L’agricoltura mondiale
Agli inizi del 21° secolo l’agricoltura si presenta con numerosi elementi di novità sullo sfondo di tendenze di lungo periodo caratterizzate da forte inerzia. Tale inerzia è dovuta in massima parte a fattori suoi propri, dei quali non si trova l’equivalente in altri settori: la straordinaria importanza che rivestono per le attività agricole l’ambiente e le risorse naturali; l’intima e ineludibile base biologica dei processi produttivi in quest’ambito; il particolare rapporto produzione-consumo, soprattutto nel settore alimentare.
Le novità hanno un’origine essenzialmente esterna all’agricoltura, a monte, nei settori che a essa forniscono mezzi tecnici e servizi, a valle, nel comparto della distribuzione e, per ultimo, nella domanda dei consumatori. Per qualcuna di esse si potrebbe indicare una data di nascita precisa, per es. l’anno nel quale è stato utilizzato per la prima volta il tal seme geneticamente modificato, o prodotto il tal biocarburante a partire da questa o quell’altra pianta. Un simile esercizio sarebbe però di poco significato e fuorviante, perché ciò che conta non è l’apparire della novità tecnica, ma il suo farsi strada nell’utilizzazione delle risorse, da un lato, e nei consumi, dall’altro. E su entrambi i fronti i tempi, anche quando brevi, sono più nell’ordine dei decenni che non degli anni. Le novità riguardo la produzione consistono nel profilo e nella posizione economica dell’agricoltore, nel contesto istituzionale nel quale opera, nelle tecniche e nei fattori produttivi che utilizza. Sul fronte del consumo risalta l’espansione della domanda per biocarburanti e, almeno nei Paesi più avanzati, per servizi agroambientali. Su entrambi i fronti si collocano poi gli sviluppi dell’ingegneria genetica, con le possibilità che essa offre e le preoccupazioni che suscita. Oggi, molto più che in passato, le vicende agricole della singola zona o Paese sono parte di più ampi processi con dimensione globale. Pur in presenza di forti tendenze convergenti, l’agricoltura mondiale rimane molto ;differenziata nelle risorse che utilizza, nel modo in cui le utilizza, nei prodotti che genera, nei profili e comportamenti dei suoi protagonisti, nella rete di rapporti nei quali essi operano.
Il mondo agricolo e rurale è caratterizzato da grande eterogeneità, tra regioni e Paesi, ma anche nei più ristretti ambiti locali. In campo agricolo, come in altri campi, in ragione del differente livello di sviluppo si osserva un ampio ventaglio di situazioni con marcati tratti distintivi, a cominciare dal differente peso che l’agricoltura ha nella struttura economica e sociale. Nei termini dei due principali indicatori utilizzati a tale riguardo, contributo alla formazione del prodotto interno lordo (PIL) e all’occupazione totale, i Paesi più avanzati registrano ormai valori molto modesti, a una sola cifra, mentre all’estremo opposto si trovano ancora, tra i Paesi meno avanzati, valori a due cifre anche molto elevati. Se nel gruppo dei Paesi più avanzati la convergenza verso valori bassi è ormai molto spinta, tra i Paesi in via di sviluppo permane un alto livello di eterogeneità. E non si tratta certamente solo di una questione descrittiva: ben più importante è il fatto che, a seconda del peso relativo dell’agricoltura, le economie funzionano con differenti vincoli, priorità e possibilità di sviluppo.
L’eterogeneità non è di minor peso all’interno di uno stesso Paese, in termini di aree più o meno prospere per dotazione di risorse naturali, condizioni economiche e assetto istituzionale. Per l’insieme dei Paesi in via di sviluppo le aree svantaggiate pesano per oltre la metà della superficie agraria e per circa un terzo della popolazione rurale (World bank 2007). Molte di esse, in collina e montagna con pendenze più o meno forti, o in zone aride o semiaride, sono caratterizzate in partenza da una povertà delle risorse naturali poi aggravata dalla pressione demografica e da pratiche agronomiche poco adatte, e talvolta francamente avverse, a mantenere la fertilità dei suoli. Lo svantaggio è di solito associato alla modesta presenza di attività industriali e servizi, assenza o cattivo funzionamento dei mercati e dell’azione pubblica.
La figura dell’agricoltore presenta, accanto a tratti comuni consolidatisi nei tempi lunghi, importanti elementi di novità. Oggi come ieri egli organizza la produzione e le attività connesse, e decide cosa e come produrre. Ma oggi più di ieri lo fa in ragione di un complesso di elementi determinati al di fuori del suo ambito di azione e competenza, in realtà stabiliti ampiamente all’esterno della stessa agricoltura. Anche nei Paesi meno avanzati prende le proprie decisioni in ragione delle condizioni del mercato e dell’azione pubblica ma lo fa sempre meno in ambito individuale e sempre più all’interno di una rete istituzionale e industriale d’importanza determinante per il risultato economico (Gibbon, Ponte 2005).
L’eterogeneità possiede molteplici dimensioni: sistemi produttivi (intensivi-estensivi, irrigui-asciutti), forme di conduzione (familiare-imprenditoriale), tipi di agricoltori (contadini-capitalisti), capacità di accumulazione e di crescita, accesso ai mercati e partecipazione agli scambi, flussi netti di risorse tra settori. Combinazioni fra tutti questi elementi definiscono due tipi di agricoltura, una contadina-familiare e una imprenditoriale-capitalistica, differenti per obiettivi, strutture e comportamenti. Tra le due un tratto distintivo di particolare significato è la dimensione delle unità produttive, tendenzialmente piccola nelle prime e grande nelle seconde. I due tipi di agricoltura continuano ovunque a coesistere e a interagire tra complementarità e rivalità con alterne vicende.
Il carattere familiare e le modeste dimensioni determinano specificità di comportamento, di obiettivi e di scelte tecniche. Le difficoltà inerenti alla piccola dimensione riguardano i costi di produzione e la limitata capacità di accumulazione. Nei contesti più arretrati esse si fanno particolarmente gravi per le inadeguate condizioni delle vie di comunicazione e di accesso ai mercati. I progressi di questi ultimi anni nel campo delle comunicazioni hanno portato anche in Paesi e regioni più appartate benefici appena pochi anni fa impensabili. Progressi di questa natura si traducono in maggiore e migliore accesso ai mercati, anche d’esportazione, prima inaccessibili. Si aprono nuove possibilità produttive per beni a più alto valore unitario che consentono di coprire i più alti costi della commercializzazione a distanza e meglio contribuiscono alla formazione di reddito familiare, anche in presenza di risorse naturali scarse. Il crescente interesse dei consumatori per la qualità e la sicurezza degli alimenti offre nuove opportunità che solo l’agricoltura familiare può cogliere nel contesto di un confacente assetto istituzionale, in assenza del quale esse rimangono frustrate da nuove difficoltà e oneri in materia di rispetto e certificazione dei più elevati standard di qualità. In molti Paesi e regioni meno avanzate buona parte dell’agricoltura familiare continua a conservare i caratteri di una sussistenza ripiegata su risorse e opportunità locali povere e, all’estremo, in condizioni di profondo degrado.
