Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Nello sviluppo dell’agricoltura del Novecento il ruolo della scienza e della tecnologia è stato sempre in crescita. Inizialmente attraverso il miglioramento genetico delle varietà coltivate, più tardi con la produzione di nuove varietà per incrocio o per mutagenesi, e ancora con la razionalizzazione dei metodi di coltura, di concimazione, di irrigazione, di raccolta e conservazione. La tendenza all’aumento medio della produttività agricola ha percorso tutto il secolo; con le “rivoluzioni verdi” degli anni Venti e Cinquanta l’incremento riguarda il grano e il riso ed è la svolta per centinaia di milioni di persone. L’interesse agli aspetti nutrizionali degli alimenti e la nascita delle agrobiotecnologie rappresentano due ulteriori progressi delle scienze agronomiche. L’attenzione per i problemi ambientali connessi all’agricoltura è recente ma si va radicando l’idea che l’agricoltura del futuro debba essere sicura, sostenibile e a basso input esterno. L’impatto della moderna agricoltura sulle condizioni economiche e sociali delle popolazioni rurali è molto pesante specialmente nelle aree più povere del sud del mondo. Ed è sempre più chiaro che lo sviluppo di molti di quei Paesi passa per la produzione agricola commerciale a patto però che il mercato mondiale sia regolato equamente e non manipolato dalle politiche protezionistiche dei Paesi economicamente più forti.
Come tutti gli altri animali, anche la nostra specie per vivere ha bisogno di energia che il corpo ricava a livello cellulare mediante reazioni di ossidoriduzione di una grande varietà di composti chimici presenti negli alimenti. A differenza delle altre specie animali, però, l’uomo non si limita a prelevare il cibo dalla natura, ma oramai da 10 mila anni produce i suoi alimenti attraverso l’agricoltura e l’allevamento. Gli sviluppi dell’agricoltura, le sue trasformazioni storiche, i suoi successi e i suoi fallimenti sono macroscopicamente collegati a una terna di variabili bioecologiche: habitat disponibili per la coltivazione (superfici coltivabili, qualità pedologica dei terreni, acqua per irrigazione), tipi di organismi disponibili per la produzione alimentare (specie e varietà di vegetali e animali), demografia umana (numero di individui da nutrire adeguatamente); a questo si aggiungono un insieme di saperi e di tecniche relative al miglioramento e all’innovazione di prodotto e di processo, e infine i fattori del mercato, visto che i prodotti agricoli come altri beni possono venire scambiati, di solito secondo le leggi della domanda e dell’offerta. Tra le molte tecniche di cui l’agricoltura si serve ci sono le applicazioni della genetica agraria, le agrobiotecnologie produttrici di organismi geneticamente modificati, la chimica dei concimi, le tecnologie collegate alle difese dai patogeni, quelle proprie della meccanizzazione agricola, dello stoccaggio razionale dei raccolti, le tecnologie di conservazione. Tra i tanti e differenti aspetti economici, un ruolo strategico nell’ultimo ventennio del Novecento ha assunto la questione del protezionismo per cui molti Paesi ricchi sostengono l’agricoltura interna ed erigono barriere all’importazione di prodotti dai Paesi più poveri del Terzo Mondo. Oltre ai rapporti con questioni ecologiche, genetiche ed economiche, l’agricoltura ha a che fare, spesso direttamente, anche con una serie di problematiche sociopolitiche collegate alle esigenze e alle trasformazioni delle comunità e delle società nelle quali gli operatori del settore a vario titolo si trovano ad agire. È il caso dell’impatto sociale e demografico delle migrazioni interne ed esterne, da nazione a nazione, dei lavoratori addetti all’agricoltura, al temporaneo incremento della forza lavoro collegata al lavoro stagionale e, a partire dal secondo dopoguerra, alla sua diminuzione tendenziale nei Paesi occidentali in conseguenza dell’accresciuta meccanicizzazione, automazione e industrializzazione delle pratiche agricole e zootecniche.
