L'agricoltura
I. "Non ara, non semina, non vendemmia"
È fin troppo nota l'immagine dei Veneziani suggerita dal commentatore delle Honorantie civitatis Papie al principio del secolo XI. Dalla capitale del regno italico, osservatorio eccellente di popoli e costumi diversi, la gente delle lagune venete che s'imponeva sempre più all'attenzione dei terrigeni padani con una propria inconfondibile fisionomia di patria e di stato, appariva singolare anche e soprattutto perché "non ara, non semina, non vendemmia", pur senza mai soffrire di penuria di scorte alimentari (1). Un'immagine che fu ideata ed ha conosciuto una straordinaria fortuna nella storiografia su Venezia più come metafora dei suoi eccezionali trionfi commerciali e marinari che come denuncia degli altrettanto singolari limiti della sua agricoltura.
Insignificante, marginale, comunque subordinata, nel quadro economico della città e del dogado, allo schiacciante rilievo dei traffici e delle manifatture o alle esigenze di altri settori produttivi trainanti, quali la coltura delle saline o la pesca: così si potrebbe infatti riassumere il giudizio di fondo espresso in forme più o meno sfumate da quanti hanno fatto riferimento all'agricoltura veneziana per il periodo anteriore alla conquista della terraferma (2). V'è addirittura da dubitare, stando al pochissimo che si è scritto sull'argomento, che si sia mai posto un 'problema' della agricoltura veneziana medioevale se non come corollario della fondamentale istanza mercantile (3).
Le recenti significative acquisizioni su un tema a lungo dibattuto in termini alquanto generici, quale quello della penetrazione fondiaria veneziana nella terraferma nella fase anteriore alla conquista di quest'ultima, non modificano, nella sostanza, quest'impressione. La prospettiva resta sempre quella di precisare chi, dove e quanto investì nell'acquisto di patrimoni terrieri fuori del dogado, con una lettura degli eventi di fatto subordinata a una miglior comprensione dei meccanismi mediante i quali si formò e si trasformò uno speciale patriziato e un'altrettanto singolare costruzione politica che ebbero altrove, in un impero commerciale-mediterraneo, il loro punto di forza e la loro stessa ragion d'essere (4). Un discorso specifico che illustri analiticamente gli aspetti strutturali dell'agricoltura veneziana nel medioevo e ne mostri in forme convincenti gli sviluppi peculiari e, se si vuole, le insufficienze è ancora di là da venire. Un simile 'vuoto' storiografico ha ragioni obbiettive più che comprensibili né vi è motivo di credere che lo sforzo di colmarlo possa incidere più di tanto in una ricostruzione globale della vicenda storica di Venezia.
Ciò nondimeno tanti e tali sono i progressi fatti in quest'ultimo dopoguerra dalla storia agraria medioevale dell'Italia e della regione padano-veneta in particolare (5) che oggi più di ieri può risultare interessante saggiare la validità dell'antico topos del popolo vissuto e cresciuto estraneo alle abitudini contadine delle vicine genti del regno italico. Tanto più che non mancano, a cercarle, indicazioni che possono correggere o almeno attenuare convinzioni radicate e mai discusse. Come quel castigato resoconto documentario di metà Duecento che mostra i Veneziani "in atto di scambiare sale, cipolle ed aglio con biade di ogni sorta" nella terraferma friulana (6), ad esempio. Di fronte al quale bisognerà pur ammettere che, pur rimanendo dei formidabili procacciatori e consumatori di derrate agricole altrui, gli abitanti del dogado siano stati, almeno in certi periodi della loro storia e per certi prodotti, anche esportatori di risorse agricole native.
2. L'ambiente lagunare e le sue risorse agricole tra tardoantico e altomedioevo
V'è dunque forse qualche possibilità di salvare alla storia le ragioni dell'agricoltura nella Venezia altomedioevale. Ma a patto di tener correttamente di vista sempre un quadro di possibilità e di limiti dati. A qualunque fase della sua esaltante origine ci si riferisca - Venezia lembo marginale di una regione italica del tardo impero, Venezia provincia estrema del grande ecumene bizantino che si organizza e progredisce tra oriente e occidente, Venezia ducato autonomo che afferma la sua forte centralità di stato mediterraneo -, Venezia vuol dire pur sempre una realtà geopolitica formata essenzialmente da acque, quasi 'un territorio senza terra'. Quello che nelle più disparate situazioni urbane italiane e in relazione a diversi contesti cronologici potremmo chiamare un agro o un contado o un territorio, nel caso di Venezia è in realtà una vasta distesa liquida solo inframezzata e contornata da un fragile e proporzionatamente ridottissimo sistema di isolette, di lidi, di lingue di terra rivierasche e deltizie. Se il dato, ovvio ma vincolante, della maggiore o minore disponibilità di superficie terrestre dev'essere messo nel conto per ogni macroscopica valutazione di storia agraria, allora è innegabile che la strutturale carenza di suoli creò per Venezia dei presupposti davvero eccezionali, neppur lontanamente paragonabili, ad esempio, a quelli di altri grandi centri marinari medioevali quali Pisa o Genova (7).
Questa costatazione preliminare non cessa a nostro giudizio di essere vera, e perciò quanto mai opportuna, comunque si pensi di risolvere questioni a lungo dibattute e ardue, quali l'evoluzione generale della laguna negli ultimi due millenni in rapporto all'azione dei fiumi e alle cosiddette 'trasgressioni' marine o l'andamento effettivo, dei confini di terraferma del nascente stato veneziano. Si tratta, com'è intuibile, di variabili che sembrano aver condizionato alla base e per lungo tempo le immediate risorse fondiarie della popolazione del dogado. Da un lato v'è l'orientamento prevalente di chi, con sobria aderenza alla documentazione scritta, ritiene che "la regione, nel suo insieme morfologico, non ha mutato dall'epoca classica ai dì nostri la sua fisionomia in modo radicale" (8), eccezion fatta per limitate zone deltizie del Piave e del Brenta-Adige.
Dall'altro v'è chi si è sforzato di dimostrare che l'attuale specchio lagunare si sarebbe invece formato in tempi più recenti per un complesso di cause naturali. Secondo una recente ipotesi, propugnata con diluviale messe di disparati indizi, esso sarebbe addirittura stato un territorio romanamente organizzato, a lungo vitale, anche se rattoppato, grazie al riordino militare e agrario delle Venezie operato da Bisanzio (9).
Comunque sia, anche a voler far spazio a quest'ultima teoria, è difficile negare che almeno dai secoli VIII-IX, da quando cioè dalla frastagliata realtà della Romània altoadriatica venne enucleandosi una ben definita patria Veneziana, questa si strutturò su un insieme di lidi e di isole - specialmente il gruppo torcellano e quello realtino - la cui fisionomia non è mutata granché rispetto ad oggi. "Né ubertose pianure invase dal mare, né grandi città sommerse" (10), dunque, che possano farci immaginare per i primordi di Venezia chissà quali "vaste distese agrarie" e "rilevanti proprietà" venute meno già intorno al Mille (11).
D'altra parte, per quanto tormentato e laborioso sia stato il cammino che condusse al precisarsi di una frontiera evidente e stabile con la Langobardia prima (se mai vi fu) e col regno italico poi, bisogna ammettere che dalla fine del VII, dopo la perdita definitiva dell'agro opitergino-altinate, la fluttuazione dei territori continentali appartenenti a Venezia durò a lungo ma fu, in termini quantitativi, minima (12). Di fatto le zone di terraferma che furono riconosciute proprietas del ducato furono circoscritte a quei brevi e intermittenti spazi che conosciamo dalle migliori e più abbondanti fonti dei secoli X-XII: l'enclave di Cittanova; alcuni brandelli estremi dell'agro altinate compresi fra Zero e Sile; modeste teste di ponte intorno a Marghera e al Bottenigo, accanto a una Mestre che fu sempre terra straniera; il più ampio delta ilariano del Brenta; le aree paludose e deltizie di Chioggia e Cavarzere, fino all'estremo limite di Loreo.
Impiantata saldamente entro uno spazio geografico, come quello accennato, dalle ridotte possibilità agricole non solo per la mancanza di terreni ma per tutta una serie di fattori ambientali sfavorevoli (erosioni delle rive, alluvioni dei fiumi, maree, impeto dei venti, penuria d'acqua nelle isole, etc.), la società lagunare tardoantica sembra aver escluso in origine dal proprio orizzonte mentale la possibilità di dedicarsi alla coltivazione della terra. Nonostante vecchie e recenti riletture del celeberrimo brano cassiodoriano, che descrive la Venezia marittima agli inizi del VI secolo, si ostinino a far parola di "ortolani" e di "coltivatori" accanto, ovviamente, a salinari, barcaioli, pescatori e mercanti o di "coltura di ortaglie, di leguminose, di frutteti" (13), accanto alla produzione del sale, alla pesca, alla marineria e ai traffici, in realtà, la fonte non autorizza in alcun modo simili affermazioni. Anzi. Essa apertamente rileva l'assenza di suoli coltivati e la sottolinea come peculiare di questo mondo di "uccelli acquatici", di laboriosa popolazione tutta intenta a manovrare i rulli delle saline anziché gli aratri e le falci ("In salinis [...> exercendis tota contentio est: pro aratris, pro falcibus, cylindros volvitis "). In un contesto in cui nessun trauma era ancora intervenuto a spezzare il nesso politico ed economico tra Venezia di terraferma e Venezia marittima, la crescente popolazione della seconda doveva trovare più agevole e vantaggioso potenziare e qualificare ruoli e attività economiche propri, ancora perfettamente integrati su scala regionale col continente, nonostante le difficoltà dei tempi (14). Dalle saline nasceva ogni possibilità di guadagno e di acquisto degli indispensabili prodotti della terra (così sembra si possa più correttamente intendere 1'"inde vobis fructus omnis enascitur"). V'era abbondanza d'imbarcazioni. Il rifornimento di cereali e altre derrate agricole poteva essere quotidianamente garantito penetrando i fiumi delle vicine campagne venete e friulane, setacciando mercati e magazzini di città e villaggi impoveriti ma pur sempre a portata di mano. In alternativa rimanevano luoghi d'approvvigionamento più lontani, ma ugualmente raggiungibili con qualche giorno di navigazione endolagunare e costiera. E proprio Cassiodoro, informandoci del prezioso ruolo che i Veneti marittimi potevano svolgere coi loro tribuni nel trasportare dall'Istria fino a Ravenna i carichi di vino e di olio di cui la capitale del regno ostrogoto abbisognava, lascia intuire con quale facilità la gente delle lagune riuscisse, se necessario, a far provvista di alimenti in questa terra "gravidam vini olei vel tritici" al punto da essere definita "campagna di Ravenna, magazzino e dispensa della città regia" (15).
In un paesaggio dall'insediamento sparso che - come continua ad insegnarci Cassiodoro - richiedeva un assiduo e duro intervento umano per costipare terreni melmosi o trattenere quelli friabili mediante graticci di vimini e altre opere di difesa, si può ben ammettere che la cura hominum si applicasse anche a ricavare un po' dovunque piccoli ritagli di terra coltivata destinati a fornire ortaggi e frutta per il consumo domestico. Ma di qui a immaginare negli spazi lagunari venetici del tempo la presenza di chissà quali 'articolati' e 'complessi' sistemi economici, sopravvalutando il fatto agrario, ne corre (16). Lo stesso rinvenimento di qualche manciata di vinaccioli e di semi d'alberi da frutto e di cetriolo (non di pinoli e di nocciole, che, com'è noto, sono prodotti di vegetazione spontanea piuttosto che coltivata) nei recenti scavi di Torcello, va preso per quello che è e non enfatizzato; senza dire dei persistenti e legittimi dubbi sul fatto che si tratti effettivamente di prodotti locali risalenti a questa fase anteriore all'occupazione longobarda della terraferma (val la pena ricordare che in base alle risultanze più aggiornate degli stessi scavi torcellani una abbondantissima classe di materiali relativi al primo livello antropico dell'isola, che va dal V al VII secolo, è costituita da anfore di tipi mediterranei diversi, "impiegate per il trasporto di derrate alimentari diverse, in particolare olio e vino") (17).
Allo stato delle conoscenze si è portati piuttosto a ritenere che nuove necessità e nuovi atteggiamenti mentali e pratici nei confronti dei problemi agricoli si affacciarono ed esplosero nelle lagune solo durante i due secoli che stanno a cavallo della distruzione longobarda di Oderzo e del conseguente smembramento del suo agro, nel 667. L'intensificato afflusso di abitanti e il definitivo trasferimento dei quadri politico-amministrativi dalla terraferma e soprattutto la sanzione di una irreparabile frattura nell'unità del Veneto ebbero effetti imprevisti e durevoli sulla provincia lagunare lasciata alla sudditanza bizantina, anche per quanto concerne lo sviluppo del popolamento e delle attività economiche.
Il venir meno, sotto la pressione longobarda, di un regolare e sicuro sistema di rifornimenti alimentari dalla immediata terraferma, non poté infatti che agire da stimolo a sviluppare al massimo livello tutte le risorse locali da un lato e a potenziare dall'altro i collegamenti esterni via mare coi territori bizantini dell'Adriatico e dell'Italia meridionale. Per quanto deludenti e infide, le scarse informazioni disponibili per questo oscuro periodo della storia veneziana non lasciano dubbi in proposito. La fondazione o il consolidamento di centri dalla fisionomia semiurbana, come Grado e Cittanova Eracliana, e la comparsa di una rete di castra e di minori nuclei demici disseminati in tutto l'arco lagunare vanno in realtà letti anche come segni di una meditata e capillare colonizzazione dell'ambiente lagunare da parte di una società ormai attrezzatasi per realizzare un simile programma. Così almeno ci sembra che si possa interpretare tutto un insieme di interessanti spunti suggeriti dalle cronache veneziane più antiche (18). Proponendo in una cornice fantasiosa e miracolistica, quasi atemporale, l'episodio dell'occupazione e della sacralizzazione di lidi e tumbe del nascente episcopato Torcellano per iniziativa congiunta dei notabili laici fuggiaschi da Altino e del protovescovo Mauro, in realtà tali fonti riassumono paradigmaticamente tutto un effettivo lavorìo di assestamento socioambientale che si prolungò qui e altrove nella provincia Venetiarum per parecchie generazioni. Durante questo difficile ma ormai metodico e ostinato processo di antropizzazione dell'ambiente lagunare, protrattosi per tutta la fase tribunizia e del primitivo ducato, emergono per la prima volta alcuni lineamenti realistici della primitiva agricoltura veneziana. Nel lungo cordone litoraneo che sarebbe stato appunto chiamato (con una giustificazione a posteriori poco verosimile) 'Bovense' vediamo concentrarsi da un lato uomini e genti di diversa provenienza, dall'altro mandrie copiose di buoi e di bufali, mentre il lido che sarà battezzato col nome di 'Vignole' si presenta "pieno di vigne portanti uve maturissime ". Di più. Si può dire che tutto il 'rito' dello stanziamento dei profughi dalla terraferma intenda assecondare e legittimare una presa di possesso funzionale allo sviluppo agricolo non meno che all'ordinata distribuzione degli agglomerati umani per le contrade della laguna. Nella medesima rievocazione cronachistica esso avviene infatti coll'assegnazione a gruppi di agricoltori e coloni di terra da far fruttificare ("ut laborationes facerent") in modo programmato; tant'è che si fissano per iscritto gli oneri di ciascuno nei confronti della chiesa Torcellana, cui si riconosce un superiore diritto su tutti gli incolti: due tralci d'uva per ogni solco di vite piantata, otto nummi per ogni casa di massaro costruita e onoranze di cera, uova, polli, primizie della faticosa opera di redenzione delle lunghe strisce sabbiose (19).
