L’amministrazione centrale
Torino, 4 aprile 1863. Al centralissimo teatro Alfieri va in scena per la prima volta una commedia in dialetto piemontese di Vittorio Bersezio. È un testo che farà parlare di sé. Si intitola Le miserie di Monsù Travet. Racconta, con crudo realismo e non senza un tocco di sociologismo ante litteram, l’avventura borghese, anzi tipicamente piccolo-borghese, dell’impiegato dello Stato, quello che d’ora innanzi si chiamerà, con malcelata commiserazione, il travetto.
Monsù Travet è un «mezzemaniche» qualunque, in un ministero della Torino risorgimentale. Ha una moglie pretenziosa, una figlia nubile da accasare, un appartamento nel centro di Torino del quale deve mantenere il decoro. Tutta la sua vita si svolge nella stridente contraddizione tra le miserie dell’essere e le ambizioni dell’apparire. L’essere è rappresentato dal magro stipendio dello statale, sempre meno bastevole ad assicurare il pane e il companatico, in una società che attraversa proprio in quegli anni momenti di intenso dinamismo sociale; l’apparire coincide con le necessità inderogabili della rappresentazione pubblica (mantenere la serva, pagare puntualmente l’affitto dell’appartamento, garantire le toilettes alla moda della signora così da consentirle di frequentare qualche salotto borghese, coltivare amicizie sociali à la page). Il servitore dello Stato, proprio in virtù della funzione privilegiata che gli è assegnata, non può pensare neanche per un attimo di mescolarsi con i ceti inferiori, specie con quei ceti illetterati che invadono in quegli anni la platea della nascente città borghese e ne diventano in qualche modo i protagonisti: gli artigiani, gli «impiegatucci» privati senz’arte né parte, gli esponenti squattrinati della «bassa» magistratura, i giovani avvocati alle prime prove del tirocinio, gli insegnanti delle scuole primarie e secondarie. Ma specialmente Travet disprezza i «bottegai», questa nuova leva di arricchiti che si fa strada nella città borghese minacciando, nella sua ascesa, di raggiungere e superare i livelli di reddito degli impiegati di Stato. E appunto «bottegaio», per colmo di sventura, sarà il padre del pretendente della figliola. A quel matrimonio, che lo imparenterebbe con una famiglia comunque agiata ma priva di prestigio sociale, Travet si opporrà dunque con tutte le sue forze. Salvo, alla fine, cedere, sconfitto e umiliato nelle sue più intime convinzioni; e addirittura, in una specie di catarsi finale, licenziarsi egli stesso dall’impiego di Stato per seguire il consuocero nella nuova attività del piccolo commercio. Un dramma piccolo-borghese, sul cui sfondo Bersezio mette magistralmente in scena la realtà umiliante e un po’ squallida degli uffici ottocenteschi: i regolamenti autoritari, i superiori arroganti, i colleghi invidiosi e ostili, la vita alienante, insomma, del piccolo burocrate in balìa degli eventi.
Agli impiegati torinesi accorsi in gran numero all’Alfieri – dicono le cronache giornalistiche del 1863 – la commedia però non piacque. Il pubblico si dimostrò freddo, mormorò ai passaggi salienti, apparve palesemente scontento alla fine. Avvertì forse in Travet il simbolo della propria inconfessata crisi di identità sociale.
Nel Piemonte preunitario, in realtà, la burocrazia sentiva ancora di costituire una casta. Il servizio di Stato (sebbene si fosse già, da qualche anno, in epoca statutaria) era ancora percepito da chi vi militava quale prestazione di fedeltà personale al re, come nell’antico regime; le sue regole fondanti erano nient’altro che la prosecuzione degli antichi codici di derivazione militare. Quando, nel marzo 1861, il Regno di Sardegna aveva dato luogo senza soluzione di continuità al nuovo Regno d’Italia, il nucleo fondante dell’impiego di Stato aveva continuato ad essere animato dalla medesima concezione delle istituzioni e da una analoga, forse ormai anacronistica, percezione di se stesso e del proprio ruolo.
