L'agricoltura nella storia. La produzione agricola e i modelli interpretativi
Al termine del periodo glaciale, tra 10.000 e 4000 anni fa, in molte aree del mondo si attuarono le prime forme di coltivazione intenzionale, a cui fece seguito il vero e proprio processo di domesticazione delle piante. In alcuni contesti, a questa prima modalità di "produzione del cibo" si associarono anche la domesticazione animale e le prime forme di allevamento delle specie dotate dei prerequisiti necessari. Il passaggio dalla raccolta alla produzione del cibo è sempre stato considerato una soglia, una delle grandi e radicali trasformazioni della storia dell'umanità e, come tale, ha dato luogo a interpretazioni di segno diverso che hanno finito col permeare lo stesso dibattito scientifico. Nel mito e nel pensiero antico un tale mutamento era stato per lo più associato a una prospettiva di caduta da una migliore condizione iniziale e percepito nei termini di una dura fatica; fu soltanto nel XIX secolo, con l'evoluzionismo sociale e con la concezione di una storia articolata per stadi ascendenti, che esso venne considerato un salto decisivo nella storia dell'uomo, in grado di affrancarlo dalla fame e dal bisogno. Una tale interpretazione, filtrata attraverso la dialettica marxista, doveva fortemente influenzare V.G. Childe, al quale, nella storia del pensiero archeologico, si deve il primo grande modello esplicativo della nascita dell'agricoltura e dell'allevamento. Secondo la classica definizione coniata da Childe, la trasformazione legata alla produzione del cibo avrebbe rappresentato la prima delle tre grandi "rivoluzioni" che avrebbero scandito la storia dell'umanità: la rivoluzione neolitica, appunto, quella urbana e quella industriale. All'interno di una categoria interpretativa come quella di rivoluzione, il cambiamento risulta rapido, ma di così vasta portata da implicare una ristrutturazione globale delle attività economiche, delle modalità di vita e dell'organizzazione sociale. Esso richiede precondizioni presenti in pochi contesti geografici, dai quali si sarebbe originato un ampio processo di diffusione. La rivoluzione neolitica, rappresentando dunque un primo grande balzo in avanti, risulta un anello essenziale di quelle che nel clima postmoderno sono state definite "le grandi narrazioni" riguardanti il nostro passato, caratterizzate dalla fiducia di individuare le linee, le tappe e la direzione della storia umana, nonché le leggi e le cause del mutamento. La forza di un meccanismo interpretativo di così notevole portata fu tale che il dibattito archeologico successivo finì col misurarvisi per decenni, in un meccanismo di opposizione-ripresa che presenta analogie sconcertanti rispetto a quanto è avvenuto in campo storiografico riguardo alla ben più recente rivoluzione industriale. La discussione circa le grandi linee interpretative venne intanto sostanziata negli anni dalla ricerca sul campo, che andò accumulando una massa di dati riguardanti non solo il Vicino Oriente, l'area più tradizionalmente studiata, ma anche il Nuovo Mondo e, sia pure in misura minore, altre realtà continentali in cui si verificarono le prime forme di domesticazione. Le prime critiche sviluppatesi negli anni sono inerenti al "come" della transizione. All'idea del cambiamento rapido e simultaneo si è andato opponendo il gradualismo, l'immagine di un lento processo basato sull'interazione uomo-pianta e uomo-animale, che solo alla fine avrebbe portato all'origine dell'agricoltura e dell'allevamento. Questa linea di pensiero si è affinata nel tempo, conducendo all'idea di un continuum nel passaggio alla produzione del cibo. Nel caso della domesticazione vegetale, un progressivo incremento di complessità delle azioni umane avrebbe sostituito a una raccolta casuale una raccolta più sistematica delle piante, successivamente integrata da progressivi aspetti di cura, protezione e manipolazione. Nel caso della domesticazione animale, alla predazione casuale si sarebbero andate affiancando forme più complesse di caccia basate sull'abbattimento selettivo e su modalità di familiarità col branco che ne avrebbero consentito forme elementari di controllo. L'aspetto soggettivo