Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
È a partire dalla fine della seconda guerra mondiale, dall’avvento della società di massa e col modificarsi dei ruoli femminili, che cambiano significativamente le abitudini alimentari: sempre più spesso i cibi sono consumati fuori casa oppure sono prodotti industrialmente e precotti, facendo così venire meno l’antichissima identificazione fra la casa e il focolare domestico. Nascono i fast food e si moltiplicano le rivendite di pizza, sandwich e panini. Ma, al di là della contrapposizione fra un modello americano e uno europeo di consumo veloce del cibo, e ora anche di un modello orientale, si formano nuovi modelli di alimentazione che recuperano la centralità dei riti connessi con la tavola.
Già dall’inizio del secolo XIX il banchiere ginevrino Jacques Necker si fa promotore di accordi internazionali al fine di monitorare il problema delle gravi carenze alimentari. La Società delle Nazioni, sorta dopo la prima guerra mondiale, si interessa ai problemi della salute e dell’igiene, ma i dati sulla produzione e sul consumo dei singoli Paesi sono all’epoca della sua istituzione ancora poco conosciuti. È con la seconda guerra mondiale che gli studi sul fabbisogno dei soldati al fronte e sui problemi della sottoalimentazione trovano più ampia accoglienza. All’indomani della pace è creata, come istituzione specializzata delle Nazioni Unite, l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Agricoltura e l’Alimentazione (FAO), con sede a Roma, alla quale, tuttavia, come per tutte le organizzazioni delle Nazioni Unite, non è attribuita una giurisdizione soprannazionale, ma solo una possibilità consultiva. Nel preambolo dell’atto costitutivo sono indicati come scopi dell’organizzazione l’elevazione del livello di nutrizione e delle condizioni di vita dei popoli e il miglioramento del rendimento della produzione e della distribuzione dei prodotti alimentari e, con un’aggiunta del 1965, quello di “assicurare all’umanità la libertà dalla fame”. A essa si affiancano altre organizzazioni internazionali come l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), con sede a Ginevra, che spesso si esprime in merito a questioni di economia alimentare, e l’UNESCO, che pure ha una certa competenza in materia rurale. La creazione di questi istituti internazionali ha come logica conseguenza lo sviluppo di studi e di dati più precisi sul consumo di calorie pro capite.
A metà degli anni Sessanta si rileva che il forte incremento della popolazione nei Paesi più poveri porta a uno squilibrio catastrofico fra le risorse alimentari e le bocche da sfamare, anche perché se nei Paesi più industrializzati lo spettro delle carestie è debellato, non altrettanto può dirsi nei Paesi del terzo e quarto mondo. La società europea, al contrario, si trasforma profondamente nel dopoguerra divenendo, anche per quanto riguarda l’alimentazione, una società di consumi di massa, a causa dell’industrializzazione e dell’urbanizzazione forzata, della standardizzazione della produzione e dell’omologazione dei bisogni, dell’aumento del reddito, dell’invito al consumo da parte di pubblicità sempre più sottili e specializzate. Questa accentuata ed evidente differenza tra i Paesi industrializzati e quelli arretrati induce sempre più a riflettere sul problema mondiale dell’alimentazione.
Alla fine del secondo millennio si producono profonde trasformazioni nei modelli di alimentazione europei. Si ha una sostanziale modificazione nell’apporto di sostanze nutritive, contrassegnata dal passaggio da proteine e glucidi derivanti da cibi di origine vegetale a proteine e glucidi provenienti da alimenti di origine animale anche nelle aree più povere, con la conseguente eliminazione di gravi difetti nutrizionali. La più ricca alimentazione riguarda pure i lattanti, per i quali è anticipato il tempo dello svezzamento. Dalla carenza si passa all’eccedenza di cibo e dalla soddisfazione dei bisogni primari a quelli voluttuari. Lo sviluppo delle industrie alimentari contribuisce a modificare gli usi delle popolazioni. Prodotti come farina, pasta, olio, aceto, burro, che una volta erano preparati artigianalmente, vengono ora prodotti da ditte specializzate, mentre con la diffusione dei frigoriferi nelle case aumenta pure il numero delle imprese che si dedicano alla preparazione dei cibi surgelati, anche precotti, che sostituiscono in gran parte quelli in conserva. Con lo sviluppo su scala mondiale dei trasporti e del commercio si è pure molto accresciuta la disponibilità di prodotti d’oltremare e si è prodotto un lento, ma costante migrare di alcuni prodotti da generi di lusso a generi di largo consumo: è questo il caso, per esempio, delle banane e dell’ananas. Grazie, poi, al trasporto aereo e alle sofisticate tecniche di imballaggio e di conservazione, si sviluppa l’uso di frutta e verdura fuori stagione coltivata all’altro capo del mondo.