Eppure, quella piccola burocrazia piemontese nella Torino dei primi anni Sessanta dell’Ottocento era al tempo stesso realisticamente simile, più di quanto essa stessa non volesse ammettere, alla grottesca figura tratteggiata da Bersezio nel suo personaggio. Basterebbe leggere il regolamento Cavour del 1853, la prima carta dei doveri (non dei diritti) degli impiegati statali. Diritti, appunto, nessuno; doveri, moltissimi, e inderogabili: orari d’ufficio indefettibili, mattina e pomeriggio con l’interruzione del pranzo talvolta da consumarsi «alla gavetta» nel chiuso dell’ufficio; turni obbligatori di presenza domenicale, per tenere aperto l’ufficio e smaltire l’arretrato; obbligo per gli impiegati di tenere puliti i locali; disciplina ferrea, sanzionata da un vero e proprio catalogo di punizioni severissime (dal richiamo semplice, che incideva sullo stipendio, al licenziamento in tronco, che coincideva spesso con la caduta in miseria); obbedienza assoluta all’autorità; sottomissione ai superiori senza remissione; mansioni d’ufficio estese senza soluzione di continuità alla vita privata, nella quale occorreva tenere condotta irreprensibile, esemplare (abbigliamento canonico, frequentazioni extralavoro vigilatissime, nessuna attività privata fuori dell’ufficio, divieto assoluto di bere, di frequentare case da gioco, di dare comunque scandalo nella pubblica opinione). Guai ad accompagnarsi con donne di malaffare. Impensabile una famiglia irregolare. Proibito assistere a teatro a spettacoli disdicevoli. Comportamenti elettorali, s’intende, rigorosamente filogovernativi (Melis 2004, pp. 15-76).
Anche i luoghi, gli ambienti di lavoro dovevano adeguarsi al cliché. I palazzi dell’amministrazione dopo l’unità ebbero, nella loro collocazione urbanistica e nella foggia architettonica, un senso specialmente simbolico. Nella Torino sabauda occupavano il centro-città, si addensavano attorno al Castello, convergendo poi, come un sistema di ideali casematte, a protezione del potere, intorno alle moli di Palazzo Reale e di Palazzo Carignano: in piazza Castello, a pochi passi di distanza l’uno dall’altro, gli Esteri, l’Interno, la Guerra, il ministero di Grazia e giustizia, le Finanze; in via dell’Arcivescovado il Catasto; in via della Posta la Marina; a Contrada di Po la Pubblica istruzione; in piazza San Carlo i Lavori pubblici. A Firenze, nel breve interludio del trasferimento dei ministeri in Toscana, lo Stato occupò il centro della vecchia città granducale, secondo una scelta di continuità anche fisica con le sedi del vecchio regime che fu tipica di tutte le città ex capitali (dove in genere la Prefettura fu insediata nei palazzi di governo). Anche a Roma, dopo il trasferimento della capitale, solenni edifici furono costruiti apposta per ospitarvi i nuovi ministeri (come capitò per l’imponente mole delle Finanze nel quadrilatero di via XX Settembre: scalinate monumentali, corridoi dei passi perduti, volte altissime, sterminati scantinati, le stanze degli impiegati distribuite simmetricamente, secondo una studiata frammentazione cellulare degli spazi); oppure, e successe più spesso, sedi dei ministeri furono i vecchi palazzi patrizi riadattati alla bell’e meglio, o i conventi religiosi frettolosamente espropriati dopo il 20 settembre: e qui la disposizione isolata delle antiche celle delle monache e dei frati calzava perfettamente alla sistematica divisione degli impiegati nel lavoro d’ufficio, alla frammentazione esasperata del lavoro minuto sulle «pratiche interminate».
