte le installazioni egiziane; lo sbiancamento neppure: si utilizzava il natron (carbonato di sodio idrato), presente in molti luoghi nel Paese, e la radica saponaria come detergente. Locale era anche la maggior parte dei coloranti utilizzati e soprattutto dei mordenti per il fissaggio del colore, che gli Egiziani usavano con maestria. L'ambiente ha anche favorito la conservazione dei reperti, nella maggior parte dei casi rinvenuti nelle necropoli situate nell'area desertica adiacente alla valle. La composizione del suolo, l'aridità del clima e la conseguente assenza di umidità hanno permesso la conservazione di migliaia di esemplari. Un'altra fonte di reperimento dei tessuti è costituita dalle discariche degli abitati, in cui venivano gettati i frammenti usurati o che si voleva dismettere. È attualmente oggetto di studio la documentazione proveniente dal Mons Claudianus.
Quello che invece dovette essere migliorato e potenziato in Egitto è il settore della lana, poco attinente alle abitudini egiziane, sia per ragioni climatiche, sia perché non poteva investire tutti gli ambiti di impiego. Preclusioni a noi note attraverso le fonti (Hdt., II, 81) ne impedivano l'uso, come materiale di origine animale, nell'ambito del sacro. Nella processione di Tolemeo Filadelfo in Alessandria sfilarono greggi di pecore. Che le lane egiziane siano state giudicate talvolta insoddisfacenti si può dedurre dalla presenza di frammenti di lana del Kashmir rinvenuti ad Antinoe. Non era semplice tingere con la porpora perché si dovevano impiegare decine di migliaia di murici (Murex brandaris) e quindi creare tintorie in prossimità del mare. Non era locale l'indaco, non lo fu neanche la lacca, tratta da un insetto (Coccus lacca) non presente nel Paese. I tintori egiziani studiarono comunque combinazioni cromatiche con cui ottennero colorazioni fortemente simili alla porpora e per il resto utilizzarono materiale di importazione.
Gli Egiziani impiegarono soprattutto il lino, ritenuto ab origine la veste degli dei. La pianta veniva seminata dopo il ritrarsi della piena e veniva raccolta in diverse fasi di maturazione, a seconda del filato che si voleva ottenere, più fine (raccolta nella prima maturazione) o meno fine (nella fase ultima di maturazione). Tutte le operazioni, dalla semina al lavaggio del tessuto ultimato, sono documentate dalle raffigurazioni tombali egiziane e vi è anche una documentazione a tutto tondo, costituita dai modelli di ambienti di tessitura. Le fibre si collocavano entro recipienti di ceramica e venivano poi filate. Il filo di ordito, quello portante, doveva essere più forte; la trama richiedeva di norma un filato meno resistente e pertanto meno attorto. Ciò è mostrato dai frammenti rinvenuti nelle discariche, che talvolta hanno perduto quasi completamente la lavorazione di trama e presentano solo lo scheletro di ordito. Il telaio tradizionale egiziano era quello orizzontale: piantati a terra quattro pioli si fissava una barra da cui partiva l'ordito e si inseriva la trama facendo uso di una navetta. A partire da un certo momento si impiegò anche il telaio verticale. Questo passaggio avvenne forse durante il regno di Thutmosis IV, come prova tra l'altro il fatto che proprio in una tomba di questo periodo è rappresentato un telaio verticale, eccezionale per la sua mole, dinanzi al quale i tessitori operano seduti su sgabelli. Gli strumenti accessori della tessitura sono pettini per serrare il tessuto in trama, aghi per le chiusure e finiture.
Durante il Nuovo Regno, come indicano i rinvenimenti tessili della tomba di Tutankhamon e di quella dell'architetto Kha, si attesta l'uso della tunica, con parti decorate, per lo più bordure. Tale indumento, con tutte le modifiche del caso, sarà alla base dell'abbigliamento del Paese per millenni a seguire. L'introduzione su vasta scala della lana, che pure gli Egiziani conoscevano e adoperavano, portò a usarla sia per tessuti interamente di lana, sia per parti decorate. Così le tuniche, i mantelli, gli scialli portarono clavi, orbiculi, tabulae, clavi caudati, medaglioni sagomati a foglia con trama di lino e lana su ordito di lino. Nell'arredo vengono impiegati grandi tessuti per adornare le pareti oppure come coperte; nella pratica funeraria sono usati per avvolgere il defunto al disotto dei lenzuoli dipinti, che rappresentano l'altro aspetto della produzione, specialmente nel periodo più antico, in cui persiste l'uso della mummificazione. Grandi tessuti dipinti erano usati anche come decorazione parietale. La facilità della pratica della tessitura nel Paese fa sì che l'impiego del tessuto sia in Egitto più ampio che altrove. Si usava per l'abbigliamento, per l'arredo pubblico, sacro, privato, per vele di barche e di navi, per avvolgere e proteggere oggetti preziosi (come la parrucca di Merit, moglie dell'architetto Kha, rinvenuta nella loro tomba). Si usava anche per avvolgere cose da spedire o trasportare. Il grande impiego del tessuto spiega la presenza relativamente scarsa di mosaici. Era impiegato anche in luoghi dove il suo utilizzo non era indicato: terme, palestre, cortili all'aria aperta, aree in cui, come quella prospiciente il Mediterraneo, si trovava una maggiore umidità. Sappiamo che l'Egitto inviava forniture di lino a Roma: "Possiamo andare avanti senza il lino egiziano?" si chiese l'imperatore Gallieno, quando si interruppero, a causa di una rivolta, i rapporti con Alessandria. Il lino serviva tra l'altro anche per gli indumenti dell'esercito.
Per il periodo copto i materiali più largamente usati sono il lino e la lana; più rara la seta. Circa le tecniche di tessitura e i tipi di tessuti, i più frequenti sono: la tessitura unita, con inserti di decorazioni a tappezzeria eseguiti in corso d'opera; la tappezzeria, cioè un tessuto in cui i fili di trama per centimetro quadro sono in numero maggiore di quelli di ordito; la tessitura a nodi, con alcuni fili di trama lasciati a file regolari di occhielli liberi sul dritto del tessuto; tessuti con trama supplementare e gruppi di fili lasciati liberi sul rovescio. Altre tecniche di uso più limitato sono lo sciamito e il taqueté, più pregiati, in cui i motivi sono leggibili in negativo sul rovescio e che comportano l'introduzione di una trama di legatura, all'interno del tessuto, e di due trame, una per il diritto, l'altra per il rovescio. Queste due ultime tecniche si trovano applicate nei tessuti di lusso, anche di seta, e comportano l'uso del telaio al tiro, tra i più costosi. Esiste infine il feltro, che non è un tessuto, ma lana pressata. Sembra che fosse impiegato anche nei casi in cui ci si voleva proteggere con qualcosa di maggiore spessore. Raro è il ricamo. La cucitura si impiegava per chiudere ai lati le tuniche, che erano eseguite in un sol pezzo, o anche in tre pezzi (uno per la parte superiore, fino alla vita, gli altri due per i pezzi inferiori della gonna). Oltre le innumerevoli fonti dirette vi è un cospicuo insieme di fonti indirette costituito dai papiri, cui dobbiamo informazioni circa la tessitura di bottega, i contratti di apprendistato, la fornitura di materiali, la spedizione di indumenti, la consistenza di un corredo dotale.
I tessuti ci lasciano intravedere molti aspetti della vita pubblica e privata del Paese, dei monopoli imperiali, dell'organizzazione del lavoro nelle grandi officine nei possedimenti dei grandi proprietari terrieri o nelle piccole botteghe; ma insostituibile è il loro apporto alla conoscenza della cultura e delle convinzioni religiose: i motivi e le immagini che vi compaiono sono ispirati dalle idee degli esecutori e dei committenti, dalle loro letture, dagli spettacoli teatrali, dagli dei in cui credevano. I cambiamenti di questi temi e di questi motivi simbolici si possono seguire attraverso i tempi, come pure i mutamenti stilistici, che incisero con profondità maggiore di quella relativa alla scelta dei temi. Il mondo dei simboli e delle immagini rispecchia quello documentato con altri mezzi di espressione nell'Egitto coevo, ma il repertorio è molto più ampio. Alcuni temi sono documentati, allo stato attuale, solo nel tessuto. Si possono individuare temi diversi. Il più ampio è quello relativo alla mitologia classica e connesso con la letteratura ellenistica e latina; vi è poi quello relativo alla piena del Nilo, alle feste, alle offerte, alla buona gestione delle risorse che la piena consente; il tema del Cavaliere è fra i più illustrati in contestualizzazioni che attengono a mondi diversi (romano, bizantino, iranico); un altro insieme è quello dei simboli e dei personaggi della fede cristiana e delle storie del Vecchio e del Nuovo Testamento; un gruppo attesta elementi di ascendenza persiana; un altro, identificato solo di recente (L. Del Francia Barocas), di ascendenza nubiana. Vi sono poi esemplari in cui i personaggi della mitologia classica sono visti entro una cornice di festa nilotica.
Se l'individuazione dei temi si presenta chiara, più complesso è il discorso sugli stili, vari e molteplici, che il tessuto documenta attraverso i tempi. Questi vanno chiariti in rapporto alle varie classi di tessuti. Ci si è spesso chiesti se si possa delineare il profilo della produzione tessile di un certo centro. Le fonti indicano Alessandria come insigne centro di tessitura, patria dei celebri polymita, i tessuti a molti fili. Da Antinoe proverrebbero particolari tessuti per cuscini. Di sicura fattura antinoita sono migliaia di tessuti provenienti da scavi nelle necropoli della città e si può in questo caso tracciare il profilo della produzione. Altro centro rinomato della tessitura è Akhmim, città che ha caratteristiche peculiari e anche una storia diversa dalle altre città egiziane; cospicui rinvenimenti di tessuti provengono dalle tombe dell'area.
Quello della seta è un capitolo a parte. La sua presenza è eccezionale e qualifica prodotti di lusso. La sua più antica attestazione in Egitto è in connessione con Cleopatra, come informa Lucano (Bell. civ., X, 140-143); a parte esemplari di ignota provenienza e che per la loro squisita fattura ameremmo attribuire ad ambienti colti, come quelli di Alessandria: la seta delle Nereidi musicanti, quella della processione di festa del Nilo, oggi a Berna, le sete vaticane con i celebri tondi dell'Annunciazione e della Natività. I tessuti di seta di cui è nota la provenienza sono stati rinvenuti negli scavi di Antinoe e di Akhmim, gli uni, più antichi, ispirati a motivi iranici, gli altri, più recenti, con immagini classicheggianti e figure regali.
Gli elementi a nostra disposizione non consentono di articolare una cronologia del tessuto copto: si può tuttavia tracciare un profilo cronologico sulla base dei dati di provenienza conosciuti, degli spunti tematici e degli elementi stilistici. Al periodo più antico appartengono tessuti di lino grezzo, con medaglioni a motivi vegetali, fra cui prevale la foglia di vite. Le divinità sono raffigurate in atteggiamenti e schemi canonici. Prevalgono Dioniso e il suo thiasos, Arianna, il vecchio Sileno, Satiri e Menadi, Amazzoni; talvolta è rappresentato anche Eracle. Significativo è un pettorale di tunica del Metropolitan Museum di New York in cui Dioniso è innalzato all'Olimpo nel carro trainato da pantere, mentre, accanto a lui, Menadi e Satiri danzano nell'ebbrezza. Egli ha compiuto l'impresa richiestagli da Zeus: portare il suo culto e la coltivazione della vite fin nelle lontane plaghe dell'India, dove aveva condotto i suoi eserciti Alessandro, e ora merita di salire presso suo padre. La vendemmia e l'ebbrezza sono evocati nella decorazione del pettorale e nei clavi di una tunica del Puškin Museum. In una tabula dell'Ermitage di San Pietroburgo il tondo centrale vede Dioniso sul carro accanto ad Arianna, mentre li precede Eracle. Alcuni personaggi del thiasos trovano posto entro medaglioni a cornice vegetale in un grande tessuto del Metropolitan Museum di New York.
In un ampio tessuto della Abegg-Stiftung di Berna Dioniso, nel tipico atteggiamento con il braccio sinistro alzato, la mano portata alla sua corona di vite e il braccio destro abbassato ad abbeverare la pantera al disotto, trova posto con i suoi accoliti entro una serie di arcate magnificamente decorate da lussureggianti intrecci di vite. È un pezzo straordinario, uno dei maggiori capolavori dell'arte tessile. Di pari livello è una doppia banda del Victoria and Albert Museum di Londra in cui nelle concavità di un tralcio ondulato di vite si sistemano pappagallini. Le sfumature azzurre, gialle e verdi delle foglie, il rosso delle venature, il rosso e il porpora dei grappoli si compongono con grande armonia. Dioniso all'interno di un albero, che è ormai una vite, è l'interpretazione egiziana del Dioniso arboreo del periodo più antico ed è accompagnato da putti vendemmianti. Eracle che uccide la regina delle Amazzoni per sottrarle la cintura occupa il tondo centrale di una tabula, che lo raffigura anche con Nesso e Deianira. Afrodite è rappresentata di frequente, fra le Nereidi del suo corteo o mentre, con fare aggraziato, piega il ginocchio per fare la sua toeletta al ruscello. Una contaminazione fra il tema della nascita e quello della toeletta porta a immagini in cui la dea è riconoscibile per il tipico gesto di torcersi i capelli bagnati. Ancora più frequente è il tema delle Nereidi, che hanno ispirato celebri pezzi e una serie infinita di più modeste repliche. Un insieme di bande decorate da una tunica di notevole qualità, rinvenuta ad Antinoe, mostra una Centauromachia e la sottomissione di due Amazzoni; i motivi sono tracciati in azzurro scuro su fondo grezzo, richiamando formulazioni di III sec. d.C.
Sempre proveniente da Antinoe è un pezzo singolare che illustra la conquista del vello d'oro da parte di Teseo con l'aiuto di Medea. Il vello, che sembra piuttosto l'animale vivo, è al disopra dell'albero custodito dal serpente che Medea ammansisce spalmandogli un unguento sulla testa e facendolo accostare a una coppa da cui berrà la pozione soporifera. Da Antinoe proviene anche un altro pezzo straordinario, il cosiddetto "scialle di Sabina"; tra i vari frammenti conservati, di cui il maggiore è al Louvre di Parigi, vi sono due tabulae raffiguranti Artemide cacciatrice e Apollo e Dafne; un tondo raffigura Bellerofonte che ha atterrato la Chimera e tiene per la briglia Pegaso. I clavi caudati racchiudono temi nilotici, con putti in barca che cavalcano coccodrilli e ippopotami alzando trofei floreali, nuotano fra grandi fiori e foglie di loto azzurre e verdi, abbracciano grandi anatre di palude, mentre all'intorno nuotano pesci. Questa raffigurazione ci introduce nel grande ambito dei temi del Nilo e della piena, fra i più importanti in Egitto. Dalle iconografie di Isis e Serapis come dei tutelari della piena derivano quelle di due tondi rappresentanti la Terra-Ghe, qualificata dall'iscrizione ma la cui veste presenta il tipico nodo isiaco, e il Nilo, caratterizzato da un'espressione intensa e penetrante, da una magnifica acconciatura di fiori di loto e da una cornucopia. La forte volumetria di queste figure, racchiuse entro una cornice di fiori di loto, è resa con chiaroscuri che evidenziano le parti salienti dei corpi e degli abiti.
Il mondo del Nilo è anche alla base di un tessuto a nodi del British Museum di Londra, databile al III sec. d.C. È un rettangolo di notevoli dimensioni, entro una cornice di fiori di loto con volti entro piccoli medaglioni agli angoli: mostra due giovani alati in barca, l'uno ai remi, l'altro intento alla pesca. Indicano chiaramente la celebrazione del raggiungimento della piena ottimale del Nilo due tondi, più tardi, da Antinoe. Il Nilo, con la sua paredra, è raffigurato nella parte superiore degli orbiculi, mentre nella parte inferiore vi è un nilometro; sulla cupola, indicate da un giovinetto, sono le cifre di altezza della piena; l'abbondanza che la piena assicura deve essere messa a frutto con un'oculata gestione, nel pubblico e nel privato. Riteniamo che possa essere espressione di questi concetti uno splendido e unico tessuto in cui il microcosmo della casa prospera sotto la tutela di Hestia, la dea del focolare, raffigurata in trono affiancata da tre putti per lato, recanti in un tondo l'indicazione dei valori che rappresentano (ricchezza, gioia, lode, abbondanza, virtù, progresso).
Alla ricca collezione del Textile Museum di Washington appartiene un grande tessuto parietale in cui i temi nilotici sono rappresentati in una contestualizzazione che riflette esperienze iraniche. Il campo centrale rappresenta Nereidi su animali marini e putti in barca, mentre la cornice vede un'alternanza di alberi e cavalli alati. Il cavallo alato è rappresentato in un numero assai consistente di tessuti copti ed evoca a un tempo Pegaso e Veretraghna, l'essenza della regalità iranica. Motivi iranici si riscontrano soprattutto ad Antinoe e investono il campo della seta, come il tessuto di seta con Veretraghna e quello con leoni conservati al Louvre. Di una imitazione di motivi iranici da parte di tessitori locali parlano invece le immagini sui gambali, quello con tondi che racchiudono cavalli alati e quelli più celebri con un sovrano in trono, reso alla maniera sasanide e al centro di una scena di battaglia (Parigi, Louvre e Museo dei tessuti di Lione). I tessuti di seta o di lana con pappagallini, arieti, elementi architettonici con maschere e protomi di animali testimoniano il fiorire di elementi iranici ad Antinoe fino alla vigilia dell'occupazione islamica.
Nell'ambito dei temi del Vecchio e del Nuovo Testamento sono frequenti le storie del patriarca Giuseppe, probabilmente a evocare la previdenza nella gestione delle risorse; fra gli altri temi vi sono quelli veterotestamentari che costituiscono paradigmi di salvezza. Un grande tessuto parietale con Daniele nella fossa dei leoni rappresenta, insistendo sulla nutrizione del pane e del vino recata da Abacuc a Daniele, un antecedente dell'eucarestia; sono infatti rappresentate nello stesso tessuto, in dimensioni minori, immagini della Moltiplicazione dei pani e dei pesci e delle Nozze di Cana. Un più modesto tessuto, una banda da manica, illustra il Sacrificio di Isacco. Annunciazione, Visitazione, Natività, Adorazione dei Magi, Battesimo di Cristo sono anche usualmente rappresentati. Molto più rara è la Fuga in Egitto, di cui sono noti tre soli esemplari tutti probabilmente da Akhmim. Il tessuto di Berna a nodi con rappresentazione dell'Ascensione di Elia e della croce, affiancata in Paradiso da due unicorni, è testimonianza di una tecnica che trova le sue più antiche formulazioni almeno a partire dall'età severiana, con raffigurazione di temi classici (delfini), come anche vetero- e neotestamentari (Giona rigettato dalla balena, in un pregevole esemplare del Louvre), o più in generale cristiani (sacerdoti, oranti).
I motivi fin qui trattati, appartenenti ai primi secoli e collocabili fino alle soglie dell'epoca islamica, subiscono poi modificazioni stilistiche con tendenza alla miniaturizzazione e all'affollamento delle figure. Nell'ambito delle tematiche si assiste alla progressiva scomparsa delle divinità del Pantheon ellenico. I temi cristiani tendono ad acquistare maggiore spazio. Si mantengono i temi nilotici, privati anch'essi delle loro divinità tradizionali. L'esame della tessitura in seta ci ha consentito di mettere in luce un dato nuovo: la produzione serica attestata ad Akhmim è diversa da quella presente ad Antinoe e indica l'appartenenza a manifatture operanti dopo l'introduzione della sericoltura a Bisanzio. Akhmim presenta particolarità che la differenziano, e sempre l'hanno differenziata, dal resto dell'Egitto; profondamente legata alla tradizione religiosa classica, dopo la conversione dei suoi abitanti al cristianesimo promosse la costruzione di un numero notevolissimo di chiese e monasteri. I rinvenimenti delle tombe di Akhmim hanno rivelato tessuti di seta, tessuti con uso dell'oro, croci con l'immagine di Cristo e con la Crocifissione, in un linguaggio attribuibile ad ambienti melchiti.