In onore dei santi, dal cui intervento diretto è propiziata l'impresa di umanizzare convenientemente la laguna, si costruiscono chiese e luoghi pii, al sostentamento dei quali si piantano pure vigne e si installano mulini (20). E lo stesso si fa nelle isole, come ad Ammiana, ad esempio, dove al ceto locale dei tribuni è concesso di prendere "terre multitudinem ut construerent vineas" (21). Tutta la leggendaria epopea di radicamento territoriale dei gruppi umani più forti e meglio organizzati in diversi punti della frastagliata zona costiera da Aquileia alle foci del Po, anche oltre i confini dell'episcopato Torcellano, adombra d'altronde, nel racconto dei più tardi cronisti, un analogo interesse per la messa a frutto dei ridotti lembi di terra disponibile. Nelle vicinanze del castello di Equilo, ad esempio, si attua una divisione di proprietates et praedia e si fanno opere di canalizzazione; ai contadini di condizioni sociali diverse rimasti ad Eraclea, tra cui parecchi cultores vinearum, si consente di possedere e sfruttare le loro proprietates, silvas ac vineas; ai profughi concordiesi che s'insediano a Caorle e presso le foci del Livenza si ordina di "facere omnem laborationem de campis sive de pascuis bestiarum" e di recapitare legname a palazzo nella misura di un carro su venti per ciascun colono o massaro (22). Anche a Cittanova i duchi si riservano, d'intesa coi tribuni, un'aliquota dei prodotti agricoli e come un po' in tutto il ducato caricano gli abitanti di censi e servizi a vantaggio dello stato, tra i quali si menziona espressamente l'aratura delle vigne (23). Talora le cronache fanno riferimento preciso a singoli individui o a piccoli gruppi parentali che si vogliono antichi tanto quanto la patria. Così, a tale Etolo e ai suoi, i duchi e i tribuni affidano l'incarico di custodire le moltitudini d'armenti possedute nel territorio del Piave; i Pascalici invece portano a pascere le greggi dei maiali; i Cristoli castrano e scannano cavalli; ai Ceresei compete guidare carri e buoi; i Venieri, detti Ranari, conducono per nave rape, cavoli e porri (24). Così come per le persone, anche per le località s'inventano spiegazioni paretimologiche chiaramente infondate, che sono tuttavia spie preziose dell'affermarsi di consuetudini agricole e zootecniche nel ducato fin dal primo altomedioevo. Per cui Fosson si vuole così chiamata per i laboriosi lavori di escavo di scoli, che si fan qui come a Loreo, e Olivolo per l'"immanis olivarum arbor" che proiettava la sua ombra sulla chiesa dei SS. Sergio e Bacco (25); mentre i fondatori di Equilo avrebbero in tal modo battezzato tale nuovo centro proprio "a multitudine equorum qui ibidem nutriebantur" (26).
Nella disperante situazione delle fonti relative ai primordi di Venezia questo nocciolo di spunti opportunamente filtrato dalla lussureggiante e immaginosa cronachistica posteriore al Mille ci pare non disprezzabile, anche se poco convalidato, come si vorrebbe, dai dati documentari.
3. Il mito della 'grande aristocrazia terriera'
Inutile illudersi, infatti: i praedia e le possessiones di cui in queste pagine si ragiona non li conosceremo mai. E quasi invisibile è pure il volto di quella aristocrazia della nascente Venezia, costituita dalle famiglie di tradizione tribunizia e dagli altri quadri dell'amministrazione bizantina, cui dovevano appartenere. In ogni caso dobbiamo ribadire l'assoluta modestia degli uni e dell'altra, di fronte al parallelo svolgersi della vicenda della terra e degli uomini nelle regioni dell'Italia longobarda e carolingia (27).
Da una lettera degli anni 770/772 rivolta dall'arcivescovo di Grado al papa, con cui si lamentavano le arbitrarie esazioni "ex tritico et singula animalia" imposte alle genti dell'Istria dai Longobardi, sappiamo dell'esistenza in quella provincia di proprietà di agenti e contadini della chiesa gradese (28). E noto poi che ancora nel 785 perduravano "predia et possessiones" dei Venetici in Romagna e nella Pentapoli, che Carlo Magno intendeva appunto eliminare, assieme alla loro invadente presenza mercantile (29).
E un privilegio d'immunità rilasciato dallo stesso Carlo Magno al patriarca di Grado nell'8o3 ribadisce la tenacia degli interessi fondiari ereditati o costruiti dai ceti dominanti e dall'alto clero della Venetiarum provincia "in Istria, Romandiola seu Langobardia" (in un ordine forse non casuale, ma realmente rispecchiante la differente e graduata importanza di terre e rendite) (30).
Ma sia chiaro: da queste indicazioni, oltre che dagli sviluppi più generali della storia politico-militare (si pensi all'episodio del temporaneo rifugio nelle lagune venete dell'esarca di Ravenna intorno al 740), abbiamo piuttosto una conferma indiretta del fatto che, nonostante i progressi, le risorse dell'agricoltura veneziana rimanevano nettamente insufficienti al fabbisogno alimentare. Di conseguenza si dovette continuare a ricorrere, specie per i rifornimenti granari, alla tradizionale politica di importare da fuori il necessario: con la novità, forse, di accentuare anche per questo aspetto la circolarità di relazioni e la solidarietà con le province altoadriatiche di tradizione bizantina e in particolar modo con l'Istria, il cui ruolo di discreto serbatoio di derrate agricole diverse e di armenti per i convicini della Venetia andrebbe, anche alla luce delle dettagliate notizie fornite dal placito di Risano, rivalutato (31). L'episodio dei Veneziani che, per ostentare la loro autonomia alimentare, nell'808 catapultarono pani e vettovaglie sull'esercito del re Pipino, spintosi nelle lagune con la convinzione di poterli rapidamente debellare per fame, potrebbe essere assunto come indicativo della delicatezza del problema annonario e della difficoltà estrema di risolverlo almeno fino all'età carolingia in assenza di una solida agricoltura propria e nell'impossibilità di costruire e mantenere nella vicina Langobardia un rilevante complesso di proprietà terriere (32).
Di queste ultime, e più in generale di come e dove si coltivasse la terra a vantaggio della popolazione veneziana, possiamo avere un'idea documentata solo dal IX secolo e solo per sporadici barlumi.
Dai lasciti fatti l'anno 824 dal patriarca Fortunato a diverse chiese del ducato sappiamo ad esempio che la mensa gradese disponeva di alcuni casalia con vigne, campi e uliveti, cioè di unità poderali complete di medie dimensioni, con abitazione contadina e torchi, del tipo di quelle diffuse contemporaneamente anche nel territorio italico assieme alle più vaste aziende curtensi (33). Verosimilmente esse si trovavano in Istria, così come dall'Istria provenivano forse in gran parte le non disprezzabili scorte di grano e di vino (115 moggia e 209 anfore rispettivamente) di cui il patriarca disponeva per i suoi legati.
Nell'ambito della laguna si trovavano invece le isole di Barbinio e di S. Giuliano, nelle quali il presule spediva piccoli gruppi di preti provvisti, tra l'altro, di lana, cuoio, pelli, canapa e di 12 cavalli a fondare o a rifondare chiese: un'iniziativa che, a giudicare anche da tutta la forte spinta alla costruzione di cappelle e monasteri manifestatasi nel corso del IX secolo, rispondeva a una volontà di più integrale conquista e messa a coltura dei terreni affioranti dalle ampie distese acquee non meno che a preoccupazioni pastorali.
Per un prelato che si mostra in possesso di gran copia di oro, argento e gemme, di vasi e immagini sacre, di tessuti e vesti, di scrigni e recipienti metallici, di case e navi; che fa venire oggetti di lusso e piombo da Costantinopoli e carpentieri dalla Francia; che vanta di poter abbellire le sue chiese con "tales coronas quales hodie in Italia non sunt", non si può dire che si tratti di un patrimonio terriero significativo, specie se raffrontato con le enormi riserve di boschi e prati e le distese cerealicole inframmezzate di vigneti e oliveti di cui disponevano contemporaneamente in Italia e nella vicina terraferma vescovadi, abbazie, canoniche, e perfino certi possidenti laici di buona ma non eccelsa condizione (34).
Ancor piu ridotto era probabilmente il complesso di terre su cui poteva contare l'episcopato di Olivolo, il cui vescovo nell'853 denunciava la proprietà di un numero imprecisato di case e vigneti circondati da muriccioli, oltre che di consistenti somme e di altre ricchezze mobili (35).
Come in questo caso, quando altre fonti del tempo alludono a praedia e possessiones di tale o talaltra fondazione pia ottenute grazie alla munificenza dei Venetici più ricchi (come quelle della chiesa di S. Moisè o del monastero di Brondolo tra la fine dell'VIII e gli inizi del IX secolo, ad esempio) è da presumere che si tratti, appunto, di terreni di dimensioni ridotte o ridottissime, quantunque intensivamente coltivati e spesso recintati e gelosamente difesi dai danni della natura e dell'uomo.
Un'organizzazione agraria che possa in qualche modo equipararsi alle tipologie curtensi prevalenti nelle vicine regioni continentali d'influenza franca si può ipotizzare, invece, entro i confini del ducato, per i possedimenti dell'abbazia di S. Stefano di Altino. Sorto in corrispondenza della città antica, al centro di una delle poche ampie zone di terraferma rimaste unite politicamente e religiosamente al mondo lagunare, il cenobio già nell'anno goo lamentava di fronte al doge le tremende devastazioni dei suoi possedimenti subite ad opera degli Ungari (dai quali coloni e operai erano stati massacrati o costretti alla fuga) e contro le indebite vessazioni del vescovo torcellano vedeva riconosciuti i suoi diritti sulla vasta selva di Ceggia (36).
In quest'area di bassure costiere dall'instabile equilibrio idrografico si praticava - secondo quanto affermano posteriori testimoni - l'uccellagione, lo sfalcio dell'erba, il taglio del legname, l'allevamento dei bovini; ma c'era spazio anche per attività non legate a una mera economia di tipo silvo-pastorale, giacché nelle possessiones appartenenti agli stessi monaci di S. Stefano, all'episcopio torcellano e ai canonici veneziani vivevano dei laboratores con case contadine, sorgevano delle curie per l'ammasso dei prodotti, si nominavano dei sorveglianti per le messi (iurati pro custodiendis segetibus) (37). Altre modeste teste di ponte continentali con discrete tenute agricole di questo tipo sembra esistessero già agli inizi del IX secolo anche intorno a Cittanova, dove il duca Giustiniano Particiaco disponeva di un complesso di vigne, prati e campi e aveva personalmente fatto costruire case e stalle per cavalli, buoi, maiali, nel vicus di Equilo, nell'isola deltizia del fiume Une, poco sotto Mestre (38). Quest'ultima zona, in particolare, mostra sviluppi che si possono ritenere nuovi per l'agricoltura veneziana. Sappiamo infatti che la comunità monastica che vi si tra-piantò nell'829 soffriva della disagevole collocazione "in loco angusto [...> infra paludes". Nel bel mezzo della laguna, inoltre, i monaci erano "possessionibus carentes unde victui necessaria sub⟨m>inistrarent", mentre la nuova sede, ricavata da una vecchia cappella di diritto ducale, fin dalle origini si prestò a diventare non solo centro propulsore di una intensa opera di umanizzazione del territorio circostante, ma funse anche da piattaforma cui agganciare tutto un mondo di interessi, anche fondiari, che si andarono costruendo nella terraferma, sia entro sia fuori i confini del ducato, grazie anche ai migliorati rapporti politici coll'impero d'occidente: tant'è che già all'atto del loro trasferimento nel delta detto Ilariano dal nome del monastero i religiosi ottenevano dalla famiglia ducale dei Particiaci, col favore della quale si compiva l'operazione, anche quindici masserie (non sappiamo quando e come passate in mani veneziane) nel vicino entroterra soggetto al comitato trevigiano; mentre lo stesso Carlo Magno avrebbe permutato col vescovo di Treviso e donato alla giovane abbazia la corticella di Platanum, dotata di un porto, una cappella e delle proprietà governate da dodici coloni (39).
Il pochissimo che ancora si può percepire sull'agricoltura veneziana del IX secolo indica la costante preoccupazione di conservare, nell'ambito di una più generale politica di intese e di buon vicinato colle autorità del regno italico, questi nuclei, probabilmente ancora assai modesti, di proprietà agrarie collocate fuori dei confini del ducato, in terra veneta, friulana e istriana, e mostra che almeno alcune delle comunità venetiche più popolose, come Grado, Caorle, Equilo, Cittanova, continuavano anch'esse di necessità a trovare uno sbocco nelle vaste boscaglie umide dell'hinterland principalmente per attingere legname e per mantenere al pascolo un discreto patrimonio animale, formato soprattutto da equini e suini (40).