Nel Novecento i progressi dell’agricoltura e il suo impatto sulla società sono stati influenzati anche dal rapporto locale/globale (giocato sul piano ecologico e su quello economico), dalla nostra relativa ignoranza della natura dei vincoli ecologici da rispettare (si ignora, per esempio, il reale impatto ecologico dell’incremento delle terre coltivabili sottratte alle foreste tropicali pluviali sulla biodiversità tassonomica, sulla funzionalità degli ecosistemi, sulla circolazione atmosferica e oceanica, dunque sul clima) e dai problemi sanitari, umani e veterinari, connessi con le pratiche agricole e zootecniche (la stretta vicinanza fisica tra uomini e animali degli allevamenti intensivi in Cina e in altri Paesi asiatici ad alta densità demografica, sembra facilitare i cambiamenti di ospite e la trasmissibilità di patogeni di polli, maiali e altre specie domestiche). È chiaro perciò che, anche se il cuore dell’agricoltura resta l’insieme delle conoscenze e delle pratiche collegate alla produzione di cibo per l’alimentazione umana e degli animali di cui l’uomo si nutre, tuttavia i problemi affrontati dalle scienze e dalle tecnologie agronomiche non sono limitabili a singoli campi specialistici ma riguardano sempre più spesso e intensamente il modello globale di sviluppo socio-economico di intere grandi comunità. Al giorno d’oggi, infatti, non si tratta tanto di aumentare la produzione alimentare, il problema è piuttosto quello di garantirne un’equa distribuzione. L’economista indiano Amartya Sen, premio Nobel 1998 per l’economia, sostiene nei suoi scritti che la causa maggiore delle carestie non va cercata nella scarsità di cibo ma piuttosto in fattori sociali ed economici, certamente più difficili e complessi da governare di quelli legati alla produzione di alimenti. Un approccio sistemico ai problemi dell’agricoltura più che portare alla semplice lotta contro la fame attraverso l’aumento della produzione può comportare la lotta contro le condizioni di povertà in cui vivono molte centinaia di milioni di essere umani.
Su 320 mila specie di piante vascolari, cioè dotate di tessuti cavi utilizzati per il trasporto delle sostanze nutritive, l’uomo ne ha addomesticate sinora circa 2.500. Un centinaio di queste specie sono di grande importanza alimentare, ma solo una ventina sono fondamentali per l’alimentazione umana. Le otto più importanti piante coltivate (grano, riso, mais, orzo, avena, segale, miglio, sorgo) sono tutte graminacee coltivate già millenni o secoli addietro. I progressi dell’agricoltura nel Novecento non riguardano perciò la domesticazione di nuove specie selvatiche ma piuttosto l’incremento della resa per unità di superficie coltivata. Questo ha permesso tra gli anni Sessanta e Settanta di produrre calorie sufficienti al fabbisogno mondiale annuo. Questi progressi vengono dalla creazione di cultivar – ossia di varietà coltivata di una specie, da cui l’abbreviazione – attraverso procedimenti di selezione dei fenotipi dotati di caratteristiche idonee alle varie esigenze dei coltivatori. La genetica è nata nell’Ottocento indagando le caratteristiche ereditarie di una pianta ortiva, il pisello, e, con la scoperta delle leggi di Mendel, si è sviluppata grazie alle indagini di tre genetisti vegetali. L’ibridazione del mais iniziata negli Stati Uniti nel 1910 ha portato a un fortissimo incremento della produzione a partire dagli anni Trenta. Gli studi di Thomas H. Morgan su Drosophila, il moscerino della frutta e dell’aceto, chiarirono il ruolo dei cromosomi come sedi del materiale ereditario. Particolarmente decisivi sono stati gli studi sull’endogamia attraverso cui si individuarono i limiti degli incroci tra parenti, capaci di fare emergere caratteri recessivi nocivi. Altrettanto importanti sono stati quelli sull’esogamia praticata quando, incrociando individui di razze differenti, si vogliono introdurre caratteri nuovi e vantaggiosi in una popolazione. In questo modo negli anni Trenta furono gettate le basi scientifiche della scienza della riproduzione animale. Insieme a queste tecniche vanno ricordate quelle di inseminazione artificiale sviluppate in Russia e da lì diffuse in tutto il mondo. Anche l’acquacoltura ha compiuto progressi passando dalla modalità estensiva a quella intensiva tecnicamente molto più avanzata e sostenuta da input energetico; il numero delle specie di pesci, crostacei e molluschi allevati è cresciuto e l’uso di gabbie ha permesso l’allevamento commerciale anche di specie marine.
