L’Amazzonia in cucina
Prepariamoci: stiamo per essere investiti da una new wave culinaria partita dall’America Latina (Brasile, Perù, Cile). Per ritrovare la genuinità delle materie prime, riabilitando tradizioni millenarie e sperimentando ingredienti innovativi. Con chef geniali come Rodolfo Guzmán, Gastón Acurio e Alex Atala.
Nel 2011, quando Ferran Adrià, cinquantunenne cuoco spagnolo protagonista della prima rivoluzione gastronomica dopo quella della nouvelle cuisine francese, ha chiuso El Bulli, è stato chiaro che spume, azoto liquido, sferificazioni avevano trovato il proprio limite nella progressiva omologazione dei piatti, uguali in tutto il mondo, da New York a Singapore, a Barcellona.
La reazione è stata il ritorno alla genuinità della materia prima e la rinascita della vocazione identitaria del cuoco, filtrati questa volta attraverso le esperienze maturate in giro per il mondo e trasfigurati dalle acquisizioni tecniche. Cucina locale, visione globale: glocal, secondo il centrato neologismo anglosassone.
Il cambiamento di rotta ha portato alla ribalta le cucine scandinave, paladine di licheni e cotture primitive: emozionanti, certo, ma di breve respiro per la limitata tradizione e, soprattutto, per l’oggettiva avarizia del clima e perciò dei prodotti della terra. Tutt’altro lo scenario che si è aperto sullo straordinario mix di etnie, di tradizioni culinarie, di ingredienti del continente sudamericano come futura dispensa planetaria ed emergente paradiso dei gourmet: 60.000 specie di piante, 3000 specie di pesci, 1300 specie di uccelli, 2,5 milioni di specie di insetti e 85 dei 110 microclimi della superficie terrestre... Il che vuol dire: fiori edibili dal deserto di Atacama, larve e funghi dalla foresta di Oncol, galle dei tronchi, dolci e viscose dall’isola di Chiloé, felci millenarie, tartarughe giganti dell’Orinoco. Presenze giurassiche che forse sarebbero rimaste oggetto dello studio di naturalisti e biologi se per la nuova ondata di chef sudamericani cucinare non volesse dire fare ricerca. Su se stessi e sulle cucine popolari del proprio paese. Precursore e profeta il quarantaseienne peruviano Gastón Acurio che, imparato il mestiere in Francia, già dal suo primo ristorante, Astrid y Gastón, aveva bandito, 30 anni fa, soufflé e anatre all’arancia, per elevare la bistrattata vocazione meticcia della gastronomia peruviana al rango di autentica fusione culturale. Oggi, dopo che il governo peruviano ha addirittura messo al primo posto fra gli asset di promozione del paese l’enogastronomia, Acurio è diventato l’ambasciatore planetario di questa nuova cucina, ha creato Mistura, festival delle tradizioni andine, ha fondato Apega, un’associazione che aiuta i ragazzi del popolo a trovare un mestiere attraverso la cucina, è stato invitato come opinionista al G9 di Tokyo. Il suo Larousse della gastronomia peruviana incontra i palati multiculturali con interpretazioni creative del ceviche; con 25 tipi di antichuco, gli spiedini di carne comuni alla cucina creola e cilena; con versioni personali di tiradito, una sorta di sashimi inventato dalla prima ondata di emigrati giapponesi all’inizio del Novecento. Piatti che si possono assaggiare negli oltre 40 ristoranti aperti col suo nome nel mondo e che gli hanno consentito in 3 anni di scalare la classifica dei 50 Best mondiale dal quarantaduesimo al quattordicesimo posto, in attesa della prima edizione 50 Best dell’America del Sud annunciata per il 2014, non a caso voluta e finanziata dall’ente di promozione Promperú.