4. Il nuovo interesse alla terra dei secoli X-XI
Un apprezzabile interesse verso la terra e la produzione agricola si può riscontrare però presso i gruppi dominanti veneziani a partire dal X secolo. Quanto meno le fonti superstiti indicano che si debbono far risalire a questo periodo le prime importanti mosse nella costruzione progressiva di quel sistema fondiario sparso ed elastico, che tra la fine del XII secolo e il principio del XIII assunse le dimensioni di un vero e proprio 'contado invisibile', frammentato in tutto il lungo arco di terraferma compreso tra le Marche e la Dalmazia. Tra il 914 e il 928, ad esempio, passarono nelle mani delle monache di S. Zaccaria i complessi dominicali delle corti di Petriolo, in Monselice, e di Cona (41); e già prima del 963 le stesse religiose avevano esteso i loro possedimenti anche nella Saccisica, a Lova e lungo il basso corso del Livenza, a Lorenzaga (42). Nel 954 l'abbazia della SS. Trinità e S. Michele Arcangelo di Brondolo ottenne anch'essa da illustri esponenti dell'aristocrazia del regno italico una vasta azienda, quella di Bagnoli, comprendente due centri padronali, cinque cappelle e non meno di 130 masserie sparpagliate nella bassa pianura padovana, a nord dell'Adige (43).
Ma si pensi anche, per ricordare la famiglia veneziana che tra X e XI secolo ebbe più sistematicamente e acutamente presente l'orizzonte politico della terraferma, ai possedimenti acquistati fuori del dogado dai Candiani: la vasta penisola delle Fogolane e di Conche, rinchiusa tra il Brenta e le valli lagunari, alle spalle di Chioggia, nel 944 (secondo informazioni posteriori di poco più di un secolo la proprietà era stimata in 2000 iugeri di terra); la corte di Musestre, nel Trevigiano, cui erano annesse la selva di Vivalda, il prato Reale e il villaggio di Barbarana, nel 963; nel 972 la tenuta di Isola, presso Capodistria (trasferita tosto alla mensa patriarcale gradese, alla quale Ottone I concedeva nel 974 un privilegio d'immunità per svariati possessi non solo nella penisola Istriana, ma anche in Friuli, a Bologna e in Romagna). Senza dire poi di altri possedimenti - ad esempio quelli della zona intorno a Campalto e Tessera - che gli stessi Candiani riuscirono pure ad acquistare in momenti imprecisati tra il X e l'XI secolo (44).
Si potrebbero individuare disparati motivi particolari, non solo economici, che presiedettero a queste operazioni e probabilmente ad altre similari, che non ci son note. Ma è discorso che qui non interessa. Così come è appena il caso di ribadire che se nell'impostare e nell'attuare un simile programma di incremento fondiario si preferì puntare quasi esclusivamente sull'azione degli enti religiosi, specie monastici, variamente 'pilotati' dalle principali famiglie del mondo lagunare, ciò si dovette, prima che ad altre ragioni cui pure si è pensato, alla ovvia preoccupazione di garantire ai patrimoni via via sottoposti al controllo veneziano la costante protezione della mano pubblica e del papato (e le vicende dei. secoli XI e XII mostrano che questi primi germi di proprietà terriera extraducale, sollecitati per lo più mediante donazioni e lasciti, non ebbero affatto difficoltà a rimpolparsi e ad infittirsi con esplicite e mirate scelte di natura economica proprio perché posti e mantenuti al riparo dell'immunità ecclesiastica contro gli imprevedibili e ricorrenti attentati dei centri di potere della limitrofa terraferma) (45).
L'importante è rilevare come già allo scadere del primo millennio di Cristo emergessero l'orientamento e l'attiva volontà di costruire una proprietà terriera veneziana degna di questo nome, spingendo verso il continente, oltre quella labile ma obbligante frontiera di argini e cippi terminali da cui, come annotano le fonti letterarie, si "entrava" e "usciva" dal piccolo stagno dei Venetici verso il regno italico.
In concreto, già prima della fine del X secolo si iniziò a disporre di un nuovo minimo polmone di compensazione per far fronte al crescente affanno dei problemi annonari, specialmente per generi di consumo essenziali, come il vino, o ancor più, i cereali. Basti considerare, ad esempio, che i circa 350 campi della sola tenuta di Ronco all'Adige, che le monache di S. Zaccaria ebbero per testamento dal marchese e conte di Verona, Milone, fin dal 955, continuarono a fruttare annualmente fino al-l'ultimo decennio del XII secolo, quando le religiose presero a gestirli in economia diretta, un censo di 100 moggia (cioè 230 q. circa) di frumento, e 100 moggia (pari a 310 hl.) di vino, oltre a 20 soldi (46); laddove il tributo annuale che l'intera città di Capodistria iniziò a versare al doge nel 932 ammontava a Ioo anfore di vino (47).
Ma, al di là degli aspetti quantitativi (modesti, in realtà, se l'ordinaria politica di acquisti di grano a Costantinopoli durava certamente ancora sul finire del X secolo, come lascia intendere Liutprando da Cremona) (48), i veri progressi dell'agricoltura veneziana vanno appunto individuati in un graduale mutamento di mentalità, che consentì anche alla gente che nella communis opinio "non arava e non seminava" di partecipare con un suo limitato ma inconfondibile ruolo alla cosiddetta `rivoluzione agricola' prodottasi nel continente europeo dopo il Mille.
Tale specificità presenta due volti distinti, che è tuttavia opportuno considerare insieme, come espressioni di un processo unico.
Da un lato, in concomitanza di un forte rimescolamento delle popolazioni lagunari e di una più netta differenziazione tra sedi a vocazione urbana e zone più debolmente umanizzate, si puntò a uno sfruttamento ottimale di tutti i suoli del ducato non altrimenti utilizzati (essenzialmente quelli sottratti alla crescente domanda di aree fabbricabili); dall'altro si realizzò l'idea di investire più ampiamente e sistematicamente nell'acquisto di poderi e campi nella terraferma, curandone direttamente la gestione e introducendovi migliorie.
Si è autorevolmente ipotizzato che tra il X e l'XI secolo si sia verificato "nel panorama lagunare un notevole cambiamento nel regime della proprietà e in quello delle culture" (49). La scomparsa dell'allodio e la riduzione dei beni comunali a vantaggio delle maggiori unità fondiarie laiche ed ecclesiastiche avrebbero comportato, tra l'altro, il normale ricorso alla concessione della terra in enfiteusi e un incremento sostanzioso delle due colture specializzate più idonee alle possibilità dei luoghi, cioè quella viticola e quella orticola. Su quest'ultimo punto non si può non essere d'accordo. Gli altri si possono discutere, stanti l'oscurità della situazione pregressa e la qualità dei materiali su cui deve fondarsi l'analisi (per la stragrande maggioranza atti delle fondazioni religiose, principalmente monastiche).
Comunque sia, resta l'evidenza di un dinamismo e di una vivacità che presentano analogie col simultaneo rinnovarsi dell'agricoltura in terraferma.
5. Ortolani e viticoltori tra isole e lidi: il caso chioggiotto
Molteplici sono in questi due secoli le menzioni di orti, vinee, pecie piantate de vinea, terre cum urto et vinea, normalmente ubicate accanto alle abitazioni, che hanno in media dimensioni di qualche decina di piedi di lato, con precisazioni frequenti ad unguem in palmi e dita (50) (una particolarità, quest'ultima, non esclusiva ma fortemente caratteristica del consorzio umano veneziano, abituato a misurare con larghezza e coraggio i grandi orizzonti terracquei lontani e a centellinare guardingo i minuscoli suoli domestici). Qualcuna poteva essere designata addirittura con un nome proprio, come la "Bergolina" che i Gradenigo tenevano a Murano nel 1115 (51). Nella maggior parte dei casi, però, si ha qui l'impressione di essere di fronte a innumerevoli tesserine accuratamente governate a vanga e zappa proprie di un habitat che può giudicarsi ormai semiurbano, equiparabili ai diffusissimi 'broli' o 'verzieri' annessi alle abitazioni delle città medioevali padane; tant'è che per l'affitto di simili lotti si prevedono di norma non censi in natura ma in danaro (con eventuali onoranze di olio), così come d'uso per gli immobili a destinazione abitativa.
Più che in questa agricoltura marginale, insidiata e rapidamente battuta, specie nelle isole realtine, da un intenso sviluppo edilizio, le novità sono percepibili in quelle zone del ducato che col procedere del XII secolo vennero qualificandosi più distintamente come 'campagna' rispetto ai nuclei di popolazione concentrata (52).
Tra queste, il non disprezzabile agro chioggiotto può essere assunto a paradigma ideale di sviluppi interessanti un po' tutto il dogado e certi tratti di terraferma che in ordine alla proprietà e alla gestione amministrativa tra XI e XII secolo cominciarono a far corpo con esso.
Quale rilievo potesse avere l'attività agricola in quest'angolo meridionale della provincia veneziana gravitante sulle foci del Brenta, dove fin dall'840 risulta formato uno dei più robusti centri di vita organizzata delle lagune, è difficile dire fin poco dopo il Mille (53). La generica menzione di mansiones, vineas, ortos e di prodotti della locale economia quali castrati, polli, fieno fin dal 1023 lascerebbe intuire la presenza di un minimo di consuetudini agrarie piuttosto antiche (54). Ma è soltanto da questo periodo in poi, tuttavia, che si può a larghe linee seguire l'evoluzione di uno specifico rapporto fra uomo e ambiente orientato verso la riduzione degli incolti e lo sviluppo di una agricoltura intensiva incentrata sul vigneto, che corre parallelo con quello, ben conosciuto, della vicina terraferma padovana.
Agli inizi dell'XI secolo l'unica comunità civile e religiosa di Chioggia (populus, plebs) rimaneva sostanzialmente articolata sotto il profilo insediativo in due fondamentali nuclei (o vici) affrontati e separati dall'acqua, detti rispettivamente 'Chioggia maggiore' e 'Chioggia piccola': due fuochi di vita organizzata già ben solidificati nei quali andò trionfando una tendenza coesiva delle abitazioni su lotti detti 'ariales', 'casarimina', 'casamenta' (sia fuori sia all'interno del castellum). Come lasciano chiaramente intendere i documenti, questo era in realtà il punto di convergenza di un territorio deltizio più vasto, tutto increspato secondo l'enunciato di un atto del 1048 -, di "tombe, rivoli, paludi e canneti" (55); ad esso si riannodavano dalla parte del mare piccoli dossi e barene prossime al centro abitato e dal versante della terraferma una serie di vere e proprie isole fluviali assai più estese, come le due Fogolane, Calcinara, le Bebbe, l'Oltrebrenta di Brondolo, che avevano funzionato per secoli da spazio frontaliero tra Venezia e il regno italico, con tutte quelle caratteristiche di 'desertificazione' o almeno di spopolamento che per simili zone comportavano le naturali precarie condizioni idrografiche e fors'anche consapevoli scelte di ordine politico (56).
Fu appunto questo territorio la potenziale 'campagna' dei Chioggiotti dei secoli XI-XII; la loro piccola frontiera agricola, dubbia e malagevole certo, ma non proibita. Tanto più che a dispetto del loro esiguo numero (in una assemblea di capifamiglia de ambas Clugias del 1027-28 si contano poco più di un centinaio di intervenuti) (57), gli homines o vicini da generazioni aggrappati a questo fragile diaframma in bilico fra terra e mare erano un gruppo ben addestrato a gestire in forme consortili o comunitarie valli da pesca, saline, boschi (considerati questi, come spesso i pantani, i giuncheti, le paludi, le calli, i 'rii', beni di uso collettivo o 'popolare', o, come si prenderà a dire dalla prima metà del XII secolo, comune, comunum, communale dei Clugienses) (58). E tanto più che anche altre forze del dogado, vecchie e nuove, nel contempo si orientarono a investire qui per gli stessi obbiettivi energie e mezzi, variamente intendendosi cogli abitanti del luogo. La locale abbazia della SS. Trinità e S. Michele Arcangelo di Brondolo anzitutto, ma anche S. Giorgio Maggiore, S. Cipriano, S. Zaccaria, S. Nicolò al Lido, S. Maria Formosa ed altri proprietari ecclesiatici più 'inerti' o meno ricchi in questa parte del dogado, assieme a un nutrito gruppo di loro 'patroni' e 'amici' laici (le fonti consentono di contare almeno gli Orseolo, i Polani, i Badoer, i Contarini, i Fabiani, i Foscari, i Memo, i Gradenigo, i Michiel, i Dandolo, i Giustinian, gli Ziani): ecco gli illustri protagonisti, cogli uomini di Chioggia, di una pagina di storia agraria scritta insospettabilmente anche in quest'angolo dell'aquosum regnum veneziano (59).
Narrarla è impossibile. Accontentiamoci di qualche spunto, tra i tanti. Già nel 1016 (60), ad esempio, vediamo comparire concessioni che prevedono il parziale abbattimento e la messa a frutto di una Sylva Clugesega (o Clogisica, secondo una posteriore attestazione del 1144) (61) e di un altro bosco, pure di uso comune, chiamato Surigale (o Soricale, o Suricale, secondo le numerose posteriori indicazioni che lo mostrano ormai cosparso di vigneti e terreni coltivati) (62). I monaci di Brondolo, che avevano rilevato tali scampoli di terra incolta per poterli "laborare et çapellare" a proprio vantaggio, già entro la prima metà dell'XI secolo s'erano accaparrati un'ulteriore isola di terra da redimere creata artificialmente dai Chioggiotti entro i loro fines con una taliada o taliadicia di rettifica di un meandro del Brenta (63).
Che si trattasse di zone infruttuose da dissodare e destinare pian piano a piantagioni e semine varie lo si arguisce dal fatto che in queste e in altre località, chiamate ancora nell'XI secolo Silva e Silva Cocollo, s'incontrano ad esempio nel 1088 un "urto da Ronco", un vegrum (o radura incolta), una vinea che passano dalle mani di tale Giovanni Istrico, chierico di S. Marco, a quelle dei benedettini di S. Giorgio (64); oppure una "pecia de terra disculta vel ronco" che nel 1094 viene affittata dai Gradenigo assieme ad altri tre appezzamenti con l'esplicita clausola di "vangare et vineam plantare usque in quattuor annis expletis et repremere et sapare et munda a Bramina tenere", secondo una formula che diventerà diffusissima nei contratti enfiteutici del secolo seguente (65).
Anche qui, dunque, dissodamenti, come preludio e condizione di qualunque de-collo dell'agricoltura. E anche qui sperimentazioni e forme economiche integrate come espressione di una fase, appunto, pionieristica di aggressione alla boscaglia. Una intesa intervenuta nel 1133 tra l'abate di Brondolo e un gruppo di Chioggiotti per i prati e le selve di Fogolana lo prova chiaramente: giurando di vegliare a turno sull'integrità o salvitas del patrimonio forestale dell'isola (66) (notevole, se ancora nel 1199 forniva legname ai Veneziani) (67), i quattro concessionari ottenevano sia di poter estrarre per loro uso arbusti spinosi e legna secca da ardere, vimini e fibre vegetali, specie di tiglio, per cordami e stringhe, sia di prelevare legacci (laçole) e pali secchi (caracios) nella misura necessaria a sostenere e a legare le viti piantate e fatte crescere in altrettanti spiazzi de terra firmam appositamente ricavati nel bosco (68).