Le sete di Akhmim permettono ora di formulare nuove ipotesi su possibili contatti con la Nubia: un esemplare rappresenta figure regali con corona e un altro un Cavaliere con un'aquila accanto al suo capo mentre leva in alto uno scettro, un assistente al disotto tiene a bada con l'asta un trampoliere (San Pietroburgo, Ermitage). Al disopra del personaggio, in un esemplare quasi identico del Victoria and Albert Museum di Londra, è la scritta Zachariou. Un'iscrizione su una stele nubiana dal mausoleo di Dongola riporta il testo Ioannes Eparkos ton Gadarheron Zachariou Augustou. L'Augusto Zaccaria potrebbe essere il padre del re Giorgio I, che regnò fra l'840 e il 920. Il nome di Zaccaria sulle sete di Akhmim, finora non spiegato, può essere dunque quello di un sovrano nubiano forse di qualche decennio più tardi. Sete simili portano il nome di Giuseppe, altre l'immagine di un personaggio definito "re David". Panoplis fu conquistata dai nubiani nel 951 e il monastero di S. Mercurio, nella città, divenne centro di cultura nubiana fino al 1500. L'evangelizzazione della Nubia è di matrice bizantina e tutta l'arte cristiana di Nubia rivela, anche se all'interno di una configurazione tematica e stilistica del tutto particolare, continui rimandi alla tradizione bizantina. La documentazione di Akhmim rivela per diversi aspetti contatti con la Nubia e testimonia la presenza di Melchiti. Riteniamo quindi che le immagini delle sete di Akhmim possano riferirsi a sovrani del regno cristiano nubiano di Makuria e che l'interpretazione del quadro documentario offerto da Akhmim, che sta attualmente impegnando gli studiosi, possa giovarsi anche della considerazione di questi elementi.
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di Loretta Del Francia Barocas
Uno degli aspetti più significativi del cristianesimo egiziano è il fenomeno del monachesimo, che si diffuse in Egitto a partire dal III sec. d.C. e divenne punto di riferimento per tutto il mondo cristiano. Lo studio delle fonti ne ha fatto riconoscere diversi tipi, ad esempio quello eremitico, che riguarda un singolo che prende la via del deserto o, come si suol dire, del monte, in un'area più o meno prossima alla zona abitata e che soltanto in un secondo momento accede talvolta al deserto interno. Se si tratta di un anziano egli è di norma accompagnato da un discepolo o da un ristretto numero di discepoli. Oppure il monachesimo cenobitico, che consiste in comunità organizzate che conducono una vita associata, con incombenze divise e gerarchie. Vi è poi il monachesimo itinerante, cui dobbiamo la maggior parte delle fonti. È praticato da individui che viaggiano e visitano i centri di vita monastica, fermandovisi per qualche tempo come ospiti. Se il loro soggiorno si prolunga sono coinvolti nel ritmo della vita monastica. Dalle fonti si evince che il modello eremitico fu sempre riguardato come quello dell'incontro con il divino e, nelle sue più estreme attuazioni, accessibile a pochi. I monasteri sono costruiti talvolta presso una falesia, un monte più o meno alto e inaccessibile dove grotte naturali o cave attestano la frequentazione di cristiani. L'insediamento si può configurare come laurae, piccoli monasteri per lo più rupestri che ospitavano ridotti gruppi di monaci, oppure come il luogo di meditazione per soggiorni di solitaria preghiera di breve durata. Alla base della falesia si potevano trovare postazioni fisse per monaci che non potevano accedere alle parti più scoscese del monte.
Fondatore del monachesimo eremitico in Egitto è considerato Paolo di Tebe; l'esponente più eminente e più noto, grazie alla biografia che di lui scrisse Atanasio, fu Antonio. La sua Vita, modellata sul genere biografico di derivazione ellenistica, ne inserisce i caratteri nella spiritualità cristiana lasciando in ombra gli aspetti più legati alle radici egiziane. L'organizzatore del monachesimo cenobitico fu Pacomio; esponente di alta statura morale Shenute, il quale fu a capo di una comunità di modello pacomiano. Di molti altri personaggi è popolato il mondo dei testi e delle immagini copte: Onofrio, prototipo dell'eremita; Macario il Grande; Apollo. Non mancano figure femminili: sono talvolta donne appartenenti a classi sociali agiate, figlie di governanti e sovrani, che hanno fatto la scelta di rinuncia al mondo donando i loro beni alle chiese. Si ha notizia di monasteri femminili, molto rispettati. Della vita dei monaci sappiamo da diverse fonti: la Historia monachorum, gli Apophtegmata Patrum, la Historia Lausiaca, le opere di Giovanni Cassiano, la Storia dei monaci presso Siene. Vi sono poi le vite dei maggiori esponenti, scritte sul modello di quella di Antonio: quella di Paolo di Tebe, opera di Girolamo; di Pacomio; di Shenute, per mano del suo discepolo Besa; di Apollo di Bawit, opera di Stefano di Hnes; di Samuele di Kalamon, scritta da Isaac. Si tratta però di una letteratura risalente in linea generale al V sec. d.C., distante di almeno un secolo dalle esperienze di cui riferiva. Più viva testimonianza è data dalle lettere: di Pacomio e dei suoi successori, di Antonio, di Shenute e di Besa. La vita quotidiana dei monaci si ispirava a determinati principi. Per gli eremiti fu Antonio a formularne le indicazioni basilari; nel caso del cenobitismo si tratta invece di una vera e propria regola. Fu questa a ispirare il monachesimo occidentale.
Se guardiamo alle attestazioni che il monachesimo ha lasciato in Egitto un dato risulta evidente: le distinzioni note dai testi non sono così nettamente riscontrabili nelle fondazioni. Il denominatore comune è quasi ovunque quello delle trasformazioni, ingrandimenti, riduzioni, ricostruzioni con materiali e planimetrie diversi, e questo può alterare il quadro originario. Si può affermare tuttavia che quasi ogni località nel Paese porti la traccia della presenza di cristiani e di esperienze di vita monastica. Le fondazioni più sontuose furono sostenute da largizioni imperiali, ma anche da evergetismo privato e in più dalle tassazioni e dalle offerte dei fedeli e dei pellegrini. Fra i monumenti che le pubblicazioni recenti hanno fatto conoscere o meglio illustrato sono: Deir Abi Hennis, con un notevole ciclo pittorico relativo a s. Giovanni Battista; il forte di Abu Shaar, divenuto luogo di pellegrinaggio; Deir Naqlun, nel Fayyum.
Kellia (Celle) - La fondazione dell'insediamento è narrata negli Apophtegmata Patrum: Antonio si era recato a visitare Amun, nella montagna (deserto) di Nitria, questi gli aveva segnalato che la comunità di Nitria era divenuta troppo numerosa e che alcuni monaci desideravano costruire delle celle più lontano. Il sito prescelto da Antonio era raggiungibile agevolmente dagli insediamenti di Nitria, ora scomparsi ma che è possibile localizzare presso il villaggio di al-Barnugi. L'insediamento si sviluppò enormemente, ma dopo quattro secoli (nell'VIII, al più tardi all'inizio del IX sec. d.C.) fu abbandonato e dimenticato. Fu possibile individuarlo solo nel 1964 e l'anno seguente si dette inizio agli scavi. L'estensione dell'area e il pericolo di coltivazioni estensive consigliarono di ripartire il sito in due zone, una sarebbe stata indagata dagli archeologi francesi, l'altra da quelli svizzeri. Il sito presenta, su un'ampia area pianeggiante, nuclei abitativi a uso di un ristretto numero di monaci. Gli agglomerati dell'estremo Sud-Est, Qusur Hegeila e Qusur Ereima, non devono essere più considerati appartenenti alle Celle, ma sono da identificarsi con il sito di Phermes, citato nelle fonti come situato nel deserto "esterno".
Delle primitive installazioni della fine del IV sec. d.C., che prevedevano caverne oscure scavate sotto terra senza alcuna apertura salvo un foro per introdurvisi, restano apparentemente scarse tracce. L'eremitaggio tipico delle aree indagate è un insieme di ambienti gravitanti su una corte a cielo aperto e racchiuso da una recinzione rettangolare di muri piuttosto alti. Un locale di ingresso immetteva nella corte con il pozzo ‒ coperto da recipienti per la raccolta differenziata delle acque piovane ‒, in parte coltivata. La porta d'ingresso delle celle introduceva in un vestibolo, che un arco divideva in due parti; era l'ambiente di accoglienza dei visitatori che dal V sec. d.C. fu riccamente decorato con pitture. Un corridoio, adorno sovente di pitture, dava accesso all'oratorio, l'ambiente più importante, dove il monaco anziano si ritirava in preghiera. Vi si trovava una nicchia con cornici e pitture all'interno e fiancheggiata spesso da colonne. Sulle pareti ai lati si trovavano piccole nicchie per lampade. A sud dell'oratorio, in comunicazione con esso, era una stanza, un recesso per il riposo. In una stanza attigua l'eremita lavorava o si ritirava in solitudine e lunghi digiuni. A sud del vestibolo era un disimpegno che conduceva alla cucina ‒ dotata di un focolare, un forno per il pane e un condotto per la fuoriuscita del fumo ‒ e al quartiere dei discepoli. La latrina, con seggio a due posti e sedili senza separazione, era in comunicazione con una cisterna a volta collocata al di fuori dell'eremitaggio. L'alloggiamento dei discepoli non comunicava con quello dell'anziano e non era provvisto di un oratorio autonomo; era previsto però un vano ripostiglio. L'illuminazione era per lo più zenitale e si effettuava da chiusure di vetro sulle sommità delle cupolette, sporgenti appena dalle terrazze. Sistemi semplici per la circolazione dell'aria, forse appartenenti alla tradizione e certamente trasmessi alle costruzioni islamiche, come pure lo studio della direzione dei venti per la collocazione degli ambienti sono qui applicati, come anche in altre fondazioni monastiche.
I monaci vivevano in solitudine oppure con uno o pochi discepoli. Il giorno era scandito da ritmi regolari di attività lavorative, di preghiera e di meditazione. Il solo momento comunitario era quello della celebrazione, il sabato e la domenica, della preghiera comune, dei vespri e del sacrificio eucaristico, seguito poi dall'agape fraterna, che si teneva nel refettorio (agapeion). Convenuti alla chiesa del complesso, i monaci vi portavano il prodotto delle loro attività settimanali, per lo più cesti intrecciati che si eseguivano meditando. Ricevevano in cambio un pane per giorno, che serviva anche come indicatore del tempo, specie nel periodo più antico.
Vi erano grandi chiese a uso della collettività. Una di queste venne costruita per i monaci di scelta calcedonese. I più semplici nuclei abitativi del periodo antico tendono a divenire più articolati, riflettendo un allargarsi del piccolo gruppo di conviventi e la ricerca di un'autonomia (vere e proprie laurae, così definite dalle fonti), come mostra la presenza di chiese, di ambienti comunitari e di una cucina con forno, elementi costitutivi essenziali dei monasteri tipici dei periodi successivi. La pianta della chiesa è quella basilicale; le modifiche che si determinano in prosieguo prevedono l'introduzione della navatella occidentale di raccordo fra le due laterali. I materiali da costruzione comprendono l'impiego della pietra per le colonne e le lastre pavimentali e parietali. La presenza di torri è riscontrata nel sito di Phermes. Nei monasteri più tardi, di altre zone, la loro funzione difensiva è segnalata dalla presenza, al piano superiore, di una cappella dedicata all'arcangelo Michele, l'arcistratego della milizia celeste, protettore dei monaci; la funzione di rifugio in caso di assedio è mostrata dalla presenza di una cisterna raggiungibile con un percorso sotterraneo e da magazzini. Una scala di legno, che dava accesso al secondo piano, poteva essere ritirata in caso di attacco. Questi casi si verificavano regolarmente, perché i deserti divennero teatro di scorrerie di predoni, libici e nubiani. Fu questa una causa che determinò l'abbandono di alcuni monasteri. Altre distruzioni furono commissionate dai governanti musulmani.
L'analisi della struttura delle Celle dà un'idea viva dell'esperienza di vita di modello eremitico e della sua evoluzione attraverso i tempi. Il luogo di abitazione e di sepoltura di personaggi reputati viene talvolta a configurarsi come luogo della memoria e diviene meta di pellegrinaggio. Le strutture sono realizzate con mattoni crudi, ricoperte d'intonaco e dipinte di bianco. Alcune soluzioni architettoniche sono tipiche, come quella del raccordo di ambienti a pianta quadrata con coperture a volta e delle doppie alzate di muri; si è riscontrata la pratica di includere nella muratura una o più monete, che può forse avere un valore rituale. Alcuni ambienti sono decorati con pitture: il vestibolo, il corridoio di accesso al quartiere dell'anziano, l'oratorio dell'anziano; i graffiti indicano la frequentazione da parte di visitatori e ripetono alcune formule, come quella del Christus vincit, in greco (XP NIKA), o anche quella dell'invocazione alla pietà divina. Molte hanno carattere funerario. Il simbolismo delle immagini è concentrato nelle nicchie. La presenza della croce, in diverse formulazioni e contestualizzazioni, costituisce la caratteristica preminente. È significativa la pittura nel Kom 219, che raffigura Cristo entro un medaglione dinanzi alla croce, in un'iconografia i cui rari paralleli si ritrovano in Nubia.
All'esterno le nicchie sono incorniciate da motivi decorativi a carattere simbolico, con tralci di vite e intrecci di acanto, mentre la presenza di figure umane è meno attestata. Va menzionata un'interessante pittura, che non rappresenta, come si credeva, tre santi ma tre arcangeli, Michele, Gabriele e Raffaele (il terzo potrebbe anche essere Suriele). Ricco è il bestiario, una delle più antiche traduzioni in immagini del bestiario di Cristo sulla base dei testi dei padri alessandrini. Una pittura mostra due leoni alla catena. Simbolo della vigilanza, il leone incarna per contro la sfrenatezza e l'impeto delle passioni. È conservata anche un'immagine di unicorno, probabilmente fra le più antiche. Non tutte le raffigurazioni sono da collegarsi al periodo di attività degli eremitaggi. L'area fu poi occupata occasionalmente da genti nomadi. Per ciò che concerne la cronologia i testi menzionano la località fra il 335 e il 900 d.C. Le date che si possono trarre dalle iscrizioni parietali vanno fra il 670 e il 738; quelle che si deducono dai rinvenimenti di monete sono concentrate fra il IV e l'VIII secolo; la ceramica (anche in sigillata) è databile del pari fra il IV e l'VIII secolo. Le datazioni con il metodo del radiocarbonio vanno dal 390 al 750. Il periodo di massima fioritura dell'insediamento si colloca fra il VI e il VII sec. d.C.
L'area di Esna - Un altro complesso di eremitaggi di grande interesse è quello di Adaima, in Alto Egitto, nel deserto a ovest di Esna. Nel sito sono stati identificati eremitaggi diversi, parzialmente ipogei, scavati nel conglomerato ghiaioso della pianura o delle deboli alture della zona. Il gruppo principale consiste in quindici agglomerati di nuclei abitativi cui si accede attraverso una scala che scende in una corte a cielo aperto. Le celle di abitazione e gli oratori si distribuiscono a partire dalla corte. In alcuni casi le scale sono due, così pure gli oratori; il tipo più semplice prevede un oratorio che si affaccia sulla corte e vi prende luce, una stanza per il riposo, una cucina, magazzini; un ambiente sembra sia stato adibito a riserva d'acqua. La sāqiya (ruota per attingere l'acqua) più vicina era quella annessa alla chiesa del Kom 11 e distava fino a quasi due ore di cammino dal più lontano degli eremitaggi. Gli ambienti erano scavati nella roccia; completamenti, restauri, rifacimenti erano effettuati con mattoni crudi o cotti e con l'impiego di vasellame. Le pitture rinvenute sono poco rilevanti, sia dal punto di vista iconografico che della qualità; compare spesso il segno della Croce e lunghe iscrizioni riportano preghiere ed elenchi di santi.
Il rinvenimento, in un sito vicino, di eremitaggi a un solo ambiente sotterraneo e a due ambienti posti a livelli diversi, collegati da una scala interna, suggerisce l'esistenza di tipologie diverse e indica che parte delle funzioni essenziali poteva svolgersi in una soprastruttura. Non sono stati rilevati negli eremitaggi segni di frequentazione da parte degli Arabi. Erano invece i Blemmi a imperversare in quei luoghi. L'utilizzazione degli eremitaggi può essere situata fra il 550 e il 630, un periodo in cui nella stessa area era in piena fioritura l'esperienza cenobitica. A nord degli eremitaggi di Adaima è situato il Deir el-Fakhuri, il monastero del Vasaio o di Matteo. Forse degli inizi dell'VIII sec. d.C., è dotato di mura, torre, celle per i monaci, refettorio; la chiesa presenta resti di interessanti affreschi. A sud, presso la città di Esna, è il monastero dei Martiri, Deir el-Shuhada, che commemora il martirio subito da Ammonio, vescovo della città, e dai suoi fedeli all'epoca dell'imperatore Diocleziano. Le pitture conservate nelle due chiese, gravemente danneggiate, presentano uno stile simile a quello del monastero settentrionale e singolari particolarità iconografiche. Un dipinto raffigurante s. Teodoro a cavallo porta la data del 1123/4.
Pbow - L'organizzatore del monachesimo cenobitico fu Pacomio. Nato da famiglia benestante a Esna, arruolato nell'esercito romano verso il 312, si convertì al cristianesimo. Divenuto monaco e discepolo dell'eremita Palamone organizzò a Tabennesi la sua comunità come fosse un villaggio. Quando i seguaci si fecero troppo numerosi li raggruppò in case, sotto la guida di un capo. Nel 328 si unì alla comunità Teodoro, che sarebbe divenuto vicario. Fra il 329 e il 340 Pacomio fondò monasteri a Pbow e in altre località, mentre altri monasteri preesistenti si univano alla congregazione. Nel 336 lasciò Tabennesi alla guida di Teodoro e si stabilì nel nuovo monastero di Pbow; morì nel 346. Fra i suoi successori, oltre a Teodoro, sono Horsiese, cui successero Bessarione e Victor; quest'ultimo si presume sia stato il costruttore della più grande basilica di Pbow. La congregazione dei monasteri pacomiani costituiva la koinonia, che indica associazione, corporazione. Due volte l'anno tutta la comunità si riuniva in assemblea generale alla sede di Pbow: una per celebrare insieme la Pasqua e l'altra, nel mese di mesore, per la presentazione dei conti e per il rinnovo delle cariche. A Pbow nel 352 d.C. erano riuniti 2000 confratelli e all'inizio del V sec. d.C. 5000. Circa la consistenza complessiva della koinonia, così attesta Palladio: "Dunque, i monasteri che hanno adottato questa regola sono molti e si estendono fino a 7000 uomini. Il primo grande monastero è quello in cui abitava lo stesso Pacomio, e che diede appunto origine agli altri: ospita 1300 uomini... Vi sono altri monasteri che ospitano ciascuno 200 e 300 monaci. In esso ho visto 15 sarti, 7 fabbri, 4 carpentieri, 12 cammellieri e 15 gualchierai. Esercitano ogni arte e con quello che loro resta mantengono i monasteri femminili e le prigioni. Allevano anche dei porci... I porci devono poi venire macellati, la carne venduta e le estremità vengono consumate dai malati e dai vecchi, perché il paese è di modesta estensione ed è ricco di abitanti. Infatti il popolo dei Blemmi risiede lì vicino" (Historia Lausiaca, 32, 8-10).