Su un piano generale le trasformazioni indotte dallo sviluppo economico offrono nuove opportunità, ma pongono anche sotto nuovo stress gli agricoltori, piccoli e meno piccoli, dal lato dei costi e dei ricavi. La necessità e la possibilità di ridurre i costi sono il più delle volte legate a un ampliamento delle dimensioni aziendali non sempre possibile e l’esito ultimo è non di rado l’uscita di scena. Ad aumentare la pressione sugli agricoltori è poi intervenuta la crescente domanda da parte dei cittadini e dei consumatori per un ambiente più sano e più pulito, per pratiche di allevamento più rispettose degli animali e per una maggiore sicurezza circa la qualità degli alimenti e dei processi con i quali essi sono prodotti. Tali pressioni hanno anche aperto nuove possibilità di successo in campi ancora ristretti e di nicchia, quali quelli dell’agricoltura detta, un po’ impropriamente, organica o biologica, come se l’agricoltura non fosse tutta intrinsecamente tale, ma intendendo così sottolineare il limitato ricorso a fertilizzanti e antiparassitari di origine industriale ad alto potenziale contaminante.
Un ridotto ricorso a fattori produttivi di origine esterna consente di recuperare e trattenere all’interno dell’azienda una parte maggiore del valore finale del prodotto e quindi di migliorare il rapporto tra ricavi e costi. Nella stessa direzione opera la possibilità di arrivare più direttamente al consumatore finale, accorciando la catena distributiva e così abbassando i costi di trasporto e migliorando la qualità del prodotto. L’interesse per questo tipo di evoluzione è rafforzato dalla preoccupazione circa la sostenibilità ambientale del modello di agricoltura intensiva oggi prevalente. Nella stessa direzione va il crescente interesse per pratiche agronomiche più direttamente orientate alla difesa dell’ambiente e alla qualità dei prodotti, che possano risultare economicamente compatibili se accompagnate da politiche che riconoscano adeguatamente il valore dei beni pubblici alla cui produzione l’agricoltura può contribuire. Si tratta di tendenze a diffusione ancora limitata, ma che potrebbero diventare ben più ampie in un futuro prossimo. La pressione che le forze del mercato esercitano sugli agricoltori è ridotta in varia misura dalla loro capacità di chiedere e ottenere un’azione pubblica compensativa attraverso politiche di sostegno, soprattutto dal lato dei ricavi e dei prezzi dei prodotti, ma anche di sussidi ottenuti per specifici fattori, come i carburanti per uso agricolo. La capacità di tenuta di queste politiche si è però andata progressivamente erodendo sotto la spinta delle forti pressioni in ambito internazionale per la riduzione delle misure più distorsive del commercio e, prima ancora, a causa della eccessiva onerosità finanziaria del sostegno: caso emblematico è quello rappresentato dall’Unione Europea.
Tra la fine del 20° e l’inizio del 21° sec. la produzione agricola mondiale è cresciuta a un tasso medio annuo del 2%, contro un tasso di crescita della popolazione dell’1,6% e quindi con un tasso medio pro capite positivo dello 0,4%. La crescita della produzione, piattamente modesta nei Paesi avanzati, è stata molto più sostenuta e diversificata in quelli in via di sviluppo, con i tassi più alti in Asia, Cina in testa, e i più bassi nell’Africa subsahariana. Divari molto marcati per Paesi e regioni si spiegano in buona parte, per le produzioni vegetali, con la differente incidenza degli ordinamenti irrigui, fino a un rapporto di 10 a 1, e di nuovi pacchetti tecnologici con materiale genetico migliorato e uso intensivo di fertilizzanti e antiparassitari chimici. Analoghe differenze hanno operato negli allevamenti, in termini di materiale genetico migliorato, nuove formule mangimistiche e organizzative su grande scala. Le differenze in termini pro capite sono ancora più marcate e di maggior significato in termini di benessere delle popolazioni interessate, come indicato, per es. in Cina, Malaysia e Vietnam, dalla correlazione tra crescita del valore aggiunto agricolo e riduzione della povertà (World bank 2007).
Per l’Africa subsahariana la modestia del dato medio riflette andamenti poco favorevoli nel complesso, ma anche molto diversificati, comprendendo in non pochi casi valori a lungo negativi per il combinarsi di più fattori avversi, ivi compresi conflitti bellici e guerre civili. In molti casi hanno inciso negativamente gravi inadeguatezze nell’assetto istituzionale, nella dotazione di infrastrutture e nel funzionamento dei mercati. Le differenze oltre che tra Paesi si ritrovano anche tra regioni e zone all’interno di un medesimo Paese, correlate alla dotazione di risorse naturali, infrastrutture e accesso ai mercati.
Nei Paesi dove i progressi sono maggiori si osserva anche un peso crescente di produzioni a più alto valore unitario, carne e lattiero-caseari, oli vegetali, frutta e ortaggi, in linea con l’evoluzione dei modelli di consumo al crescere dei redditi familiari. In non pochi casi la diversificazione si estende alle esportazioni, anche verso i mercati più ricchi dei Paesi avanzati, dove però s’impongono standard di qualità che per essere soddisfatti rimandano a moderni sistemi integrati di commercializzazione e distribuzione purtroppo non alla portata di tutti.
L’intensificazione dei processi produttivi ha il merito di aumentare le disponibilità di alimenti, ma porta con sé anche inconvenienti, di varia gravità a seconda dei contesti, contribuendo non di rado al degrado e alla contaminazione ambientale e, nel caso di allevamenti concentrati in zone periurbane densamente popolate, all’insorgere di gravi malattie infettive a carattere epidemico quali l’influenza aviaria. Su un piano più generale contribuisce a mettere sotto stress le risorse naturali, entrando in stretta competizione con il settore urbano industriale per l’uso di terra e acqua. Dell’acqua in particolare viene fatto non di rado un uso ecologicamente ed economicamente insostenibile, anche a causa di politiche d’incentivi mal concepite, compromettendo così non solo gli equilibri presenti ma anche gli interessi delle generazioni future.