Bonifiche, sterri, arginature e ogni altro lavoro di organizzazione e di drenaggio delle acque ebbero comprensibilmente una parte ancor più rilevante nei progressi agricoli (oltre che nell'apprestamento dei fondamenti di sale, nella sistemazione delle valli da pesca, nello sviluppo della navigazione intralagunare e costiera). Purtroppo è difficile valutare la portata e la finalità di certe imprese collettive appena accennate dalle fonti, come quell'opus dei Clocenses di cui è menzione nel 1157 o quel grande fossato scavato dagli stessi "iuxta villam de Conche" - verso la terraferma, dunque - a servizio dei monaci di Brondolo, di cui si serbava memoria nel 1198 (69). Ma anche a questo proposito non possono sussistere dubbi. Talvolta sono i contratti d'affitto, come quelli accesi da tali Pietro Marici e Giovanni e Steno Bolli coi monaci di S. Michele di Brondolo nel 1135 e nel 1147, a svelare che per l'impianto di un un orto e un vigneto accanto a un lacum e a una palutem era indispensabile scavar fossati, costruire forme in mezzo all'acqua, tracciare nuove stracte d'accesso ai fondi (70). Altre volte è la toponomastica a suggerire soluzioni e situazioni analoghe (nel 1165 le vigne di Felice Bolli sono ubicate in una "Valle de Rio", confinante a sua volta con una "Val de Longo" e una 'Mare' - o 'palude' - Longa) (71); mentre i coltivi del doge Vitale Michiel e altri proprietari sono dislocati in una contrada particolarmente ricca di vigne detta Coreçfa, o Coreglo, o Corigiola (vocabolo fortunatissimo in tutta la Padania medioevale) proprio per la sua forma di "striscia o lingua asciutta e coltivata prossima a paludi e terre basse rivierasche dei fiumi" (72).
Sta di fatto che mentre tutto il quadro toponomastico chioggiotto lascia intendere simultanee profonde novità paesaggistiche e agricole (poco dopo la metà del XII secolo sappiamo di terre disculte anche in una contrada detta Panigale (73) che, come il già citato Sorigale e in forme non dissimili dalla coeva terraferma (74), rinvia alla programmatica volontà di creare piccoli granai locali di panico e sorgo, cereali assai consumati nel medioevo) (75), una massa crescente di contratti presenta clausole di miglioria più o meno standardizzate, facendo nel contempo frequenti ed esplicite allusioni a un incessante e capillare lavorio di adattamento dell'ambiente anche in ordine all'incremento della produzione di vino, frutta e legumi. "Aprehendere terram propter urtum ", "cultare", "fossados cavare" o "per cyrcuitum mittere", "cannas et graminas extirpare", "paludem elevare et plantare et in omnibus conciare"; ma soprattutto "plantare vineas per totam terram" o "intus ", o "vineis planctare et allevare et in culmen adducere" entro tre, quattro, cinque e perfino otto anni; e ancora, se necessario, "traere foras" le vigne avvizzite "per aliquam pestilenciam aut per senectutem [...> et replantare ubicumque opus fuerit": queste le condizioni contrattuali più ricorrenti nei numerosi livelli del sec. XII (76), che illuminano anche su tutta una serie di lavori complementari richiesti dalle specifiche condizioni geografiche quali scavare candelarie "pro mantinire" i suoli asciutti contro la devastazione del mare; aprire fossi, canaletti, vie terrestri (tramites, çiraturios, cercature, calles) di diritto privato o consortile, espressamente per raggiungere i fondi; costruire cavanne egualmente per "ire et redire [...> cum navis caricatis et descaricatis ad terras et vineas" o "per hutilitatem de illas vineas"; livellare le dune (montones, montes de sablone) per creare un equalem pavimentum capace di ospitare i nuovi piantoni di vite (77).
Beninteso, ogni stima sull'entità di questo incremento delle superfici coltivate nel territorio chioggiotto è impensabile ancora per tutto il XII secolo. Negli atti si menzionano normalmente filari o ordines, di vigna (altrove, ad esempio a Cittanova, si ricordano anche pergole o dies de vinea) (78), senza tuttavia precisarne la lunghezza. Per cui, ad esempio, resterà sempre oscura la reale dimensione di quei sette appezzamenti rispettivamente di 8, 11, 15, 10, 5, 5 e ancora 15 filari che nel 1144 appartenevano a Domenico e Martino Bolli, padroni anche di un'altra piccola pecia e di bestiame e titolari di diritti d'uso nella Silva Clocesega (79); né si potrà mai conoscere il reale valore del piccolo patrimonio fondiario del loro conterraneo Martino di pre' Leo, costituito nel 1198 da sei terreni lavorativi isolati fra loro, due dei quali ospitavano rispettivamente 4 e 9 filari di vite (80). Frequentemente siamo ragguagliati sulla lunghezza e la larghezza, oscillanti tra qualche decina e qualche centinaio di passi, di siffatti innumerevoli campicelli. Più raramente conosciamo il numero dei piedi o delle talee di vigna (detti caybi o cabii, come nella vicina terraferma padovana, probabilmente per la tecnica di riproduzione a margotta, per diramazione e infissione nel terreno delle vecchie piante) (81) che vi erano piantate. Una pecia della contrada Sorigale nel 1196 ne aveva 144, "sine suis cercaturis", ad esempio; fra le quattro che tale Alberto Stani continuava a lavorare nel 1210, come già il padre e il nonno, per conto del monastero di S. Michele di Brondolo, nella località Lacus Monachorum, una arrivava anche a 300 (82). In una parola, il quadro è quello di un piccolo sistema parcellizzato, vicino a certi modelli di coltura viticola specializzata della contemporanea collina veneta, anche se più fragile (83). Tuttavia l'importanza raggiunta da esso già agli inizi del '200 nell'economia chioggiotta risulta chiara non solo dalla fittezza di elementari unità agrarie come quelle descritte, ma anche dai buoni livelli di gestione e di conduzione di esse.
Ne è prova quanto si sa sui maggiori proprietari, almeno quelli avvantaggiati dallo smembramento e dalla commercializzazione di vecchie riserve (nella zona tra Conche e Canné, ad esempio, prima del 1064 i Memo e gli Orseolo si comportavano come domini e seniores, avevano homines e imponevano servitia e trattavano direttamente col vescovo di Padova, al pari dei latifondisti di estrazione feudale della terraferma) (84) oppure dalla liquidazione e dalla privatizzazione degli antichi spazi incolti di uso collettivo. Alla fine del XII secolo, ad esempio, i monaci di S. Giorgio Maggiore disponevano di una propria ripa dove erano regolarmente recapitate dai vari concessionari di Chioggia e in parte di Pellestrina le quote di vino loro spettanti, e una simile struttura di raccolta avevano i ricchissimi Ziani, loro avvocati, che all'incirca dal 118o impegnarono parte dei loro capitali nell'acquisto di vigne e terre nelle località di Sorigale, Ponte e Fossa (85). Qualche ente era attrezzato con un vero e proprio centro dominicale, o braydum (ancora un termine che apparenta Venezia e la sua economia agraria alle più schiette tradizioni continentali), come quello segnalato per S. Cipriano a Fogolana nel 1162 e per S. Michele a Brondolo nel 1188 (86). In quest'ultimo caso addirittura si può stabilire che lavoratori del posto vi effettuavano delle operae (87). Uno scalo con un centro di raccolta del vino prodotto nelle possessioni di Chioggia e delle contribuzioni in natura provenienti da nuclei agricoli vicini (ad es. uova e polli di Torre delle Bebbe e vino di Pellestrina) avevano nel 1163 anche i Gradenigo (88). L'entità delle terre di costoro, in parte ereditate "de perantiquis temporibus", in parte accumulate con acquisti successivi al 1094, era anzi tale da richiedere qualcosa di più della semplice concessione enfiteutica ai vari abitatores di Chioggia; tant'è che tra il 1162 e il 1186 sappiamo dell'esistenza di loro agenti (vinearii, gastaldi) stabili, che riscuotevano fitti e autorizzavano eventuali lavori di sistemazione delle acque e dei terreni. È pacifico inoltre che come domini essi visitassero periodicamente queste loro tenute (di altre più lontane, ad es. i vigneti di Muggia, non si sa) e facessero valere con energia i loro diritti su fondi e peschiere (un 'abusivo' dichiara d'essere stato "fortiter dishonoratus et manaciatus" da Domenico Gradenigo durante una di queste sue 'puntate' fuori Rialto) (89).
E facile immaginare d'altronde che di una organizzazione analoga si avvalessero altri grossi calibri del ducato, come S. Zaccaria o S. Nicolò al Lido, detentori nel XII secolo di vigneti nei paraggi della appetitissima Calmaggiore di Chioggia (90); o come i Michiel, che nel 1165 acquistavano qui una fetta del comunale, sebbene fossero già livellari dell'abbazia di Brondolo a Torre del Sile per tenute in cui nel 1119 si trovavano buoi, maiali, cavalli da lavoro e un pistrinum per la molitura dei cereali, e avessero anche case e orti a Venezia, nella parrocchia di S. Giuliano (91).
Di fronte a questo stato di cose, bisogna ipotizzare un forte impiego di manodopera locale (basti solo pensare a certe operazioni richieste dalla qualità dei terreni, sabbiosi e bassi, come la ricerca e il trasporto con burchi di letame, brulla, cioè cascami di canne e giunchi (92), e quant'altro potesse servire contemporaneamente a ingrassare e a innalzare la campagna).
Poco in realtà si sa della schiera, che pure c'era, dei piccoli proprietari, la cui ricchezza familiare si basava anche e non poco sul possesso e lo sfruttamento di case, saline, imbarcazioni, canali e valli da pesca, e sulla compartecipazione alle imprese commerciali 'nazionali'. Non pochi di costoro, così come, evidentemente, una frangia specifica di lavoratori occupati per gran parte dell'anno come vignaioli e ortolani, ebbero i meriti e gli oneri principali delle trasformazioni intervenute, stante il fatto che tra XI e XII secolo si generalizza e diventa quasi esclusivo anche a Chioggia il sistema di trasferimento dei fondi dei maggiori proprietari a terzi mediante concessione livellaria. In base a questa forma di obbligazione, che si presenta nelle sue forme classiche ma con più accentuati vincoli per la messa in valore delle terre, i concessionari erano tenuti a versare oltre alle onoranze (spalla e focaccia o spalla e due galline) una quota del prodotto. Nella schiacciante maggioranza degli atti superstiti del XII secolo esso è costituito dall'optimus vinus o purus et mundus vinus de Clugia, che dobbiamo immaginare, stando alle cronache, di qualità piuttosto pregiata e di color chiaro: i 2/3 e il torculum, cioè il residuo della pigiatura, erano appannaggio del livellario, il rimanente andava al padrone, che si riservava anche di controllare le operazioni di vendemmia e di lavorazione dell'uva. Sul piano quantitativo sembra azzardato ipotizzare una produzione sufficiente per l'autoconsumo (93). In realtà l'ecosistema veneziano fu debitore per tutto il medioevo verso l'esterno di vini 'navigati' latini o greci per la propria sopravvivenza (anche se sembrano altrettanto eccessive generalizzazioni secondo cui "era in gran parte col vino che il mondo padano pagava il sale trasportato dai veneziani") (94). Ma non si può negare che quella descritta costituisse, anche alla luce di studi recenti, una delle più precoci e meglio strutturate microaree di coltura tendenzialmente monoviticola del Veneto.
Quasi assente la produzione di cereali, il riferimento generico a fructus, fruas, pomas, herbas lascia capire che inframezzati ai vigneti e comunque in stretta unione con essi si coltivavano piuttosto intensivamente anche ortaggi - di cui ci è nota la natura grazie a dati tardivi o derivati da altre zone del ducato: cocomeri, meloni, cavoli, rape, barbabietole, carote, porri, aglio, cipolle, prezzemolo - e che un certo sviluppo avevano anche gli alberi da frutto (95). Assodata la presenza di polli, di maiali, capre (nel 1126 (96) vicino a Brondolo è attestato addirittura un toponimo Cabra, assimilabile al Caprulae, Caorle), quella di montoni, anatre, oche, vacche, cavalli la si può ragionevolmente dedurre da informazioni relative a tale o talaltro angolo del sistema lagunare (in una pollaria al Lido Bovense già prima del 1148 i pievani di S. Lorenzo ammassavano i censi di case e terre di loro proprietà, ad esempio, e nel 1161 ci è nota l'esistenza di una terra in cui il priore di S. Elena teneva la vaccariam suam) (97).
Davanti il mare, insomma, ma alle spalle un gioiello di campagna minuziosamente scompartita da argini "bene crossi et tomboruti", "pettinata" con zappe e aratri, custodita per tutta la stagione estiva da "varde" e "saltarli"; e ancora aie con "anseres, anates, pullos magnos et parvos"; prati dove "facere herbam tam cum runchetis quam cum falce"; boschi - come quello di Ceredo - buoni per legname da lavoro e pertiche.
Nelle strette odorose calli della 'piccola Venezia' il salmastro e i fumi della pece la spuntavano o cedevano il campo - a seconda del giro del vento e delle stagioni - di fronte all'olezzo acre delle vinacce e della cipolla e alle zaffate del letame (98). Chioggia bifronte, come Giano.
6. La costruzione del 'contado invisibile'
Con piccole differenze, il discorso sin qui fatto sul campione chioggiotto potrebbe applicarsi ad altre regioni centrali e settentrionali dell'arco costiero lagunare e, in minor misura, a qualche isola o lido. Ma più che indugiare in una analitica descrizione di tempi e forme in cui si attuò questo modesto ma indubbio incremento agricolo interno al mondo veneziano, giova dare uno sguardo al connesso movimento di 'conquista' di un patrimonio fondiario oltre i confini della 'patria'.
Entro la fine del XII secolo alcune buone tenute capaci di discrete forniture di grano, vino e olio si erano costituite anche in zone relativamente lontane dallo specchio lagunare (ad esempio a Senigallia, nel contado bolognese, intorno ai centri dell'Istria) ; ma non se ne deve esagerare l'importanza. Altre proprietà di laici ed ecclesiastici dislocate sulle due sponde del basso adriatico e in oriente, poi, erano solo modeste teste di ponte e consistevano essenzialmente in immobili urbani.