Si motivano così le vicende edilizie della basilica di Pbow, le cui dimensioni si accrescono nelle tre diverse fasi costruttive individuate, pur mantenendo sempre l'impianto a cinque navate. Non esiste nartece, perché non è prevista la presenza di catecumeni o di persone non autorizzate ad assistere all'intero svolgimento della messa; non esiste un fonte battesimale. È presente tuttavia una rete di canalizzazioni d'acqua, come spesso si verifica quando il luogo è usato da molte persone. Tra i pochi resti della basilica si segnalano fusti di grandi colonne di granito, ora a terra e, come reimpiego, un blocco di un tempio faraonico di epoca romana. La basilica di Pbow è il solo edificio pacomiano di cui resti traccia di una certa rilevanza monumentale, nonostante l'atteggiamento di Pacomio, avverso alla realizzazione di edifici lussuosi.
Deir Abu Fano - Il monastero è ubicato nella provincia di Minya, nella diocesi di el-Ashmunein, sulla riva sinistra del Nilo e oltre il Bahr Yusuf. È il monastero dell'apa Bane, vissuto tra il 355 e il 395 d.C. Il monastero si estende ai piedi di una collinetta sulla quale è conservata una chiesa del VI sec. d.C. ancora in funzione. La zona era ai margini del Deserto Libico: i muri edificati attorno a questa chiesa sono per la protezione dalla sabbia. La pianta della chiesa era a triconco, con abside percorsa da una fila di colonne incluse e nicchie, ambienti laterali sviluppati, successivamente modificati, tre navate con navata di collegamento. La chiesa conserva resti di pitture più tarde, del XII-XIII sec. d.C., in cui più volte figura la croce, cosa che le è valso il nome di Deir es-Salib. Nella conca principale dell'abside è raffigurata una grande croce su piedistallo a gradini e un grande drappo color porpora pendente dai bracci. Sulle pareti sono altre forme di croci, fra cui una con drappo di porpora più sottile che passa al disopra dei bracci.
Le scoperte più interessanti riguardano la parte del monastero situata ai piedi della collina, verso nord. L'insediamento è molto ampio, con un fitto addensamento di ambienti accentrati attorno alle costruzioni più importanti. Si compone di una chiesa, sempre del VI sec. d.C., alla quale è annessa una grande sala rettangolare in cui è conservato un fonte. Questa sala è in comunicazione con un'altra, lunga e stretta, destinata a refettorio; a ovest, dall'altro lato della sala del fonte, sono state rinvenute installazioni di cucina. La chiesa fu realizzata in due fasi di costruzione, originariamente a navata unica divenne poi a pianta basilicale a tre navate, con navata occidentale di collegamento, nartece tripartito e tracce di scale nell'ambiente centrale. L'abside è semicircolare, con nicchie fiancheggiate da pilastri e pavimento rialzato di un gradino rispetto alle navate. Gli ambienti di servizio la circondano sui tre lati. Al disotto del pavimento della chiesa, che fu spostato in due fasi, la prima del IV, la seconda del V-VI secolo, furono effettuati rinvenimenti eccezionali: si tratta di un complesso di sepolture cristiane con altre pagane al disotto, che presenta le lapidi votive di alcuni padri del monastero, come apa Kafka e apa Herakleides. Nel 1992 è stata rinvenuta anche quella dell'abate titolare del monastero, apa Bane, situata esattamente al centro della chiesa più antica e ancora contenente il suo corpo. Era dotata di una copertura di mattoni con intonaco e le monete ivi rinvenute si collocano fra il IV e il V sec. d.C. Il corpo era composto in un bendaggio; l'analisi delle parti scheletriche rivela che il santo era affetto da spondilosi iperostitica, con spondilite anchilosante (morbo di Bechterew). La deformazione della colonna vertebrale richiama l'aspetto di un tronco nodoso, di qui probabilmente la denominazione di apa Bane (palma). È significativo che l'iconografia del santo lo mostri curvo e sofferente, appoggiato al bastone pastorale, in un'ambientazione di palme. Per la prima volta possiamo essere certi di trovarci di fronte alle spoglie di un santo del monachesimo.
Di notevole qualità e importanza sono le pitture rinvenute nella chiesa. Sul quinto pilastro della parete nord della navata mediana è raffigurata una grande croce latina con gemme incastonate, sottolineata da un armonioso viluppo vegetale e con ai lati due arieti gradienti. Al disotto è un motivo vegetale continuo e una banda a cassettoni geometrici. Un'altra pittura ancor più interessante è sul secondo pilastro della parete sud: mostra una grande ankh gemmata circondata da fronde, davanti alla quale sono due unicorni addorsati e retrospicienti. La rara iconografia indica che il legno della croce per il sacrificio di Cristo è di nuovo verdeggiante e si tramuta in simbolo di vita eterna. Al disopra del segno di vita vi è traccia di un'iscrizione, kosmou, che va posta in relazione con una pittura di Faras (Nubia, XI sec. d.C.), oggi al Museo di Khartum, in cui, al disopra di una croce cristofanica è un'iscrizione con il monogramma di Cristo seguito dall'epiteto di Salvatore del Mondo. La grande sala contenente il fonte è fra gli ambienti più singolari fra quelli recentemente posti in luce. Nell'ambiente avevano luogo cerimonie connesse con l'acqua. In corrispondenza del fonte, una vasca quadrata, si trovava sul lato est una nicchia absidata. Le pitture che rivestono le pareti presentano una decorazione geometrica imitante tarsie marmoree.
I conventi di Sohag, Deir Apa Shenute e Deir Anba Bishoi - I conventi di Sohag sono noti per la loro eccezionale qualità artistica, per il loro stato di conservazione e per essere connessi alla figura di Shenute di Atripe, attivo anche sullo scenario delle controversie dottrinarie del tempo. Nato ad Atripe (Adriba), nella zona di Akhmim, fu avviato alla vita monastica da suo zio Pgol, anch'egli monaco in quella stessa zona. Al principio visse la vita eremitica; nel 371 entrò nel monastero fondato da Pgol e alla sua morte, nel 385, ne prese la guida. Partecipò con il patriarca Cirillo al concilio di Efeso nel 431; morì nel 466. Per le epoche successive, oltre ad alcune fonti manoscritte, sono le pitture e le iscrizioni relative a fornire dei termini cronologici. La grande pittura absidale con la raffigurazione di Cristo in trono è accompagnata dall'iscrizione bilingue che la dice eseguita al tempo dell'archimandrita Paolo, nel 1124; un altro testo ricorda il rifacimento della cupola, nel 1259; un'altra iscrizione cita il pittore Mercurio, lo stesso che lasciò un graffito datato nel vicino convento di Anba Bishoi, con la data del 1301 e iscrizioni a Esna e ad Assuan (quest'ultima del 1317/8). Altre fonti sono la Storia dei Patriarchi, Abu al-Makarim e al-Maqrizi (morto nel 1441), che riferisce che la denominazione corrente del monastero era Monastero Bianco e che, salvo la grande chiesa, era ai suoi tempi già in rovina.
Shenute promosse l'uso letterario della lingua copta e la traduzione in copto di un gran numero di testi patristici greci. La vastità della sua produzione (sermoni, lettere, opere teologiche) lo rende il padre della letteratura copta e la sua opera contribuì a definire una comunità cristiana autenticamente egiziana. Il convento di Shenute si estendeva su di un'area definita geograficamente dallo stesso fondatore: "Il nostro dominio è fra la valle che è a nord del villaggio di Triphois verso il Nord, fino alla valle che è a sud della dimora del nostro padre, l'anziano apa Pshoi, il luogo dove egli visse per la prima volta nel deserto". Rimangono tracce degli edifici che lo attorniavano, unità abitative a più piani e una parte della recinzione perimetrale. La chiesa, con gli ambienti annessi, costituisce per la sua importanza il parametro di riferimento dell'architettura della regione. Alcuni dati sembrerebbero attestare un atto di munificenza privata, che conosciamo per altre località. La struttura della chiesa e la decorazione architettonica sono del resto frutto di un programma di vasto respiro. La struttura (75 × 37 m) è realizzata con arenaria bianca; la pianta è basilicale: tre navate divise da colonne di granito rosa, navata occidentale, gallerie superiori, nartece. Il santuario è triconco, leggermente rilevato rispetto al resto della basilica. Due colonne, su cui si impostava un secondo arco trionfale, fiancheggiavano il lato di accesso alle navate, come nel convento di Anba Bishoi.
Alcuni ambienti comunicanti con le conche laterali svolgevano altre funzioni: un vano scala si trova sul lato nord; sul lato opposto un ambiente ottagono conserva traccia di un fonte battesimale. Una stanza quadrata coperta a cupola e con le pareti provviste di numerose nicchie poteva essere adibita a biblioteca; sulle pareti sono iscrizioni indicanti i titoli dei volumi e il numero delle copie, con una ripartizione secondo il contenuto: Antico Testamento, Nuovo Testamento, letteratura omiletica, storica, biografica. L'ambiente rettangolare che fiancheggia la chiesa sul lato meridionale, provvisto di un'abside verso sud-ovest, resta ancora di incerta identificazione. Aggiunte e rifacimenti successivi hanno portato alla costruzione di un muro trasversale alle navate della chiesa, per isolare il khūrus, di una cupola sopra il centro del santuario e di una cupola sul khūrus. La decorazione architettonica è composita ed è prevalentemente costituita da rilievi di pietra, di reimpiego o appositamente eseguiti, con l'inclusione di blocchi di riporto da templi faraonici. Si rileva l'uso del granito, del marmo, dell'arenaria, del calcare. Di calcare era la decorazione del triconco, particolarmente monumentale, omogenea e originale. Distribuita in due registri sovrapposti divisi da un fregio con cornice aggettante e una minuta lavorazione a girali, comporta serie di colonne alternate a nicchie: rettangolari con volta a botte e fiancheggiate da pilastri, oppure semicircolari con volta emisferica, frontone interrotto e fiancheggiate da colonnine. I due piani di profondità, le grandi colonne in primo piano e le nicchie con le loro incorniciature in secondo piano, conferiscono all'insieme un aspetto articolato.
Alcune parti della decorazione architettonica sono meglio conservate, come l'abside e la parete settentrionale del nartece, la sala del fonte battesimale e quella dell'ambiente meridionale. Sono pure conservati capitelli corinzieggianti di colonna e di pilastro. Verso la metà della navata centrale, addossato al lato nord, un blocco monolitico di granito con gradini è quanto rimane della cattedra. La decorazione delle nicchie, largamente presenti ovunque, è ricca e adombra significati simbolici espressi attraverso animali, motivi vegetali, vasi da cui fuoriescono piante. La più tarda decorazione pittorica annovera un unicum in Egitto: nella grande pittura della conca centrale dell'abside è raffigurato Cristo in trono, entro un alone a disco dietro il quale emergono le protomi dei Quattro Viventi. In corrispondenza, ai lati, è un medaglione che racchiude la figura di un evangelista. L'accostamento non ha trovato in Egitto che esempi più tardi, su manoscritti figurati dei Vangeli.
Il Deir Anba Bishoi presenta un migliore stato di conservazione. È situato 3 km a nord del Deir Apa Shenute e per il prestigio del maggiore monastero restò sempre in second'ordine. Al-Maqrizi riporta anche la denominazione popolare di Monastero Rosso, dovuta al fatto che la costruzione era di mattoni cotti. L'aspetto è massiccio, come quello dell'altro monastero, ma con dimensioni leggermente inferiori (44 × 23 m), mancando il nartece. È attribuibile all'ultimo quarto del V sec. d.C. La planimetria è simile a quella dell'altro monastero: una basilica a tre navate e navata di raccordo occidentale, gallerie superiori, abside a triconco con due colonne di fronte al varco per ridurre il divario con l'ampiezza della navata, lunga sala rettangolare sul lato sud, in comunicazione con un ambiente a pianta quadrata che si colloca in corrispondenza di quelli che fiancheggiano l'abside. Questi sono simmetrici, hanno pianta a L e sono in comunicazione con le conche laterali. Di fronte all'ingresso meridionale sono i resti di una torre, ritenuta una aggiunta successiva. Notevole è la decorazione dell'abside, ispirata alle stesse partizioni del monastero di Shenute, ma con maggior ricorso alla decorazione pittorica, che sostituisce parti delle membrature architettoniche usualmente a rilievo o che le ricopre minutamente. Compaiono elementi architettonici, rivestimenti a riquadri imitanti marmi, rappresentazioni di tendaggi e anche figure di santi personaggi, capitelli corinzi e corinzieggianti. Rimangono scarse tracce di costruzioni adiacenti e di mura perimetrali.
Bawit - Non minori sono la fama e il prestigio dei monasteri di Bawit e Saqqara, che per la loro decorazione architettonica a rilievo e per le loro pitture sono considerati la più alta espressione artistica del mondo copto. Il monastero di Bawit si trova fra Deirut e Assiut, nel Deserto Occidentale, ai margini delle terre coltivate. È connesso con il nome di apa Apollo, nominato in associazione con Phib, suo seguace e Papohe, l'economo che scrisse la sua biografia. Molteplici accenni nelle fonti configurano un quadro secondo il quale Apollo, già monaco a Titkois, fondò un centro monastico a Bawit. Paolo di Tammah riporta che egli istruiva i monaci con sermoni, seduto su di un trono, e in una pittura del monastero egli è infatti raffigurato seduto su una cattedra fra i suoi discepoli Phib e Anup. Il monastero fu fondato verso la fine del IV secolo, conobbe un grande sviluppo nel VI e fino al IX secolo, per essere poi distrutto nella seconda metà del XIII. I resti delle sue fondazioni si collocano su una vasta area di cui è stata individuata parte della recinzione perimetrale. Sono state scavate due chiese e, collocati a una certa distanza l'uno dall'altro, complessi di "cappelle" con planimetria più o meno articolata. Sono queste strutture a conservare le pitture, mentre la decorazione delle chiese era prevalentemente di pietra.
Sul tipo di esperienza monastica del centro di Bawit e sulla natura delle cappelle dipinte vi sono interpretazioni diverse e contraddittorie. La Historia monachorum e la Vita di Paolo di Tammah, indicative almeno per il periodo più antico, forniscono elementi atti a documentare che nel centro di Bawit i monaci si radunavano una volta al giorno in strutture comunitarie per la celebrazione dell'eucarestia e l'agape fraterna, e che vi ricevevano un sermone di ammaestramento, dopo il quale facevano ritorno alle loro dimore. La differenza rispetto al tipo di eremitismo altrove attestato sta dunque nel fatto che l'incontro dei monaci avveniva quotidianamente. Non si tratta, dunque, di una forma di vita cenobitica, sia pure modificata, come alcuni hanno pensato, ma di una formula più vicina a quella eremitica. Il portato delle fonti sembra trovare riscontro nei dati archeologici, che per quanto non indicativi dell'intero complesso, scavato solo in minima parte, sono tuttavia significativi. Le chiese, individuate in due aree diverse, sarebbero i punti di riferimento di gruppi di monaci nel loro convegno quotidiano, che difficilmente può intendersi di tutta la collettività, vista la notevole estensione del territorio. Fra l'altro le fonti attestano la presenza di una postazione per donne. Le cappelle dipinte sono dunque, con ogni probabilità, i quartieri di piccoli gruppi di monaci, con un ambiente devozionale maggiore e un oratorio a uso del piccolo nucleo. Alcuni di questi oratori sembrano dedicati a santi, talvolta a santi e sante dello stesso nome, come quello di Ascla, e come tali erano oggetto di pellegrinaggio da parte di tutta la comunità e di altri visitatori, in particolare nel giorno della festa del santo, durante il quale l'oratorio a lui dedicato sarebbe stato colmo di grazie. Ciò è indicato dal numero dei graffiti e ciò spiega la rilevante quantità di santi rappresentati nelle pitture: sono le personalità alle quali i monaci prestavano venerazione.
Alcune celle monastiche sono state poste in luce al di fuori dell'area del monastero, un insediamento costituito dunque da un'aggregazione di postazioni monastiche più vicina alla tipologia, ad esempio, delle Celle. Negli studi più recenti sugli elementi architettonici di pietra delle chiese si esprime la convinzione che le costruzioni abbiano attinto alle strutture di fondazioni precedenti, non necessariamente cristiane, forse di carattere funerario. Le chiese erano collocate l'una accanto all'altra, divise da una corte con al centro una fontana, entro un complesso più ampio in cui si riscontrano due fasi costruttive. La prima con muratura di pietra da taglio e profusione di rilievi, la seconda con l'uso del mattone e l'inserzione di pezzi più antichi di pietra. Probabilmente la prima fase si colloca nel V sec. d.C., la seconda, cui appartiene la trasformazione degli edifici preesistenti, si colloca per la chiesa sud nel VI sec. d.C., per la chiesa nord, che comporta la presenza del khūrus, che è modulo più tardo, nell'VIII sec. d.C. La chiesa sud nella seconda fase utilizza materiali della precedente costruzione, ugualmente antichi ma di provenienza ignota, e materiali appositamente lavorati per il nuovo edificio. Si compone di tre ambienti, gli elementi architettonici rimandano a tipi attestati fra il IV e il VII sec. d.C. e sono costituiti da capitelli di tipo corinzio di colonne e di pilastri, capitelli bizonali, a canestro nella parte inferiore e con arieti e croce entro una corona di lauro nella parte superiore (come nell'atrio sud-ovest di S. Sofia a Costantinopoli), capitelli polilobati a traforo, porte inquadrate da pilastri, nicchie fiancheggiate da pilastri con capitelli a foglie di palma, fregi che correvano lungo le pareti.
La chiesa nord presenta apparentemente un maggior ricorso alla decorazione pittorica e a elementi di legno, fra cui una porta e forse una cattedra. Sono le colonne dipinte a costituire l'elemento di maggior interesse; nella parte inferiore erano dipinte a scanalature, nella parte superiore portavano ciascuna un personaggio: Cristo, la Vergine con il Bambino, un santo cavaliere che uccide un serpente, s. Giorgio, un arcangelo, re David. Gli oratori e le celle si distribuiscono a una certa distanza gli uni dagli altri, sono di dimensioni e articolazione molto diversa, da ambienti isolati a complessi a più piani con un'ampia sala rettangolare. In questa, al centro della parete est, era una nicchia absidata in cui trovava posto lo schema iconografico più tipico delle pitture di Bawit: la Teofania nella parte superiore, con Cristo in trono, i Quattro Viventi e i medaglioni del Sole e della Luna e, nella parte inferiore, la Vergine in trono con il Bambino fra gli apostoli, cui si aggiungono, agli estremi, i padri del monastero. Uno degli esempi più completi è quello della nicchia della sala 6, grande ambiente rettangolare, situato in un complesso nella zona nord. La sala presenta anche un ricco e variato repertorio di decorazioni imitanti incrostazioni marmoree.
Le immagini teofaniche utilizzano, come fonte scritturistica principale, il Libro di Ezechiele. Il profeta stesso è rappresentato al disotto del carro di Cristo nell'abside della cappella XLV. A sud-ovest delle chiese un insieme particolarmente ampio di ambienti, numerato I-XV, conserva pitture fra le più tarde del monastero e con soggetti non comuni: nella cappella III appaiono storie della vita di David; nella cappella XII è raffigurato Cristo affiancato da angeli e profeti e al disotto, entro un intreccio vegetale, le immagini a mezzo busto delle Virtù teologali. Poco distante la cappella XVII, a pianta quadrata voltata a cupola, preserva pitture originali con immagini di santi cavalieri, fra cui un'interessantissima e rara figura di s. Sisinnio che uccide la demone Alabasdria. È presente in questo ambiente anche una delle rare figure di Abbaton: unica è la sua rappresentazione accanto alla bocca dell'inferno. Più a ovest la sala XVIII conserva, soltanto in parte, pitture di grande raffinatezza. Rilevanti sono le scene relative alla vita di Maria nella cappella LI e quelle nella cappella XLVI, in cui è raffigurata l'Ascensione. Le pitture di Bawit sono una delle attestazioni più alte e complete della pittura copta e rappresentano un patrimonio di raffigurazioni dal quale trarranno ispirazione le realizzazioni dei secoli seguenti.