Poiché in agricoltura tutte le coltivazioni, a parte quelle idroponiche, si svolgono sul terreno, la produzione è abitualmente rapportata a due fattori complementari: superficie coltivata (ettari) e rese unitarie (quantità per ettaro). Inoltre, poiché ogni coltura ha sue specifiche esigenze idriche, la capacità produttiva dei terreni dipende dalla disponibilità di acqua. A seconda che tali disponibilità siano date solo dalle piogge o anche da somministrazioni controllate (irrigazione), si hanno sistemi agricoli asciutti o irrigui, i secondi con rese molto più alte e più affidabili. La variazione nel tempo della produzione agricola totale è quindi riconducibile a pochi fattori principali: ettari coltivati e rese per ettaro, in asciutto e in irriguo. Dati gli ormai ridotti margini di espansione della frontiera agricola, la crescita della produzione è dovuta in massima parte al passaggio da asciutto a irriguo e all’aumento delle rese unitarie conseguente a migliori pratiche agronomiche e a più frequente ricorso a fertilizzanti e antiparassitari di origine industriale.
Le maggiori rese unitarie sono ottenute con l’adozione di nuovi e più vantaggiosi pacchetti tecnologici, di vario impegno organizzativo e finanziario e non alla portata di tutti. Le difficoltà sono di particolare rilievo per i contadini poveri e per la piccola agricoltura familiare. Innanzitutto perché non sempre hanno, per storia e cultura, adeguata propensione al rischio insito nel cambiamento. Poi perché il cambiamento può esigere l’acquisizione di nuove abilità tecniche di varia difficoltà. Infine perché, dovendo pagare di più per l’acquisto di fattori esterni, essi hanno l’esigenza di vendere di più del loro prodotto e quindi andare di più e meglio al mercato. Perciò stesso con frequenza si trovano a dover fare maggiori anticipazioni di spesa rispetto ai ricavi attesi alla maturazione del raccolto e, dati i modesti margini di finanziamento interno, a indebitarsi su un mercato del credito di difficile e oneroso accesso. Il cattivo funzionamento, quando non l’assenza, di un mercato del credito contribuisce pesantemente ad alimentare il circolo vizioso di una povertà che porta non di rado fino all’esito estremo dell’abbandono dell’attività agricola e all’emigrazione verso la città.
Le innovazioni tecniche vengono in risposta alle mutate scarsità relative dei fattori. Lo sviluppo economico comporta massicci spostamenti di popolazione e di forza lavoro dalla campagna alla città e alla conseguente scarsità di braccia in agricoltura si fa fronte con mezzi di origine industriale, macchine per la preparazione del terreno, semina e raccolta, concimi e antiparassitari per aumentare la fertilità e ridurre le perdite. Analoghe possibilità si sono sviluppate nel settore degli allevamenti. La sostituzione della macchina al lavoro umano e animale dipende dalla pendenza dei terreni e dalle dimensioni aziendali. Per ciò essa procede rapidamente in Paesi con ampia disponibilità di terra (Stati Uniti, Canada, Brasile e Argentina) e più lentamente in quelli con disponibilità di terra limitate, come in buona parte dell’Europa e dell’Asia, dell’Africa e dell’America andina. Dove la pendenza e la povertà dei suoli sono maggiori e non c’è azione pubblica che compensi per gli svantaggi e la minore redditività, le attività agricole tendono a scomparire. Nel complicato processo che porta alla produzione di innovazioni la capacità degli agricoltori di esprimere i propri bisogni ha acquistato un peso crescente. Ma non dappertutto e non tutti gli agricoltori possono esprimersi. In assenza di adeguati sistemi di comunicazione tale capacità viene a mancare, come anche quella di accorgersi delle nuove opportunità. In tal senso le innovazioni tecniche, per prendere corpo e per diffondersi, devono essere accompagnate da innovazioni istituzionali, che migliorino la comunicazione, l’accesso al mercato e l’azione di gruppo.
I cambiamenti sopra indicati procedono a velocità differenziata e con effetti selettivi perché le innovazioni tecniche sono solo in parte adottabili da grandi e piccoli, restando questi ultimi spesso al margine, o per il carattere specifico dell’innovazione o per l’impossibilità di questa di operare su dimensioni minime sufficienti ad assicurare adeguati rendimenti sull’investimento. Soprattutto nelle aree più svantaggiate di molti Paesi in via di sviluppo, i contadini e gli agricoltori di sussistenza incontrano gravi difficoltà a finanziare le trasformazioni necessarie a catturare gli incrementi di produttività, quando non addirittura il ciclo produttivo corrente pur senza mutamenti.
La rivoluzione verde ha contribuito molto, e da tempo, al progresso della piccola agricoltura, principalmente in aree irrigue o comunque con disponibilità idriche generose, ma molto meno nelle zone aride e semiaride. La bassa fertilità dei terreni e l’assenza di sistemi efficaci di gestione delle acque limitano fortemente la possibilità di catturare i benefici derivanti dall’adozione di varietà migliorate e perciò acquistano maggiore significato i risultati raggiunti negli anni più recenti in comprensori poveri e con limitate risorse idriche, per produzioni di particolare interesse per i piccoli produttori, quali riso, fagioli, mais e cassava (FAO 2004). Non di rado a ciò ha contribuito in maniera significativa la partecipazione, inedita in precedenza, dei produttori nell’intero processo di identificazione e messa a punto del materiale genetico migliorato (World bank 2007). La diffusione di nuove varietà più vantaggiose nel senso sopra illustrato comporta una tendenziale uniformità genetica non priva di inconvenienti. Uno di particolare significato per il piccolo produttore è la maggiore vulnerabilità ad andamenti stagionali avversi. Molto spesso il venir meno della diversificazione, una sorta di assicurazione implicita per l’agricoltura tradizionale, non è accompagnato da forme esplicite di assicurazione.
Progressi analoghi a quelli sopra illustrati per le produzioni vegetali si sono avuti anche nel campo degli allevamenti, soprattutto per pollame e suini. Le maggiori dimensioni e la minore dipendenza dei processi produttivi dalle particolari condizioni locali, e la maggiore trasferibilità tecnica e organizzativa delle innovazioni, di materiale genetico e di formule mangimistiche, messe a punto nei Paesi più avanzati, hanno assicurato in questo caso un ruolo prevalente al settore privato. Non è mancato il contributo della ricerca nel settore pubblico, in particolare nella messa a punto di incroci bovini per la produzione di latte nei tropici e di specie ittiche geneticamente migliorate (tilapia), specie in Asia. A confronto con le produzioni vegetali queste innovazioni restano più concentrate e di più difficile accesso per i piccoli produttori.