Nel XX secolo l’incremento di produttività ha riguardato quasi tutte le colture agricole, ma in modo molto forte quelle cerealicole. Lo stesso si osserva nella produttività animale; per esempio nei confronti del latte vaccino, del peso medio delle mucche, del numero di agnelli per pecora, oppure rispetto al contenuto di grasso del latte, al peso della lana per pecora, al numero di uova per gallina ecc. L’incremento di produzione è da ricollegarsi per la prima parte del secolo a metodi di coltivazione più efficaci e per la seconda parte al miglioramento genetico delle sementi. Naturalmente la faccenda è molto complicata e non è possibile una valutazione precisa del peso netto del miglioramento genetico sulle rese visto che nel frattempo veniva anche ridotta l’influenza di fitoparassiti e infestanti o aumentata la fertilità dei suoli attraverso concimazioni mirate. Inoltre non va dimenticato che si sono avuti miglioramenti delle qualità nutrizionali dei prodotti. Con l’ingresso delle biotecnologie si è aperto un nuovo orizzonte per l’agricoltura. Gli obiettivi possibili sono molteplici, alcuni, come la produzione di cereali ingegnerizzati arricchiti di vitamine, OGM (Organismi Geneticamente Modificati) capaci di sintetizzare nuovi principi nutritivi o molecole di interesse farmacologico, sono assolutamente inediti. L’opinione pubblica, tuttavia, è in molti casi perplessa e interroga i ricercatori sull’esistenza di eventuali problemi di biosicurezza. Il rifiuto delle biotecnologie avrebbe conseguenze negative per tutta l’umanità; la questione è delicata e i protagonisti del dibattito (scienziati, società civile, mondo dell’informazione) hanno il dovere di confrontarsi portando nel dibattito competenza, chiarezza, onestà intellettuale.
Nel 1944 l’americano Norman E. Borlaug inizia a lavorare in Messico come genetista agrario e patologo vegetale a un programma di ricerca sul grano. In accordo con il governo messicano e per conto delle Fondazioni Rockefeller e Ford, Borlaug fonda un centro internazionale per il miglioramento genetico del mais e del grano. Lo scopo principale è quello di creare un tipo di frumento resistente alle ruggini nere che regolarmente ne distruggono i raccolti. Borlaug ha successo e alla fine degli anni Cinquanta incrocia il grano messicano con una varietà giapponese resistente all’allettamento, ossia alla piegatura verso terra dei fusti. Così la resa della nuova varietà è raddoppiata e il grano messicano di Borlaug attecchisce anche in Pakistan. Nel 1962 Borlaug crea nelle Filippine un centro di ricerca sulla risicoltura da dove in pochi anni escono eccezionali varietà di riso. In questo modo l’agricoltura tropicale compie un enorme progresso e in parte recupera il ritardo su quella dei Paesi temperati; milioni di persone sono sottratte alla fame. Nel 1970 a Borlaug viene conferito il premio Nobel per la pace.