Saqqara - L'area della necropoli faraonica, tolemaica e romana, ospita, ai margini del pianoro che affaccia sulla valle del Nilo, un convento copto intitolato ad apa Geremia. Il suo nome compare nell'epigrafia del monastero associato a quello di apa Enoch e talvolta con quello di ama Sibilla, ad attestare che una parte del monastero era dedicata alle donne. Il monastero è citato nella cronaca di Giovanni di Nikiu, il quale afferma che lo visitò il futuro imperatore di Bisanzio, Anastasio, mandato in esilio dall'imperatore Zenone (474-491). Lo citano anche il monaco Teodosio nel suo Itinerario, insieme con il monastero di Apollo, segnalando che erano di diversa appartenenza; inoltre è citato da Abu al-Makarim e da al-Maqrizi. È sempre Giovanni di Nikiu ad attestare la fondazione di una grande chiesa da parte di Anastasio, il quale, alla morte di Zenone, ne sposò la vedova Ariadne e divenne imperatore (491-518). Si ricorderà che Zenone era stato prodigo di donativi alle fondazioni cristiane d'Egitto; è lecito attendersi che anche Anastasio seguisse questa prassi, tanto più che le sue simpatie verso i monofisiti sono note e che la sua politica fiscale aveva arricchito le casse del tesoro. La costruzione di una chiesa per il convento di Apa Geremia rientra dunque in un quadro coerente. La munificenza imperiale può spiegare la straordinaria ricchezza della decorazione architettonica e può collocare a questo periodo la ricostruzione della chiesa principale e l'arricchimento decorativo degli edifici, come, ad esempio, la decorazione con lastre parietali nella cosiddetta "chiesa tombale". A ulteriore conferma di ciò sono i rinvenimenti di monete, che cominciano con Anastasio e finiscono con il primo sovrano abbaside.
Gli scavi recenti hanno chiarito che sul luogo della basilica principale esisteva una più piccola e modesta basilica, forse quella in uso nel convento al tempo della visita del futuro imperatore. La ricostruzione di Anastasio inaugura la fase di maggior splendore del monastero, che presenta segni di declino già nell'VIII sec. d.C. Tuttavia la decorazione architettonica e pittorica, ispirata a uno stile coerente e alla scelta di un numero consistente, ma non elevato, di temi, indica che la fase creativa delle realizzazioni di Saqqara si colloca in un periodo preciso e in un arco limitato di tempo. Saqqara rientra inoltre nella tipologia del cenobio e documenta archeologicamente dell'organizzazione e delle attività dei cenobi contemporanei, noti altrove solo dalle fonti in quanto di essi è conservata quasi esclusivamente la chiesa principale. Si può trovare un corrispettivo nel convento di Deir Anba Hadra ad Assuan, posteriore probabilmente di qualche decennio. Ma l'aspetto del convento di Saqqara è diverso, per la sua magnificenza e per la sua collocazione in un'area intensamente abitata e frequentata, che porta all'addensarsi e all'affastellarsi delle costruzioni in edifici comuni. Ciascun monaco poteva in ogni caso disporre di una cella individuale alla quale accedeva da un'anticamera comune. La planimetria generale del monastero rivela che esso gravitava attorno alla grande chiesa che ne costituisce il centro; vi era inoltre la cosiddetta "chiesa tombale", forse un antico mausoleo edificato fra il IV e il V sec. d.C. da famiglie abbienti romane, fra quelle che lasciarono il Paese all'ingresso degli Arabi. La struttura è collocata a un livello inferiore, quindi parzialmente ipogea, ed è stata impiegata anche nel monastero come edificio sepolcrale per personalità eminenti.
È stato, inoltre, individuato un refettorio, diviso da due serie di colonne in tre navate, che appartiene alla fase di ampliamento del convento. Gli scavi recenti ne hanno infatti posto in luce uno più antico a nord della chiesa, costruito con mattoni crudi e presumibilmente a due navate. Adiacente al nuovo refettorio è una grande corte a cielo aperto in cui è stato rinvenuto il pulpito a gradini, affiancato da due colonne, oggi al Museo Copto del Cairo, da cui presumibilmente l'abate del monastero teneva i sermoni. Altri ambienti rivelano diverse attività: di falegnameria, di tintoria, di preparazione di alimenti, un frantoio. Le epigrafi funerarie indicano le attività di giardiniere, di addetto al refettorio, di economo, di insegnante, di pittore e di scavatore di tombe. Un secondo refettorio potrebbe essere quello interpretato da J.E. Quibell come un ospedale. Il monastero era chiuso da una cinta muraria della quale è stato individuato il portale principale sul lato sud, come indicano gli ambienti di accoglienza e un porticato, tipico per il riparo dei visitatori e dei pellegrini. La decorazione architettonica mostra un reimpiego oculato e il riadattamento di materiali preesistenti. Nella chiesa principale, ancora in situ, si trovano colonne di granito e colonne e piedistalli di marmo. La chiesa misura 39 × 20 m, è a pianta basilicale a tre navate e navata occidentale di collegamento, nartece, abside inclusa con stanze laterali collocate a un livello inferiore. Era costruita a blocchi di calcare; le colonne delle navate sono dipinte, come quelle di Bawit. La varietà dei capitelli riporta a tipi in uso contemporaneamente a Bisanzio; un unico capitello mostra l'acanto mosso dal vento, come quelli del monastero di S. Caterina sul Monte Sinai, ma vi sono anche capitelli a imposta, bizonali con parte inferiore a cesto e animali nella parte superiore, a foglie di vite e grappoli, polilobati, a traforo di calcare con foglie di acanto dipinte. Il solo ambiente che presenta una decorazione architettonica omogenea è la cappella sepolcrale, i cui elementi si riportano, come l'edificio stesso, al V sec. d.C.
La decorazione pittorica del monastero rivela in molti aspetti un linguaggio aulico. Le pitture sono dislocate nella chiesa, negli ambienti comuni, come il refettorio, nelle celle monastiche. Nella camera 709 sono conservate pitture rilevanti: rappresentano le Virtù, intese come ordine angelico, in figure femminili riccamente acconciate e ingioiellate. Raffronti iconografici sono nel monastero di Bawit, dove le Virtù accompagnano ama Sibilla, la badessa più volte nominata a Saqqara. Accanto alle Virtù teologali e cardinali compaiono anche quelle tipiche della vita monastica, soprattutto di quella cenobitica: la Saggezza, la Pazienza, la Longanimità, l'Obbedienza, la Mansuetudine, la Misericordia (e la Clemenza), la Prudenza, la Verginità (e la Castità). Le Virtù di Saqqara di cui è conservata l'indicazione scritta sono: Fede, Speranza, Carità, Pazienza, Saggezza e Lungimiranza. In questo stesso ambiente, sul muro est, la nicchia conteneva un'immagine di Cristo in trono con il libro. Nel registro superiore alla sua sinistra vi erano tre croci latine su piedistallo, gemmate, forse allusive alla Trinità, come lascerebbe supporre l'analogia con una pittura di Faras; nel registro inferiore compaiono due pavoni. A destra iniziava il fregio con le Virtù e, al disotto, era raffigurata una palma con frutti, un riferimento alla vita eremitica. Una pittura significativa si conserva, rovinata, nell'ambiente originariamente identificato come un ospedale, successivamente come refettorio. Qui su un alto e lungo seggio sono seduti l'uno accanto all'altro cinque personaggi, solennemente vestiti, che tengono in mano un libro, identificabili con i fondatori del monastero. All'estremità destra è raffigurata ama Sibilla, in dimensioni maggiori, forse a indicare una destinazione femminile dell'ambiente. Ricorre talvolta nelle nicchie la raffigurazione della Vergine Maria in trono con il Bambino che allatta o tiene in grembo. È una delle più antiche attestazioni del tema in ambito monastico. Nella cella A l'assenza di cuffia e maphorion e i capelli leggiadramente acconciati e con piccoli fiori sparsi denotano l'assimilazione dell'iconografia della Vergine non tanto al tipo della severa matrona, quanto a quello di una gentildonna bizantina. In aggiunta alle figurazioni, in specie nella parte inferiore delle pareti, sono riquadri riproducenti incrostazioni marmoree e tendaggi, che contribuiscono a conferire sontuosità all'insieme.
Deir Anba Hadra - Correntemente noto con il nome di S. Simeone, è un convento fortezza situato sulla riva occidentale del Nilo in corrispondenza delle isole della I Cateratta, le cui imponenti strutture sono ancora ben conservate. Il monastero fu costruito probabilmente nel VII sec. d.C., distrutto e ricostruito nel X secolo, nuovamente distrutto nel XII. Era originariamente dedicato a un santo eremita del luogo, divenuto vescovo di Assuan sotto il patriarca Teofilo (385-412). Fu poi intitolato a un santo locale, s. Simeone. Abu al-Makarim ne parla come monastero di Anba Hadra. Numerose stele funerarie, databili fra il VI e il IX sec. d.C., sono state rinvenute nella necropoli e negli ambienti del monastero. Il luogo in cui si trova è una zona particolarmente esposta agli assalti delle popolazioni nubiane e alle repressioni degli eserciti romano, bizantino, poi musulmano, il che giustifica il suo aspetto di fortezza. Il monastero dovette sorgere attorno alla cella eremitica del primitivo titolare, corrispondente forse all'attuale cella XIII nella numerazione di U. Monneret de Villard. All'intorno sono state rilevate abitazioni e oratori di monaci, con pitture del VI-VII sec. d.C., sul genere di quelle delle nicchie di Bawit. Sono state abitate anche le tombe rupestri della necropoli faraonica di Qubbet el-Hawa.
Il monastero si colloca su due livelli utilizzando una conformazione della roccia ed è racchiuso da alte mura con camminamento e torri di guardia. Le mura disegnano una pianta trapezoidale con i due lati paralleli rispecchianti la direzione del Nilo. Ogni livello ha il suo ingresso in una struttura a torre con entrata a gomito. Gli accessi sono quindi due e le torri sono collocate l'una di fronte all'altra, una a est verso il Nilo, l'altra a ovest verso la montagna. È stato osservato che queste tre caratteristiche (la cinta muraria trapezoidale, due accessi, l'uno di fronte all'altro, e la forma a gomito del passaggio di ingresso) sono peculiari delle fortificazioni nubiane "di Alto Medioevo" e si ritrovano anche in fortificazioni bizantine dell'Africa del Nord. Accedendo dall'ingresso principale si incontrano gli edifici della terrazza inferiore: la chiesa con il battistero, le celle eremitiche, le foresterie. La chiesa è una costruzione del X sec. d.C. a pianta rettangolare, tre navate, abside tripartita a impianto cruciforme. I tre ambienti del santuario erano coperti a conca a quarti di sfera su trombe d'angolo, quello centrale da una cupola; le navate laterali, voltate a botte, terminavano oltre il santuario in due stanze, di cui quella meridionale ospitava il battistero. La navata centrale era divisa in due ambienti coperti a cupola su trombe d'angolo e poggianti su pilastri a L. La pavimentazione, ben conservata, è a lastre di pietra regolari. Il piano è posto a un livello leggermente inferiore rispetto a quello d'ingresso.
La chiesa conserva degli affreschi, sia pure frammentari. Rispetto alle riproduzioni effettuate dai primi visitatori lo stato di conservazione è ulteriormente peggiorato, ma si distinguono al centro dell'abside Cristo in trono affiancato dagli arcangeli Michele e Gabriele, vestiti con tuniche adorne di clavi e di orbiculi; uno di loro porta il globo. Nella parte superiore della parete sono rappresentati sei personaggi seduti, alcuni dei Ventiquattro Vegliardi dell'Apocalisse, che godono in Egitto di una riverenza particolare, con i loro nomi indicati in alto. Sopra alcune vesti sono incisi graffiti in arabo e un cedimento dell'intonaco lascia allo scoperto uno strato inferiore di pittura, apparentemente di buona qualità. Della pittura dell'abside occidentale non si distingue molto: sembra essere raffigurato un personaggio centrale verso il quale convergono due angeli prostrati in venerazione ed è confrontabile con una pittura del Deir Anba Bishoi (stanza a nord dell'abside) in cui è raffigurato Cristo con il libro nella sinistra e con la destra benedicente. La parete occidentale della chiesa appoggia alla falesia su cui si trova la terrazza superiore. In questo punto erano scavate le grotte, che probabilmente offrirono riparo agli eremiti del periodo più antico. Dall'estremità occidentale della navata nord si accedeva alla grotta XIII, che conserva, sul soffitto e sulle pareti, pitture in parte ricoperte dai muri della chiesa. Era, nell'ipotesi di Monneret de Villard, un'abitazione di un eremita, probabilmente di particolare importanza, vista l'insolita presenza di pitture e la collocazione in comunicazione con la chiesa, ed è databile al VII sec. d.C.
Dal cortile a nord della chiesa si sale con una scala alla terrazza superiore, che presenta ambienti di tutt'altra natura. Vi si trova un camminamento sul quale un ambiente quadrato coperto a cupola sottolinea l'ingresso al qaṣr, un enorme torrione su tre piani che occupa gran parte della terrazza superiore e che doveva costituire l'estremo baluardo. Il piano terra era il luogo di abitazione dei monaci e le stanze, contenenti più giacigli, si aprivano ai lati di un grande corridoio centrale voltato a botte. Sul lato nord-occidentale erano una sala rettangolare a due navate, probabilmente un refettorio, e diversi ambienti come cucine e magazzini, mentre al di fuori erano altri ambienti di servizio. Al piano superiore del qaṣr alloggi più ampi potevano essere a uso dei notabili del monastero. La porta ovest costituiva l'accesso secondario al monastero. Alla sua destra si trovano ambienti che sono stati identificati come scuderie e un lungo bacino continuo. Vi è poi una grande corte attraversata da una canalizzazione che partiva da un bacino; il canale (prof. 12 cm, largh. 18 cm) era ricoperto da lastre di pietra. Una torre d'angolo racchiude un torchio per il vino; vi erano poi delle mole, un torchio per l'olio, forni per ceramica, vasche per la tintura. Un insieme di canalizzazioni proveniente da vasche di raccolta portava acqua a tutti gli ambienti per le varie esigenze della comunità: ai diversi bacini, alle latrine, agli abbeveratoi per gli animali.
I monasteri del Deserto Orientale: S. Antonio, S. Paolo - Gli unici conventi che siano stati edificati nel Deserto Orientale sono quelli dei due più alti esponenti del monachesimo eremitico, i quali abitarono a lungo nella zona e si incontrarono soltanto negli anni della loro più avanzata vecchiaia, secondo quanto narra la biografia di Paolo. Il monastero di S. Antonio si trova a 45 km dal Mar Rosso, nella catena dei monti Gialala, nel deserto arabico. Fu costruito ai piedi della falesia dove è la grotta in cui il santo abitò per circa cinquant'anni fino alla morte (356 d.C.). Le più antiche costruzioni lì attorno risalgono al tempo di Giuliano l'Apostata (361-363). Dovettero essere quelle frequentate dagli eremiti: una chiesa, un refettorio, ambienti di servizio. Più tardi, nel V sec. d.C., abbiamo notizia dell'esistenza di un monastero. Vi si rifugiarono monaci in fuga da Scete dopo le devastazioni inflitte dai nomadi. Le numerose fonti rendono note le tappe fondamentali della vita del monastero: nel VII-VIII secolo fu occupato da monaci melchiti; nell'XI secolo fu saccheggiato e molti monaci furono uccisi; nel XII secolo i monaci copti di S. Antonio fornirono candidati per l'ufficio di Abuna, il patriarca etiopico, sottolineando un rapporto privilegiato con l'Etiopia. Nel XIII secolo il monastero venne circondato da un muro fortificato. Intorno al 1484 fu distrutto, ma il patriarca Gabriele VII inviò venti monaci dal monastero dei Siriani, nel Wadi Natrun, perché cooperassero alla sua ricostruzione (1540).
Il ruolo del monastero fu di primo piano nella storia del patriarcato copto: molti patriarchi furono scelti fra i suoi monaci, specialmente fra il XVII e il XIX sec. d.C. Parte dei manoscritti conservati un tempo nella sua celebre biblioteca ora sono nella Biblioteca Apostolica Vaticana. Il monastero è racchiuso entro una cinta muraria di notevole altezza, in parte provvista di un camminamento, che include anche un orto, un palmeto e una fonte. L'accesso avveniva un tempo mediante una carrucola: i visitatori venivano issati con una cesta. Vi si trovano una foresteria, la torre, la chiesa di S. Antonio e altre chiese, le celle per i monaci, la biblioteca, una collezione di oggetti sacri, fra cui icone, l'antico refettorio, cucine, mulino, forno, frantoio. La sorgente si trova nella parte posteriore del convento, sotto la falesia nella quale era la grotta del santo. La chiesa ha due campate con il khūrus e un santuario tripartito con ambiente centrale absidato e copertura a cupola. Un passaggio collocato di fronte all'ingresso conduce in un ambiente laterale angusto: la cappella cosiddetta "dei Quattro Viventi". Il restauro completo delle pitture, nonché quello del soffitto del khūrus, illuminato da due serie parallele di esagoni chiusi da vetri colorati, è stato terminato nel 2000 e a seguito di questa importante impresa bisogna probabilmente riscrivere la storia del monumento e quella dell'arte copta del XIII sec. d.C.
La chiesa ospita affreschi che compongono un ciclo principale, a opera del pittore Teodoro e dei suoi aiuti, e alcuni affreschi di epoca successiva. Vi sono stati rinvenuti anche affreschi precedenti, probabilmente appartenenti a due momenti diversi, che però non è facile collocare. Le pitture occupano la parte mediosuperiore delle pareti, le absidi, le cupole, gli archi. Nella campata occidentale, la parte riservata ai laici, sono immagini di santi cavalieri, abbinati due a due o singoli, identificabili da un'iscrizione e da una contestualizzazione di elementi episodici dei loro miracoli: si distinguono fra gli altri Teodoro l'Orientale, Claudio, Victor, Mena, Teodoro Stratelate, Sisinnio, Giorgio, Phebamon. Un passaggio verso la campata successiva presenta le figure del monachesimo cenobitico: Pacomio e Shenute. Nella campata sono rappresentati i padri del monachesimo, a cominciare da Antonio, seguito da Paolo, in una serie conclusa dalla Vergine Maria in trono con il Bambino. Si accede poi al khūrus, sulle cui pareti laterali sono Giorgio e Mercurio, i Tre Ebrei nella fornace e le anime dei giusti accolte in cielo nel seno di Abramo, Isacco e Giacobbe.
Nel santuario sono figure di patriarchi, s. Marco, Cristo Pantokrator, cherubini, i Ventiquattro Vegliardi dell'Apocalisse, paradigmi di salvezza, profeti; nell'abside sono raffigurati Cristo in trono e, al disotto, la Vergine in trono con il Bambino. Alla cappella laterale introducono, nell'intradosso dell'arco, Michele e Gabriele. La cappella stessa porta una figurazione di Cristo Signore del Mondo, l'Adorazione della Croce, i Quattro Viventi e la Vergine Maria. I Quattro Viventi sono rappresentati con i volti che sono loro propri e i corpi a figura intera, stanti e con piedi umani e con le mani in gesto di supplica. Si descrive un percorso che indica dei modelli di santità, da quelli più legati all'azione e alla vita terrena, più adatti ai laici, a quelli che attraverso la scelta della vita monastica portano a più alti livelli di spiritualità, proposti a modello dei monaci. Il ciclo di Teodoro è datato da un'iscrizione al 1232/3. Più di 33 nomi, alcuni di monaci del monastero, ne attestano la committenza. Talvolta si indica che il finanziamento è destinato all'esecuzione di una particolare immagine, come accade per quella di Mercurio dipinta nel khūrus. Le pitture della parete orientale del khūrus furono eseguite da un pittore diverso, in uno stile che si ricollega ad ambienti ciprioti e vicini al monastero di S. Caterina sul Monte Sinai, nel tardo XII - inizi XIII secolo.