Le biotecnologie di prima generazione, relativamente a buon mercato, hanno trovato facile applicazione anche nei Paesi meno avanzati. Quelle di seconda generazione, molto più esigenti nella produzione e nell’uso, hanno una diffusione sensibilmente più ridotta. Rispetto alle prime esse offrono possibilità ben maggiori di disporre di materiale genetico con le caratteristiche desiderate, di produttività, resistenza a parassiti e patogeni, e contenuto in nutrienti di particolare significato (FAO 2004). Attraverso tecniche a livello molecolare molto sofisticate, esse consentono di produrre OGM (Organismi Geneticamente Modificati) che, combinando in uno stesso organismo caratteristiche desiderabili proprie di differenti organismi, offrono agli agricoltori nuove possibilità di migliorare i margini tra ricavi e costi. L’alto contenuto di conoscenza richiesto e l’onerosità e rischiosità del processo di messa a punto tengono al momento concentrata la produzione nei Paesi più avanzati. Quanto invece all’utilizzo, gli OGM vegetali si sono ormai diffusi, tra alterne vicende, oltre che nei Paesi di origine, Stati Uniti in testa, anche in alcuni Paesi in via di sviluppo, in particolare Argentina e Brasile, ma anche Cina e India.
La messa a punto di OGM comporta ingenti investimenti e alti rischi circa il valore economico dei risultati ed è dominio prevalente del settore privato che, operando con una logica strettamente commerciale, non deve farsi carico delle esigenze degli agricoltori più poveri. Gli OGM riguardano al momento un insieme ristretto di prodotti, mais e soia in testa, di prevalente interesse per l’agricoltura imprenditoriale. Un OGM di particolare interesse anche per i piccoli produttori sembra essere una varietà di cotone trans-genico con particolare resistenza a patogeni grazie al Bacillus turingensis (Bt cotton), che ha trovato ampia diffusione in Cina e in India. Il cosiddetto riso d’oro (golden rice), che in una versione del 2005 ha un’elevata capacità di sintetizzare il beta-carotene, sarebbe di particolare interesse per estese popolazioni, soprattutto in Asia, che hanno il riso al centro della propria dieta e sono a rischio cronico di carenza di vitamina A. Ciononostante la sua adozione è stata finora bloccata dalla diffusa ostilità all’uso degli OGM per l’alimentazione umana. Gli investimenti pubblici in ricerca e sviluppo restano focalizzati principalmente su approcci agroecologici intesi a potenziare la sostenibilità complessiva dei sistemi agricoli più fragili. Tra le novità di maggiore interesse, ci sono pratiche agronomiche che minimizzano le lavorazioni dei terreni (conservation tillage) e hanno già buona diffusione in alcuni Paesi (Argentina, Brasile). Nella stessa prospettiva si colloca anche il ritorno d’attenzione per più accorte rotazioni, con presenza di coltivazioni migliorate in grado di contribuire a una gestione naturale della fertilità del suolo, come le leguminose che fissano l’azoto atmosferico (World bank 2007).
Nei Paesi in via di sviluppo i consumi alimentari conservano ancora una prevalente dimensione quantitativa: cresce il numero di consumatori e la quantità pro capite consumata. L’aumento della popolazione, concentrato nei Paesi a più basso reddito, si traduce inevitabilmente in un aumento della domanda di alimenti, anche in assenza di sviluppo. Mentre in presenza di esso crescono anche i redditi familiari e, in buona proporzione dati i bassi livelli di partenza, le quantità domandate, anche nella loro componente agricola primaria. In assenza di sviluppo crescono sì i bisogni alimentari ma non la capacità di soddisfarli e la maggiore domanda di alimenti resta latente. I progressi di questi anni sono concentrati in una ristretta rosa di Paesi, ivi compresi peraltro alcuni tra i più popolosi (Brasile, Cina, India, Indonesia), lasciandone al margine un numero ben maggiore. Ancora una volta progressi molto limitati o nulli si sono avuti nell’Africa a sud del Sahara (FAO 2006).
Nei Paesi più avanzati i consumi alimentari e, soprattutto, la componente primaria al loro interno, sono meno sensibili agli incrementi di reddito. Eppure l’agricoltura, pur perdendo peso relativo nelle quantità, riceve attenzione crescente per quanto riguarda qualità, affidabilità e tracciabilità: che l’alimento sia sano, non contenga sostanze tossiche, se ne conosca la provenienza. Per ultimo, ma con incidenza ancora molto limitata, che la sua produzione non comporti sfruttamento umano, soprattutto di minori, o, nel caso degli allevamenti, sofferenza eccessiva per gli animali.
Correlata alla tracciabilità delle origini come chiave di verifica della qualità e affidabilità, è cresciuta l’attenzione per le indicazioni d’origine e per i particolari caratteri delle zone di produzione, ben al di là degli aspetti strettamente nutritivi. A simili attributi si associano prezzi più alti che il consumatore è disposto a pagare se garantito da adeguata certificazione. Nell’insieme tutto ciò comporta costi più alti nelle varie fasi della produzione e distribuzione, ma anche nella certificazione. L’intero processo va di pari passo con l’evoluzione dei redditi e può non toccare, o toccare solo marginalmente, i consumatori meno abbienti. L’onerosità insita nell’assicurare e certificare più alti standard qualitativi costituisce comunque una barriera all’espansione di questo tipo di produzione e consumo, non solo all’interno di un Paese, ma anche nel commercio internazionale (Global agricultural trade, 2005). Le difficoltà di molti Paesi meno avanzati ad assicurare e certificare gli standard qualitativi e igienico-sanitari richiesti per poter accedere ai mercati ricchi dei Paesi più avanzati portano anche ad accuse ricorrenti di protezionismo mascherato.
