La visita di Vladimir Putin a Budapest nel febbraio 2015 segna un momento importante per le relazioni tra Russia e Ungheria per due ordini di motivi: dal punto di vista di Mosca l’incontro – il primo bilaterale in paese dell’Eu dopo l’estate del 2014 e dopo l’escalation di tensioni seguite alla crisi in Ucraina – ha costituito un’occasione per continuare a tessere le trame diplomatiche con un tradizionale partner in uno spazio geopolitico a cui altrettanto tradizionalmente il Cremlino guarda per poter esercitare il proprio soft power e per estendere il proprio leverage economico nel settore che gli è più congeniale. L’ambito su cui i due governi hanno trovato terreno fertile di discussione è stato difatti quello energetico grazie al rinnovo fino al 2018 dei contratti di approvvigionamento energetico (da cui l’Ungheria dipende per l’80% del proprio fabbisogno del gas) oltre all’impegno, da parte della Russia, di finanziare il riammodernamento della centrale nucleare di Paks – già oggetto di precedenti intese insieme con i progetti sull’energia elettrica – e di aprire allo scopo una linea di credito di 11 miliardi di dollari (accordo, quest’ultimo, approvato anche dall’Euratom dopo alcune reticenze iniziali). Dal punto di vista dell’Ungheria il rafforzamento del legame con la Russia risponde a quell’obiettivo di diversificazione politica – più nella forma che nella sostanza, invero –, oltre che economica, come diretta conseguenza di un sostanziale incrinarsi dei rapporti con l’Unione Europea.
A tale raffreddamento delle relazioni hanno di fatto concorso più fattori, primo fra tutti l’esigenza di trovare nuovi interlocutori economici capaci di sostenere un’economia post-socialista indebolita dalla congiuntura globale negativa e dalla crisi economica europea, a cui il precedente governo socialista, tra scandali interni al partito, aveva provato a far fronte imponendo rigide misure di austerità. Il dilagante euroscetticismo è dunque figlio della frustrazione dell’opinione pubblica per gli elevati livelli di recessione produttiva, di disoccupazione e di insolvenza verso le istituzioni finanziarie: con queste ultime il governo di Viktor Orbán ha condotto una difficile partita negoziale legata a doppio filo con gli attriti derivanti dal carattere autoritario e anti-democratico impresso dallo stesso premier alle significative riforme costituzionali varate. In questo cuneo di tensioni, sfociate nell’apertura di alcune procedure d’infrazione e in altre minacce di deferimento da parte dell’Eu, ha trovato dunque spazio il rafforzamento dell’asse russo-ungherese. Oltretutto, la recente crescita dei consensi nei confronti di Jobbik, partito di estrema destra accusato di anti-semitismo, ha costretto proprio Orbán e il partito di governo (Fidesz) a rincorrere la stessa formazione di Gábor Vona sui temi dell’anti-europeismo, che dall’estate del 2015 hanno trovato più marcata espressione nella pressoché totale chiusura a qualsiasi forma di dialogo e cooperazione con i paesi confinanti e con l’Eu in materia di immigrazione. L’enfasi posta su toni più nazionalistici dev’essere letta perciò anche alla luce del calo dei voti di Fidesz (sia in occasione delle elezioni legislative nazionali sia di quelle europee) e della vittoria di Jobbik alle elezioni suppletive (aprile 2015) nella provincia di Veszprém, precedentemente bacino di voti per Fidesz e dove quest’ultimo, con una sconfitta in un’altra consultazione suppletiva (febbraio 2015), ha perso in parlamento la maggioranza dei due terzi che deteneva dal 2010.
La linea intrapresa dal governo Orbán deve comunque inquadrarsi in una più generale linea di tendenza di una fetta di paesi dell’Europa centro-orientale che, a distanza di un decennio dall’allargamento, hanno acquisito una centralità tale da poter influenzare il dibattito sui temi più spinosi dell’agenda comunitaria e, lì dove possibile, da orientarne i processi decisionali. Come per altri paesi (si veda in questo senso la Grecia), lo sguardo verso la Russia – così come verso altri attori extra-europei, Cina in primis – risponde all’esigenza di poter contare su più opzioni per la realizzazione di riforme strutturali tali da migliorare in maniera significativa gli indicatori macro-economici. Al tempo stesso la strategia del Cremlino, tornato a ritagliarsi un ruolo di primo piano su diversi dossier internazionali, è focalizzata sull’occupare possibili ‘spazi vuoti’ lasciati dall’Eu, completando piani di investimento non sufficientemente finanziati da Bruxelles e provando a supportare in prospettiva – con offerte vantaggiose – uno sviluppo regionale basato su una rete di solide alleanze. L’assertività della politica estera ungherese e l’avvicinamento a Mosca non devono essere comunque presi come un dato di fatto, bensì come una linea improntata al pragmatismo per il breve-medio periodo. Non sono troppo lontani i tempi in cui Orbán criticava il proprio predecessore, Ferenc Gyurcsány, di aver appoggiato il progetto South Stream; nondimeno la persistenza di elementi di disequilibrio nell’economia ungherese, insieme con le manifestazioni anti-governative anche per il riavvicinamento a Mosca, possono riportare Budapest con i piedi entrambi nelle staffe dell’Eu. Malgrado l’ambivalenza della sua politica estera, e solo apparentemente contraddittoria (si veda il caso delle sanzioni nei confronti della Russia, solo nominalmente criticate), per il governo di Orbán l’ancoraggio alle strutture europee resta di primaria importanza. La competizione partitica contribuirà tuttavia a definire gli equilibri in questo senso, l’agenda politica e, in prospettiva, l’appuntamento elettorale del 2018.