dell'interazione sarebbe stato, da un certo momento in poi, rafforzato dalle modificazioni indotte nel patrimonio genetico stesso delle specie vegetali e animali, che sarebbero divenute in tal modo irreversibilmente domestiche e dipendenti dall'uomo per la loro riproduzione (Harris - Hillman 1989). Negli stessi anni in cui al modello di cambiamento globale e simultaneo proprio della "rivoluzione" è subentrata l'idea di un mutamento lento e protratto, è stata riproposta anche la questione del "dove" e del "quando" di questo mutamento ed è stata messa in discussione anche la teoria dei nuclei di origine, mutuata dal lavoro pioneristico del botanico N.I. Vavilov. Non solo si è pensato in ogni singolo contesto ad aree più vaste di quelle originariamente considerate, ma è prevalsa una forte tendenza a interpretare alcuni dati fin da allora controversi come testimonianza di tentativi diffusi di domesticazione delle piante locali in molte e diverse aree geografiche. I tempi ipotizzati sono stati proiettati il più possibile indietro e le datazioni proposte (ad es., per il Sud-Est asiatico) addirittura precedono quelle della Mezzaluna Fertile. Ciò non solo ha fatto parte di una comune battaglia contro il diffusionismo imperante, ma ha riflettuto una ancora forte fiducia nello sviluppo di cui il mondo occidentale rappresenta la postazione più avanzata, ma i cui antecedenti possono essere individuati anche altrove: un'ulteriore prova dell'universalità e dell'esportabilità del modello. Il campo più complesso di dibattito ha sempre riguardato i motivi del passaggio dalla raccolta alla produzione del cibo. Alla formulazione childiana era accompagnata la convinzione che fossero stati i cambiamenti climatici e la tendenza all'inaridimento ad avere dato luogo a questo passaggio e un'idea del genere continuò ad essere accettata in differenti varianti. Poiché le testimonianze archeologiche non confermavano sempre questo tipo di spiegazioni, agli inizi degli anni Settanta sembrò risolutiva l'ipotesi di un improvviso aumento demografico, realizzatosi in concomitanza con le origini dell'agricoltura, come tendenza generale o anche solo come fenomeno verificatosi in contesti limitati. La produzione del cibo sarebbe stata determinata dunque dal bisogno di un maggiore apporto calorico in grado di sostenere la popolazione crescente. In questo caso l'ipotesi esplicativa allude non tanto a un'innovazione progressiva, quanto alla ricorrente tendenza a ristrutturazioni economiche necessarie, ma costose, alle quali gli esseri umani si sarebbero trovati costretti per far fronte a un fabbisogno alimentare crescente. I costi si sarebbero manifestati in un'alterazione progressiva del rapporto con l'ambiente, che avrebbe richiesto modifiche del paesaggio di carattere irreversibile e avrebbe innescato successivamente un progressivo processo di intensificazione. Anche l'aumento demografico come nuova chiave di volta e primo motore del passaggio alla produzione del cibo ha finito col rivelarsi insufficiente, ma l'impostazione generale sottesa a un tale schema interpretativo ha continuato a influenzare tutto un vasto indirizzo di ricerche e ha considerato essenziale nell'adozione dell'agricoltura e dell'allevamento il problema alimentare e calorico. In questo tipo di interpretazioni, le cause del cambiamento sarebbero da individuare in uno squilibrio tra popolazione e risorse che naturalmente avrebbe, nelle diverse situazioni geografiche, variabili locali e specifiche. Le risposte sarebbero molto diversificate e in qualche caso anche reversibili. Chiaramente le nuove formulazioni hanno il vantaggio di superare le spiegazioni monofattoriali, mettendo in gioco modelli esplicativi a più variabili (habitat, clima, pressioni demografiche, carattere delle risorse, consumo, ecc.), la cui interrelazione avrebbe reso possibile l'interpretazione del cambiamento nei singoli contesti geografici (Upham 1990; Layton - Foley - Williams 1991). L'adozione di modelli più flessibili, ma anche in grado di contemperare al loro interno più fattori precedentemente considerati esclusivi, non sembra avere comunque messo in crisi del tutto fino ai primi anni Ottanta la possibilità di