In contrasto con la magniloquenza delle facciate, con la pretenziosa spaziosità di certi anditi e scalinate d’onore, l’aria, negli ambienti interni, in genere era malsana, angusti gli uffici, affacciati su corridoi talvolta poco luminosi. C’era dappertutto – dicono le testimonianze – un odore stagnante, tipico dei ministeri: un misto di scarsa pulizia, di polvere d’archivio, di petrolio da lampade di cattiva qualità, di effluvi umani. Luce, lo si è detto, poca: Quintino Sella, l’occhiuto custode del bilancio ai tempi della Destra, obbligava i suoi impiegati a portarsi da casa, a proprie spese, l’olio per le lampade o le candele. Polvere moltissima, sino a divenire una componente organica dell’ambiente. Nel primi regolamenti d’ufficio toccava agli impiegati, in orari prestabiliti e secondo preordinati turni domenicali, tenere puliti i locali. Fastosi nell’aspetto esteriore, i palazzi dello Stato celavano spesso all’interno una sobrietà di arredi quasi spartana, una modestia (si direbbe meglio una miseria) piccolo-borghese un po’ squallida: paraventi improvvisati, stufe di fortuna, tramezzi improbabili, poggiapiedi posticci, tappezzerie consunte dal tempo e dall’uso. A Firenze, nel 1865, nel nuovo palazzo del Consiglio di Stato furono addirittura risistemate quelle staccate dalle pareti della precedente sede torinese, pur di risparmiare la spesa di un nuovo acquisto.
Con tutto ciò, in quell’Italia in costruzione, essere impiegato di Stato costituiva ancora un ambìto privilegio. Subito dopo l’Unità gli impiegati italiani non furono più di 11.000 (il dato, al netto dei fuori-organico, soli ministeri, si riferisce all’anno 1876), residuo in parte (ma solo in parte) di una selezione delle precedenti burocrazie degli Stati preunitari. In realtà nello screening successivo ai plebisciti molti dei vecchi burocrati degli antichi Stati avevano preferito cambiare mestiere, o per fedeltà ai vecchi regimi o per manifesta inadeguatezza a inserirsi con bagagli professionali più che modesti nella burocrazia sabauda, più moderna e meglio strutturata. Il nucleo fondante dunque restò piemontese (fu così quasi sino alla fine dell’Ottocento), come da Torino provenne quasi tutto il vertice della nuova amministrazione. Lo testimoniò nel 1866 l’inchiesta che un presidente del Consiglio toscano, Bettino Ricasoli, affidò al cavalier Antonio Binda, capo divisione del ministero dell’Interno, un funzionario di sua assoluta fiducia, dotato di rara autonomia di giudizio. Nella densa relazione messa agli atti del gabinetto, tutti i mali antichi della giovane burocrazia del nuovo Stato erano severamente posti in evidenza: la tendenza esasperata alla routine quotidiana e l’obbedienza cieca e assoluta ai regolamenti, uscita di sicurezza per un personale a ogni passo timoroso di sbagliare in proprio; la «tirannia dell’anzianità», che comprimeva il merito e premiava i mediocri, ghettizzando le giovani leve; lo «scoraggiamento», la «mancanza di zelo» e la «rilasciatezza» diffusi abbondantemente in ogni ufficio. Ma soprattutto il dominio incontrastato dei «piemontesi», quintessenza di tutti i difetti «burocratici». Piemontesi i direttori di divisione, i prefetti, gli impiegati dei ministeri centrali, i capi degli uffici provinciali; piemontesi gran parte degli impiegati che – secondo un sistema subito in voga – venivano spediti per periodi di due-tre anni nei vari capoluoghi, a portarvi ordine burocratico, attitudine alla disciplina e all’obbedienza gerarchica, uniformità di linguaggio e di prassi amministrative. Se andava bene, routine e regolarità di esecuzione. Altrimenti, come il più delle volte accadeva, pignoleria esasperante, culto delle forme fini a se stesse, conformismo. Con queste parole concludeva Binda, proponendo radicali riforme destinate a restare, come tante altre volte, sulla carta:
Funzionari forniti con pari abbondanza da tutte le Regioni meglio avrebbero saputo corrispondere alle svariate esigenze delle diverse Province del Regno, che in parte sono ancora fra di loro ben diverse per indole e per costumi, di quanto non potevano fare quelli allevati da una Regione sola (Archivio centrale dello Stato, Carte Ricasoli, b. 3, fasc. 18, sf. B).