Il monastero di S. Paolo è situato a 39 km di distanza dal Mar Rosso e fu edificato nell'area in cui, al tempo della persecuzione di Decio e all'età di 16 anni, il santo si rifugiò e vi rimase tutta la vita. La sua ascesi era severa, il suo rifugio una spelonca, un recesso a cielo aperto con una fonte e una palma che gli assicuravano l'essenziale in cibo e in vesti; in più un corvo gli portava ogni giorno mezza pagnotta. Quando Paolo morì e toccò ad Antonio seppellirlo, due leoni sbucarono dal deserto e scavarono una fossa in cui egli poté agevolmente deporlo. È il tema di innumerevoli icone che illustrano l'incontro dei due santi. Il monastero fu costruito presumibilmente non molto dopo la sua morte, avvenuta nel 343. La sua attestazione certa è però del 560-570. Abu al-Makarim afferma che esso era dipendente da quello di S. Antonio e fu così anche dal punto di vista amministrativo fino al XIX secolo. Il monastero si presenta racchiuso da alte mura; è ancora visibile l'accesso con la stanza della carrucola. All'interno ha l'aspetto di un villaggio; vi sono quattro chiese, di cui quella di S. Paolo, angusta e posta al disotto del piano stradale, è la più antica e custodisce le reliquie del santo. Reca pitture eseguite nel XVIII secolo che per l'iconografia e per lo stile sono diverse da quelle delle altre fondazioni monastiche. Maria con il Bambino è fra due cherubini; gli arcangeli annunciano il Giudizio Finale al suono delle trombe; i Ventiquattro Vegliardi si dispongono intorno a Cristo in una cupola. Fra i santi cavalieri è anche il piccolo Ciriaco, figlio di Julitta. Vi sono però tracce di pitture precedenti, del XIII e XIV sec. d.C.
Le altre strutture del monastero sono il qaṣr con scala amovibile, il refettorio antico, con al centro il lungo bancone in muratura che termina con un leggio; la cucina, il mulino, la stalla, un torchio per l'olio, le celle, la fonte del santo con la riserva d'acqua. Accanto a questa è un piccolo palmeto. La chiesa posta oggi al centro del convento è dedicata all'arcangelo Michele; non è dunque a lui dedicata la cappella all'ultimo piano del qaṣr, diversamente dagli altri monasteri egiziani. Esistono una collezione di manoscritti e una di icone, con esemplari di un certo pregio.
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di Mario Cappozzo
La zona denominata anticamente Scete è situata sul lato occidentale del Delta del Nilo, circa a metà strada fra Alessandria e Il Cairo, poco all'interno del Deserto Libico. Il nome greco e latino Scete deriva dal copto Shiet, mentre la denominazione attuale è Wadi Natrun ("valle del natron"). Durante il Medioevo la località era nota come Wadi Habib, dal nome del condottiero arabo che vi si fermò nella seconda metà del VII secolo. In epoca moderna la località è stata confusa con quella di Nitria, posta invece più a nord. La regione, frequentata già in epoca faraonica, è caratterizzata da un avvallamento lungo circa 30 km e largo 8 ed è ricca di sale naturale (carbonato di sodio idrato) che si viene a formare in seguito al prosciugamento stagionale dell'acqua delle numerose pozze lacustri presenti nella depressione. Il natron veniva utilizzato in epoca faraonica per l'imbalsamazione e per lo sbiancamento del lino e in età romana soprattutto per la manifattura del vetro.
Secondo la tradizione copta, il deserto di Scete fu scenario della visita della Sacra Famiglia in Egitto. Nel Sinassario, infatti, si afferma che la Sacra Famiglia, dopo aver visitato Basatah e Muyat Samanud, attraversò il fiume e vide da lontano il deserto di Scete. La Vergine Maria lo benedì, profetizzando la futura santità di quel luogo. L'origine dell'anacoretismo a Scete è legata alla figura di Macario l'Egiziano, detto anche il Grande, che verso il 330 vi si ritirò in solitudine ascetica. L'esempio di Macario fu presto imitato e la regione cominciò a essere abitata e a divenire un modello di perfezione spirituale per tutto il mondo cristiano. Celebri monaci si recarono a Nitria e a Scete: Basilio, che prima di iniziare la vita ascetica si recò nei luoghi monastici di Siria ed Egitto; Cassiano, che si recò a Scete dalla Palestina; Evagrio Pontico, che giunse a Nitria nel 383 e due anni dopo alle Celle, dove conobbe lo stesso Macario. In questo stesso periodo Macario si incontrò anche con Antonio, uno dei più illustri padri del monachesimo egiziano, e strinse numerosi contatti con gli eremiti di Nitria. Infatti lo stile di vita dei primi insediamenti a Scete ricalca quello semianacoretico caratteristico di Nitria nel suo primo periodo, con i monaci che vivevano come solitari sotto la guida di un padre anziano.
Macario morì nel 390, dopo essere ritornato a Scete in seguito al lungo esilio che gli era stato imposto dall'imperatore Valente che, fedele alla dottrina ariana, nel 374 costrinse molti ortodossi di Scete all'esilio. Gli succedette il suo discepolo Pafnuzio che, come erede legittimo del santo fondatore, rivestì la carica di "padre di Scete", la più importante autorità non solo del monastero di Abu Makar ma di tutto il complesso monastico del Wadi Natrun. Alla morte di Macario c'erano a Scete quattro insediamenti principali, ciascuno definito da un nucleo con una chiesa centrale alla quale era legato l'insieme di celle. Questi quattro insediamenti divennero in seguito i monasteri di al-Baramus, di S. Macario, di Anba Bishoi e di S. Giovanni Colobos (il Piccolo). Numerose notizie circa il modo di vita dei monaci di Scete nel IV e V secolo ci sono riferite dalle opere di Palladio, di Cassiano e dalle numerose storie raccolte negli Apophtegmata Patrum. Al contrario dello stile monastico di Celle a Scete le forme di vita semicenobitica e anacoretica erano meno distinte. I monaci vivevano in celle distanti l'una dall'altra e i gruppi più numerosi di celle, a loro volta incentrati intorno a una chiesa, formavano una vera e propria laura. Il sabato i monaci si recavano nel centro della propria laura per essere presenti ai Vespri, all'Officio notturno e all'offerta eucaristica, mentre la domenica attendevano all'agape comunitaria. Non esisteva una vera e propria regola scritta, si seguivano i precetti dei Vangeli e i dettami dei monaci anziani. Nel IV secolo il deserto di Scete fu stravolto dalla controversia origenista. Origene trovò un cospicuo numero di seguaci soprattutto all'interno degli ambienti colti, ma ebbe numerosi oppositori tra la maggioranza dei monaci che, accusati di antropomorfismo, erano più legati al concetto di Dio con forma, aspetto ed emozioni umane. In seguito alla crisi successiva al concilio di Calcedonia (451) i monaci di Scete si schierarono con la linea di Dioscoro, anche se successivamente cercarono un compromesso appoggiando l'imperatore Zenone, che li ricambiò con generose donazioni.
Tra il 518 e il 528 divampò in Egitto lo scontro tra Giuliano di Alicarnasso, che predicava l'incorruttibilità del corpo di Cristo, e Severo di Antiochia, che vi si opponeva: si tratta della cosiddetta "controversia aftartodoceta". La dottrina di Giuliano di Alicarnasso venne alla fine sconfitta dall'ortodossia, che affermò che il Logos assunse volontariamente un'umanità decaduta in seguito al peccato e quindi corruttibile, sottolineando così la natura umana di Cristo. Ma i sostenitori di Giuliano furono molto forti nei primi anni della controversia, soprattutto durante il patriarcato di Timoteo IV (517-535). Nel 535, infatti, venne posto sul trono patriarcale Teodosio, di fede severiana, il quale tenne la carica di patriarca per 103 giorni finché, in seguito a violenti scontri popolari, fu deposto e sostituito alla guida della chiesa alessandrina da Gaiano, seguace di Giuliano. Anche i monaci seguirono il giulianismo e a loro si unirono la popolazione rurale e i ceti più bassi di Alessandria. Ma come l'alto clero alessandrino fu costretto a lasciare Alessandria e a rifugiarsi nelle campagne, così anche alcuni gruppi di monaci di Scete, fedeli a Severo, furono costretti ad abbandonare il loro monastero e a fondare nuovi insediamenti monastici, che si configurarono come controparti dei monasteri di origine. Tre di questi sono noti per essere stati dedicati alla Vergine Madre di Dio, la Theotokos.
Poco si sa della controparte del monastero di Abu Makar, noto come la Cella dei 49 Martiri, in riferimento ai monaci del monastero di S. Macario trucidati nel 444 durante la terza sanguinosa incursione dei Berberi, e della controparte del monastero di Giovanni Colobos, il monastero della Vergine di Giovanni Colobos. La controparte del monastero di Anba Bishoi, originariamente chiamato "della Vergine di Anba Bishoi", fu ceduta all'inizio dell'VIII secolo, al cessare della controversia tra ortodossi e gaianiti, a un gruppo di mercanti siriani originari di Takrit in Mesopotamia, assumendo la denominazione di "monastero della Vergine dei Siriani" o Deir as-Surian, ancora oggi in funzione. Scavi condotti dal 1996 hanno permesso di identificare anche la controparte del monastero di al-Baramus, o meglio di chiarire che la fondazione attuale sarebbe la controparte severiana, mentre il vecchio Baramus dovrebbe essere ricercato tra i resti dell'odierno monastero di Anba Musa al-Aswad o monastero di Mosè il Nero. Questo sarebbe quindi il più antico insediamento monastico presente nell'area del Wadi Natrun, il primo fondato da Macario.
Con la conquista araba dell'Egitto il Wadi Natrun divenne la residenza ufficiale del patriarcato copto e il numero dei monasteri crebbe notevolmente. Ma i centri monastici furono in seguito sottoposti ad alte tassazioni e i monaci entrarono ben presto in conflitto con le autorità islamiche. Tra il 705 e il 717 i monaci subirono delle vere e proprie persecuzioni e il loro numero fu violentemente ridotto. Solo nei decenni del secolo successivo si assisterà a un generale rinnovamento con l'organizzazione di un nuovo monastero, dedicato a Giovanni Khame, e con il passaggio del monastero della Vergine di Anba Bishoi a una comunità di Siriani. Altre dure persecuzioni si ebbero durante il patriarcato di Zaccaria (1004-1032) e il regno del califfo fatimide al-Hakim (996-1021). Nei secoli che seguirono i monaci abbandonarono progressivamente le celle intorno al monastero e cominciarono a vivere all'interno delle sue mura, dove i grandi refettori mostrano che ormai la vita comunitaria era divenuta prevalentemente di tipo cenobitico. Questo processo terminò nel XIV secolo, quando la laura divenne il luogo in cui ritirarsi di tanto in tanto in meditazione.
Fra tutti i monasteri di Scete, solo di quello di Abu Makar abbiamo notizie più dettagliate nelle fonti. Dopo il 1346, inoltre, tutto il Wadi Habib subì una forte riduzione della popolazione monastica, causata principalmente dalle terribili carestie e pestilenze che si abbatterono su tutto l'Egitto, nonché dalla politica musulmana non favorevole in quel periodo. Il monastero della Vergine di Giovanni Colobos e tutte le comunità vicine cessarono di esistere proprio nel XIV secolo. Nei secoli successivi il numero dei monaci fu incrementato solo dall'arrivo di religiosi dal Libano e dalla Siria specialmente a favore del monastero dei Siriani, ma solo nel XVIII secolo la regione iniziò nuovamente ad accogliere un numero consistente di monaci.
I monasteri del Wadi Natrun svolsero un ruolo importante nella conservazione della cultura copta. L'influenza che ebbero sulla cultura cristiana d'Egitto ben si comprende se si pensa che il dialetto della regione, il boairico, venne adottato come lingua liturgica della chiesa alessandrina. Sebbene le fonti accennino a volumi posseduti dai monaci e da loro conservati in apposite nicchie nelle celle, non si hanno notizie, fino al V secolo, di vere e proprie biblioteche all'interno dei monasteri. Gli Apophthegmata Patrum riferiscono di molti monaci che possedevano copie dell'Antico e del Nuovo Testamento. Alla morte di un monaco i libri da lui posseduti dovevano essere messi a disposizione della comunità e conservati, in origine, proprio nella chiesa del monastero. Qui dovevano essere tenuti i libri liturgici, i lezionari, le collezioni di omelie, indispensabili per le celebrazioni liturgiche. La chiesa fu, infatti, con tutta probabilità il centro nel quale iniziò a svilupparsi la biblioteca monastica.
I libri potevano essere acquistati, ma generalmente, data la povertà dei primi monasteri, è più probabile che la maggior parte dei volumi fosse o donata o prodotta da monaci copisti che eseguivano questa incombenza per il loro proprio sostentamento. È solo a partire dal VI secolo che troviamo l'attestazione di una biblioteca permanente, come si evince chiaramente da una nota contenuta in un manoscritto vaticano in cui si dice che "questo libro è stato portato con altri, per la contemplazione, la lettura e l'avanzamento spirituale di quelli che lo apriranno". I libri esistenti nel primitivo monastero di S. Macario furono distrutti durante le scorrerie dei predoni del deserto documentate nel 408, nel 434 e nel 444. Durante il tardo V secolo, però, un rinnovamento delle collezioni fu favorito dall'imperatore Zenone, nonché dal trasferimento nel monastero della sede del trono patriarcale. Ma il Wadi Natrun rimase ancora sotto la pressione dei predoni che, nel VI secolo, attaccarono nuovamente il complesso distruggendo le raccolte librarie. Il monastero si risollevò solo dopo la conquista araba, quando il patriarca Beniamino I diede un nuovo impulso all'acquisizione di materiale scrittorio per l'uso liturgico. Durante gli anni seguenti la biblioteca era già dotata di un numero consistente di opere, perdute in seguito all'ultima grande devastazione subita dal monastero, quella dell'817.
Ma Abu Makar si risollevò ancora una volta e rimase durante il Medioevo non solo il luogo da cui vennero scelti numerosi patriarchi, ma anche il luogo dove si celebravano i più importanti riti della Chiesa copta, primo fra tutti la seconda intronizzazione del patriarca. La formazione della sua biblioteca fu particolarmente intensa durante il IX e X secolo, ma rallentò durante l'XI-XIII secolo, quando il copto, come lingua parlata, fu definitivamente soppiantato dall'arabo. La biblioteca fu utilizzata non solo per scopi liturgici ma anche come fonte per la compilazione di nuove opere: Severo di Ashmunein, ad esempio, menziona il monastero di Abu Makar come una delle principali fonti da cui trasse materiale per la sua Storia dei Patriarchi, nonché Mahub, che per continuare l'opera di Severo si servì della stessa biblioteca; anche il Libro della Passione, un lezionario in uso durante la settimana santa, fu composto ad Abu Makar. Nel XIV secolo la biblioteca seguì il generale decadimento del monastero. I volumi danneggiati non furono più restaurati e molti furono smembrati e si ridussero a fogli isolati che, di volta in volta, furono utilizzati per accendere il fuoco, rivestire altri volumi, avvolgere tappi di giare, foderare scaffali. Nel XVII secolo si cercò di porre rimedio a questa tragica situazione riordinando almeno i volumi meglio conservati.
Ma proprio nel XVII secolo iniziò a crescere l'interesse degli occidentali per i manoscritti orientali e l'Egitto, patria del monachesimo, divenne il luogo privilegiato per questo tipo di ricerca. Fu l'anno 1715 a segnare un importante evento nella storia della biblioteca del monastero di Abu Makar: Joseph Simon Assemani, che era stato inviato dal Vaticano in Oriente per procurarsi manoscritti, visitò il Wadi Natrun in compagnia del francese Claude Sicard. Dopo aver ottenuto un moderato successo nel monastero dei Siriani, Assemani si recò nel monastero di S. Macario dove acquistò una cospicua collezione di manoscritti in lingua copta. Negli anni seguenti altri collezionisti e studiosi visitarono il Wadi Natrun. Tra questi si segnalano soprattutto Charles Nicolas Sigisbert Sonnini, che si recò nel 1778 a Deir al-Baramus e nel monastero di Macario, e B. Drovetti che, nei primi decenni del XIX secolo visitò di persona i monasteri del Wadi Natrun riportando in Europa numerosi manoscritti.
Della storia delle biblioteche degli altri monasteri del Wadi Natrun siamo molto meno informati. Pochissimo sappiamo della biblioteca del monastero di Anba Bishoi, il cui manoscritto più antico sicuramente datato risale al 1357; poco o niente è noto della biblioteca di Deir al-Baramus e della biblioteca del monastero di Giovanni Colobos che, nel periodo di massimo splendore, doveva possedere una considerevole collezione. La maggior parte dei manoscritti della biblioteca del monastero dei Siriani, in gran parte testi siriaci e tra i più importanti conosciuti, è oggi divisa tra il British Museum di Londra, la Biblioteca Apostolica Vaticana e la Bibliothèque Nationale di Parigi.
Deir Anba Musa al-Aswad (monastero di Mosè il Nero) - Sin dal 1996 gli scavi archeologici hanno portato alla luce resti di un monastero conosciuto come Deir Anba Musa al-Aswad (monastero di Mosè il Nero), che tuttavia andrebbe più probabilmente identificato con il vecchio Baramus. È quest'ultimo il monastero dal quale furono cacciati, dopo il 535 d.C. in seguito all'eresia aftartodoceta, i monaci severiani che, recatisi poco distante, fondarono un nuovo monastero, l'odierno Deir al-Baramus. Il monastero rappresenta quindi il primo insediamento monastico nell'area del Wadi Natrun. Occupa, infatti, la località dove s. Macario si stabilì verso il 330 d.C. per dedicarsi alla vita ascetica. Il luogo rimane però anche legato alla figura di Mosè il Nero, famoso brigante che sarebbe divenuto, dopo la sua conversione, abate del monastero, dove sarebbe stato sepolto e avrebbe lasciato alla sua morte una fiorente comunità. Palladio riferisce che Mosè il Nero, così denominato a causa della sua origine etiope, morì a settantacinque anni a Scete, dopo essere divenuto presbitero; lasciò anche settanta discepoli. P. Grossmann ha identificato la cella di Jabal Hashm al-Quud con la laura dove forse visse Mosè il Nero. La piccola cappella situata a nord del complesso si caratterizza per la presenza di uno spazio per laici, relativamente grande e irregolare, con un pilastro al centro e con una serie di panche addossate alla parete occidentale.
Gli scavi hanno messo in luce un largo edificio a pianta quadrata di 16 m per lato nell'area sud-orientale del sito. Caratterizzato da un muro dello spessore di 2 m e dall'assenza di porte e finestre nei muri esterni, si configura come una torre di difesa che raggiungeva almeno i 15 m di altezza. Rinvenimenti ceramici nei livelli di fondazione hanno spinto gli archeologi a datarla tra il IV e il V secolo, una cronologia in realtà molto inusuale per questo tipo di edificio in ambito monastico. La torre potrebbe però essere stata una struttura difensiva militare abbandonata e originariamente posta alla salvaguardia dei traffici del commercio del sale del Wadi Natrun, quindi verso la fine del IV secolo occupata da gruppi di monaci. Immediatamente a nord della torre furono scoperti, nel 1998, resti della chiesa del monastero. I muri della navata sono caratterizzati da povertà dei materiali impiegati, suggerendo una ricostruzione eseguita in fretta. Il presbiterio o santuario (haykal), della chiesa è di miglior qualità e fu aggiunto o ricostruito più tardi, alla fine del IX o agli inizi del X secolo. Resti di una struttura più antica caratterizzata da blocchi di pietra calcarea sono stati rinvenuti nella parte occidentale della navata. Simili blocchi inoltre appaiono a tratti essere stati utilizzati come materiale da costruzione in altre parti della muratura. Un muro difensivo circonda il complesso, ma questa struttura fu probabilmente una delle ultime aggiunte e deve essere datata forse al IX o al X secolo. Prima di questa data dobbiamo immaginare il monastero come una laura, con strutture aperte.