In termini di prodotti i cereali continuano a essere la base principale dei consumi alimentari, direttamente o attraverso il ciclo degli allevamenti, soprattutto nei Paesi in via di sviluppo. Molti di essi sembrano destinati ad accentuare il loro grado di dipendenza dalle importazioni, con provenienza da un numero ristretto di Paesi esportatori, ivi compresi alcuni, come gli Stati Uniti, tra i più avanzati. Altri consumi globalmente in rapida crescita riguardano le carni, soprattutto il pollame, e i semi oleosi. In entrambi i casi lo scenario è dominato da un ristretto numero di grandi protagonisti, ma potrebbe registrare nei prossimi anni variazioni significative, anche con inversione di posizioni nette, da importatore a esportatore. Altri prodotti di minore risonanza internazionale continuano ad avere una notevole importanza a livello locale. Si tratta principalmente del grosso aggregato che va sotto il nome di radici e tubercoli e che comprende la patata dolce, la manioca e un buon numero di altre piante meno note. Su questo fronte le prospettive di consumo sono limitate dai modesti progressi nella produzione, a loro volta determinati dalla minore attenzione che queste coltivazioni ricevono da parte della ricerca e della sperimentazione, sia privata sia pubblica, nonostante le particolari virtù, agronomiche e nutritive, che alcune di queste piante posseggono (FAO 2008).
A livello globale gli anni a cavallo di secolo registrano una preoccupazione crescente in materia di sicurezza alimentare nella sua duplice dimensione, quantitativa e qualitativa. Pur essendo correlate, le due differiscono significativamente per i contenuti, l’importanza in relazione al livello di sviluppo e il benessere della popolazione, le implicazioni politiche. Il fatto che in italiano ci si riferisca a entrambe con lo stesso termine di sicurezza alimentare è fonte di un’incomoda confusione assente in inglese, che distingue nitidamente in food security e food safety le due dimensioni di quantità e qualità, la prima prevalente nei Paesi in via di sviluppo e la seconda in quelli più avanzati. Non del tutto accuratamente food safety viene talvolta reso in italiano con salubrità alimentare.
Stando alla definizione della FAO a livello globale e dei singoli Paesi c’è sicurezza alimentare come food security se tutti hanno la possibilità di accedere a una quantità di cibo sano nutriente e sufficiente a soddisfare le proprie necessità nutrizionali e le loro preferenze alimentari per poter condurre una vita sana e attiva (FAO 2001). In tal senso security comprende anche e in ampia misura safety, anche se poi quest’ultima, in un dibattito in massima parte orientato ai problemi dei Paesi in via di sviluppo, riceve un’attenzione molto minore per le maggiori difficoltà di accesso dovute al basso reddito. In ogni caso i progressi fatti sono molto modesti. Nel 2006 la FAO, avendo stimato che agli inizi del decennio ci fossero in totale 854 milioni di persone sottonutrite, di cui 820 milioni nei Paesi in via di sviluppo, 25 milioni in Paesi in transizione e 9 milioni nei Paesi industrializzati, dichiarava apertamente che rispetto agli obiettivi e impegni del World food summit del 1996, ribaditi poi nel 2002 (World food summit: five years later), di voler dimezzare il numero complessivo entro il 2015, i progressi fatti sono stati estremamente modesti, con un peggioramento nel 2001-2003 (+23 milioni) che cancellava in buona parte i progressi (−26 milioni) dell’intero decennio precedente (FAO 2006).
Gli eventi più recenti non hanno certo migliorato il quadro. Come indicato dalla FAO nella Conferenza sulla sfida posta alla sicurezza alimentare dai cambiamenti climatici e dalla produzione di bioenergia (FAO 2008), la recente impennata nei prezzi delle principali derrate ha già prodotto ulteriore grave disagio e preoc;cupazione. E il carattere strutturale dei nuovi fattori all’opera aggrava le prospettive di lungo periodo.
Buona parte dell’agricoltura, soprattutto nei Paesi avanzati, ma sempre più anche in quelli in via di sviluppo, fa oggi uso intensivo di energia non rinnovabile, direttamente per fare andare macchine e impianti, e indirettamente per la produzione di fertilizzanti e antiparassitari. Di conseguenza gli aumenti nei prezzi del petrolio incidono, e significativamente, sul costo dei prodotti agricoli. Su questo fronte la novità di questi anni è solo relativa e rimanda alla particolare entità della recente impennata nei prezzi del petrolio. Un maggiore carattere di novità riveste invece il fatto che la stessa impennata nei prezzi del petrolio abbia indotto un interesse crescente per la produzione di carburante a partire da fonti rinnovabili, in particolare agricole.
La possibilità tecnica non è nuova, e almeno in un Paese, il Brasile, la produzione industriale di biocarburante, nella fattispecie etanolo a partire dalla canna da zucchero, ha già vari decenni alle spalle. La produzione si è ora estesa ad altri Paesi e coltivazioni e compete, più o meno direttamente, con quella di alimenti per l’utilizzo delle risorse, terra in particolare. Essa resta peraltro molto concentrata, per Paesi e per coltivazioni. Nel 2005 il Brasile e gli Stati Uniti producevano il 90% dell’etanolo, mentre Francia e Germania da sole producevano il 70% di biodiesel. Alla produzione di etanolo va circa la metà della canna da zucchero in Brasile e un quinto del mais negli Stati Uniti (World bank 2007). Di fronte alla persistente tendenza al rialzo nei prezzi dei combustibili fossili la lista dei produttori si va allungando.
La crescita della produzione di biocarburanti è frenata da due fattori in particolare: la scarsità di risorse naturali, per il cui utilizzo si fa stringente la competizione con la produzione di alimenti, e l’onerosità dei sussidi pubblici, già significativa in termini unitari ma che potrebbe esplodere in termini globali al crescere della produzione. Dove più dove meno, la produzione di biocarburante è sussidiata, soprattutto con sgravi fiscali e agevolazioni creditizie, alla produzione e al consumo. Senza aiuti la sua prospettiva di crescita dipenderebbe principalmente dall’evoluzione dei prezzi del petrolio, da un lato, e dei prodotti agricoli nei loro usi alternativi, soprattutto come mangimi, dall’altro. La convenienza e la sostenibilità della produzione di biocarburanti è dunque controversa e tale sembra destinata a rimanere per il futuro prevedibile (Rosegrant 2008).
La concorrenza con la produzione di alimenti è già oggi evidente: per un pieno di 100 l di etanolo occorrono 240 kg di mais, la stessa quantità sufficiente ad alimentare una persona per un anno (World bank 2007). Secondo alcune valutazioni la recente impennata nei prezzi dei cereali sarebbe dovuta per circa un terzo, direttamente o indirettamente, all’espansione della produzione di biocarburanti. Essa potrebbe peraltro ridursi in futuro se ci fosse uno spostamento su altre coltivazioni e sull’uso di residui e scarti di altri processi produttivi. La novità di questi anni è che, riducendosi il divario tra i costi unitari dell’energia di origine fossile e agricola, la produzione di biocarburanti si sta espandendo grazie a generosi sussidi pubblici. Gli sviluppi futuri dipenderanno dall’evoluzione dei prezzi dei combustibili fossili, da un lato, e degli alimenti, dall’altro, e dalla disponibilità a colmare il divario tramite sussidi (Schmidhuber 2008).