La gran massa dei terreni agricoli passati sotto il diretto controllo di imprese veneziane si concentrava in realtà all'epoca lungo tutta la fascia di pianura padano-veneta addossata all'arco costiero Cavarzere-Grado entro un raggio raramente superiore ai 20-30 km., con alcuni salienti chiaramente predisposti dal corso dei fiumi affluenti all'Adriatico, ivi compreso il Po e, di conseguenza, il contado ferrarese (99). Si tratta di fatto risaputo e per nulla sorprendente. Che deve tuttavia essere considerato in tutte le sue implicazioni.
Solitamente ad esempio si tende a trascurare che un simile sistema fondiario fu costruito in funzione delle esigenze alimentari ordinarie dei centri lagunari e che i più rapidi spostamenti per via d'acqua consentivano un contatto tra luoghi di produzione e sedi di consumo e smercio che era di fatto quotidiano e in ogni caso non più disagevole di quello possibile in una qualunque città di terraferma rispetto al proprio contado. Ragion per cui, specie col procedere del XII sec. si diffuse presso i Veneziani il convincimento che anche quello "scherzo della natura" in cui si erano ostinati a stare e a moltiplicarsi aveva ormai una sua campagna d'elezione intorno, comoda e ferace, da ingrandire e da rendere più redditizia, senza rinunciare alla propria vocazione di navigatori e di mercanti.
Da questo punto di vista, l'incremento patrimoniale di Venezia nell'area indicata, anomalo finché si vuole rispetto ai modelli urbani comunali classici dell'Italia centrosettentrionale, va considerato peraltro un fatto naturale; non un salto a rischio, ma un'espansione calibrata, favorita dalla capacità di fornire servizi e beni assolutamente indispensabili allo sviluppo della terraferma.
Un esame incrociato della documentazione, per aree e per enti (all'avanguardia sempre quelli monastici), mostra chiaramente che si preferì procedere con un poco appariscente stillicidio di acquisti (non di rado camuffati da prestiti su pegno fondiario, da investiture e donazioni) di poderi contadini completi o, più spesso, di singoli appezzamenti di dimensioni anche modeste. Episodi come il trasferimento in blocco dai marchesi d'Este a S. Cipriano di Murano di 36 mansi a Costa di Rovigo, che nel 1173 corrispondevano secondo un teste alla "maxima pars dicte ville" (100), o l'acquisto che nel 1117 i monaci di S. Ilario fecero per 8.000 lire dai conti di Treviso dell'intera corte di Porto, completa di castello, cappelle, mulini e 150 masserie (circa 2-3000 campi padovani) disseminate nelle campagne gravitanti sulla riviera del Brenta (101), furono tutto sommato rari.
Si prenda la Saccisica, ad esempio, la fertile subregione del Padovano vincolata fin dal 1005 a Venezia con uno speciale patto di commercio fluviale che rendeva annualmente 200 libbre di lino alla camera ducale 1102. Qui il capitale veneziano poté letteralmente dilagare dopo il Mille. Ma l'azione normale, costante e prolungata, puntò visibilmente ad accaparrare pian piano quante più terre e a dar respiro e compattezza ai nuclei agrari più sostanziosi attraverso tante piccole compere mirate, accompagnate, se necessario, da permute e accordi di vario genere con coloro che erano ai diversi livelli titolari di rendite, di decime e perfino della bassa e alta giurisdizione.
Le carte di S. Giorgio Maggiore, presente qui come proprietario fin dal 1113, mostrano che dagli anni '40 in poi si sviluppò con regolarità il programma di concentrare gli investimenti in tre località preferenziali, cioè Melara, Rosara e Codevigo, e che l'acquisto più consistente, fatto in quest'ultimo villaggio nel 1188, non superò le 2.200 lire, equivalenti al prezzo di 7 mansi. Alla fine del XII secolo anche i beni di S. Cipriano, accumulati pazientemente nell'arco di un settantennio, tendevano a concentrarsi soprattutto nei paesi di Corte, Campolongo Maggiore e Arzere, sebbene fossero distribuiti con un certa irregolarità anche in altri 8 centri rurali del Piovado di Sacco. Stesso discorso per S. Nicolò al Lido, che iniziò a irrobustire i suoi vecchi e forse trascurabili nuclei agrari pressappoco dalla metà del XII secolo, con singoli acquisti nelle zone di Codevigo, Corte e Piove che non superarono mai i 120 campi padovani, case e vigneti compresi. A Piove, capoluogo del giudicato, tenevano la loro domus dominicalis anche i monaci di S. Maria della Carità, assieme alle numerose dipendenze di cui erano venuti in possesso nella seconda metà del XII secolo; mentre un altro interessante 'fuoco' di interessi agricoli era stato nel frattempo acceso a Boion. Qualche casa religiosa sembra non aver camminato con altrettanta determinazione: tra queste S. Giorgio di Fosson, rimasta, a quanto pare, ferma al possesso di un unico terreno guadagnato per breve tempo nel 1127 (103). Altre, tuttavia, che scesero in lizza più tardi nella corsa agli acquisti tra il Cornio e il Brenta, recuperarono prontamente. Basti pensare al monastero dei SS. Secondo ed Erasmo o a quello di S. Salvatore, che iniziarono le loro compere nel 1144 e nel 1156 rispettivamente; o al cenobio di S. Lorenzo, che si mise in moto solo nel 1198-99, esborsando per 30 appezzamenti di circa 80 campi complessivi ben 1500 lire in tre sole riprese; o ancora al monastero di S. Giovanni Evangelista di Torcello, che pur essendosi fatto vivo sulla piazza di Piove di Sacco coi suoi intermediari solo nell'ultimo quarto del XII secolo, nel 1193 era in grado di spenderne 2-3000 in un unico versamento per sei mansi.
Con una gestione elastica, in parte centralizzata e in parte imperniata su corti e domusculte vicinissime ai numerosi scali fluviali della terraferma (Corte, Lova, Pontelongo, Vallonga, etc.), e perciò facilmente raggiungibili dalle naves dominicales spedite dalla laguna, i titolari di queste aziende alla fine del XII secolo erano insomma in condizioni di drenare e di far affluire a Venezia da quel "granaro de Lombardia" che stava diventando la Saccisica (104) discreti quantitativi di biade, carne fresca, vino, legumi, lino, in maniera non dissimile da qualunque buon redditiere della terraferma.
Con la stessa gradualità e sistematicità la proprietà veneziana s'incrementò d'altronde anche in altre zone del Padovano, in particolare nelle grasse campagne del Conselvano (ad Anguillara, Bagnoli, Bovolenta, Gorgo, Cartura, Tribano) e soprattutto nei paesi vicini alla riviera del Brenta (Carpané, Vigonza, Pionca, Rivale, Mellaredo, S.M. di Sala, Vigonovo, Tombelle, Strà, Perarolo, Ballò, Fossò, Fiesso, Arino, Paluello, Borbiago, Trisiegoli, Sambruson, Oriago, Fossalovara, Porto, Gambarare) (105). Gli stessi colli Euganei, appetiti soprattutto per l'abbondanza e l'ottima qualità dei vini prodotti, intorno al 1170 davano lavoro a 83 dei ben 107 livellari impiegati dalle monache di S. Zaccaria sui terreni non gestiti in economia diretta della loro corte di Monselice (106). Nell'ultimo scorcio del XII secolo perfino i villaggi della impenetrabile campanea civitatis adiacente a Padova si dovettero aprire alla maggior forza e iniziativa dei capitali veneziani. In uno di essi, Roncaiette, v'era già nel 1122 un allodium acquistato da Pietro Contarini dal cognato Gumberto da Zalsano, sprofondato nei debiti, e i monaci di S. Giorgio Maggiore intorno al 118o percepivano annualmente da coloni, braccianti e piccoli vassalli qualcosa come 128 moggi di frumento, 81 moggi di sorgo, 32 moggi di fava, 4 moggi di cicerchia, 41 staia di fagioli, oltre a onoranze varie di polli, oche, capretti, uova, maiali, cera e minimi censi in denaro (107).
Non meno consistenti erano diventati nel frattempo anche i possedimenti veneziani nel Trevigiano. Attraverso l'entroterra Mestrino-Noalese-Miranese, in un'area più o meno compatta comprendente i centri di Carpenedo, Chirignago, Asseggiano, Rossignago, Zelarino, Trivignano, Crea, Marano, Scaltenigo, Martellago, Salzano, essi si saldavano di fatto con quelli padovani, da un lato, e dall'altro col complesso dei terreni padronali del monastero di S. Ilario, appoggiati sull'estrema terraferma, dirimpetto alla laguna. Più a est, essi erano divenuti particolarmente rilevanti intorno ad Altino e nei paraggi di S. Elena-Campalto-Tessera, dove esistevano già piccoli germi allodiali e feudali controllati da chiese e laici, tra cui i Michiel e i Foscari (Casadego, Canova, Terzo, Paliaga, Corbolo, Zoccoleda). Anche se non mancavano unità isolate a maggior distanza dal mare (ad esempio a Robegano, Salvatronda, Volpago del Montello e perfino in Valcavasia), si puntò pure nel Trevigiano a costituire una zona di forte presenza patrimoniale soprattutto a ridosso delle frontiere del ducato: al punto che negli anni '30 del XII secolo le chiese di S. Elena di Tessera e dei SS. Felice e Fortunato di Ammiana cedevano anche interi mansi in località fuori mano, come Cavasagra, Feltre o Povegliano, in cambio delle decime di terreni già acquistati in vicinanza della costa adriatica (108).
Anche qui insomma, come in tutta una circoscritta fascia di bassa pianura veneto-friulana, si seppe giocare a tutto campo e meticolosamente con i possibili interlocutori, specie quei latifondisti che per necessità o convenienza erano sospinti a guardare con crescente interesse alle superiori possibilità del mercato veneziano. Un monastero come S. Cipriano di Murano, ad esempio, che nel XII secolo si trovò a combinare acquisti e altre operazioni immobiliari con un ricco ventaglio di forze feudali (dai marchesi d'Este ai duchi d'Istria, passando attraverso i vescovi di Padova e di Treviso, il patriarca d'Aquileia e una pletora di potenti famiglie rurali, tra cui i conti trevigiani, i da Baone, i Maltraversi, i da Montagnone, i da Carbonara, i da Cavasagra), nel 1126 dichiarava apertamente di aver ottenuto 5 iugeri di terra a Tessera da un gruppo familiare di cui aveva sanato i debiti su autorizzazione del conte Rambaldo; mentre qualche anno prima Andrea Michiel dichiarava di avere in pegno una coppa d'argento da Melio da Carbonara, della famiglia di castellani di cui - guarda caso - era vassallo per certe terre intorno ad Altino, "foras Venecias" (109). Che tutti questi investimenti, poi, siano stati concepiti e vadano effettivamente considerati come una forma peculiare di progresso dell'economia rurale risulta chiaramente dalla accentuata spinta produttiva che si manifestò fin dal XII secolo nelle terre guadagnate, ma anche dalla evidente volontà di Venezia di essere attiva compartecipe e beneficiaria, con le forze continentali, del generale movimento di colonizzazione delle plaghe semideserte e paludose della bassa pianura adiacente al dogado.
Basta far caso a una serie di concomitanze solitamente trascurate. Giusto "prope Cluiam" - ai confini di quel territorio chioggiotto di cui s'è detto, dove alla fine del XII secolo si erano costituiti perfino dei borghi intorno a vecchi insediamenti fortificati come Torre delle Bebbe (110) - nascevano ad esempio sul suolo italico nuovi villaggi per iniziativa determinante dei Veneziani: nel 1107 il priore di S. Cipriano, monaco anche di S. Benedetto Po, otteneva dal vescovo di Padova la licenza di costruire una chiesa parrocchiale a servizio del villaggio di Conche, verosimilmente da poco fondato in una zona ricca d'acque e accanto a una selva detta Casa Pagana, e le decime "illius nove ville que incepta est edificare in loco qui dicitur Fogolana", coi suoi freschi dissodamenti (ampificationes) (111). Lì accanto, in piena zona di bonifica, sappiamo che si fecero promotori di operazioni analoghe altre componenti della chiesa padovana (Civè, 1189; Terranova, 1217) (II2). Ma si dimentica di osservare cosa fecero qualche chilometro più verso l'interno i benedettini di Brondolo: con una accorta politica di 'apertura' verso le forze cittadine e rurali di terraferma durata per tutto il XII secolo, al principio del Duecento costoro perfezionavano con l'esborso di ben 8.000 lire l'acquisto dell'intero paese di Bagnoli, con torre e castello, e si rivolgevano al presule padovano e allo stesso papa perché consentissero l'erezione di una nuova cappella in un bosco adiacente, in cui avevano avviato lavori di disboscamento e di drenaggio delle acque stagnanti (113).
Il cenobio di S. Ilario, in prossimità del quale gli abati avevano comandato vari lavori idraulici e si era sviluppata già nella prima metà del XII secolo una costellazione di villaggi e un borgo, con mulini, contadini, mansi e terreni da orto e da pascolo, fin dal 1064 stipulava col suo avvocato laico di terraferma, Ariprando da Fontaniva, accordi per l'installazione di mulini e una sorta di contratto di pariage per il disboscamento di vaste zone assai più lontane dalla costa, non soggette a Venezia, con la previsione di ricavarne i 2/3 dei prodotti (114). Alle foci del Piave nel 1112 il vescovo equilese si intendeva con un nobile della collina trevigiana, Vassalletto da Vidor, per fondare un ospedale e "ad laborandum ortum, vineas, campos et pratos et pascua ad pascendas oves" (115).
Fatti del genere mostrano, appunto, quanto sia riduttivo pensare a semplici 'acquisti' in terraferma e quanto vive e intraprendenti siano state anche talune componenti della società veneziana nel favorire il gran balzo in avanti dell'agricoltura di terraferma dei secoli XI-XII. Talune componenti, si è detto. Che agirono però - si badi - in linea con orientamenti complessivi propri della classe dirigente e dello stesso governo, come mostrano sia le sporadiche notizie di diretti investimenti di singoli patrizi e popolari veneziani sul mercato degli immobili rurali (116), sia il costante e vigile sostegno offerto in qualità di advocati, patroni e amministratori dai vari Contarini, Barbarigo, Foscarini, Ziani, Michiel, Diedo, e quant'altri ai maggiori proprietari ecclesiastici della patria nelle loro scelte economiche (117) (nel 1224, ad esempio, risulta che Pietro Ziani aveva mutuato ben 5.000 lire ai monaci di Brondolo per acquisti dietro cauzione "soli verbo semplici" di tutte le loro sostanze, "quia [come essi gli riconoscevano> compatrem et benefactorem precipuum vos eidem loco multipliciter persenserimus") (118).