Deir al-Baramus - Quello di Deir al-Baramus è il più settentrionale dei monasteri del deserto di Scete. La denominazione deriva dal copto pa-Romeos, che significa "quello dei Romani", ed è legata alla leggenda dei due giovani romani che, ospitati da Macario, divennero in seguito suoi discepoli. Morti prematuramente, fu a loro consacrata, per volere di Macario, una cella monastica denominata in seguito "cella dei Romani". La tradizione posteriore fece di questi due "piccoli stranieri", così chiamati negli Apophthegmata Patrum, i figli naturali dell'imperatore Valentiniano I (364-375), Massimo e Domizio, che dopo aver visitato la Terra Santa si recarono a Scete. Un'altra tradizione, invece, menziona un monaco romano, Arsenio, già tutore dei figli dell'imperatore Teodosio, Arcadio e Onorio, che giunto a Scete sarebbe divenuto abate di una comunità. L'odierno monastero reca testimonianze archeologiche non anteriori al VI secolo. La località venne, infatti, occupata dopo il 535 dai monaci teodosiani che cacciati dal vecchio Baramus, identificato oggi con il monastero di Mosè il Nero, in seguito all'eresia aftartodoceta eressero in questo luogo un monastero dedicato alla Vergine di Baramus. Il monastero è circondato da possenti mura di pietra, spesse anche 2 m, ricoperte da uno strato di intonaco. Alte fino a 15 m, erano provviste di un lungo camminamento che consentiva un migliore sistema di sorveglianza. La loro costruzione risale al IX secolo, a eccezione del lato occidentale probabilmente più tardo. Il sistema difensivo era rafforzato da una torre (qaṣr) risalente probabilmente al VII secolo e posta a ridosso dell'ingresso principale sul lato settentrionale; vi si accedeva tramite un ponticello che conduceva direttamente al primo piano. Questo era organizzato in magazzini ed era munito di un pozzo, strutture che permettevano ai monaci di resistere agli attacchi dei nemici. Al secondo piano è una cappella dedicata all'arcangelo Michele.
La chiesa principale del monastero è dedicata alla Vergine (al-Adhra) e risale, nel suo aspetto attuale, all'XI secolo, sebbene siano presenti strutture più antiche. I resti più antichi, infatti, risalenti all'ultima decade del VI secolo o all'inizio del VII secolo, al tempo del patriarca Damiano (578-607), sono rintracciabili nel muro sud, in alcune colonne lungo la navata di ritorno e sotto il pavimento dell'odierno santuario. La pianta è a tre navate. Quella principale, ricoperta da una volta a botte, è illuminata da finestre lungo i lati nord e sud. Le due navate laterali, separate dalla principale grazie a una serie di colonne, sono anch'esse coperte da una volta a botte. Le colonne lungo il lato occidentale, caratterizzate da basi stuccate e capitelli, presentano una stretta parentela con modelli classici. Classicheggiante è il grande capitello decorato con foglie di acanto della colonna sud-occidentale, databile alla seconda metà del V secolo e nota come "colonna di s. Arsenio" in quanto, secondo la tradizione, il santo era solito soffermarsi in preghiera davanti a essa.
Pregevoli affreschi, databili al XIII-XIV secolo, sono lungo la parete meridionale della navata centrale. Illustrano temi del Nuovo Testamento, come l'Annunciazione, la Visitazione, la Natività, il Battesimo di Gesù, le Nozze di Cana (?), l'Entrata di Gesù a Gerusalemme. La Pentecoste e un'immagine dell'arcangelo Michele sono rispettivamente in un intercolumnio e sulla parete settentrionale; l'arcangelo, raffigurato con il capo coronato, gli occhi leggermente a mandorla e i tratti sottolineati da una linea rossa incisa, tradisce un prototipo bizantino. La parte orientale della chiesa è stata alterata per più secoli secondo gli sviluppi liturgici. Attualmente consta di un khūrus, coperto da una volta a botte, e da tre santuari. Il santuario principale, sotto il cui altare si trovano le spoglie attribuite ai ss. Massimo e Domizio, è decorato con affreschi databili al XIII secolo raffiguranti Cristo in Maestà che, cinto da un manto rosso, troneggia al disopra della Vergine con il Bambino. Scene tratte dall'Antico Testamento completano la decorazione delle pareti del santuario principale: il Sacrificio di Isacco e l'Incontro di Melchisedek e di Abramo. La prima rappresentazione appare in gran parte lacunosa, mentre in migliore stato di conservazione è la seconda, dove il sacerdote è rappresentato mentre offre ad Abramo il pane e una coppa di vino, come in una comunione eucaristica.
I grandi asceti fondatori del monachesimo in Egitto sono presenti sulla parete orientale del più piccolo santuario meridionale. Rappresentano il modello perfetto che tutti i monaci dovevano seguire e quindi la loro presenza ben si comprende nel luogo più santo di tutto il monastero. S. Paolo di Tebe, il primo in assoluto fra i monaci che abbia iniziato ad abitare il deserto (come riferisce s. Girolamo), e s. Antonio, la cui Vita, redatta da s. Atanasio, fu sicuramente lo scritto monastico più famoso del IV secolo, precedono i padri del monachesimo di Scete: Macario il Grande, che come riferisce l'autore della sua Vita è guidato da un cherubino, il monaco Giovanni, i ss. Massimo e Domizio. Nella parete meridionale dello stesso santuario sono rappresentati altri santi monaci: Pacomio, fondatore del monachesimo di tipo cenobitico, Mosè il Nero, altro grande eremita di Scete, s. Barsum il Siriano, monaco stilita sostenitore dei canoni del concilio di Efeso e fermo oppositore di quelli di Calcedonia, s. Onofrio, rappresentato, come di consueto, nudo con la barba lunga fino alle ginocchia, e Pafnuzio.
Monastero di Abu Makar - La fondazione del monastero di Abu Makar è legata alla figura di s. Macario, l'iniziatore del monachesimo di Scete che verso il 360 si stabilì in solitudine ascetica in una grotta nei pressi dell'attuale monastero, originariamente il più remoto e il meno accessibile di tutto il Wadi Natrun. Macario fu seguito dai suoi discepoli che, volendo costantemente avere il conforto spirituale del santo, si costruirono delle celle intorno al suo eremo. Alla morte di Macario, intorno al 390, vi erano circa 2400 monaci in tutta l'area. La cella contenente i resti mortali del santo divenne un santuario, il cuore di tutta la comunità. A partire dal V secolo il monastero, così come tutta la regione di Scete, subì numerosi attacchi da parte di bande di predoni del deserto; la prima devastazione avvenne nel 407 e la rovina che ne seguì sembrò totale, alcuni monaci andarono a cercare altrove un'abitazione e tra questi figurano i più eminenti fondatori di altri conventi del Wadi Natrun, Giovanni Colobos e Bishoi; altri giunsero addirittura in Palestina. La comunità comunque rinacque, ma fu di nuovo stravolta nel 434 e poi nel 444, anno in cui avvenne la più terribile devastazione. In seguito, il concilio di Calcedonia non sembra aver favorito discussioni e rotture interne al monastero, sebbene sia documentata la presenza di partigiani dell'ortodossia bizantina.
Per affinità di ordine politico e religioso nel 482 l'imperatore Zenone, appoggiato nella sua politica dai monaci del deserto che sostennero l'Henotikon, elargì alla comunità monastica ingenti somme di denaro, che contribuirono anche alla sua rinascita culturale, ma soprattutto dotò il monastero di nuovi edifici, arricchendoli anche con colonne di marmo. Secondo il Sinassario i favori elargiti da Zenone erano dettati dal fatto che sua figlia Ilaria si era ritirata in ascesi nel monastero, celando la sua vera identità e adottando un travestimento e un nome maschile, Ilario. L'apporto maggiore alla crescita del monastero fu soprattutto il trasferimento del trono patriarcale intorno alla metà del VI secolo. Il patriarca Teodosio I, infatti, fu costretto a lasciare Alessandria e a rifugiarsi nel monastero di Abu Makar in seguito alle persecuzioni ordinate dall'imperatore Giustiniano. Da questo momento Abu Makar acquista, nella storia copta, un posto di straordinaria importanza che terrà anche quando, dopo la conquista araba (641), i patriarchi occuperanno di nuovo la loro sede ad Alessandria. Abu Makar manterrà infatti alcuni privilegi ottenuti in questo periodo. Un patriarca, ad esempio, una volta eletto e consacrato, dovrà rinnovare la sua consacrazione fra le mura del monastero, vi passerà la quaresima e vi consacrerà il myron, il giovedì santo.
Nel 644 il patriarca Beniamino I operò delle ristrutturazioni negli ambienti devastati nelle scorrerie del 570 e soprattutto fece mettere le ossa dei 49 martiri della repressione del 444 in un apposito martyrion. Inoltre consacrò lui stesso una chiesa, descritta dal suo successore, Agatone. Le pitture che la decoravano rappresentavano i Padri della Chiesa copta, Antonio e Paolo, Pacomio e Macario, Marco e Pietro d'Alessandria, Atanasio e Liberio, Cirillo e Dioscoro. Di questa chiesa oggi rimane visibile solo il suo splendido haykal, inglobato nell'attuale chiesa di S. Macario. Alterazioni più profonde contribuirono poi al decadimento della vita ascetica di Scete, soprattutto quando si impose la consuetudine di scegliere vescovi e patriarchi tra le mura dei monasteri. Il monastero ostentò ricchi arredi e mostrò una visibile tendenza al grandioso. In questo periodo tre monaci divennero patriarchi: Michele I (743-762), Mena I (767-774), Giovanni IV (776-795). E fu proprio sotto Giovanni IV, nel 784, che Abu Makar recuperò le reliquie del suo fondatore, traslate prima del 480 e portate a Jiber, luogo di nascita di Macario.
Sempre nell'VIII secolo Giovanni, egumeno del monastero, diede impulso alla costruzione delle cosiddette manšubiyya, abitazioni di gruppi di monaci sotto la guida di un padre spirituale, che favorivano una vita ascetica più autonoma, pur continuando a dipendere dal monastero principale. Epifanio di Gerusalemme, che visitò il monastero nell'Ottocento, affermò che erano in attività circa cento manšubiyya. Ma la politica dei califfi arabi cambiò verso la fine dell'VIII secolo, quando Marwan II emise provvedimenti restrittivi nei confronti dei monaci annullando i vecchi privilegi. Oltre alle persecuzioni operate dai califfi ripresero anche le incursioni dei predoni del deserto, che spinsero i monaci a edificare, verso l'870, alte mura difensive intorno alla chiesa e alle strutture principali. Furono anche costruite altre celle addossate alle mura interne del monastero, con l'intento di alloggiarvi nei momenti di pericolo i monaci che risiedevano nelle manšubiyya. Questa fu la prima concentrazione di edifici che formò il nucleo del presente monastero e che si caratterizzava per le robuste fortificazioni che proteggevano i luoghi di culto, mentre le celle dei monaci erano disperse negli immediati dintorni, fuori dalla cinta muraria. Con questo avvenimento, che ha conferito ad Abu Makar l'aspetto che ancora ha alla nostra epoca, inizia un periodo purtroppo molto mal documentato.
Il X secolo fu caratterizzato da una grande carestia. L'XI secolo si aprì con la persecuzione di al-Hakim, una delle più dure di tutta la storia dei Copti. È in quest'epoca che fu edificata la chiesa di S. Macario costruita sotto Zaccaria (1005-1032) a sud della chiesa di Beniamino. In questo periodo arrivò nel convento la reliquia di s. Marco, la cui testa fu affidata temporaneamente alla custodia del monastero. Vi rimase fino alla metà del secolo e fu resa al suo proprietario tra il 1051 e il 1057. Ma fu probabilmente per custodire degnamente questa preziosa reliquia che fu costruito il cosiddetto haykal di S. Marco, che si aggiunse alla chiesa di Beniamino. Nel 1235 Cirillo IV, monaco di Abu Makar, fu elevato al trono patriarcale, ma il monastero perse molti dei privilegi acquisiti, primo fra tutti la seconda consacrazione del patriarca e la consacrazione del myron. Inoltre, fu sottoposto alla giurisdizione del vescovo di Misr (Il Cairo). Nel 1299 la consacrazione del myron si fece al Cairo, nella chiesa di al-Muallaqa. Durante il XIV secolo le persecuzioni ordinate dal sultano mamelucco as Salih Ibn Qalawun si conclusero con la distruzione di numerose chiese e monasteri e la diffusione della peste, che diminuì notevolmente il numero dei monaci. Tra il 1440 e il 1447 lo storico al-Maqrizi segnala questa decadenza. Nei secoli successivi il monastero subì numerose altre devastazioni da parte dei beduini del deserto e vide il numero dei monaci diminuire sempre di più, fino alla sua rinascita avvenuta in tempi moderni.
Il monastero di Abu Makar possiede oggi più chiese: la principale dedicata a s. Macario, la chiesa di ash-Sheyukh, sorta di martyrion che conserva i resti dei 49 martiri, la chiesa di Abu Iskirun. A queste si aggiungono le quattro cappelle presenti nel qaṣr, dedicate alla Vergine (al-Adhra), all'arcangelo Michele, a s. Paolo e s. Antonio e agli eremiti. Queste ultime tre cappelle presentano tracce di pitture parietali, mentre la chiesa di S. Macario, costituita dai due haykal principali, quelli di Beniamino e di S. Marco, conserva i resti più rappresentativi. È probabile che anche tutte le altre chiese e cappelle fossero in origine decorate con pitture. La costruzione voluta da Beniamino I era particolarmente imponente e prevedeva un grande arco di mattoni rossi, ancora oggi visibile ma non più nella sua collocazione originaria, che costituiva l'entrata settentrionale della chiesa. La cupola, anch'essa costruita con mattoni, misura 4,6 m in altezza. Le sue mura si elevano per un'altezza di 6,5 m e sostengono un ottagono di 1 m di altezza. Solo i muri dell'ottagono e della galleria delle nicchie presentano pitture. Le pareti dell'ottagono sono coperte da un decoro aniconico che segue modelli vari e sotto questa banda si sviluppa una decorazione più ampia: consiste nella rappresentazione dei Ventiquattro Vegliardi dell'Apocalisse che occupano lo spazio libero tra le nicchie lungo i muri nord, est e sud dell'haykal, mentre nel muro ovest, in corrispondenza dell'entrata, è rappresentato Cristo fra due angeli che troneggia al centro di un'assemblea di apostoli, cui si aggiungono s. Giovanni Battista e s. Stefano. Come nella parte anteriore della Cattedra di Massimiano a Ravenna, s. Giovanni Battista tiene in mano un disco su cui è rappresentato l'Agnus Dei. Anche gli elementi architettonici realizzati con legno presentavano una decorazione pittorica, generalmente aniconica; va dunque segnalato il grande cherubino, ancora oggi visibile tra i muri nord e sud.
Più a nord dell'haykal di Beniamino si colloca quello di S. Marco, che come il primo è preceduto da un coro trasversale comune alle due chiese. Il santuario appare come un cubo sormontato da una cupola di mattoni e vi si accede da ovest tramite un'apertura ricavata nell'antico arco d'entrata. Le pitture che si trovano nell'ottagono raffigurano scene tratte dall'Antico e dal Nuovo Testamento. L'artista ha disposto le scene in modo che i personaggi di una stessa rappresentazione si trovino faccia a faccia in due gruppi antitetici: il Sogno di Giacobbe e Cristo con Natanael, il Sacrificio di Isacco, l'Annunciazione, Mosè e Aronne, l'Annuncio a Zaccaria, la Visione di Isaia, Abramo e Melchisedek, infine Giobbe. Le nicchie degli angoli sono riempite da due scene, in parte oggi perdute, relative alla Natività e alla Resurrezione. La decorazione del muro ovest è essenzialmente costituita da due angeli affrontati da una parte e dall'altra dell'arco e da due santi, uno dei quali riconoscibile come s. Onofrio, vestito solamente della sua barba e accompagnato da un piccolo personaggio posto davanti ai suoi piedi. La Dormizione e l'Assunzione della Vergine sono rappresentate nell'arco successivo. Nel muro nord incontriamo due santi raffigurati in piedi che mostrano una lunga barba. Il santo di destra non permette nessuna ipotesi di identificazione a causa del suo precario stato di conservazione; quello di sinistra invece, affiancato dalla scritta abba, padre, potrebbe essere identificato con s. Macario, il fondatore del monastero. Tra i due santi si trova un'iscrizione, inquadrata in un cartiglio rettangolare, che qualifica i due personaggi sicuramente come santi monaci. La sentenza "questi sono i canoni e i precetti del monachesimo" doveva risvegliare nei monaci la santità e la rettitudine di vita.
Un'altra simile raffigurazione si trova sempre sul muro nord: non si vedono che le teste, realizzate con un'ammirabile esecuzione, di due asceti. Quella di sinistra ha una lunga capigliatura bianca e una barba a riflessi biondi che scende sino alla cintura. Accanto alla testa è un uccello bianco che porta nel becco un disco a fondo giallo e rosso. Questo particolare serve per identificare il secondo personaggio e l'intera scena nell'incontro tra s. Paolo e s. Antonio, secondo il racconto di s. Girolamo. La scena rappresentata ben si raccorda dunque con la precedente e con la raffigurazione di s. Macario, accompagnato da un cherubino, sul muro est. Le pitture del qaṣr sono alquanto danneggiate, specie per quanto riguarda la conservazione dei colori e delle iscrizioni arabe che, oggi quasi del tutto perdute, erano d'aiuto per l'identificazione dei personaggi. Sulla parete nord si può identificare l'immagine nimbata e alta quasi 2 m dell'arcangelo Michele, definito dall'iscrizione araba "il capo degli angeli". Di fronte sul muro sud appare la più grande composizione pittorica del qaṣr, che raggiunge i 5,7 m di larghezza totale. Il centro della rappresentazione è occupato da Basilide a cavallo, verso il quale si dirigono, sempre a cavallo, a sinistra Eusebio e a destra Macario e Giusto. Tutto il seguito dei cavalieri è dipinto su fondo giallo e rosso e termina con Apoli, figlio di Giusto. Basilide, il personaggio centrale, è raffigurato su un cavallo bianco che procede verso destra, vestito con una tunica gialla che copre completamente i piedi. Con la mano destra tiene una lunga lancia. Ma anche nella realizzazione degli altri cavalieri l'artista ha mostrato tutta la sua abilità tecnica e descrittiva. Ciò che realmente colpisce in queste rappresentazioni è l'uso del colore. La cappella degli Eremiti, sempre all'interno del qaṣr, contiene una ricca decorazione pittorica con la rappresentazione di nove santi. Partendo da est sono raffigurati anba Samuele, egumeno del monastero di Deir Qalamun, anba Giovanni, egumeno del monastero di S. Macario, s. Onofrio, eremita rappresentato nudo e ricoperto solo dalla lunga barba, anba Abraham, s. Giorgio, anba Apollo, anba Apip, s. Misael e infine anba Bigimi. Gli affreschi, risalenti al 1517, sono opera di un monaco abissino.