Non minore su questo terreno l’impegno del governo brasiliano che, in vista dei Campionati mondiali di calcio del 2014, intende giocare molte delle sue carte sulla ricchezza del proprio patrimonio gastronomico. Punta di diamante, lo stile provocatorio del quarantacinquenne Alex Atala, chef, cacciatore ed esploratore nella giungla amazzonica, che nel D.O.M. di San Paolo ha elevato a culto piatti come il ‘ceviche di fiori selvaggi’, il ‘cocco con alghe e fave di tonka’, i ‘granchi aratù in succo di radice di tapioca’, sino all’‘ananasso con formiche amazzoniche’, consigliate dall’ultimo rapporto della FAO come futura ideale fonte di proteine insieme a larve e altri insetti della giungla. Provocazioni a parte, la nuova cucina dell’America Latina sta diventando una moda capace di emozionare sia i palati dei sofisticati che considerano caviale, ostriche e foie gras simboli di un lusso vecchio e stanco, sia quelli dei giovani foodie.
Non a caso Rodolfo Guzmán, trentenne cileno, del Boragó a Lima, in autunno in trasferta in grandi alberghi europei, sulla carta inalbera la scritta La cocina del final del mundo, che definisce ‘endemica’. Ogni piatto parte da un prodotto incontrato nei suoi viaggi di scoperta, dall’arcipelago di Chonos alla Patagonia. Pesci di roccia kra-kra presentati su rocce di carbone edibile circondate da un’emulsione di erbe selvagge; liane acquatiche dal sapore di capesante; essenza di curanto, lo stufato magico del culto afrobrasiliano Candomblé, radici e bacche andine affumicate in buche scavate nel terreno.
Ad Ámaz, a Lima, il peruviano Pedro Miguel Schiaffino, considerato dal New York Times e dallo starchef vagabondo Anthony Bourdain il primo vero interprete di cucina amazzonica ricercata, si applica a piatti come il patarashca, pesce avvolto in foglie di banana cotto in brodo di erbe, e i churros pishpirones, lumache giganti raccolte per lui dagli indios Iquitos, servite con salsa piccante e perle di tapioca.
Il Remanso do Bosque, il ‘rifugio della foresta’, come i fratelli Thiago e Felipe Castanho hanno chiamato il loro locale a Belém, alla foce del Rio delle Amazzoni, ha iniziato la sua attività. La curiosità è grande: adesso si tratta di vedere se la cucina del buon selvaggio sarà davvero, come sembra, il futuro delle nostre tavole o un’emozione irripetibile altrove.
Oscar della cucina al femminile a un’italiana
È Nadia Santini, del ristorante Dal Pescatore di Canneto sull’Oglio, in provincia di Mantova, la migliore chef donna del pianeta secondo la giuria del World’s 50 Best Restaurants Awards 2013. Una donna di cultura proiettata ‘oltre’ il suo mestiere, in virtù dei suoi studi in Scienze politiche e in Scienza e tecnologia alimentare. Prima cuoca italiana a ricevere le ‘3 stelle’ Michelin nel 1996, la sua carriera è intrecciata con la medesima vita professionale di suo marito Antonio, la sua famiglia, con quella dei suoi figli, Giovanni e Alberto.Quello che colpisce di Nadia Santini è la luminosità del sorriso e la schiettezza con cui parla di cultura gastronomica, riuscendo a essere in egual misura ferma, autorevole e aggraziata. D’origine veneta, è assai distante dai rituali tic della star chef a cui tanti suoi colleghi maschi ci hanno, da tempo, abituati. Possiede il metodo e la mente dell’antropologa in cucina, con un rapporto laico ma viscerale con le materie prime e il territorio, capace di rendere eccezionale la normalità.
Il suo, quello di cuoca, è un lavoro in grado di guardare alla tradizione con le mani e la mente d’oggi, ma con il pensiero gastronomico rivolto al futuro. Una virtuosa visione della vita e del cibo, che Nadia Santini condivide con l’insieme della sua famiglia, basata sull’idea dell’accoglienza, dell’esperienza, della costanza e della serenità. Forse, il loro segreto sta nella singolare e rara ‘semplicità, difficile a farsi’, in ogni cosa, in ogni settore.
di Giacomo Mojoli