7. Un bilancio
Nell'ambito di un riavvicinamento e di una riemergente integrazione a svariati livelli fra due mondi a lungo separati, graduale ma sicura nonostante i ricorrenti attriti che si ebbero fra XII e XIII secolo tra le Venetiae e i centri della Marchia Tarvisina (119), la nuova e certamente speciale umanità modellatasi fra le lagune poteva del resto offrire parecchio all'agricoltura, pur non conoscendo che di striscio la dura esperienza dell'arare e del seminare. Poteva mettere a disposizione capitali, anzitutto: cospicui, sebbene non favolosi, anche in questa fase anteriore al 'gran guadagno' della quarta crociata (gli acquisti veneziani di terre nella Marca conobbero, com'è noto, una fase di massima espansione tra il 1200 e il 1220) (120). Aveva una confidenza invidiabile con l'acqua e le paludi e una straordinaria pratica nell'esecuzione e nella manutenzione di terralei, aggeres, panthere e ogni altro lavoro idraulico. Operava con un senso del mercato in rapporto ai diversi momenti produttivi, compreso quello agricolo, infinitamente più largo e collaudato rispetto a quello presente nei piccoli centri e nelle stesse città della terraferma (dove pure durante il XII secolo gli enti veneziani seppero inserirsi, facendo sorgere case, magazzini, cappelle e perfino interi borghetti) (121), Per quanto possa apparire paradossale, questo mondo disponeva in realtà delle chiavi per salvare all'occorrenza l'agricoltura dalle temibili carestie, dalle epizoozie, dalle morie delle piante, dai guasti prodotti dalla siccità, dai rigori invernali, dalle devastazioni belliche, e addirittura per rinnovarla. Il ruolo di Venezia come massimo regolatore del flusso dei grani entro tutto l'Adriatico, infatti, è risaputo (122), ma non si è forse insistito abbastanza sulla facilità con cui fin dal medioevo essa poteva mettere a confronto e smistare in zone geografiche diverse anche scorte per la semina, materiali e animali da lavoro, nuove specie culturali, personale e tecniche agronomiche. Agli inizi del Cinquecento, ad esempio, Girolamo Priuli, insistendo sul fatto che "li padri Veneti senpre hanno abuto grande vigilanttia et solicitudine di fare provixione grande de formento et biave perché, considerando avere victuarie in la citade, non dubitavanno de inimici né de sinistro alcuno", e che "sempre che il mare hera aperto, la citade veneta non potrà dubitare de charestia", mostra nel contempo la magnifica e ormai secolare sagacia con cui a Venezia si ragionava di prezzi e qualità delle biade: dal "formento padoano", dal quale "reuscisce bonno pam et senza stufo et sanno alla natura", a quello di Ravenna, "ettiam bono", ai vari "forment grossi" "de Çecilia, Puglia, Calabria et de Schiavonia" (123). Ma dalle fonti documentarie dei secoli XIII e XIV noi sappiamo che le navi veneziane imbarcavano in realtà per ogni destinazione non solo grani, oli, formaggi, vini (compresi quegli "irritamenta gule" e quei "vina peregrina" più raffinati che a detta di un passatista come Riccobaldo da Ferrara guastavano i rudi e sani costumi della Padania) (124), ma anche, ad esempio, semi di lino della pregiata qualità di Loreo o buoi da lavoro di razza trevigiana "acceptis in Sclavonia" e portati nel Polesine "propter defectum bestiarum qui fuit in partibus illis" (125). E una cronaca padovana del primo Trecento, per giustificare la presenza dell'uva 'schiava' nelle colline della terraferma veneta, non esita a proporre una origine transmarina di essa, per la precisione dalla Dalmazia o Sclavonia, e in un periodo corrispondente al XII secolo (126): fatto tutt'altro che improbabile anche per i vitigni della apprezzata qualità 'garganega', che rinvia ancora una volta al probabile tramite veneziano.
Fino a tutto il XII secolo è insomma appena possibile intuire, per difetto di quelle fonti statistiche che diventeranno così copiose dall'avanzato Duecento, quanto debba a Venezia non solo l'agricoltura del suo rarefatto e inconsueto 'contado' extraducale, ma anche quella dei territori padani dove la sua crescente pressione economica si concretò alla fine del medioevo in dominazione politica e, - perché no? - l'agricoltura mediterranea ed europea tout court.
Basti aver indicato questa minima possibilità. Anche nell'agricoltura Venezia ha preso, Venezia ha dato. Molto, molto prima che i suoi patrizi imparassero a stare a cavallo come i gentiluomini di terraferma e a cavare come e meglio di loro "grande utilità e consolatione dalle case di villa, dove con industria e arte dell'agricoltura, il tempo si passa in vedere e ornare le sue possessioni e accrescere le sue facoltà" (127).
2. È superfluo richiamare storie complessive di Venezia a tutti note. Tra quelle più tradizionali in cui è possibile trovare qualche buona pagina dedicata all'agricoltura delle origini ricordiamo almeno Roberto Cessi, Venezia ducale, II, 1, Commune Venetiarum, Venezia 1965 (cf. pp. 139-144). Benché più recente, il lavoro di Antonio Carile - Giorgio Fedalto, Le origini di Venezia, Bologna 1978 si limita a pochi rapidissimi cenni alle pur ricordate "attività agricole e zootecniche dei Venetici" (p. 211) e lo stesso Giorgio Cracco, Un "altro mondo": Venezia nel medioevo. Dal secolo XI al secolo XIV, in AA.VV., Storia d'Italia, diretta da Giuseppe Galasso, VII, I, Torino 1986, introduce un opportunissimo ma forzatamente succinto memento dei "contadini o piuttosto viticoltori" presenti nel medioevo veneziano (pp. 8-10).
3. L'unico contributo specifico si riduce di fatto a Roberto Cessi, Aspetti del regime agrario nell'antico ducato veneziano (secc. IX-XII), "Atti dell'Istituto Veneto di scienze, lettere ed arti", 116, 1957-58, pp. 375-384. Nei quadri generali di storia economica qualche sommaria considerazione si incontra al più per l'alto medioevo (cf. ad es. Gino Luzzatto, L'economia veneziana nei suoi rapporti con la politica nell'alto medioevo, in AA.VV., Storia della civiltà veneziana, I, Dalle origini al secolo di Marco Polo, Firenze 1979, pp. 97-99 [pp. 95-106>) e, significativamente, non più per il periodo successivo (Id., L'economia, e Ugo Tucci, L'economia veneziana nel Quattrocento, in AA.VV., Storia della civiltà veneziana, II, Autunno del Medioevo e Rinascimento, Firenze 1979, rispettivamente alle pp. 51-61 e 155-168).
4. Si vedano: Marco Pozza, Mercanti e proprietari. Il possesso fondiario in terraferma (sec. VIII-XIV), tesi di laurea, Università di Venezia, a.a. 1979-80; Giulia Marega, L'espansione monastica veneziana in terraferma: il territorio della Saccisica nei secoli XI e XII, tesi di laurea, Università di Padova, a.a. 1978-79; Marco Pozza, Un trattato fra Venezia e Padova ed i proprietari veneziani in terraferma, "Studi Veneziani", n. ser., 7, 1983, pp. 15-29; Lesley A. Ling, La presenza fondiaria veneziana nel padovano (secoli XIII-XIV), in AA.VV., Istituzioni, società e potere nella Marca trevigiana e veronese (secoli XIII-XI V). Sulle tracce di G. B. Verci, a cura di Gherardo Ortalli - Michael Knapton, Roma 1988, pp. 305-320: i quali tutti integrano in diversa misura il sempre prezioso Vittorio Lazzarini, Possessi e feudi veneziani nel Ferrarese, in Id., Proprietà e feudi, offizi, garzoni, carcerati in antiche leggi veneziane, Roma 1960, pp. 31-48.
5. Per un minimo riscontro si vedano almeno Giovanni Cherubini, Le campagne italiane dall'XI al XIV secolo, in AA.VV., Storia d'Italia, diretta da Giuseppe Galasso, IV, Torino 1981, pp. 267-450 (con nutrita bibliografia alle pp. 441-448) e, per l'alto medioevo, Pierre Toubert, Il sistema curtense: la produzione e lo scambio interno, in AA.VV., Storia d'Italia, Annali, 6, Economia naturale, economia monetaria, Torino 1983, pp. 5-66.
6. Giuseppe Bianchi, Documenta historiae Foroiuliensis saeculi XIII ab anno 1200 ad 1299 summatim regesta, Wien 1861, doc. 192 p. 67, del 1254.
7. Basti il rinvio al capitolo dedicato a "città e contado" in un classico quale Gioacchino Volpe, Studi sulle istituzioni comunali di Pisa nel medioevo, Firenze 19702 (pp. 1-124) per ribadire l'abissale distanza con la situazione veneziana, troppo facilmente equiparata anche per questo aspetto ad altre città costiere.
8. Luigi Lanfranchi-Gian Giacomo Zille, Il territorio del ducato veneziano dall'VIII al XII secolo, in AA.VV., Storia di Venezia, II, Dalle origini del ducato alla IV crociata, Venezia 1957-58, pp. 1-59 (la frase citata a p. 4); cui sono da associare Gian Giacomo Zille, L'ambiente naturale, nel volume I, Dalla preistoria alla storia, della medesima opera (pp. 1-76) e il vecchio Giuseppe Pavanello, Di un'antica laguna scomparsa. La laguna eracliana, "Archivio Veneto-Tridentino", 3, 1923, pp. 263-307, ripreso in Id., Storia della laguna veneta dalle origini al 1114, Venezia 1931.
9. Wladimiro Dorigo, Venezia Origini. Fondamenti, ipotesi, metodi, I-II, Milano 1983, che organizza compiutamente tutta una serie di ricerche parziali, con precisazioni in Id., Sull'organizzazione difensiva bizantino-venetica nei secoli VI-VIII, in AA.VV., La Venetia dall'antichità all'alto medioevo, Roma 1988, pp. 111-120.
10. L. Lanfranchi - G.G. Zille, Il territorio, p. 4.
11. W. Dorigo, Venezia Origini, I, p. 317.
12. Roberto Cessi, Venezia Ducale, I, Duca e popolo, Venezia 1940, pp. 74-97. Antonio Carile, Il ducato venetico fra ecumene bizantina e società locale, in AA.VV., La Venetia dall'antichità all'altomedioevo, Roma 1988, p. 102 (pp. 89-109) (ripreso alla lettera, come la massima parte del saggio, da A. Carile-G. Fedalto, Le origini, p. 227).
13. R. Cessi, Venezia ducale, I, Duca e popolo, p. 23; ma neppure G. Luzzatto (L'economia, p. 96) rinuncia, sia pure con analoga sobrietà, a immaginare sulla scorta del brano in questione una popolazione intenta anche alla "coltivazione del proprio orticello".
14. Santo Mazzarino, L'area veneta nel basso impero, in AA.VV., Storia della civiltà veneziana, I, Dalle origini al secolo di Marco Polo, Firenze 1979, pp. 48-49 (pp. 41-50), che giustamente insiste sulla decisiva importanza delle saline e dell'attività connessa per lo stato, oltre che per la popolazione della Venetia maritima; laddove altri hanno richiamato il rilievo che acquistano nell'epistolario cassiodoriano altri centri della Venetia continentale in ordine alla produzione del vino, del grano, delle carni (Massimiliano Pavan, La "Venetia" di Cassiodoro, in AA.VV., La Venetia dall'antichità all'altomedioevo, Roma 1988, pp. 63-74).
15. Cassiodori Senatoris Variae, a cura di Theodor Mommsen, XXII, 22, in M.G.H., Auctores Antiquissimi, XII, 1894, pp. 378-379. Lellia Cracco Ruggini, Economia e società nell'Italia annonaria, Milano 1961, pp. 344, 532-533.
16. Così come propende a fare W. Dorigo, scontando l'esistenza di "grandi famiglie agrarie locali" (Venezia Origini, I, p. 260), che francamente si vedono poco. Ma la tentazione, dovuta forse a una considerazione dei fatti lagunari non abbastanza confortata da uno sguardo comparativo alla terraferma, è più diffusa se anche altri finiscono per riferirsi con generosa genericità, per l'alto medioevo veneziano, alla "tradizionale aristocrazia terriera", alla "alta aristocrazia veneziana legata a una tradizione fondiaria che sembra in parte risalire ai tempi dei primi trasferimenti in laguna" (Gherardo Ortalli, Venezia dalle origini a Pietro II Orseolo, in AA.VV., Storia d'Italia, diretta da Giuseppe Galasso, I, Torino 198o, pp. 392-393 [pp. 339-438>); o, ancora, al "ceto dei grandi possessori" e alla "aristocrazia fondiaria" del mondo lagunare (A. Cabile, Il ducato, pp. 99-100 e n. 18 pp. 92-93, nella quale si imputa al Lane, curiosamente, di ridurre la menzionata epistola di Cassiodoro "a testimonianza della pura e semplice produzione di sale e pesce", sottovalutando un "fatto agrario" che sarebbe "assai più capillarmente attivo"). Il richiamo del Cessi (Venezia Ducale, I, Duca e popolo, p. 211) ad "adeguare il linguaggio alla realtà" anche per questo problema ci pare tuttora valido. Sulla stessa linea G. Luzzatto, L'economia, p. 99.
17. Michele Tombolani, Saggio stratigrafico a Torcello, in AA.VV., La Venetia dall'antichità all'alto medioevo, Roma 1988, p. 207 (pp. 205-214); per le risultanze di scavo citate: Lech Leciejewicz-Eleonora-Tabaczyiïska-Stanislaw Tabaczyïski, Torcello. Scavi 1961-62, Roma 1977, p. 288. E v., per prudenti ammonimenti sull'uso di tali risultanze di scavo, R. Cessi, Venezia ducale, I, Duca e popolo, p. 11.