Ma i piemontesi si sarebbero rivelati inamovibili, protetti da ministri anch’essi piemontesi (Urbano Rattazzi, Giovanni Lanza), uniti tra loro da fortissimi vincoli di solidarietà, sorretti da una conoscenza profonda dei regolamenti, delle circolari ministeriali, degli ordini di servizio piuttosto che del diritto e della legge. È quanto avrebbe eccepito con indignazione Giuseppe Giannelli, napoletano, già funzionario del Regno delle Due Sicilie, ma passato dopo il 1860 con entusiasmo patriottico a servire l’Italia, autore sotto lo pseudonimo di «Joseph pro domo sua» del vivace pamphlet Storia di un periodo dell’amministrazione italiana, edito però solo trent’anni più tardi, nel 1891. Egli avrebbe scritto nel concludere con amarezza il suo libro-testimonianza:
La differente educazione politica, giuridica ed amministrativa fra me e i miei colleghi, che non mi erano benigni, importava che, nella trattazione degli affari, mentre io fondava il mio parere sulla legge e sulla ragione, essi ubbidivano ciecamente ad una giurisprudenza non sempre conforme ai principi regolatori del diritto e che si riferiva quasi sempre agli ordini politici dell’antico Piemonte (p. 47).
Conflitto culturale, prima ancora che politico, il contrasto tra Giannelli e i suoi colleghi subalpini sarebbe sfociato, alquanto tragicamente, addirittura in un duello, causato – sembra – da una accesa vertenza sullo stile nel quale redigere un certo documento («quel frasario burocratico dell’antica amministrazione piemontese, un frasario che appo i meridionali non aveva riscontro che negli atti notarili delle peggiori epoche della letteratura italiana», ivi, p. 48). Consigliere di prefettura, poi sottoprefetto, Giannelli si sarebbe quindi dimesso dall’impiego, ufficialmente per protesta contro un trasferimento impostogli – avrebbe scritto – «per motivi politici», ma forse anche per la sua indomabile fedeltà agli «insegnamenti del Puoti» (ivi, p. 49).
Impiegato dello Stato, in quella prima amministrazione, lo si diventava comunque non per aver sostenuto un concorso, ma per la cooptazione dall’alto (dopo il 1861 molto per aderenze politiche: i ministeri si riempirono allora di veri o presunti ex patrioti, di perseguitati dagli antichi regimi, di volontari della causa nazionale, di amici del governo). Cooptazione seguita a sua volta da percorsi interni misti: promozioni per anzianità e, nei passaggi salienti, avanzamenti da un grado all’altro per merito.
La struttura dei ministeri, uniforme com’era stata disegnata in origine dal regolamento Cavour (in teoria anche molto rigidamente, ma sarebbe intervenuta presto più di un’eccezione), ricalcava la figura geometrica della piramide: al vertice il ministro, dominus supremo di ogni cosa, unico responsabile dell’agire amministrativo davanti al re (ma quasi subito anche davanti al Parlamento); poi, sotto di lui, il segretario generale (un politico, o più spesso un alto funzionario di fiducia del ministro, con compiti di raccordo); quindi la scala della gerarchia, digradante dal direttore generale, al capo divisione, al capo sezione, ai segretari delle varie classi, sino agli applicati (anch’essi divisi per classi). Ai piedi della gradinata i volontari, giovani o meno giovani aspiranti senza stabilità del posto né stipendio fisso, imparavano il mestiere in attesa di essere promossi al gradino immediatamente superiore e immessi così nella possibilità di iniziare la carriera. La copia degli atti (stesi in bella calligrafia, secondo quantità giornaliere tassativamente conteggiate e valutate dai capi ufficio) costituiva la prima forma di addestramento, nella convinzione che memorizzare contenuti e stile delle pratiche («imparare copiando») costituisse la base della formazione stessa.