Le attività agricole contribuiscono da sempre, in bene e in male, a determinare le condizioni ambientali, segnando più o meno fortemente il paesaggio rurale. Ma tanto i danni quanto i benefici ambientali, non passando per il mercato, sono rimasti a lungo al margine delle valutazioni economiche prevalenti. La novità di questi anni è che, iniziando già da tempo dai Paesi più ricchi, è cresciuta l’interazione tra agricoltura e ambiente e ancor più l’attenzione che essa riceve. Tale attenzione va di pari passo con lo sviluppo economico, anche e specificamente per quanto riguarda l’azione pubblica, che proprio per il carattere pubblico dei beni e servizi in questione, è parte direttamente in causa ai più vari livelli, dal locale al globale.
L’intensificazione dell’agricoltura indotta dalla rivoluzione verde ha tra gli altri il merito di aver rallentato l’espansione della frontiera agricola, contribuendo così a preservare foreste e biodiversità. Essa ha d’altra parte portato con sé uso e abuso di prodotti chimici che hanno contribuito a contaminare falde acquifere, avvelenare persone e compromettere ecosistemi e, concentrandosi su poche coltivazioni, non di rado fino alla monocultura, a ridurre la biodiversità. Un uso eccessivo o mal calibrato dell’irrigazione ha contribuito spesso ad aggravare la scarsità di acqua, l’impoverimento e la contaminazione delle falde e il degrado dei suoli. Analogamente gli allevamenti intensivi, soprattutto se concentrati, come in Asia, attorno a grandi aree urbane in rapida espansione, hanno contribuito all’ulteriore peggioramento di condizioni igienico-sanitarie già precarie e all’insorgere di epidemie come l’influenza aviaria, con grave danno economico e alto rischio anche per la salute umana.
Nelle aree non toccate dalla rivoluzione verde l’agricoltura, dove si è espansa (America Latina, Africa occidentale e Sud-Est asiatico), lo ha fatto a scapito di foreste, boschi e pascoli, spesso aggravando le fragilità iniziali di quegli ecosistemi, anche fino all’esito estremo della desertificazione. Gli effetti avversi sono particolarmente gravi su terreni in forte pendenza e in zone aride. L’attività agricola non è di per sé portatrice di degrado, ma lo diventa quando la pressione demografica su risorse insufficienti e l’assenza di alternative spingono popolazioni povere a pratiche predatorie. L’interazione tra agricoltura e ambiente, tanto per i danni che può produrre quanto per i benefici che può apportare, copre un ventaglio molto ampio di beni e servizi. Per molti di essi le specificità locali e di contesto sono di gran peso, per altri la natura stessa dei beni e servizi in questione rimanda a una dimensione globale.
Sul piano delle politiche, riconoscendo agli agricoltori la capacità di offrire servizi ambientali che non passano per il mercato, si pone l’esigenza che la società nel suo complesso remuneri gli agricoltori per i servizi che essi già forniscono o si vorrebbe fornissero (FAO 2007). Sebbene contribuiscano a catturare anidride carbonica, mantenere biodiversità, conservare la fertilità dei suoli, regolare le acque, migliorare il paesaggio, gli agricoltori ricevono alla meglio un compenso molto limitato nei Paesi più avanzati, e nessun compenso in molti più casi. Nello stesso tempo essi non pagano, di norma, per gli effetti negativi che le loro attività possono avere su quegli stessi fronti. Le nuove possibilità che il progresso tecnico offre di limitare gli effetti negativi e potenziare quelli positivi restano spesso bloccate da politiche di segno avverso, ma anche da difetti di formazione e informazione che per essere rimossi richiederebbero un’azione pubblica a ciò specificamente mirata.
L’ambito più globale dell’interazione tra agricoltura e ambiente è quello del cambiamento climatico. I suoi effetti sull’agricoltura sono al momento difficili da valutare e molto differenziati, ancora trascurabili in molte aree, ma già devastanti in altre. La loro misurazione è resa difficile dai tempi lunghi e dalle complesse interconnessioni che li caratterizzano. Se c’è ormai ampio consenso sulla loro rilevanza, le valutazioni sulla loro portata, spaziale e temporale, restano diversificate. I cambiamenti di maggior rilievo riguardano i regimi termici e pluviometrici, il ciclo dell’anidride carbonica e l’aumentata variabilità nelle condizioni climatiche. Ognuno di essi può produrre effetti anche molto differenziati a seconda del livello al quale opera. Entro certi limiti effetti di segno opposto in differenti regioni tendono a elidersi, con un esito complessivo nullo o molto moderato. Ma superate certe soglie, in particolare per il riscaldamento globale, gli effetti avversi tendono a essere generali, con un esito più marcato. Considerazioni analoghe valgono per gli altri fattori, con ampie zone già oggi esposte a serio pericolo di inondazioni oppure ad accentuata siccità, o con gravi e imprevedibili alterazioni nel ciclo stagionale delle precipitazioni.
L’agricoltura, da un lato, subisce le alterazioni ambientali, da un altro, soprattutto attraverso il ciclo zootecnico, contribuisce a determinarle. Sul totale di coltivazioni e allevamenti questi ultimi, assieme alle aree coltivate a essi destinate, contribuiscono già oggi per oltre la metà alla complessiva emissione di gas serra. La loro recente espansione nei Paesi in più rapida crescita suggerisce che tale negativo contributo sia ulteriormente destinato a crescere nei prossimi anni. L’agricoltura può contribuire a contenere il cambiamento climatico, o almeno a contrastarne gli effetti avversi, attraverso migliori pratiche agronomiche e zootecniche e una più affinata gestione delle risorse. Su entrambi i fronti, delle coltivazioni e degli allevamenti, esistono oggi promettenti innovazioni nelle pratiche agronomiche, alcune di queste, come la non lavorazione del terreno o lavorazione zero (zero till-age), già estesamente adottate in alcuni Paesi.