18. Essenzialmente il Chronicon Gradense e la Cronaca Veneziana di Giovanni Diacono, in Cronache Veneziane antichissime, a cura di Giovanni Monticolo, Roma 1890 (Fonti per la storia d'Italia, 9) e l' Origo civitatum Italiae seu Venetiarum (Chronicon Altinate et Chronicon Gradense), a cura di Roberto Cessi, Roma 1933 (Fonti per la storia d'Italia, 73). Sulla discussa attendibilità di tali fonti cf. Roberto Cessi, Studi sopra la composizione del cosiddetto Chronicon Altinate, "Bullettino dell'Istituto storico italiano e Archivio Muratoriano", 49, 1933, pp. 1-116.
19. Chronicon Gradense, pp. 27-28; Origo, pp. 34-36; pp. 64-66.
20. Chronicon Gradense, pp. 31-33.
21. Origo, p. 67.
22. Ibid., pp. 168-69.
23. Ibid., p. 172.
24. Ibid., p. 171.
25. Ibid., p. 42; Chronicon Gradense, p. 43.
26. Andreae Danduli Chronica per extensum descripta, a.a. 46-1280 d.C., a cura di Ester Pastorello, in R.I.S.2, XII, 1, 1938-58, p. 93.
27. Vedi almeno Vito Fumagalli, Terra e società nell'Italia padana. I secoli IX e X, Torino 1976. Per l'articolazione della società in rapporto al possesso fondiario: Stefano Gasparri, Grandi proprietari e sovrani nell'Italia longobarda dell'VIII secolo, Atti del VI Congresso internaz. di studi sull'Alto Medioevo, II, Spoleto 1980, pp. 429-442.
28. Documenti relativi alla storia di Venezia anteriori al Mille, I, Secoli V-IX, a cura di Roberto Cessi, Padova 1940, doc. 30 p. 49.
29. Ibid., doc. 36 p. 56.
30. Ibid., doc. 38 pp. 58-59.
31. Per il testo del placito ibid., doc. 40 pp. 60-67 (da cui restano tra l'altro confermati i persistenti collegamenti marittimi dell'Istria con Venezia e Ravenna). Minimi cenni agli aspetti economici in Giovanni De Vergottini, Venezia e l'Istria nell'alto medioevo, in AA.VV., Storia della civiltà veneziana, I, Dalle origini al secolo di Marco Polo, Firenze 1979, pp. 77-78 (pp. 71-83).
32. Andreae Danduli Chronica, p. 1 32.
33. Documenti, I, doc. 45 pp. 75-78.
34. Per un raffronto di massima si vedano gli Inventari altomedievali di terre, coloni e redditi, a cura di Andrea Castagnetti - Michele Luzzati - Gianfranco Pasquali - Augusto Vasina, Roma 1979 (Fonti per la storia d'Italia, 104) tra i quali figura anche il vicino episcopio di Verona. Utile per una comparazione anche il quasi coevo testamento di un possidente veronese, che disponeva di ben 8 corti, 7 fra case massaricie e coloniche, sostanzialmente equiparabili alle prime, e di una vigna (Andrea Castagnetti, La distribuzione geografica dei possessi di un grande proprietario veronese del secolo IX: Engelberto del fu Grimoaldo da Erbè, "Rivista di storia dell'agricoltura", 9, 1969, pp. 15-26).
35. Documenti, I, doc. 60 pp. 114-118.
36. Documenti relativi alla storia di Venezia anteriori al Mille, II, Secoli IX-X, a cura di Roberto Cessi, Padova 1942, doc. 25 pp. 33-38.
37. Antonio Baracchi, Le carte del Mille e Millecento che si conservano nel r. Archivio di Venezia, "Archivio Veneto", 10, 1880, doc. LXXXVII p. 57.
38. Essenziale per queste informazioni Documenti, I, doc. 53 pp. 93-99.
39. Cf. nota precedente e ibid., doc. 44 pp. 72-75, dell'anno 819, ripubblicato in SS. Ilario e Benedetto e S. Gregorio, a cura di Luigi Lanfranchi - Bianca Strina, Venezia 1965 (Fonti per la storia di Venezia, II, Archivi ecclesiastici, Diocesi Castellana), pp. 5-12. Alla Prefazione del volume si fa riferimento anche per le notizie qui e più oltre esposte sul monastero.
40. Tanto si ricava soprattutto dal Pactum Lotharii dell'840, in Documenti, I, doc. 55 pp. 101 - 108.
41. Documenti, II, doc. 30 pp. 40-43 e doc. 34 pp. 50-52; Karol Modzelewski, Le vicende della "pars dominica" nei beni fondiari del monastero di San Zaccaria di Venezia, "Bollettino dell'Istituto di storia della società e dello stato veneziano", 4, 1962, pp. 42-43 (pp. 42-79).
42. Come risulta da un privilegio dello stesso anno dell'imperatore Ottone I (Documenti, II, doc. 45 pp. 77-79).
43. SS. Trinità e S. Michele Arcangelo di Brondolo, a cura di Bianca Lanfranchi Strina, II, Documenti 800-1199, Venezia 1981 (Fonti per la storia di Venezia, II, Archivi ecclesiastici, Diocesi Clodiense), pp. 14-19.
44. Documenti, II, docc. 37 pp. 59-60; 44 pp. 75-77; 52 pp. 93-94; 65 pp. 130-31; 66 pp. 131-33, 83 pp. 168-69. E v. Marco Pozza, Vitale Ugo Candiano. Alle origini di una famiglia comitale del regno italico, "Studi Veneziani", n. ser., 5, 1981, pp. 15-32.
45. Abbondanti spunti per inquadrare il problema offrono le varie introduzioni ai volumi di fonti riguardanti gli enti ecclesiastici veneziani che andiamo citando. Per uno sguardo d'insieme v. Monasteri benedettini della laguna veneta, a cura di Gabriele Mazzucco, Catalogo della mostra, Bibl. Naz. Marciana, Venezia 1983.
46. K. Modzelewski, Le vicende, p. 70.
47. Documenti, II, doc. 35 pp. 52-55, G. De Vergottini, Venezia e l'Istria, pp. 78-79.
48. R. Cessi, Aspetti, p. 376.
49. Ibid., p. 378.
50. Sull'onnipresenza di orti e vigne "comprese le rive del canal grande, presso S. Marco", cf. W. Dorigo, Venezia Origini, p. 513 (con tabella riassuntiva).
51. Codice diplomatico veneziano, a cura di Luigi Lanfranchi, dattiloscritto presso l'Archivio di Stato di Venezia, doc. 507.
52. W. Dorigo, Venezia Origini, pp. 507-512, che giustamente insiste su una "lotta della campagna che non vuole diventare Città", prospettando addirittura una "cultura della proprietà della terra", soppiantata tra XII e XIII secolo da una "domanda urbana pressante".
53. Chioggia (anzi Cluiae, al plurale) e Brondolo sono, com'è noto, fra i diciotto centri lagunari menzionati nel Pactum Lotharii. Per quanto segue abbiamo tenuto presente, con L. Lanfranchi - G.G. Zille, Il territorio, pp. 40-45, il vecchio Vincenzo Bellemo, Il territorio di Chioggia, Chioggia 1893; oltre, naturalmente, ai documenti che verremo citando.
54. V. Bellemo, Il territorio, p. 289; Roberto Cessi, Pactum Clugie, "Atti del r. Istituto veneto di scienze, lettere ed arti", 87, 1927-28, pp. 991-1023.
55. SS. Trinità e S. Michele Arcangelo, doc. 11 p. 40.
56. Sui confini tra Chioggia e il comitato padovano cf. Elda Zorzi, Il territorio padovano nel periodo di trapasso da comitato a comune, "Miscellanea della r. Deputazione veneta di storia patria", ser. IV, 3, 1930, pp. 14-20 (pp. 1-312).
57. SS. Trinità e S. Michele Arcangelo, doc. 8 p. 33.
58. Sul valore del 'populare', caratteristico, come già da tempo hanno osservato gli storici del diritto, delle aree di tradizione romano-bizantina, ora Italo Birocchi, La consuetudine nel diritto agrario sardo. Riflessioni sugli spunti offerti dagli statuti sassaresi, in Gli statuti Sassaresi, a cura di Antonello Mattone - Marco Tangheroni, Cagliari 1986, pp. 333-354.
59. Com'è noto, l'area chioggiotta è di gran lunga la meglio documentata fra quelle periferiche del ducato fino a tutto il XII secolo.
60. SS. Trinità e S. Michele Arcangelo, doc. 6 p. 28.
61. S. Giovanni Evangelista di Torcello, 1024-1199, a cura di Luigi Lanfranchi, Venezia 1948 (Fonti per la storia di Venezia, II, Archivi ecclesiastici, Diocesi Torcellana), doc. 20 p. 39.
62. Cf. ad es. SS. Trinità e S. Michele Arcangelo, docc. 212 p. 357, 271 p. 434; S. Giovanni Evangelista di Torcello, docc. 20 p. 42, 80 p. 116.
63. SS. Trinità e S. Michele Arcangelo, docc. 8 p. 33, 12 p. 42.
64. Ibid., doc. 14 p. 50; S. Giorgio Maggiore, II, (982-1159), a cura di Luigi Lanfranchi, Venezia 1968 (Fonti per la storia di Venezia, II, Archivi ecclesiastici, Diocesi Castellana), doc. 65 p. 159.
65. S. Giovanni Evangelista di Torcello, doc. 9 p. 19.
66. SS. Trinità e S. Michele Arcangelo, doc. 77 p. 151.
67. Codice diplomatico veneziano, doc. 4741.
68. Sul Valore Di Tali Espressioni Cf. Charles Du Cange, Glossarium mediae et infimae latinitatis, Graz 19542, II, pp. 184-185; IV, p. 49, rispettivamente alla voce carragia, carratium, lazolus. Da notare che la prima, nel senso di "paxillus quo substentatur vitis", si trova già nell'editto di Rotari e riflette consuetudini agrarie chiaramente continentali, anche se di probabile derivazione romana. Nel XII secolo risulta comunemente impiegata nel vicino territorio padovano (Pietro Sella, Glossario latino-italiano. Stati della Chiesa, Veneto, Abruzzi, città del Vaticano 1944, p. 124).
69. SS. Trinità e S. Michele Arcangelo, docc. 133 p. 244, 332 p. 528.
70. Ibid., docc. 87 p. 170, 103 p. 198.
71. Ibid., doc. 144 p. 262.
72. S. Giovanni Evangelista di Torcello, doc. 47 p. 73; Ch. Du Cange, Glossarium, II, p. 581, alla voce Corrigia, e Dante Olivieri, Dizionario di toponomastica lombarda, Milano 1961, p. 167. Per le vicende della secolare lotta con le acque nella località di Correzola, confinante col territorio di Chioggia vedi l'essenziale bibliografia richiamata in La corte Benedettina di Correzzola. Documenti e immagini, Padova 1981.
73. S. Giovanni Evangelista di Torcello, doc. 49 p. 76.
74. Cf. D. Olivieri, Dizionario, p. 403, e Statuti del comune di Padova dal secolo XII all'anno 1285, a cura di Andrea Gloria, Padova 1873, pp. 320, 322, dove compare un Campus Panigallis (oggi Campanigalli), composto su una base Campus che nel medioevo veneto si applica a numerosi villaggi sorti tra XI e XIII secolo con spiccata vocazione agricola (Campolongo, Composanmartino, Campodarsego, Camposampiero, Camponogara, etc.). Un atto del 1144 ricorda del resto una mansio nova in una contrada di Chioggia detta anch'essa 'Campolongo' e terre e vigne in un ulteriore sito chiamato 'Campedella' (S. Giovanni Evangelista di Torcello, doc. 20 p. 36): la prima delle due coincide forse con la località 'Campo', in cui esistono pure coltivi (S. Giorgio Maggiore, doc. 477 p. 264).
75. Massimo Montanari, L'alimentazione contadina nell'alto medioevo, Napoli 1978.
76. Vedi, a titolo indicativo: S. Giorgio Maggiore, docc. 17 p. 59, 142 p. 313, 143 p. 315, 252 p. 499, 267 p. 521, 312 p. 49, 384 p. 149, 454 p. 230, 559 p. 371, 593 p. 422; S. Giovanni Evangelista di Torcello, docc. 9 p. 19, 17 p. 31, 18 p. 32, 19 p. 34, 33 p. 57, 37 p. 62, 54 p. 83, 56 p. 86, 71 p. 106, 77 p. 113, 85 p. 122, 91 p. 130, 93 p. 133, 96 p. 136; SS. Trinità e S. Michele Arcangelo, docc. 38 p. 93, 96 p. 185, 103 p. 198, 123 p. 228, 125 p. 232, 126 p. 233, 128 p. 237, 129 p. 238, 130 p. 240, 132 p. 243, 246 p. 405, 223 p. 373, 233 p. 386, 235 p. 389, 273 p. 436, 79 p. 154, 87 p. 170, 161 p. 288; S. Maria Formosa (1060-1195), a cura di Maurizio Rosada, Venezia 1972 (Fonti per la storia di Venezia, II, Archivi ecclesiastici, Diocesi Castellana), docc. 14 p. 22, 15 p. 23, 25 p. 39; S. Lorenzo (853-1199), a cura di Franco Gaeta, Venezia 1959 (Fonti per la storia di Venezia, II, Archivi ecclesiastici, Diocesi Castellana), doc. 42 p. 73; SS. Secondo ed Erasmo (1089-1199), a cura di Eva Malipiero Ucropina, Venezia 1958 (Fonti per la storia di Venezia, II, Archivi ecclesiastici, Diocesi Castellana), doc. 23 p. 41.
77. Cf. ad es. SS. Trinità e S. Michele Arcangelo, doc. 64 p. 132, 65 p. 134, 66 p. 135, 163 p. 291, 185 p. 323, 203 p. 344, 240 p. 395, 213 p. 358, 232 p. 384, 236 p. 390, 238 p. 393, 249 p. 409, 253 p. 413, 276 p. 446.
78. S. Giorgio Maggiore, docc. 71 p. 177, 92 p. 215.
79. S. Giovanni Evangelista di Torcello, doc. 20 p. 35.
80. SS. Trinità e S. Michele Arcangelo, doc. 335 p. 531.
81. Con tale significato proprio della terminologia agraria il termine 'gaibus/ghebbo' si trova ad esempio nella zona euganea verso la fine del XII secolo (Archivio della Curia vescovile di Padova, Villarum, I, Arquà, perg. 34). Più comunemente registrata nei dizionari è l'accezione "ramo, alveo di fiume", che ha lasciato cospicue tracce nella toponomastica veneta (P. Sella, Glossario, p. 258).
82. SS. Trinità e S. Michele Arcangelo, docc. 313 p. 503, 422 p. 115 (riferito, quest'ultimo, a una investitura a livello del I157).