Nessun titolo di studio (tanto meno la laurea, inizialmente negletta) sosteneva e garantiva l’escalation burocratica, piuttosto le doti canoniche del buon impiegato (zelo e operosità, ordine, riservatezza, rispetto dei capi, decoro del vivere e dell’apparire), giudicate senza possibilità di appello dagli immediati superiori gerarchici attraverso il sistema temutissimo delle note segrete, gelosamente conservate nel fascicolo personale senza che l’interessato ne potesse mai conoscere il contenuto.
Nel modello originario ideato da Cavour (a sua volta mutuato dallo schema francese-napoleonico filtrato dall’esperienza del Belgio costituzionale del 1831), l’amministrazione era dunque un apparato acefalo, interamente dipendente, senza residuo alcuno, dalla politica. Poiché il ministro doveva, in regime statutario, rispondere al Parlamento, l’amministrazione a sua volta doveva operare sotto il ministro senza volontà propria, macchina inerte (e di «rotismi amministrativi» aveva infatti parlato Cavour nel dibattito parlamentare del 1852-53) dedita alla pura esecuzione «meccanica» del comando impartito dalla politica. La firma ministeriale, atto finale di qualunque procedura interna, garantiva che solo il potere politico potesse assumere la decisione amministrativa.
Principio consono al costituzionalismo ottocentesco, il mito della neutralità amministrativa celava in sé la sua contraddizione e il suo vizio: si sarebbe infatti tradotto, sin dai primi anni, in un modello di funzionamento tipico, fondato sulla rinuncia (almeno in apparenza: si vedrà anche in questo caso che la prassi introdusse poi le sue eccezioni) a qualunque protagonismo, ma anche a qualsivoglia discrezionalità burocratica. In termini concreti ne venne un’accentuazione della esasperata divisione delle responsabilità (e quindi anche del lavoro) all’interno degli uffici. La pratica, impostata dall’alto per iniziativa del ministro e dei suoi uffici di vertice (ben presto acquisì un suo rilievo la segreteria personale dell’uomo politico), veniva trasmessa per competenza alla direzione generale interessata, o a più direzioni generali; queste procedevano a loro volta a frammentarla e a distribuirla nelle varie divisioni, da cui poi, secondo lo schema gerarchico, essa «discendeva» per ulteriori partizioni alle varie sezioni e agli applicati che l’avrebbero concretamente «lavorata». Il processo inverso, dal basso verso l’alto, presiedeva alla riunificazione del fascicolo, prodotto finale del contributo dei vari segmenti della piramide burocratica, sino all’atto finale della firma ministeriale e alla «spedizione» (cui provvedevano appositi uffici posti al vertice). Il tutto (contenuti, tempi di lavorazione, trasmissione ai vari stadi del circuito) regolato in minuziose annotazioni dai protocolli: quello generale del ministero, per gli atti in entrata e in uscita, e quelli interni, particolari dei vari uffici, secondo un sistema a rete nel quale nulla sarebbe sfuggito e ogni più insignificante passaggio avrebbe dovuto essere scrupolosamente annotato sui registri.
Che un simile sistema potesse dar luogo a ritardi e a sovrapposizioni di competenze dovette risultare subito chiaro nei primi anni Sessanta dell’Ottocento. Che frammentando gli affari se ne potesse perdere il senso generale e la visione complessiva, anche. Nelle carte Ricasoli, quelle stesse che conservano la relazione di Binda sulla piemontesizzazione, si trova anche una preziosa indagine sui tempi (e i costi) di una pratica standard: come acquistare alcune poltrone per il teatro San Carlo di Napoli, all’epoca dipendente dal ministero dell’Interno. Il risultato finale dell’esperimento, annotato puntigliosamente dal funzionario che lo eseguì, rivelava come l’attività dell’amministrazione fosse ostacolata e ritardata da una serie, quasi parossistica, di adempimenti formali e di controlli minuti (più di forma che di risultato, naturalmente) sino ad apparire già allora inefficiente e diseconomica. Tanto più che nel 1869, intervenendo in questo quadro la legge Cambray-Digny sulla contabilità di Stato e «l’occhiuto vaglio» della Ragioneria generale dello Stato, il sistema dei controlli si sarebbe ulteriormente inasprito. «Duplici e triplici controlli», secondo l’espressione di Carlo Petrocchi, uno dei migliori funzionari dell’età giolittiana, giacché già vigeva all’epoca, in base alla legge del 1862, il controllo esercitato dalla Corte dei conti, cui nel 1869 si aggiunse non solo quello del ragioniere generale dello Stato (senza la cui firma gli atti implicanti spesa non potevano essere emanati), ma anche quello delle ragionerie centrali, istituite presso ogni ministero, tutte tra loro in relazione e assoggettate (sebbene non ancora gerarchicamente, come sarebbe stato solo nel 1923) alla Ragioneria generale. Nasceva intanto, grazie alle riforme di fine anni Sessanta, una influente quanto pervasiva «burocrazia della cifra».