Gli anni di questo inizio di secolo confermano la tendenza a un’espansione a macchia d’olio dei mercati in agricoltura. Già da tempo realtà consolidata nei Paesi avanzati, tale espansione costituisce ancora una novità in buona parte del mondo in via di sviluppo, dove molte aree continuano a essere poco e male collegate. In molti Paesi e regioni l’assenza o l’inadeguatezza di sistemi di trasporto e comunicazione rendono troppo caro l’accesso ai mercati. Restano così precluse agli agricoltori nuove possibilità di reddito, di consumo e di accumulazione, in beni materiali e immateriali e in capitale umano. In molti casi l’assenza del mercato è poco e male mitigata dalla presenza dello Stato, inadeguata anche in attività di più specifico ambito pubblico, come la scuola e la sanità. Le assenze sui due fronti si rafforzano reciprocamente, portando alla marginalizzazione di estesi comprensori dai quali chi può si allontana per cercare altrove le opportunità offerte dal mercato, dove questo c’è. Processi di questa natura non sono affatto una novità, ma si presentano oggi su scala particolarmente estesa e con una visibilità esaltata dai flussi migratori, come accade, per es., in Cina tra le province interne e quelle della costa, in Africa e sulle due sponde del Mediterraneo, nelle Americhe, all’interno (Brasile) e tra Paesi (Messico e Stati Uniti).
Sul piano internazionale le difficoltà di accesso ai mercati assumono connotazioni particolari anche per via delle politiche protezionistiche dei Paesi avanzati. Da molto tempo, e ancora oggi nonostante progressi recenti, tali politiche incidono fortemente sui flussi commerciali, in particolare tra Paesi avanzati e in via di sviluppo e lo fanno in maniera differenziata per prodotti e per nazioni. Molti Paesi in via di sviluppo con buon potenziale per esportare prodotti a più alto valore unitario, quali frutta e ortaggi, incontrano gravi difficoltà a soddisfare gli elevati standard di qualità e di certificazione posti dai Paesi più avanzati.
Il commercio internazionale di prodotti agricoli ha continuato comunque a espandersi in modo sostenuto negli anni tra la fine del 20° e l’inizio del 21° sec., soprattutto per quanto riguarda i prodotti trasformati e i Paesi più avanzati. I Paesi in via di sviluppo hanno anch’essi registrato un consistente aumento dei flussi, soprattutto per quanto riguarda i principali prodotti destinati a successive trasformazioni: mais, soia e oleaginose. Le esportazioni sono cresciute in un numero ristretto di Paesi, Argentina e Brasile in particolare, mentre le importazioni hanno interessato un insieme molto ampio e variegato, con incrementi spettacolari in Cina, soprattutto per quanto riguarda le oleaginose e i derivati (OECD, Organisation for Economic Co-operation and Development-FAO 2007).
All’inizio del decennio l’espansione dei volumi si accompagnava ancora alla persistente tendenza al ribasso delle quotazioni per tutte le principali derrate, cereali e soprattutto riso, ma anche prodotti d’esportazione di particolare interesse per molti Paesi in via di sviluppo, quali caffè e cotone. Gli anni più recenti hanno, invece, registrato un’inversione di tendenza, poi sfociata in una vera e propria impennata nei prezzi di riso, mais, grano, carne, soia, prodotti lattiero-caseari e altri ancora. Le ragioni di fondo di tali aumenti risiedono nella diseguale crescita di produzioni e consumi alimentari, oltre, naturalmente, nell’aprirsi del nuovo fronte della produzione di biocarburanti. I prezzi di tutte le principali commodities agricole sono aumentati bruscamente nel 2006 e nel 2007 e ancor di più nel primo trimestre del 2008. Il tasso di crescita annuale, che si era mantenuto poco al di sopra dell’1% nei primi anni del decennio, a partire dal 2006 è balzato al 15%. Sono aumenti molto marcati, che hanno suscitato allarme a tutti i livelli e trovato ampia eco internazionale (FAO 2008).
In un mercato competitivo il prezzo indica la scarsità di un bene, e un prezzo in aumento dice che quel bene sta diventando più raro. L’aumento può essere più o meno duraturo e per i prodotti agricoli oscillazioni di breve periodo, anche marcate, sono la norma per singoli Paesi e regioni. In ambito mondiale oscillazioni di segno opposto in differenti regioni tendono a compensarsi contribuendo così a una maggiore stabilità globale. Rialzi marcati a livello globale sono perciò motivo di particolare preoccupazione, perché è più difficile contenerne gli effetti avversi già nell’immediato e ancor più per il futuro, perché possono avere carattere strutturale e durare a lungo nel tempo. Su una tendenza al ribasso di lungo periodo si sono già registrati in passato aumenti gravi e generalizzati, il più grave nei primi anni Settanta del secolo scorso, ma di breve durata come i motivi che ne erano alla base.
Le cause della recente impennata sono molte e complesse. Oggi come allora, alcune sono di natura contingente: condizioni climatiche avverse su aree particolarmente estese, riduzione degli stock anche in risposta a misure di politica agraria. Nuova, oltre alla produzione di biocarburante, è, almeno per dimensioni, la possibilità di bolle speculative sui futures (OECD 2008). Altre ancora sono di differente natura e potrebbero continuare a operare anche negli anni a venire, dal lato della domanda e dell’offerta.
Dal lato della domanda, le vicende dei Paesi più avanzati hanno effetti limitati sui mercati agricoli primari. In questi Paesi gli alti livelli di consumo pro capite ormai raggiunti e la molto limitata crescita demografica fanno sì che, per quanto possa ancora crescere la spesa alimentare delle famiglie, questa riguardi soprattutto le componenti a valle delle aziende agrarie, l’industria alimentare e la distribuzione. Pertanto le vicende che più o meno direttamente incidono sui mercati agricoli primari interessano principalmente i Paesi in via di sviluppo. In Asia, Cina e India in particolare, una crescita economica molto sostenuta e una marcata accelerazione delle migrazioni dalla campagna alla città hanno contribuito ad aumenti generalizzati sui mercati urbani degli alimenti. Dal lato dell’offerta il fattore di carattere più generale sembra risalire, peraltro ben indietro nel tempo, a gravi inadeguatezze negli investimenti in ricerca e sperimentazione agricola e nella creazione e mantenimento di infrastrutture rurali, in particolare quelle per l’irrigazione. Tali inadeguatezze, acute anche nei Paesi con più accelerata crescita dei fabbisogni alimentari, ne hanno aggravato la dipendenza da approvvigionamenti esterni e quindi la vulnerabilità all’impennata dei prezzi sui mercati internazionali.