Sempre meno la preparazione e il consumo del cibo sono collegati al focolare domestico. La tendenza a consumare almeno un pasto al giorno fuori casa è in costante aumento ed è legata soprattutto agli incalzanti ritmi di lavoro e al diverso ruolo sociale delle donne, che tendono a occuparsi a pieno tempo in attività extradomestiche, ma anche alla riduzione del personale domestico, che solo negli ultimi decenni ricomincia ad aumentare in conseguenza dell’immigrazione da Paesi extracomunitari. Intorno agli anni Sessanta si affermano così diverse forme di ristorazione. Con il moltiplicarsi dei self-service e con l’istituzionalizzazione del fast food, rappresentato soprattutto da hamburger, coca-cola e patatine, si assiste alla diffusione di modelli alimentari provenienti d’oltreoceano. Ma in Europa, anche per una certa resistenza a recepire quei modelli, prendono piede anche la pizza, i sandwich e i panini, che si contrappongono al modello americano, pur sfruttandone in parte gli stessi canali. Essi tuttavia, facendo parte del bagaglio culturale mediterraneo, sfuggono alle critiche che si accaniscono contro l’hamburger. Ora la moda del sushi segnala la nuova influenza acquistata dall’Oriente anche nel campo gastronomico.
Il radicamento delle tradizioni alimentari si dimostra particolarmente forte in Europa, e in Italia, quando a Roma, nella centralissima piazza di Spagna, McDonald’s vuole aprire un centro di ristoro, molti scendono in piazza per difendere la tradizione culinaria locale organizzandosi intorno al movimento dello Slow Food. Del resto per secoli attraverso la preparazione del cibo in famiglia sono stati veicolati anche valori affettivi, la cura e l’amore nei confronti dei commensali. Ora la massiccia ingerenza della tecnica in questa attività fa sorgere due ordini di preoccupazioni: quello per la salute e quello per l’identità. La preoccupazione per la minaccia all’identità culturale si diffonde soprattutto in Paesi a tradizione cattolica, dove si teme, più che altrove, che il potere di aggregazione del desco familiare possa venire eroso dal processo di americanizzazione. D’altra parte l’idea che la salute cominci da una sana alimentazione fa sempre più proseliti e, sebbene la speranza di vita si sia allungata in tutti i Paesi sviluppati e la statura media sia considerevolmente aumentata, una generale inquietudine contagia l’opinione pubblica per il diffondersi di carcinomi e di malattie “da progresso”. Ma altre malattie fanno la loro comparsa di pari passo con il modificarsi dei modelli culturali. L’anoressia e la bulimia sono oggi tra i più gravi disturbi che compaiono nel comportamento alimentare.
Dall’incrocio delle preoccupazioni per la salute e per il rischio di perdere la tradizione del ben mangiare, del buon bere e della bella tavola si sviluppa la cosidetta nouvelle cuisine, che trionfa negli anni Settanta e Ottanta, fondata sulla miniaturizzazione delle porzioni, sull’eccellenza dei vini e del loro accoppiamento con i cibi, sul godimento estetico delle pietanze, sulla riduzione dei grassi sostituiti dalla sperimentazione di nuovi accoppiamenti di sapori, su una preparazione degli alimenti apparentemente poco elaborata che mira all’eccellenza degli ingredienti. Le tendenze di fondo che la orientano sono da collegare alle indagini dei nutrizionisti, alla nuova estetica del corpo, allo status che si esprime col raffinamento delle pratiche conviviali e l’attenzione al decoro, alla sovrabbondante disponibilità quotidiana di cibo che toglie valore alle grandi tavole delle ricorrenze festive.
Un’apparente contraddizione rispetto al valore omologante della nouvelle cuisine è costituito dalla nuova attenzione per i cibi e le cucine contadine, proprio mentre la popolazione rurale si riduce sempre più e nel momento in cui gli Stati nazionali mirano alla riduzione delle differenze interne. Si moltiplicano le guide gastronomiche che segnalano i luoghi dove trovare cibi in via di sparizione che diventano vere e proprie attrazioni turistiche. È degli anni Settanta la rivincita dell’olio d’oliva sugli altri grassi alimentari prima considerati più nobili, come il burro, contemporaneamente alla diffusione della dieta mediterranea a base di farinacei, legumi e ortaggi. Il modello alimentare italiano ottiene così una legittimazione che rafforza il conservatorismo gastronomico e ne fa il paladino di una controriforma alimentare. Assieme all’olio d’oliva, la pastasciutta, considerata negli anni del boom economico una specie di manifestazione di “analfabetismo alimentare”, subisce negli anni Ottanta una sorta di beatificazione.
Ma con la diffusione delle comunità multietniche si diffondono anche precetti alimentari che segnalano l’appartenenza a fedi religiose diverse. Se nell’ambito della Chiesa cattolica molti precetti alimentari si sono affievoliti, il rispetto delle regole giudaiche e musulmane, per esempio, è ancora abbastanza rigoroso. Anche al di là delle prescrizioni alimentari di natura religiosa, che peraltro sono rafforzate dalle esigenze identitarie che scaturiscono dal vivere fianco a fianco con comunità diverse, l’ingrossarsi dei flussi turistici e migratori comporta la circolazione di tradizioni culinarie molto varie, indiane, cinesi, giapponesi, messicane ecc.
Le molte tendenze culinarie del XX secolo, apparentemente contraddittorie, in realtà rappresentano una spia dei cambiamenti rapidi e complessi che si vanno producendo nella società europea: sia della razionalizzazione e della massificazione dei comportamenti che tendono a uniformarsi nei diversi Paesi spesso sotto la spinta di modelli americani, sia della recente invasione di modelli orientali, sia delle molteplici reazioni all’omologazione e della forza della tradizione europea che non solo si perpetua ma è in grado di essere massicciamente presente nella gastronomia mondiale.