ricostruire il quadro d'insieme del grande passaggio legato all'adozione di strategie di produzione del cibo. Il fatto che il cambiamento fosse stato lento e non brusco e la maggiore complessità dei modelli si sono conciliati ancora con la possibilità di ricostruire i processi del nostro passato, sia pure ancorati con forza alla specificità dell'area di insorgenza. L'antropologia e il presente etnografico sono rimasti un valido, se pur problematico aiuto, sullo sfondo di un neoevoluzionismo in molte varianti, ma in cui il passaggio dalla caccia-raccolta alla domesticazione di piante e animali sembra implicare una complessità sociale crescente. Come per la maggior parte delle scienze umane, negli ultimi due decenni del XX secolo una crisi profonda dei tradizionali modelli interpretativi ha trovato la sua ispirazione in quelle correnti filosofiche nate dalla crisi della modernità con i suoi miti, primo tra tutti quel che ancora restava della resistente idea di progresso. Con la "decostruzione" imperante che ha demolito le grandi narrazioni che avevano dato senso e direzione alla nostra storia, anche i racconti archeologici riguardanti il passato, soprattutto quelli che si proponevano di spiegare mutamenti di grande portata, hanno conosciuto un declino. In un clima di relativismo crescente, anche la ricerca sulle origini della produzione del cibo si è confinata così nello specialismo, concentrandosi sui dati locali, mentre tecniche sempre più raffinate hanno portato all'accumulo di una massa imponente di dati. Non tutto però ha avuto valenza solo decostruttiva e proprio dai riflessi delle nuove tendenze in campo archeologico e antropologico sono giunti stimoli nuovi anche a questo settore d'indagine. Dall'attenzione volta alle variabili ambientali in cui le prime forme di domesticazione ebbero luogo, l'attenzione si è spostata al soggetto da cui quel cambiamento dipese. Si è riflettuto sul fatto che altre volte nella storia evolutiva dell'uomo le trasformazioni climatiche successive alle fasi glaciali avrebbero fornito lo scenario adatto a coltivare le piante. Solo l'uomo moderno, però, aveva raggiunto la soglia cognitiva necessaria a strategie decisionali complesse e a progetti di lunga durata. Il bagaglio tecnico stesso già presente 10.000 anni fa costituì una precondizione per l'agricoltura. La macina era già nata per l'arte, finalizzata a macinare i pigmenti da cui ricavare i colori, ma fu un prerequisito per ridurre in farina i chicchi dei cereali. Portando all'estremo queste suggestioni, si è giunti a ipotizzare che le prime piante ad essere coltivate non lo fossero per integrare una dieta divenuta carente, ma per necessità rituali. In questo nuovo idealismo si è pensato a grandi banchetti, per la preparazione dei quali era necessario accumulare un surplus di cibo, o addirittura a piante riprodotte per la preparazione di bevande alcoliche e droghe. I risvolti alimentari sarebbero venuti più tardi (Hayden 1992). Intanto, proprio quando l'archeologia ha dismesso, nella ricostruzione del passato, ogni uso improprio dei dati di provenienza antropologica, è da quest'ultimo settore che è giunta una suggestione importante. A partire dalla crisi interpretativa del tradizionale modello delle società di caccia e raccolta come sistema semplice nonché originario, si è chiusa per sempre la strada a ogni forma di riproposizione del neoevoluzionismo, che ha lasciato spazio a una nuova visione in cui la complessità sociale attraversa trasversalmente i sistemi, indipendentemente dalla discriminante della produzione o meno del cibo. Alla fine degli anni Novanta lentamente riaffiora la tendenza a ritentare sintesi nuove, che compongano suggestioni recenti e approcci più consolidati in una visione d'insieme. Il mutamento riappare come un fenomeno raro, sia pur nato da bisogni complessi e da interazioni a lunga distanza; la diffusione ritrova la sua importanza perduta, ma come un processo complesso di interazione, compresenza e comunicazione piuttosto che come uno spostamento di persone e di tecniche nuove. Il sistema-mondo coi suoi centri e le sue periferie offre uno scenario integrato di interazioni e compensi tra aree di diverso sviluppo (Sherratt 1995). Certamente in quest'ottica furono pochi i contesti in cui l'origine dell'agricoltura dette luogo a cambiamenti di vasta portata che investirono la progressiva trasformazione dei modi di vita in aree di estensione continentale. Innegabilmente ciò avvenne dove le piante disponibili alla coltivazione e alla domesticazione erano cereali ad alta resa, a loro volta inseriti in un complesso dieteticamente integrato. È quanto accadde nel Vicino Oriente, dove la coltivazione successe a una lunga fase di raccolta intensiva di grano e orzo selvatici da parte di società sedentarie con modelli sociali complessi. Quest'area continuò, inoltre, a mantenere sulle altre il primato di avere raggruppato in un limitato contesto non solo gli antecedenti di quelle specie vegetali poi domesticate, ma anche delle relativamente rare specie animali idonee alla domesticazione, come pecore e capre e più tardi bovini. Da queste regioni, infine, ebbe inizio un processo di diffusione, lungo e protratto, di uomini, di tecniche e di idee che dovette investire l'Asia, l'Africa e soprattutto l'Europa (Ammerman - Cavalli-Sforza 1984). L'integrazione tra domesticazione vegetale e animale e la vasta espansione del modello agricolo sarebbero stati, secondo una recente ipotesi, i fattori remoti della superiorità accumulata dall'intero Occidente nella sua supremazia su altre aree del mondo (Diamond 1997). Centri comparabili per la portata delle modificazioni innescate dalla produzione del cibo sono soltanto la Cina (dove il passaggio alla coltivazione del riso potrebbe avere seguito percorsi simili a quanto avvenuto nella Mezzaluna Fertile) e l'America Centrale. In quest'ultima regione il processo di domesticazione delle piante fu però non solo più tardivo, ma inizialmente diverso, perché lento e associato a esperimenti di coltivazione di un'ampia gamma di specie vegetali senza essere legato a modelli sedentari iniziali. Anche in questo caso, tuttavia, quando il mais raggiunse per mutazioni genetiche un'alta produttività, le trasformazioni divennero rapide, muovendosi nella direzione della sedentarietà, dell'intensificazione e dell'ampio processo di diffusione. In questi tre contesti certamente il processo di domesticazione e il modello di vita ad esso associato presentarono marcati caratteri di irreversibilità non solo nei nuclei di origine, ma in tutti i territori in cui, con tempi più o meno lunghi, vennero diffondendosi. Di qui l'ipotesi secondo la quale sarebbero gli effetti più che le cause a spiegare la portata della grande transizione alla produzione del cibo. L'analisi del mutamento nelle sue forme più macroscopiche non deve peraltro far dimenticare che esso si manifestò anche in modalità meno appariscenti e meno dense di conseguenze: nel caso della domesticazione di piante e animali, la ricerca archeologica ci ha posto di fronte a situazioni molto differenziate, variamente distribuite sullo scenario geografico mondiale (Cowan - Watson 1992; Gebauer - Price 1992; Smith 1995; Giusti 1996). Intanto vi sono aree dove la domesticazione delle piante innescò trasformazioni di grande portata, ma con sviluppi e percorsi diversi dalla diffusione a macchia d'olio anche al di fuori dell'habitat originario. Tutto un capitolo di questa storia andrebbe dedicato agli ampi contesti in cui prese piede l'agricoltura vegetativa, fondata sulla coltivazione di radici e tuberi sotterranei. Essa dovette svilupparsi in particolar modo nelle vaste aree ricoperte dalla foresta tropicale, che costituivano una sorta di anello intorno al globo, e in gran parte del mondo insulare dell'area del Pacifico, con società almeno inizialmente itineranti, legate alla tecnica del taglia e brucia e alla costituzione di orti temporanei (di qui il nome di orticoltura). È soprattutto grazie alle conoscenze etnologiche riguardanti popolazioni che hanno praticato fino a tempi recenti questo genere di vita che abbiamo un'idea della vasta gamma di sistemi sociali legati a questo tipo di coltivazione e alle successive forme di intensificazione che esso comporta. Per quanto riguarda il passato, nonostante i dati archeologici provenienti dalla foresta amazzonica e dagli arcipelaghi del Pacifico, della