Deir Anba Bishoi - Come gli altri monasteri di Scete la fondazione del monastero di Anba Bishoi è associata con la vita del suo santo patrono, nato intorno al 320 d.C. La tradizione, contenuta nella vita del santo, scritta da un autore che dice di essere Giovanni Colobos, riferisce che la vita ascetica gli fu ispirata dall'apparizione di un angelo. Bishoi ubbidì e, appena ventenne, si recò nel deserto di Scete dove divenne discepolo di s. Pambo, che a sua volta era stato discepolo di Macario il Grande. Alla morte di Pambo un angelo apparve di nuovo a Bishoi ordinandogli di allontanarsi dalla comunità monastica e dall'amico Giovanni Colobos. Bishoi si ritirò dunque in una cella nei pressi dell'attuale monastero dei Siriani. La fama del monaco Bishoi crebbe a tal punto che numerosi eremiti si radunarono intorno a lui formando una comunità. Ma nel 407 un'incursione di beduini costrinse i monaci alla fuga. Bishoi, secondo la versione araba della sua vita, si ritirò in Medio Egitto nei dintorni di Antinoe, dove morì nel 417. Le sue spoglie furono portate nella città di Antinoe dove rimasero fino all'841, quando il patriarca Giuseppe I le fece traslare nel Wadi Natrun nel monastero fondato dal santo.
Nel VII secolo il patriarca Beniamino I (623-662) ristrutturò il monastero di Anba Bishoi e quello della Vergine di Anba Bishoi, poi divenuto Deir as-Surian, ma nell'817 i monaci dovettero abbandonare il monastero. Sotto i patriarchi Giacomo (819-830) e Giuseppe I (830-849) furono fortificate le mura di cinta del complesso; ma nel 1096 un nuovo saccheggio devastò il monastero, che cadde lentamente in rovina. Sotto il patriarca Cirillo II (1078-1092) il monastero contava quaranta monaci, un decimo di quelli presenti in quello di Macario. Il numero così basso può essere dovuto al fatto che in realtà il complesso di Anba Bishoi non era caratterizzato da celle dipendenti dal monastero ma esterne a esso. I monaci appartenenti alla comunità risiedevano tutti in esso. Ma solo con il patriarca Beniamino II (1327-1339) si ebbero consistenti lavori di ristrutturazione che permisero al monastero di risollevarsi dallo stato di abbandono in cui era caduto. La vita del monastero rimase sostanzialmente immutata sino all'arrivo dei primi viaggiatori europei, che nelle loro relazioni testimoniano una progressiva rinascita del complesso durante il XVIII e il XIX secolo.
Il monastero è caratterizzato da un'imponente cinta muraria alta 10 m e lunga 166 m sui lati est e ovest e 95 sui lati nord e sud. L'entrata principale è posta sul lato nord e il corridoio d'ingresso, coperto da una volta a botte, è realizzato secondo uno schema difensivo tradizionale. Subito dopo l'ingresso è una torre difensiva risalente al V secolo, che presenta tutti i caratteri tipici di questo tipo di struttura molto comune nei monasteri copti. L'ingresso è al primo piano e vi si accede mediante un ponticello che, in caso di attacco, veniva ritirato. All'interno della struttura vi erano magazzini per la conservazione di derrate alimentari e un pozzo profondo circa 20 m. Un forno, un mulino per cereali e un frantoio completavano l'equipaggiamento per sopravvivere in caso di assedio. Dei tre piani originali solo due oggi sono conservati. All'ultimo piano vi è una cappella dedicata all'arcangelo Michele.
La chiesa principale è dedicata a s. Bishoi e risale, nelle sue strutture principali, al IX secolo all'epoca di Giuseppe I, ma risente anche dei numerosi lavori di ristrutturazione e di restauro effettuati sotto il patriarca Beniamino II. La pianta della chiesa è particolarmente complessa. Si presenta come una basilica a tre navate con una navata di ritorno, mentre nel punto in cui ci si aspetterebbe di trovare il nartece è posto l'antico refettorio, coperto da cinque cupole e collegato alla chiesa da un corridoio lungo e stretto. La sua presenza in quel punto è causata dal fatto che dopo la liturgia domenicale i monaci erano soliti recarsi direttamente dalla chiesa al refettorio per l'agape comunitaria. Un tavolo di pietra, disposto lungo tutta la lunghezza del locale, è ancora oggi visibile. Prima di accedere al santuario un coro esterno, riservato ai catecumeni, immetteva in un coro interno, accessibile solo ai fedeli già battezzati e posto trasversalmente rispetto alla navata. Tra i due cori vi è una porta lignea del XIV secolo decorata da arabeschi e intarsi d'avorio. Il coro interno costituisce l'accesso al triplice santuario e rivela caratteristiche tipiche dell'architettura delle chiese del Tur Abdin nella Mesopotamia settentrionale, a testimonianza dei contatti che si ebbero in tutto il Wadi Natrun tra la Siria e l'Egitto. La tomba di s. Bishoi è collocata sempre nel khūrus accanto alla parete nord. Una porta nel muro sud del coro interno conduce alla cappella dedicata a s. Iskhirun, risalente al IX secolo. Restaurata per volere del patriarca Beniamino II, la cappella presenta uno stretto passaggio che conduce in un piccolo locale adibito a battistero, in cui è posto un fonte battesimale di pietra.
Il santuario nord, la cui struttura è quella originaria del IX secolo, è dedicato alla Vergine Maria. Quello centrale, che risale al IX secolo ma con una cupola nel XIV secolo, è dedicato al fondatore del monastero, s. Bishoi. A s. Giovanni Battista è dedicato invece il santuario meridionale, datato al XIV secolo. Altre due cappelle dedicate alla Vergine Maria e a s. Giorgio sono comprese nella struttura ecclesiale. Alla prima si accede da una porta sul muro nord del khūrus ed è caratterizzata da un'iconostasi di legno finemente lavorata, mentre la seconda, posta presso l'angolo sud-est del complesso e risalente all'XI o al XII secolo, è costituita da un doppio coro e da due santuari ed è coperta da sei cupole. Alcune pitture parietali, di difficile datazione, sono venute alla luce in una cappella laterale della chiesa principale. Nell'abside è rappresentato Cristo fra due angeli e alcuni santi, mentre sulle pareti si trovano la rappresentazione dei Ventiquattro Vegliardi dell'Apocalisse e dei Tre Ebrei nella fornace.
Deir as-Surian - Deir as-Surian si ubica all'altezza del lago Fazda, nelle vicinanze del monastero di Anba Bishoi, dal quale dista appena qualche centinaio di metri. La presenza nel monastero per più di un millennio di un'attiva comunità di monaci di lingua siriaca, i cui membri si reclutavano tra i territori di Siria e Mesopotamia, ne ha determinato un ruolo artistico e culturale proprio. La sua origine è connessa con l'eresia gaianita, che nel 535 ne determinò la fondazione a opera di monaci di fede severiana. La sua prima denominazione, attestata da un certo numero di documenti, fu "monastero della Theotokos di Anba Bishoi" o anche "nel dominio di Anba Bishoi". Il monastero fu acquistato per 12.000 dinari da una comunità di monaci siriani in una data che non deve essere anteriore al 710, anno in cui i gaianiti superstiti furono convertiti all'ortodossia. Questo permise ai monaci un tempo espulsi di essere riammessi nel loro monastero originale, quello vicino dell'Anba Bishoi. Il monastero della Theotokos di Anba Bishoi fu quindi disabitato, ma è solamente tra l'851 e l'859 che per la prima volta è attestata la denominazione "monastero della Madre di Dio dei Siriani che è nel deserto d'Egitto" (Leroy 1982).
La presenza di monaci siriani è ben attestata nel Wadi Natrun, a prescindere da Deir as-Surian. Documentata già nel IV secolo, sarà un elemento importante nel monachesimo copto soprattutto a partire dal VI secolo, quando un monaco siriano del convento di Giovanni Colobos, Damiano (570-607), verrà eletto al seggio patriarcale. Il fatto si ripeterà nel VII secolo con l'elezione di Simone I d'Alessandria (688-700), monaco siriano del monastero dell'Enaton, a nove miglia da Alessandria. La compenetrazione delle due comunità, siriaca ed egiziana, era favorita essenzialmente dalla loro unità di fede anticalcedonese: uno dei massimi esponenti della chiesa di Siria, Severio di Antiochia, è ancora oggi elencato nell'anafora di s. Basilio, subito dopo gli Apostoli. Pochi fatti degni di nota si registrano nel IX e X secolo. Fra questi spiccano le notizie su Mosè di Nisibis, che non solo riuscì a risollevare le finanze del monastero ma, uomo colto e pio, si procurò numerosi manoscritti e soprattutto abbellì la chiesa della Vergine in cui i monaci siriani si radunavano per gli uffici sacri. Deir as-Surian poté quindi contrastare efficacemente la carestia che colpì l'Egitto nel 960. L'influenza del convento si accrebbe per la nomina al patriarcato, nel 977, di un altro siriano, Ephrem o Abraham.
Nell'XI secolo cominciano a giungere nel monastero monaci siriani in fuga dal loro Paese per l'arrivo dei Turchi in Siria e in Asia Minore. Altri arrivi di monaci si registrano nel 1194, 1206 e 1254. Tra il 1350 e il 1374 una pestilenza in Egitto sconvolse anche il Wadi Habib. Deir as-Surian, negli anni successivi, si spopola quasi completamente di monaci e soltanto nel XVI secolo, con un abate di origine libanese, Ciriaco, riesce a risollevarsi. Nel 1516, probabile anno della morte di Ciriaco, il monastero conta 43 monaci, di cui 18 siriani e 25 egiziani: per la prima volta è attestata la presenza di monaci egiziani accanto a quelli siriani. L'elemento siriano si continua a perdere nel secolo successivo. Nel 1624 un siriano si occupa di rimettere in ordine la biblioteca del convento conservata nel qaṣr, ricca di ben 403 volumi. Nel 1634 un monaco egiziano di nome Abdel Masih figura come abate del convento su un volume che sembra essere stato l'ultimo acquisto della biblioteca. Ancora nel 1636 un altro monaco egiziano, Abu'l Farag, originario del Delta del Nilo, diviene abate del monastero. Il passaggio del convento all'autorità copta è ormai definitivo. Da notare che R. Curzon, che visitò il monastero nel 1837, vi riscontrò un gruppo di monaci etiopici. Shenuda III, eletto nel 1971 patriarca della Chiesa copta, era un monaco del monastero dei Siriani.
Il monastero, il più piccolo tra quelli oggi abitati nel Wadi Natrun, si presenta cinto da alte mura con un orientamento est-ovest. L'ingresso principale, posto nell'estremità occidentale del muro nord, immette direttamente in una piccola corte che a sua volta permette il passaggio in un'altra corte più ampia, delimitata, a sud, dalla chiesa di al-Adhra e, a nord, da alcune celle monastiche. A ovest della chiesa si trovano un refettorio e i locali delle cucine, oggi dismesse. Lungo il muro settentrionale le celle sono interrotte dalla chiesa di Sitt Maryam, mentre una terza chiesa, dedicata a s. Giovanni, è posta a nord-est del complesso. Lungo il muro sud sono addossate altre numerose celle. La chiesa di Sitt Maryam non sembra essere stata eretta prima dell'XI secolo: solo il naòs e il khūrus datano, però, a questo periodo. I due ambienti, originariamente connessi mediante un largo arco centrale e uno stretto passaggio nel lato meridionale, conducono al santuario che, caratterizzato dalla presenza di tre haykal, risale al XIV-XV secolo.
La chiesa di al-Adhra è la più importante di tutto il Wadi Natrun e anche una delle meglio conservate. Datata al primo quarto dell'VIII secolo, nella sua pianta originale si presentava come una basilica. Originariamente coperta da un soffitto di legno, è munita di una navata di ritorno sul lato occidentale e un santuario tripartito con un khūrus. Lunga 24,3 m e larga 13,3 m, al-Adhra offrirebbe un esempio perfetto di chiesa "festale", cioè di chiesa concepita per determinate feste e processioni. Questo tipo di chiesa presenterebbe, infatti, proprio tre haykal posti a est e preceduti da un coro trasversale e da tre navate, tutte riservate ai fedeli. La chiesa è accessibile tramite due entrate: la prima, lungo il lato occidentale, è oggi chiusa e comunicava con i locali anticamente adibiti a refettorio; la seconda, praticata nel muro nord, costituisce l'entrata principale e permetteva anche il passaggio alla vicina cappella dei 40 Martiri di Sebaste. Questo edificio deve appartenere allo stesso insieme architettonico di al-Adhra e datare quindi allo stesso periodo. Verso il 980/1000, al tempo dell'abate Saliba, furono fatti lavori di consolidamento e in seguito a questi venne portata alla luce un'iscrizione in copto e in siriaco relativa all'acquisto del convento.
Ma la chiesa di al-Adhra è nota soprattutto per le pitture che la decorano. Il vasto repertorio figurativo, che si è andato ad accrescere a partire dalle scoperte effettuate nel 1991, e che trae temi sia dall'Antico e Nuovo Testamento, sia dal comune patrimonio monastico siro-egiziano, costituisce un unicum di eccezionale importanza. Accanto a queste vi erano anche gli stucchi, che nell'haykal centrale richiamano gli ornamenti che decorano la moschea di Ibn Tulun al Cairo, così come gli intarsi delle porte lignee che chiudono l'accesso all'haykal. La porta del santuario è a sei pannelli e i suoi intarsi rappresentano Cristo e la Vergine, accanto ai quali sono raffigurati s. Marco, s. Ignazio d'Antiochia, s. Dioscoro e s. Severo d'Antiochia, i fondatori della chiesa giacobita di Siria ed Egitto. Questi personaggi con l'aggiunta di s. Marco e di s. Pietro si ritrovano anche nella decorazione della porta che chiude il coro. Due iscrizioni siriache incise sulle porte con caratteri ornamentali ci informano che queste furono realizzate nel 913/4 e nel 926/7 all'epoca dei patriarchi Gabriele d'Alessandria (897-921), Giovanni d'Antiochia (910-923), Cosma III (920-932) e Basilio d'Antiochia (923-935) grazie all'azione di Mosè di Nisibis, che presiedette anche all'ornamentazione del santuario con stucchi elaborati.
Gli affreschi della semicupola sud, datati al XIII secolo, raffigurano l'Annunciazione e la Natività. Al disopra della porta occidentale vi era una rappresentazione dell'Ascensione che, completamente distrutta da un incendio nel 1991, svelò una raffigurazione dell'Annunciazione, tra i capolavori dell'arte cristiana d'Egitto. L'Ascensione, che già dalla pubblicazione di J. Leroy del 1982 faceva intravedere l'opera sottostante, mostrava nel registro superiore Cristo entro una mandorla cinta da due Angeli. Piedi nudi, testa con nimbo cruciforme, Cristo era vestito con una tunica blu ricoperta da un mantello rosso porpora. Due astri, il sole e la luna, sovrastavano la rappresentazione. Nel registro inferiore la Vergine Maria, la Theotokos, come recitava l'iscrizione in siriaco, era rappresentata frontalmente con un maphorion porpora e una tunica azzurra. Ai suoi lati erano raffigurati gli Apostoli che convergevano verso di lei.
Di grande qualità artistica è la raffigurazione dell'Annunciazione, datata al X-XI secolo. Maria, seduta su un trono riccamente intarsiato e vestita con una tunica azzurra, secondo la tradizionale iconografia bizantina, ascolta il messaggio divino riferitogli da Gabriele che procede verso di lei. Accanto ai due appaiono i profeti Mosè, Isaia, Ezechiele e Daniele con le loro profezie scritte in copto sui filatteri aperti. I profeti dell'Annunciazione appaiono riccamente vestiti e il tutto si svolge di fronte a una città idilliaca che prefigura la Gerusalemme celeste. La scena della Dormizione della Vergine è rappresentata nella semicupola nord di fronte all'affresco dell'Annunciazione e della Natività. L'opera è divisa in due registri di cui quello inferiore, su fondo verde, rappresenta la terra, quello superiore il cielo. Al centro, la Vergine Maria è sdraiata su un letto riccamente ornato. La testa nimbata appoggia su un cuscino rosso porpora. Dietro il letto sovrasta la figura di Cristo a mezzo busto, che tiene in mano l'anima della Vergine in figura di un bambino avvolto in fasce. Cristo è affiancato da angeli, tutto intorno gli Apostoli.
La rappresentazione segue fedelmente la narrazione che di tale avvenimento ci hanno lasciato le fonti letterarie, in specie le omelie di Evodio e Teodosio, ma anche la recita del Sinassario per il 21 di Tobe, giorno in cui, secondo la tradizione copta, sarebbe morta la Vergine. Secondo la narrazione del Sinassario, infatti, lo Spirito Santo radunò le vergini e le fece venire presso Maria che era distesa sul suo letto. Ecco che il nostro Signore il Messia circondato da milioni di angeli apparve presso di lei, la consolò e le annunciò il riposo e la tranquillità che avrebbe gustato. La Vergine Maria salutò le vergini e gli Apostoli, finché il Signore ricevette la sua anima benedetta, l'avvolse in un mantello di luce e la fece salire con lui verso le dimore elevate. Negli anni successivi al 1991 lavori di restauro e di consolidamento hanno portato alla luce altri dipinti eseguiti su diversi strati di intonaco e quindi corrispondenti a fasi cronologiche diverse. Il primo strato di intonaco, applicato dopo la costruzione della chiesa, terminata approssimativamente verso il 645, consiste di un grossolano strato giallo di calcina decorato a motivi geometrici, croci e pavoni. Verso il 700 fu applicato un ulteriore strato decorato con pitture che mostrano una certa coerenza iconografica e stilistica. La parte bassa dei muri interni della chiesa presenta motivi imitanti intarsi marmorei e colonne. Successivamente furono decorate anche le parti superiori delle pareti, ma le pitture appartenenti a questo secondo strato non furono probabilmente eseguite tutte nello stesso periodo, bensì lungo un arco di tempo che giunge sino al XII secolo. Nel XIII secolo si ha un ulteriore strato; le pitture delle semicupole e della Dormizione appartengono proprio a questa fase. Nel 1781 tutte le pitture furono coperte sotto uno strato uniforme di calce.
Un'importante porzione di pittura imitante intarsi marmorei e colonne che sorreggono un architrave è stata rinvenuta lungo la parte occidentale del muro meridionale. Questa decorazione è dipinta nella parte bassa del muro ed è interrotta ogni due metri circa da nicchie. Ogni nicchia è fiancheggiata da due colonne dipinte, mentre sopra e tra le nicchie ci sono pannelli con imitazione dipinta di intarsi marmorei. Databile alla seconda metà del VII secolo è invece una bella raffigurazione della Vergine galaktotrophousa, dipinta nel khūrus sulla semicolonna sinistra posta sul lato destro dell'entrata al santuario. La Vergine è seduta su un trono riccamente decorato, veste una tunica blu e un maphorion decorato con croci. Con la mano destra sorregge il Bambino Gesù, mentre con la sinistra gli porge il seno. Poco più tarda è la rappresentazione di un santo martire, probabilmente Sergio, rappresentato in un'altra semicolonna ricavata dallo stesso pilastro, databile verso la fine del VII secolo.
Sulla parete occidentale del muro sud vennero alla luce nel 1995 parti di una decorazione imitante intarsi marmorei e colonne dipinte, poste queste ultime ancora a decorare una nicchia. Queste pitture ornamentali occupano come in altre parti della chiesa i registri inferiori, mentre i registri superiori presentano raffigurazioni diverse che vennero realizzate in un arco di tempo molto ampio che arriva sino al XIII secolo. In questo caso il registro superiore è occupato dalla rappresentazione dei tre patriarchi del Vecchio Testamento, Abramo, Isacco e Giacobbe, che seduti su un trono in Paradiso, tengono tra le braccia le anime dei beati, raffigurati come piccole figurine nude alle quali offrono frutti benedetti. I patriarchi sono vestiti con tuniche rosse e marroni e indossano anche dei pallia. Sullo sfondo sono rappresentati quattro alberi sui quali sono altre anime benedette in atto di coglierne i frutti. Questo tema occorre nell'iconografia soltanto a partire dal IX-X secolo, ma lo stile di questa pittura data l'opera almeno all'XI secolo.