In realtà anche in Italia, e con più di trent’anni in anticipo rispetto a Borlaug, era avvenuta un’analoga rivoluzione verde quando il marchigiano Nazzareno Strampelli, agronomo presso la Stazione sperimentale di granicoltura di Rieti, dopo 14 anni di ricerca e centinaia di incroci produce nel 1917 la varietà “Carlotta” (dal nome della moglie) di grano tenero. I geni chiave erano per la riduzione della taglia e l’insensibilità al fotoperiodo, cioè il periodo di esposizione della pianta alla luce. Con Strampelli si compie la rivoluzione verde italiana; nel ventennio fascista l’Italia si affranca dall’importazione di frumento per la panificazione. In un secondo momento fu la volta del grano duro; si selezionano varietà in base all’altezza del culmo, l’allettamento, la tardività, il periodo di fioritura e il numero di spighette. La resa passa da circa una tonnellata per ettaro nel 1920 a tre tonnellate per ettaro nel 1996 (nello stesso periodo quella di grano tenero passa da una tonnellata a cinque tonnellate). I grani di Strampelli furono diffusi in tutto il mondo: Messico, Argentina, Brasile, Russia, Spagna. Alla fine degli anni Quaranta le varietà di Strampelli vengono piantate in Cina su di un territorio grande 10 volte l’Italia. La produzione cinese ne esce quintuplicata. La rivoluzione verde inaugurata da Strampelli e da Borlaug ha interessato molti Paesi asiatici e dell’America Latina ma non ha avuto alcun riscontro in Africa dove tuttora un terzo della popolazione adulta subsahariana è malnutrita. In Africa le rese per ettaro sono minori che altrove e nel 60 percento dei Paesi negli ultimi anni del Novecento la produzione è addirittura diminuita. La diffusione dell’AIDS e le guerre locali aggravano la situazione africana sottraendo forza lavoro all’agricoltura, d’altra parte la scarsezza d’acqua non permette l’avvio delle colture come il riso e il frumento su cui si è fondata la rivoluzione verde asiatica favorita anche dall’esistenza di funzionali infrastrutture viarie, dall’impiego di concimi, dall’esistenza di tradizioni locali di monocolture, tutte condizioni che non si ritrovano nei paesi africani. Tuttavia le nuove biotecnologie possono rappresentare una formidabile occasione di progresso per l’agricoltura africana e più in generale per l’agricoltura dei Paesi poveri e di quelli emergenti, visto che il 90 percento dei coltivatori di piante transgeniche è rappresentato da contadini poveri di questi Paesi. Naturalmente la questione è complessa e l’applicazione con successo delle agrobiotecnologie in Africa è ostacolata dalle varie regolamentazioni nazionali sull’impiego di piante ingegnerizzate, dai pregiudizi e dai timori che le popolazioni dei paesi occidentali hanno verso gli OGM, dalle questioni commerciali legate al pagamento di royalties, dalla diffidenza di molti agricoltori e governi africani verso l’agricoltura biotech.
I vistosi cambiamenti nella vegetazione terrestre e nella destinazione dei suoli durante il XX secolo sono legati all’espansione dell’agricoltura. Attualmente oltre il 30 percento della superficie mondiale coperta da vegetazione è costituita da piante coltivate (il doppio rispetto a inizio secolo). I suoli non ghiacciati e sabbiosi del pianeta ammontano a circa 133 milioni di ettari, pari a poco meno del 30 percento della superficie planetaria; di questa superficie poco più del 25 percento circa è coltivabile; e se all’inizio del Novecento è coltivata una superficie di suoli pari all’Australia (circa otto milioni di ettari), alla fine degli anni Novanta la superficie coltivata eguaglia quella del Sudamerica (circa 17 milioni di ettari). Da quando esiste l’agricoltura, l’ampiezza delle superfici coltivate e quella delle aree destinate ai pascoli sono andate crescendo a scapito delle aree boschive e ancora di più a scapito delle praterie e delle aree steppiche adatte a soddisfare la crescente richiesta di granaglie. La domanda di cereali ha avuto un’impennata specialmente in concomitanza con l’espansione demografica del Novecento. Nel 1930 l’estensione delle aree coltivate era quattro volte superiore a quella del 1700, nel 1990 era sei volte superiore. In alcuni casi è stata la politica, attraverso l’imposizione di piani programmatici pluriennali, a indurre cambiamenti dell’ambiente.