Data la complessità dei fattori all’opera le previsioni restano caute. Quelle più recenti della FAO suggeriscono che difficilmente i mercati dei cereali potranno tornare a breve alla vecchia stabilità, nonostante elementi positivi in specifici mercati e regioni. Il mercato del riso, in particolare, continuerebbe a registrare quotazioni molto sostenute, tanto più preoc;cupanti se si considera quanta parte della popolazione mondiale ha questo alimento alla base della propria dieta. Aumenti sostenuti nei prezzi degli alimenti hanno già avuto effetti gravi sul benessere delle famiglie, in proporzione diretta alla modestia del loro reddito (FAO 2008). La qual cosa ha già portato a proteste di piazza in molti Paesi a rischio e a misure di restrizione del commercio, quali divieto alle esportazioni e sussidi alle importazioni, con conseguenti accumuli di stock e riduzione delle disponibilità sui mercati internazionali (Rosegrant 2008). A peggiorare ulteriormente le cose si sono poi inseriti movimenti speculativi sui mercati dei futures (von Braun, Ahmed, Asenso-Okyere et al. 2008).
L’azione pubblica continua a condizionare in larga misura il funzionamento dell’agricoltura, direttamente con le politiche settoriali e indirettamente, almeno nei Paesi in via di sviluppo, con le politiche macroeconomiche. Nei singoli Paesi le politiche agricole rispondono a ragioni e interessi specifici del settore, ma le ragioni di un settore interagiscono con quelle degli altri in vario modo a seconda delle condizioni generali del Paese. Al procedere dello sviluppo i rapporti intersettoriali cambiano e con essi cambia il ruolo dell’agricoltura. Cambiano di conseguenza anche le politiche, ma più lentamente, con caratteristico ritardo dovuto alla persistente domanda di ‘protezione’ da parte degli agricoltori. Ridotti in numero di addetti e di contributo al prodotto nazionale, ovunque ci sia sviluppo economico e con una regolarità che non registra eccezioni significative, più nei Paesi avanzati e meno altrove, gli agricoltori mantengono ancora un riconoscimento sociale e un peso politico che consente loro di incidere, come categoria e gruppo d’interesse, nelle scelte di politica economica ai più vari livelli, locali, nazionali e internazionali. Tuttavia, anche in quest’ambito, gli anni più recenti hanno registrato alcune novità di rilievo, sul fronte interno e su quello internazionale. Sul fronte interno l’eterogeneità di situazioni si riflette direttamente nelle linee di politica agraria. In tal senso le principali novità sono già state precedentemente indicate.
Nei Paesi avanzati si va affermando la linea dei compensi agli agricoltori per il loro contributo alla produzione di beni pubblici, che nel caso dell’Unione Europea è alla base, nei termini di una un po’ vaga multifunzionalità, del passaggio da un regime di sostegno via prezzo accoppiato alle produzioni per il mercato a un regime disaccoppiato e perciò privo di conseguenze commerciali. Un passaggio questo di fondamentale importanza dal punto di vista degli impegni internazionali in materia di riduzione del protezionismo. Nella stessa linea si colloca il sostegno allo sviluppo rurale, alla valorizzazione delle specificità locali, protezione delle denominazioni di origine, certificazione di qualità.
Sul piano internazionale il tema della riduzione del protezionismo agricolo domina da tempo la scena e continua a essere al centro del dibattito e dei negoziati, ben lungi dall’essere risolto. I negoziati in materia agricola nell’ambito della WTO (World Trade Organization) sono andati avanti con alterne vicende e modesti risultati, condizionando fortemente i progressi su fronti più ampi (Agricultural trade reform, 2006). Alle aspettative suscitate con l’avvio del Doha round a ridosso dei drammatici eventi dell’11 settembre 2001 non sono seguiti fatti concreti di portata comparabile. Nei Paesi avanzati le più recenti difficoltà a crescere e competere in un contesto di prezzi alti dei prodotti agricoli e delle materie prime, di grave instabilità finanziaria e più generale incertezza, non aiutano certo ad allentare le resistenze a ulteriori riduzioni del protezionismo agricolo. Tra i Paesi in via di sviluppo le diversità in termini di dotazioni di risorse e tassi di crescita tendono a polarizzare le posizioni, tra esportatori netti e importatori netti di alimenti, tra chi dalla liberalizzazione si aspetta un’espansione delle sue esportazioni, chi è preoccupato per il maggior costo delle sue importazioni, e chi teme la perdita dell’accesso privilegiato, seppur limitato, ai mercati delle nazioni ricche di cui ancora beneficiano in forza di vecchi accordi preferenziali. In tale contesto la leadership negoziale, che Paesi quali Brasile e India sono andati esprimendo in misura crescente, trova dei limiti oggettivi.
Nei Paesi in via di sviluppo l’azione pubblica ricalca l’eterogeneità tra essi. In linea generale si registra un ritorno di attenzione per la capacità dell’agricoltura di essere, oltre che beneficiaria, motore essa stessa dello sviluppo, in termini e modi dipendenti dal suo stesso peso nell’economia (World bank 2007). Di particolare interesse in tal senso appare l’esperienza di quei Paesi che più strada hanno fatto in termini di crescita e trasformazione strutturale, ivi compresi i due più popolosi, Cina e India (Hayami 2007). Tra i fronti di nuovo impegno dell’azione pubblica spicca quello inteso a migliorare il funzionamento dei mercati e l’accesso agli stessi. Infatti, il loro cattivo funzionamento obbliga gli agricoltori a una crescente partecipazione agli scambi per acquistare fattori di produzione di origine industriale (macchine e attrezzi, carburanti, concimi e antiparassitari) e determina la conseguente necessità di vendere sul mercato il loro prodotto. Le difficoltà sono soprattutto degli agricoltori più piccoli localizzati in aree mal collegate per difetto della rete di comunicazione. Una difficoltà che ne determina molte altre riguarda l’accesso al credito ed è questo un ambito di azione che attualmente va registrando attenzione crescente da parte dell’operatore pubblico che riconosce la necessità di offrire un servizio così importante anche in zone e per clienti non appetibili all’operatore privato. Si tratta d’altra parte di un ambito nel quale già da tempo operano con successo forme cooperative di nuovo tipo, come, nel settore del microcredito, le grameen banks (banche del villaggio) in Bangla Desh. Un altro fronte con novità degne di nota è quello dell’accesso alla terra e in particolare gli interventi noti come riforma agraria assistita dal mercato che si propongono di superare le gravi difficoltà che si incontrano ad attuare riforme agrarie del tipo classico basate sull’esproprio. È una formula già messa in pratica in alcuni Paesi, tra gli altri il Brasile, con risultati ancora incerti.
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Webgrafia
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