storia di queste società conosciamo frammenti, mentre al contrario si assiste a un'estensione indebita di questo modello di occupazione del suolo ad altri contesti geografici. Una storia a sé è associata alla patata, il tubero andino nato ad alte quote, la cui coltivazione innescò localmente grandi processi di trasformazione sociale, ma la cui diffusione di vasta portata avvenne in realtà solo in un mondo lontano, dopo la conquista europea. Il quadro riguardante l'origine della produzione del cibo non è tuttavia completo se non si presta attenzione ai mille altri rivoli in cui prese forma la domesticazione di piante e di animali senza trasformarsi in un sistema intensivo e senza diffondersi all'esterno. Ci riferiamo ad alcuni sistemi di caccia-raccolta che integrarono la dieta fortemente proteica con la coltivazione di piante a rendimento limitato, spesso a piccolo seme, senza che questo alterasse in maniera sostanziale il tradizionale sistema di vita. È quanto avvenne, ad esempio, circa 4000 anni fa nelle foreste temperate dell'America nord-orientale, dove in orti vicini alle abitazioni venivano coltivate zucche, girasoli e piante a piccoli semi; o in Giappone, in alcune culture coeve o di poco più tarde. In entrambi i casi, le economie locali e le forme di domesticazione vegetale ad esse associate vennero soppiantate dalla diffusione esterna rispettivamente del mais e del riso, come dovette avvenire per tutte le altre società di raccolta. Un fenomeno di ben più ampia portata, ma per il quale i dati disponibili sono assai scarsi, riguarda quelle situazioni in cui i limiti ambientali, spesso legati a condizioni di forte aridità, hanno reso possibile l'attuazione di sistemi agricoli stanziali, ma basati su piante dalla resa limitata, a bassa intensificazione e non in grado di sostenere uno sviluppo che andasse oltre sistemi sociali a medio raggio. Basti pensare alla Cina settentrionale, con un'agricoltura basata sui migli, o a tanta parte dell'agricoltura africana subsahariana, che neppure la tecnologia moderna è mai riuscita a trasformare in un'agricoltura intensiva. La reversibilità è sempre possibile in questi sistemi relativamente semplici, sia per quanto riguarda l'agricoltura, sia ancor più per quanto riguarda l'allevamento animale, in riferimento al quale, con fluttuazioni ormai note, alcune popolazioni hanno alternato uno stile di vita basato sulla pastorizia a continui ritorni alle tradizionali tecniche di caccia. Strade dunque compiute e poi ripercorse in senso inverso, in quello sviluppo di culture differenti da quelle che dovevano risultare le più competitive a livello globale. Vie certamente funzionali a quelle di aree più avanzate e aggressive, ma che hanno mantenuto una loro autonomia. Esse sono certamente assai meno studiate e comprese; tuttavia andrebbe loro prestata maggiore attenzione in un'epoca in cui il modello di sviluppo imperante sembra sempre più minato da vincoli interni ed esterni e sicuramente non in grado di risolvere i problemi di altre aree del mondo.
A.J. Ammerman - L.L. Cavalli-Sforza, The Neolithic Transition and the Genetics of Populations in Europe, Princeton 1984 (trad.it. La transizione neolitica e la genetica di popolazioni in Europa, Torino 1984); D.R. Harris - G.C. Hillman (edd.), Foraging and Farming. The Evolution of Plant Exploitation, London 1989; S. Upham (ed.), The Evolution of Political Systems, Cambridge 1990; R. Layton - R. Foley - E. Williams, The Transition between Hunting and Gathering and the Specialized Husbandry of Resources. A Socioecological Approach, in CurrAnthr, 32, 3 (1991), pp. 255-74; C.W. Cowan - P.J. Watson (edd.), The Origins of Agriculture. An International Perspective, Washington - London 1992; A.B. Gebauer - Th.D. Price (edd.), Transitions to Agriculture in Prehistory,Madison 1992; B. Hayden, Models of Domestication, ibid., pp. 11-19; A. Sherratt, Reviving the Grand Narrative: Archaeology and Long Term Change, in JEuropA, 3 (1995), pp. 1-31; B.D. Smith, The Emergence of Agriculture, New York 1995; F. Giusti, La nascita dell'agricoltura. Aree, tipologie, modelli, Roma 1996; J. Diamond, Guns, Germs and Steel. The Fates of Human Societies, London 1997.