La ricchezza iconografica si caratterizza come una delle particolarità della decorazione di questa chiesa. Sul muro orientale del khūrus viene infatti rappresentata una scena non altrove proposta nell'ambito della pittura copta: la conversione dell'eunuco della Candace, la regina d'Etiopia, a opera di Filippo (Act. Ap., 8, 26-40). L'eunuco è rappresentato seduto sul carro con in mano il rotolo con il testo del profeta Isaia, mentre davanti a lui vi doveva essere Filippo che, oggi completamente perduto a eccezione di una mano, era raffigurato nell'atto di battezzare il ministro della Candace. Datata allo stesso periodo, cioè al X-XI secolo, è anche la rappresentazione di un altro unicum, la storia di s. Andrea che predica nella terra dei cannibali a testa di cane, i Kynokephaloi, storia tratta dagli Acta Andreae et Matthiae apud anthropofagos. La pittura è molto danneggiata, ma a sinistra si può ancora riconoscere il volto di s. Andrea, mentre a destra la scena è occupata da cinque figure a testa di cane che procedono verso di lui.
Molto danneggiate sono risultate anche le pitture dei registri superiori del muro est e sud del khūrus, raffiguranti due santi cavalieri, s. Viktor, un santo medico e Cosma e Damiano, oggi completamente restaurate e integrate nelle loro parti mancanti. I due santi cavalieri, dei quali non è possibile proporre un'identificazione, appaiono in abiti militari riccamente ornati con le teste dei loro cavalli una di fronte all'altra. I due santi sono raffigurati in atto di trafiggere un terzo personaggio, oggi scomparso, che doveva essere rappresentato tra i due cavalli. La parte bassa della rappresentazione è andata perduta a causa della creazione del passaggio che conduce all'haykal. Questa scena si completa con la raffigurazione di s. Viktor Stratelate, identificato come tale da un'iscrizione in greco. La pittura seguente raffigura un santo medico in atto di curare un ragazzo. Dietro di loro è posto un armadietto con dei medicinali accanto a un altro ragazzo a petto nudo. Non è però possibile stabilire di quale santo si tratti. È possibile identificare, invece, gli altri due santi raffigurati accanto alla precedente pittura e caratterizzati anch'essi come medici. Si tratta di Cosma e Damiano, come suggerisce l'iscrizione in greco, che sono mostrati in piedi con una spatula nella mano destra e nella sinistra un oggetto non meglio identificato. Sul muro opposto del khūrus, sotto la raffigurazione della Dormizione, altri tre dipinti appartenenti allo stesso programma iconografico rappresentano cinque santi in piedi, la cui identificazione risulta molto problematica a causa della mancanza di caratterizzazioni.
S. Dioscoro appare, invece, raffigurato sulla più orientale delle colonne della navata nord della chiesa in una pittura datata al XIII secolo. Il patriarca, così identificato nell'iscrizione, indossa un costume da monaco decorato da medaglioni. Nella navata opposta è rappresentato nello stesso atteggiamento un altro santo. Appare vestito allo stesso modo di Dioscoro, con un phelonion decorato con nove medaglioni contenenti i ritratti di Cristo, due angeli e sei santi, forse apostoli. Potrebbe trattarsi del patriarca Severo di Antiochia, che appare come controparte di Dioscoro nelle porte lignee tra il khūrus e l'haykal. Anteriori a queste pitture sono, invece, le raffigurazioni dei Tre Ebrei nella fornace e dei profeti Daniele e Abacuc dipinte accanto ai tre patriarchi. La scena tratta dal libro di Daniele appare realizzata con estrema efficacia, nonostante le numerose lacune. L'angelo, in piedi, è rappresentato nell'atto di proteggere Anania, Misaele e Azaria davanti al re Nabucodonosor, raffigurato seduto sul trono con in testa una corona. Dei tre Ebrei, vestiti tutti con abiti persiani, solo due sono visibili. Quello raffigurato al centro, infatti, è visibile solo a tratti a causa di una grande lacuna presente proprio in quel punto. Altrettanto lacunosa è la vicina raffigurazione del profeta Daniele e di Abacuc, il quale appare sollevato dall'angelo che, per comando divino, lo trasporta a Babilonia sopra la fossa dei leoni, affinché rechi nutrimento a Daniele.
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di Mario Cappozzo
Cittadina situata in Alto Egitto, lungo la riva occidentale del Nilo, a circa 595 km a sud del Cairo e a 127 km a nord di Luxor.
La località è nota per il rinvenimento, nel 1945, di una ricca collezione di testi in lingua copta, per la maggior parte di tendenza gnostica. Si tratta di 13 codici contenenti 52 scritti, di cui 46 diversi l'uno dall'altro e di questi 40 completamente sconosciuti, per un totale di 1240 pagine. Sebbene i manoscritti siano conosciuti come provenienti da N.H. il loro rinvenimento avvenne in un punto della falesia del Gebel al-Tarif, una mole rocciosa situata sulla riva orientale del Nilo a circa 11 km dalla città di N.H. Acquisiti i restanti codici e individuato il luogo del rinvenimento, nel 1966 iniziarono campagne di scavo in tutta la regione di N.H., presto sospese; furono riprese nel 1975 fino al 1978.
La prima campagna di scavi si concentrò nell'area del Gebel al-Tarif a circa 350 m di altezza. Vennero identificate e catalogate circa 150 tombe rupestri utilizzate in epoca copta da eremiti come luoghi di ritiro, di cui solo 6 vennero scavate sistematicamente. Una di queste (T 73), appartenente al governatore Thauti, risale alla VI Dinastia (ca. 2300 a.C.) e presenta pareti impreziosite da eleganti rilievi e da iscrizioni geroglifiche. Tombe più piccole furono datate al I sec. d.C., mentre resti di tessuti rinvenuti in un'altra tomba e analizzati con il 14C furono datati al V sec. a.C. La fase di occupazione da parte degli anacoreti in epoca cristiana fu resa evidente dalla scoperta di iscrizioni relative ai Salmi 51-93, in inchiostro rosso e in lingua copta, in una grotta datata al VII secolo (T 8). Non furono però rinvenuti resti di strutture associabili al luogo della scoperta dei codici. La seconda campagna di scavo, nel 1976, si spostò a Pabau (Faw al-Qibli) e iniziò con l'indagine del complesso e della basilica del monastero fondato da s. Pacomio, iniziatore del monachesimo cenobitico. Anche la terza campagna, che ebbe luogo tra il novembre del 1977 e il gennaio del 1978, si concentrò nell'area del monastero pacomiano, in quanto si venne ad affermare l'idea che i manoscritti fossero stati prodotti nei monasteri pacomiani. Dalla terza campagna di scavo si ricavò anche un'ulteriore conferma della provenienza dalle vicinanze del Gebel al-Tarif anche dei papiri della collezione Martin Bodmer, che ponendosi accanto ai codici gnostici e al movimento monastico di Pacomio, caratterizzano l'area di N.H. come una delle principali aree di diffusione del cristianesimo primitivo in Egitto.
L'accuratezza del nascondiglio, l'eleganza e la preziosità dei codici fanno pensare che chi li nascose non aveva nessuna intenzione di privarsene, ma intendeva custodirli per sottrarli alla distruzione. Le circostanze in cui vennero nascosti, sebbene ancora ignote, potrebbero essere spiegate considerando il quadro storico e religioso dell'Egitto del IV secolo. Nel 367 il patriarca di Alessandria Atanasio inviò la XXXIX lettera festale in cui elencava i libri canonici dell'Antico e del Nuovo Testamento, scagliandosi contro i libri "eretici" accusati di aver diffuso opere spurie come ispirate divinamente. La lettera venne tradotta dal greco in copto da Teodoro, coadiutore e assistente di Orsiesi, discepolo di s. Pacomio, e poi diffusa in tutti i monasteri dell'Egitto. Fu quindi in questo clima di tensione che i codici potrebbero essere stati nascosti dai loro ignoti possessori e non è neanche da escludere che i proprietari dei testi fossero proprio alcuni monaci di uno dei tanti monasteri pacomiani della regione, forse proprio quelli del monastero di Chenoboskion.
Altri studiosi, invece, hanno sottolineato il fatto che monaci pacomiani avrebbero potuto raccogliere e leggere scritti del genere in buona fede, affermando che persino alcune lettere di Pacomio potrebbero essere interpretate nello spirito dei testi di N.H. Nei monasteri della Tebaide vi erano di fatto monaci inclini a letture considerate non ortodosse, così come si intuisce dalle stesse Vite di Pacomio, e in ogni caso molti furono gli appelli dei Padri per cercare di allontanare i monaci da libri "pericolosi". Lo stesso Shenute, massimo rappresentante della cultura egiziana meridionale, di derivazione pacomiana, era solito citare la lettera festale di Teodoro unendola a lunghe considerazioni antignostiche. Ma rimaniamo comunque sempre sul terreno delle ipotesi e una spiegazione chiara e convincente che metta d'accordo tutti gli studiosi appare oggi ancora lontana.
Le analisi paleografiche condotte sui manoscritti permettono di datarli tra la fine del III e la metà del IV secolo. Conferma questa datazione anche l'esame del materiale usato per rendere più solida la parte interna della rilegatura di cuoio, costituito da un cartonnage realizzato con lettere private, nella quale sono leggibili nomi di luogo e di persona, ricevute di merci e anche un frammento copto del testo della Genesi. I codici di N.H. sono di fondamentale importanza anche per la scienza codicologica che prima della loro scoperta aveva a disposizione poco materiale per il III e IV secolo. Se certi manoscritti sono frammentari, i Codices X, XII e XIII sono sostanzialmente intatti e hanno fornito materiale da analizzare. Le dimensioni delle pagine dei codici si situano tra 23 e 30 cm di altezza e tra 12 e 18 cm di larghezza. I fogli presentano una sola colonna di scrittura, sempre chiara e regolare. Tutti i codici, eccetto il XII e il XIII, sono protetti da astucci di cuoio talvolta ornati da simboli. Le copertine sono realizzate con pelle di capra o di montone.
Ma se lo studio e l'analisi delle rilegature consentono di precisare l'epoca in cui i codici vennero assemblati, nulla ci viene suggerito dalla scienza codicologica circa l'epoca di composizione dei testi. Questi vennero probabilmente redatti inizialmente in greco e poi tradotti in lingua copta, più precisamente in dialetto saidico, qualche volta tinto con altri dialetti come il boairico, l'akhmimico e il subakhmimico (o licopolitano). Data l'eterogeneità dialettale dei trattati si può pensare che il loro raggruppamento in codici sia posteriore alla loro traduzione in copto. Non si conosce la provenienza dei testi individuali assemblati in questi codici ma il loro contenuto permette forse di collegarli all'ambiente giudeo-cristiano alessandrino e la datazione più accreditata si colloca generalmente al II e al III sec. d.C. Anche dal loro contenuto è lecito supporre che alcuni di essi possano risalire agli inizi del II secolo. Le differenti versioni dell'Apocrifo di Giovanni (Cod. II, 1; III, 1; IV, 1) potrebbero, infatti, essere servite a Ireneo come base per la conoscenza dei sethiani, degli ofiti e dei barbelognostici; il Vangelo di Verità (Cod. I, 3) si ricollega allo gnosticismo valentiniano; il Vangelo di Tommaso (Cod. II, 2) sostiene l'inutilità della circoncisione, riprendendo in ciò il dibattito intercorso su tale argomento intorno agli anni 130-135 d.C., mentre l'Epistola a Regino (Cod. I, 4) riflette i dubbi e le divisioni che la risurrezione suscitava durante il II secolo.
L'importanza della biblioteca rimane comunque quella di aver fatto conoscere agli studiosi moderni un corpus completo di testi gnostici. Quello che sino al momento della scoperta si sapeva dello gnosticismo era, infatti, ciò che ci narravano di questo i suoi delatori, soprattutto Ireneo di Lione (140-202) che nella sua opera Adversus haereses, redatta verso il 180, passa in rassegna i sistemi gnostici. Il contenuto dei codici è vario e appare problematica una chiara classificazione dei testi: vi troviamo rivelazioni dei grandi profeti dello gnosticismo, come Seth e Zoroastro, spesso con glosse e commenti, scritti mascherati come se fossero cristiani, testi che occupano una posizione intermedia tra gnosticismo ed ermetismo e testi propriamente ermetici. Ma è interessante notare che in questa biblioteca, i cui testi si riferiscono a una cultura cristiana e giudeo-cristiana basata sulla Bibbia, mancano testi biblici, la cui assenza va ricercata certamente nelle circostanze per le quali furono nascosti. Lo stato di conservazione è vario: si passa da testi quasi completamente intatti, come, ad esempio, la Parafrasi di Shem (Cod. VII, 1), il Vangelo di Tommaso, il Vangelo di Verità, a testi molto frammentari, come, ad esempio, Zostrianos (Cod. VIII, 1), Marsanes (Cod. X, 1), Melchisedec (Cod. IX, 1) o il Trattato Valentiniano (Cod. XI, 2). Dei 40 nuovi testi di N.H. 30 sono più o meno completi e 10 estremamente frammentari.
Tra i primi testi a essere studiati e pubblicati si pone il Vangelo di Tommaso. Questo apocrifo tramanda in maniera originale una collezione di 114 sentenze attribuite a Gesù, di cui una buona parte si ritrova nei vangeli canonici, particolarmente nei passaggi paralleli tra i vangeli di Matteo e Luca. Il problema della dipendenza o meno di questo vangelo apocrifo da quelli canonici rimane ancora oggi un problema aperto. L'autore sembra servirsi di fonti giudaico-cristiane: crede, ad esempio, che Giacomo il Giusto, primo vescovo di Gerusalemme, sia il capo del primitivo cristianesimo, e non Simon Pietro; che il sabato, e non la domenica, debba essere osservato. Le problematiche offerte dal contenuto fanno di quest'opera uno dei testi più importanti per indagare l'origine e la natura delle prime generazioni cristiane.
Numerosi sono gli scritti di N.H. che mostrano un'estrema familiarità con le tradizioni e i miti giudaici e quindi una lunga frequentazione di testi biblici e una conoscenza dei differenti tipi di esegesi praticata. Ad esempio, la storia della creazione con i suoi protagonisti, Adamo ed Eva, è stata il soggetto preferito dagli autori della Natura degli Arconti (Cod. II, 4) e dell'Origine del mondo (Cod. II, 5). I maestri di N.H. non ignorano la letteratura apocrifa intertestamentaria che si sviluppò tra le frange del giudaismo tra il I sec. a.C. e il I sec. d.C. e che costituì per essi un tesoro di miti e di immagini al quale essi attinsero abbondantemente. L'Apocrifo di Giovanni è uno dei grandi testi mitologici della biblioteca di N.H. La sua importanza e la diffusione che ebbe si misurano anche dal fatto che il codice Copto 8502 di Berlino aveva già fatto conoscere l'opera. Si tratta di un trattato scritto originariamente in greco da un autore esperto sia in esegesi biblica sia nelle pratiche filosofiche. Il testo tratta della creazione di Adamo, modellato dal Demiurgo, e del modo in cui sedusse Eva, della successiva venuta degli angeli, inviati dal Demiurgo, e delle catastrofi che ne seguirono.
Un altro documento di N.H. in cui si notano motivi e tradizioni ebraiche è l'Insegnamento di Silvano (Cod. VII, 4). Il messaggio gnostico non è qui presentato con un linguaggio tecnico e destinato a degli iniziati, ma in maniera chiara e semplice, affrontando luoghi comuni della filosofia popolare e anche allusioni all'Antico e al Nuovo Testamento. L'autore inserisce nel suo scritto sentenze e proverbi aventi scopo pedagogico e che rivelano la rettitudine della dottrina gnostica. È dunque un'opera propagandistica, indirizzata però a un pubblico colto, sensibile agli insegnamenti della cultura classica e del patrimonio giudaico. Anche il Vangelo di Filippo (Cod. II, 3), scritto durante il periodo di espansione del valentinismo, può essere considerato un'opera pedagogica. L'autore, che ammette la predestinazione alla salvezza di una sola élite, si mostra preoccupato di determinare i criteri che permettono di riconoscere gli eletti, così come di provvedere alla loro formazione. L'opera espone dunque un insieme di regole che condizionano la partecipazione alla comunità e il rituale iniziatico che ne dipende. Altro testo importante per la comprensione del pensiero gnostico è l'Esegesi sull'anima (Cod. II, 6). È un trattato che propone un'esegesi, in chiave allegorica, sull'itinerario che porta l'anima a ritrovare le sue origini divine. L'anima, infatti, di origine divina, cade nella materia e nel mondo e, dopo una serie di vicissitudini, ritorna alla casa del Padre. In quest'opera si ritrova il mito gnostico della Sophia, come era stato descritto da Ireneo di Lione nelle pagine dedicate ai valentiniani (I, 1, 2-3). La storia dell'anima decaduta dalla casa paterna si ispira a quella di Sophia che, dopo aver abbandonato il mondo celeste e il suo sposo, sprofonda nell'ignoranza e nella prostituzione. Come l'anima del testo di N.H., Sophia ritorna alla sua condizione iniziale di vergine dopo aver sofferto e dopo aver fatto atto di penitenza davanti al Padre.
La biblioteca copta di N.H. contiene cinque trattati apocalittici: l'Apocalisse di Paolo (Cod. V, 2), l'Apocalisse di Giacomo (Cod. V, 3; V, 4), l'Apocalisse di Adamo (Cod. V, 5) e l'Apocalisse di Pietro (Cod. VII, 3). Tutti questi testi sono posti sotto la tutela di figure bibliche e rivelano la tradizione letteraria della pseudoepigrafia. L'Apocalisse di Adamo presenta una rivelazione di tipo gnostico da Adamo a Seth, mentre le altre sono attribuite a personaggi del Nuovo Testamento, gli apostoli Giacomo, Pietro e Paolo. Quelle attribuite a Giacomo e a Pietro sviluppano il genere letterario del dialogo: domande dei discepoli si alternano alle spiegazioni di Gesù e all'analisi delle visioni profetiche. L'Apocalisse di Paolo, invece, ha come sfondo narrativo l'ascensione dell'apostolo nel mondo celeste.
Trasmessi invece senza titolo sono i tre scritti ermetici del Codice VI: un trattato che si è convenuto chiamare, sulla base del suo contenuto, l'Ogdoade e l'Enneade (Cod. VI, 6), una Preghiera di ringraziamento (Cod. VI, 7), un lungo frammento del cosiddetto Discorso perfetto (Cod. VI, 3). Questi testi, tradotti dal greco, presentano notevole interesse. Innanzitutto la loro ispirazione egiziana è più accentuata rispetto alle corrispondenti versioni greche e latine, mettendo in evidenza la volontà di rivendicare un'identità nazionale nel tentativo di rivitalizzare e di spiritualizzare la religione egiziana tradizionale. Contemporanei alle diverse correnti gnostiche rappresentate da altri testi di N.H., gli scritti ermetici tracciano un cammino spirituale fondato sulla conoscenza del divino. La loro originalità si esprime rivendicando un'eredità egiziana combinata con elementi ellenistici e giudaici. Inoltre la gnosi ermetica è ottimista e monista, opponendosi così al pessimismo dualista degli gnostici: Dio è uno e solo e nello stesso tempo è tutti gli dei. Non c'è opposizione tra gli dei pagani e il Dio unico, poiché Dio è nello stesso tempo tutti i contrari. Gli autori ermetici si proponevano, dunque, di conciliare le diverse correnti religiose dell'inizio dell'era cristiana, la cui molteplicità di idee si riflette proprio nell'insieme dei codici di N.H.
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