83. Per la fondamentale partizione tra vino "de monte" e "de plano" nel Veneto medioevale vedi i cenni in Gian Maria Varanini, Aspetti della produzione e del commercio del vino nel Veneto alla fine del medioevo, in AA.VV., Il vino nell'economia e nella società italiana medioevale e moderna, Firenze 1988, pp. 61-89, che esclude però dal proprio orizzonte la produzione lagunare, con una forzatamente "drastica limitazione del tema" ad alcune fonti tre e quattrocentesche.
84. SS. Trinità e S. Michele Arcangelo, doc. 24 p. 66.
85. Cf. ad es. S. Giorgio Maggiore, docc. 312 p. 49, 339 p. 90, 348 p. 102, 399 p. 170, 400 p. 171, 404-409 pp. 177-182, 411 p. 184, 412 p. 185, 454 p. 230, 477 p. 264, 485 p. 275, 553 p. 364, 559 p. 370, 596 p. 427.
86. Codice diplomatico padovano dal secolo sesto a tutto l'undecimo e Codice diplomatico padovano dall'anno 1101 alla pace di Costanza, a cura di Andrea Gloria, Venezia 1877-81, doc. 783 p. 84; SS. Trinità e S. Michele Arcangelo, doc. 254 p. 414.
87. Almeno dal 1133 (SS. Trinità e S. Michele Arcangelo, doc. 79 p. 154).
88. S. Giovanni Evangelista di Torcello, docc. 37 p. 62, 78 p. 114.
89. Ibid., docc. 34 p. 58, 80 p. 116.
90. Codice diplomatico veneziano, docc. 550, 810.
91. S. Giovanni Evangelista di Torcello, doc. 45 p. 73;
Codice diplomatico veneziano, doc. 555; S. Giorgio
Maggiore, doc. 491 p. 283.
92. Prassi documentata negli statuti trecenteschi di Malamocco: Statuti della laguna veneta dei secoli XIV-XVI: Mazzorbo (1316) - Malamocco (1351-1360) - Torcello (1462-1465) - Murano (1502), a cura di Gherardo Ortalli - Monica Pasqualetto - Alessandra Rizzi, Roma 1989, pp. 89, 97-98.
93. G. Cracco, Un "altro mondo", p. 8.
94. Antonio Ivan Pini, Il vino nella civiltà italiana, in AA.VV., Il vino nell'economia e nella società italiana medioevale e moderna, Firenze 1988, p. 8 (pp. 1-12). Resta in ogni caso la difficoltà di precisare la qualità e la provenienza del consistente volume di vini spacciati a Venezia fin dal XII secolo in apposite taverne, di cui risultano proprietari anche enti religiosi (cf. S. Maria Formosa, doc. 10 p. 25; SS. Trinità e S. Michele Arcangelo, doc. 189 p. 329, rispettivamente del 1171 e del 1178).
95. Ricchi di informazioni sono in tal senso i già ricordati Statuti della laguna veneta (cf. n. 92). Ma è giocoforza far riferimento a una sparsissima informazione posteriore al XII secolo, che travalica i limiti cronologici di questo saggio. Tra le generiche notizie anteriori si veda a titolo d'esempio SS. Trinità e S. Michele Arcangelo, doc. 144 p. 316, dove due fratelli testimoniano di aver mangiato "multis vicibus" i frutti di una terra della famiglia Flabanico posta a Pellestrina, quand'era "piantata vitibus et arboribus".
96. SS. Trinità e S. Michele Arcangelo, doc. 68 p. 139.
97. Codice diplomatico padovano, doc. 769 p. 76.
98. Le espressioni citate in Chioggia, Archivio Antico del Comune, ms. 2, ancora desiderosi di una conveniente edizione critica. V. per il momento: Sandro Perini, Gli statuti di Chioggia del XIII secolo, tesi di specializzazione, Università di Padova, a.a. 1980-81 (correggendovi talune sviste: superstitepsuprastantes, fabulo›sabulo, rimari›rivari, provocari›percovari, etc.). Almeno una ventina di rubriche interessano specificamente il paesaggio, le attività e i prodotti agricoli.
99. Che per questo rispetto va tranquillamente equiparato all'area veneta. Vedi per un esempio, la menzione delle proprietà della chiesa di S. Daniele fatta nel 1165 Da Una Lettera Di Alessandro III (Flaminio Corner, Ecclesiae Venetae Decades, VI, Venezia 1749, p. 189), le quali al principio del Duecento risultano occupate abusivamente da Salinguerra Torelli (Bernardino Ghetti, I patti tra Venezia e Ferrara dal 1191 al 1313, Roma 1906, p. 178).
100. Codice diplomatico padovano, docc. 68 p. 55, 1097 p. 269.
101. SS. Ilario e Benedetto, doc. 18 p. 59.
102. Bilanci generali della Repubblica di Venezia, a cura di Gino Luzzatto - C. Minotto - Fabio Besta, I/1, I, Venezia 1912, p. 18. Per la Saccisica, oltre agli studi e alle collezioni documentarie sin qui indicate, abbiamo tenuto presente anche i Nuovi documenti padovani dei sec. XI-XII, a cura di Paolo Sambin, Venezia 1955.
103. S. Giorgio di Fossone, a cura di Bianca Strina, Venezia 1957 (Fonti per la storia di Venezia, II, Archivi ecclesiastici, Diocesi Clodiense), Appendice, pp. 27-28.
104. L'espressione, riferentesi alla fama che accompagnava la regione in una fase anteriore ai danni causati dalla conquista veneziana della terraferma nel primo '400, è in Galeallo e Bartolomeo Datari, Cronaca Carrarese, a cura di Antonio Medin e Guido Tolomei, in R.I.S.2, XVII, 1, 1931, p. 546. Sui meccanismi e le conseguenze socioeconomiche dell'espansione fondiaria veneziana nel Padovano e particolarmente nella Saccisica cf. Sante Bortolami, Padova da comitato a comune; ricerca socioeconomica, tesi di laurea, Università di Padova, a.a. 1969-70, pp. 79-108; Gerard Rippe, "Feudum sine fidelitate". Formes féodales et structures sociales dans la région de Padoue à l'époque de la première commune, "Mélanges de l'Ecole Frannaise de Rome-Moyen Age-Temps Modernes", 87, 1975, pp. 212-222 (pp. 187-239).
105. Ci si limita qui ovviamente a poche indicazioni di massima, lasciando ad altri contributi di questa Storia di Venezia una trattazione approfondita delle vicende della proprietà veneziana in terraferma nel medioevo. Dal nostro punto di vista è sufficiente insistere sulla tempestività con cui il mondo veneziano seppe inserirsi nei processi di rinnovamento dell'economia agricola dell'immediato hinterland, specie se adiacente alle vie d'acqua. Ricordo, tra i numerosi, due episodi che non possono essere documentati in alcun modo nei posteriori inventari delle fondazioni ecclesiastiche veneziane, cui solitamente ci si rifà: consistenti acquisti fecero al principio del Duecento in una zona di bonifica pubblica appena fuori Padova, a Polverara, due socii veneziani, Gualtiero Manfredi e Girardo Fasolo, uno dei quali promosse addirittura la fondazione di un monastero nelle sue tenute (Antonio Rigon, Ricerche sull'"orlo Sancti Benedicti de Padua" nel XIII secolo, "Rivista di storia della Chiesa in Italia", 29, 1975, pp. 523-524 [pp. 511-535>); mentre da un testimone chiamato a deporre nel 1211 sappiamo che nei decenni precedenti molte terre da poco redente dalle paludi e dalle boscaglie in una zona non lontana dalla prima, a Gorgo, "vendite fuerunt Venetis et aliis hominibus Padue" (Sante Bortolami, Territorio e società in un comune rurale veneto (sec. XI XIII): Pernumia e i suoi statuti, Venezia 1978, p. 160).
106. K. Modzelewki, Le vicende, pp. 50-51.
107. Codice diplomatico padovano, docc. 123 p. 100, 1346 p. 401. Nelle immediate adiacenze di Padova altri beni del monastero sono documentati entro il XII secolo anche a Vigodarzere e a Roncon.
108. Codice diplomatico veneziano, doc. 746 p. 805.
109. Ibid., doc. 667 p. 555.
110. SS. Trinità e S. Michele Arcangelo, doc. 298 p. 478, del 1195.
111. Codice diplomatico padovano, docc. 9-14 pp. 6- 11, 16 p. 13, 18 p. 15, 21 p. 17, 23-24 pp. 19-20, 30 p. 25, 33 p. 27, 35 p. 29, 272 p. 212: costituenti l'intero dossier di atti, rogati fra Venezia e Padova.
112. Giuseppina De Sandre Gasparini, Contadini, chiesa, confraternita in un paese veneto di bonifica: Villa del Bosco nel Quattrocento, Padova 1979, p. 19.
113. Vedi gli atti relativi in SS. Trinità e S. Michele Arcangelo, in particolare docc. 467 p. 179, 489 p. 202, 490 p. 206, 516 p. 234.
114. SS. Ilario e Benedetto, doc. 11 p. 44.
115. Codice diplomatico veneziano, doc. 481.
116. Per il momento spesso ancora genericamente allusive ad allodia "tam in Venecia quam foris Venecia ". Per un esempio: Famiglia Zusto, a cura di Luigi Lanfranchi, Venezia 1955 (Fonti per la storia di Venezia, IV, Archivi privati), p. 42. Non è superfluo ribadire che tali sviluppi sono paralleli al rinnovo o all'avvio di intese con molteplici entità politiche della terraferma (ad es. con Imola, nel 1099), per l'acquisizione di vittuarie: Antonio Ivan Pini, I trattati commerciali di una città agricola medioevale: Imola (1099-1279), "Studi Romagnoli", 26, 1975, pp. 65-97.
117. Basti ricordare, senza pretesa di completezza, che Domenico Contarini fu abate di S. Nicolò al Lido tra il 1152 e il 1177, che Giona Foscarini fu amministratore di S. Giorgio Maggiore tra il 1156 e il 1158, che di questo stesso cenobio fu avvocato Pietro Ziani nell'ultimo quarto del XII secolo, che Domenico Barbarigo fu agente e amministratore laico di S. Lorenzo pure alla fine del XII secolo, che Enrico Morosini risulta "advocatus et patronus" dell'abbazia di Brondolo nel 1215: ad altri, evidentemente, un discorso specifico sui rapporti tra patriziato e chiesa a Venezia anche per realtà (ad es. S. Ilario) che in certi momenti della loro storia sembrano agire e 'pensare' come vere e proprie potenze feudali di terraferma.
118. SS. Trinità e S. Michele Arcangelo, docc. 551 p. 276, 652 p. 408; sugli Ziani e i loro rapporti con l'economia e la chiesa della laguna vedi Giorgio Cracco, Società e stato nel medioevo veneziano, Firenze 1967, pp. 12, 76.
119. Episodi di tensione tra Venezia e Padova determinati anche dall'incontrollato incremento della proprietà delle fondazioni religiose lagunari nelle zone di confine sono ad esempio documentati nel 1107, 1142, 1162, 1214, 1220. Per un rapido bilancio cf. M. Pozza, Un trattato tra Venezia e Padova.
120. L.A. Ling, La presenza fondiaria, p. 308.
121. Basti ricordare la casa abbaziale che i monaci di Brondolo ebbero a Padova (forse già dal 1147, assieme ad alcune proprietà nei dintorni della città: SS. Trinità e S. Michele Arcangelo, doc. 105 p. 202): primo nucleo di un piccolo borgo che dal Duecento si incominciò a denominare, appunto, "dell'abate di Brondolo" o "di Brondolo"; o al vero e proprio piano di lottizzazione avviato da S. Cipriano nella stessa città nel 1197-98 nella contrada di S. Margherita (Paolo Sambin, Note sull'organizzazione parrocchiale di Padova nel sec. XIII, in Id., Studi di storia ecclesiastica medioevale, Venezia 1954, pp. 17-49, 62-63 [pp. 3-64>).
122. Vi insiste da ultimo Frederic C. Lane, Storia di Venezia, Torino 1978, pp. 68-70.
123. Girolamo Priuli, I diarii (aa. 1499-1512), in R.I.S.2, XXIV, 3, vol. IV, a cura di Roberto Cessi, 1933-1941, p. 307.
124. Riccobaldi Ferrariensis Compendium Romanae Historiae, a cura di Teresa Hankey, Roma 1984 (Fonti per la storia d'Italia, 108), p. 723.
125. Antonio S. Minotto, Acta et diplomata e regio Tabulario veneto. Documenta ad Ferrariam, Rhodigium, Policinum et Marchiones Estenses spectantia, Venezia 1873, pp. 86, 116 (e pp. 9-13 e 20-33 per numerose altre derrate trasportate sul Po e nell'Adriatico). Ma si veda anche Giovan Battista Verci, Storia della Marca Trivigiana e Veronese, I-II, Venezia 1786 (riprod. anast. Bologna 1979), doc. CLXXXVIII p. 139 (tra le merci concesse da Venezia a Treviso nel 1271 figurano "ramum, ferrum, bronzum laboratum [...> petre marmoree et massaritie", ma anche - fatto assai meno scontato - "boves laboratori"). Il tutto ovviamente in uno sfondo di sempre più intenso movimento marittimo di victualie da e per piazze assai più lontane, desumibile con facilità già per il sec. XI e XII dai Documenti del commercio veneziano dei sec. XI-XIII, editi a cura di Antonino Lombardo - Raimondo Morozzo Della Rocca, Torino 1940 (cf. ad es. docc. 2 p. 2, 31 p. 33, 65 p. 69, 67 p. 70, 68 p. 71, e passim) e dai Nuovi documenti del commercio veneto dei sec. XI-XIII, Venezia 1953, curati dagli stessi autori (cf. ad es. doc. 9 p. 11).
126. Giovanni Da Nono, De generatione aliquorum civium urbis Padue tam nobilium quam ignobilium, Padova, Biblioteca civica, BP 1239/XXIX, f. 8v. Entrambe le specie, fornitrici di vini di notevole limpidezza, di mediocre durata l'uno, più resistente l'altro, sono registrate tra quelle più diffuse nel nord Italia nel primo Trecento (Jean Claude Gaulin, Sur le vin au Moyen Age. Pietro de Crescenzi lecteur et utilisateur des 'Géoponiques' traduites par Bergundio de Pise, "Mélanges de l'Ecole Française de Rome - Moyen Age - Temps modernes", 96, 1984, p. 123).
127. Andrea Palladio, I quattro libri dell'architettura, Venezia 1579.