Nell’ex Unione Sovietica, durante la seconda metà degli anni Cinquanta, Mosca decide di aumentare la produzione cerealicola dell’Unione innalzando il rendimento delle vecchie colture e aumentando le superfici arabili e seminabili a cereali. In meno di un decennio si procede così al dissodamento di amplissime fasce delle terre nere delle steppe kazache destinate alle colture di miglio e grano; le terre vergini transuraliche vennero rapidamente colonizzate da molte centinaia di migliaia di persone, vennero fondati nuovi centri abitati, furono costruiti impianti agricoli, autorimesse e officine per i trattori. L’impiego di fertilizzanti fu massiccio; così pure quello di pesticidi. L’impatto ecologico di questa estensivizzazione dell’agricoltura fu enorme ma forse meno drammatico di quello indotto negli stessi anni dalla coltivazione del cotone in Uzbekistan. La coltura del cotone richiede molta acqua, una risorsa che non poteva essere garantita dalle scarse precipitazioni dell’Uzbekistan, un’area continentale tipicamente semidesertica. I pianificatori sovietici decisero allora di ricorrere all’irrigazione artificiale prelevando l’acqua dai fiumi della rete idrografica. I due più grandi fiumi della regione, immissari del lago d’Aral, l’Amu-Darya a sud e il Syr-Darya a nord-est, in territorio kazaco, furono deviati e l’acqua fu incanalata artificialmente verso gli immensi campi di cotone. Nel giro di pochi anni fu evidente che il lago d’Aral, diviso tra Kazakistan a nord e Uzbekistan a sud, che all’epoca per estensione era il terzo grande lago della Terra (68.700 km2), si stava ritirando. A partire dal 1960, in circa quarant’anni, la superficie si è più che dimezzata, il volume d’acqua si è ridotto di oltre l’80 percento, la superficie libera si è abbassata passando da 53 m slm a 35 m slm; naturalmente la salinità è cresciuta, di oltre quattro volte. Di conseguenza la fauna ittica è stata decimata, passando da 24 a quattro sole specie. Molte delle specie di uccelli, mammiferi e rettili, per limitarsi ai soli vertebrati, che popolavano le aree umide attorno al grande lago sono scomparse. Venendo meno la massa d’acqua e la sua azione mitigatrice, il clima ha assunto un più spiccato carattere continentale con inverni più freddi ed estati più calde; l’aridità è aumentata in tutta la regione. Di conseguenza l’evaporazione è superiore alle precipitazioni e allora il livello del lago continua a diminuire per effetto del mutamento climatico indotto. Questo scompenso idrologico ha prodotto l’innalzamento della falda freatica che a sua volta ha provocato la salinizzazione dei suoli diventati praticamente inservibili per l’agricoltura a meno di costosissime bonifiche. Inoltre la desertificazione dei suoli in cui si trovano concentrate grandi quantità di sale ne favorisce la degradazione e la polverizzazione; si calcola che ogni anno i venti che spirano sull’Aral trasferiscano nell’atmosfera e trasportano in molte aree del pianeta molte decine di milioni di tonnellate di polveri salate. Anche la geografia è mutata; a seguito dell’abbassamento del livello del lago, una piccola isola posta al centro del bacino meridionale si è unita alla terraferma per emersione del fondale. Attualmente una specie di penisola separa quasi completamente il lago in due bacini residui, uno settentrionale e uno meridionale. Naturalmente il collasso ecologico del lago d’Aral ha indotto una serie di contraccolpi economici (crollando la pesca infatti è venuta meno la maggiore risorsa economica delle popolazioni del lago ed è imploso l’indotto manifatturiero collegato all’industria della pesca) e di crisi sociali (rapido aumento della disoccupazione, peggioramento delle condizioni igieniche. cronicizzazione di malattie, disgregazione delle famiglie e delle comunità) che si sono saldati ai problemi politici generati negli anni Novanta dal disfacimento dell’ex Unione Sovietica. La tragedia ambientale, perché di questo si tratta, e umana del lago d’Aral rappresenta un esempio perfetto degli effetti destabilizzanti scatenati da politiche agricole miopi, incapaci di tenere nel debito conto i delicati equilibri degli ecosistemi in cui l’agricoltura viene praticata.