Tuttavia nel 1853 la parola «burocrazia» (derivata dal francese, come dal paese d’Oltralpe derivarono altri termini del regolamento Cavour: tipico il dossier) non aveva ancora assunto il significato negativo degli ultimi decenni dell’Ottocento. Come si evince facilmente dagli atti parlamentari, Cavour considerava la sua riforma come una necessaria modernizzazione dell’attività amministrativa, che (oltre a corrispondere, come si è detto, a fondamentali esigenze costituzionali di attribuzione della responsabilità) avrebbe piuttosto velocizzato le operazioni d’ufficio. Ma ciò che specialmente la nuova organizzazione garantiva era la certezza dell’agire amministrativo, il suo ripetersi secondo forme e cadenze identiche in ogni tempo, luogo e circostanza: il che, in un paese ancora largamente da unificare, diviso profondamente dalla geografia, dalla storia e dall’economia, dovette apparire (e in larga misura fu) un potente fattore di coesione nazionale. Non a caso (lo si legge nei primi regolamenti, lo si evince in tutta la memorialistica burocratica ottocentesca) l’iniziazione dell’impiegato appena assunto, dopo il rituale della presentazione in ufficio e il giuramento, consisteva invariabilmente nella visita in archivio, magari con la scorta di qualche anziano, benevolo collega: era lì, a contatto con la polvere degli antichi faldoni, che il giovane apprendista burocrate postunitario, dimenticati (se pure li aveva praticati) i suoi inutili studi giuridici, doveva trarre ispirazione ed esempio dalle antiche pratiche: applicando a casi analoghi soluzioni già sperimentate dai suoi predecessori, imitandone il modo di ragionare, il linguaggio tipicamente burocratico, lo stereotipato stile di scrittura. Il nuovo copiava dal vecchio, dunque; il culto del precedente faceva aggio sulla pretesa di ragionare ex novo con la propria testa; il passato si imponeva come l’accumulazione originaria cui ricorrere per non sbagliare. Nella continuità dell’agire amministrativo, nella ripetitività dei comportamenti l’amministrazione della nuova Italia individuava, quasi per riflesso condizionato e inconsapevole, la garanzia della sua stessa prevedibilità, ciò che costituiva (ed era per la verità esattamente così) uno dei punti di forza della sua stessa legittimazione agli occhi dei cittadini.
Naturalmente tutto ciò si risolveva in una sorta di spesso e talvolta ottuso conservatorismo burocratico, scoraggiando l’innovazione, l’originalità delle soluzioni alternative, la stessa capacità dell’amministrazione di stare al passo col progredire dei tempi (in certo senso era come guardare alle proprie spalle, piuttosto che davanti a sé). Ma in compenso radicava certezza, senso della continuità, uniformità nelle decisioni. Valori fondanti, tutti, dell’agire stesso dell’apparato.
La burocrazia della nuova Italia poté giovarsi, sin dai primi anni, di una classe dirigente di prim’ordine. I suoi esponenti di spicco (prefetti, direttori generali, ambasciatori, provveditori agli studi, ingegneri del Genio civile, direttori della statistica di Stato) figurano in molti casi a buon diritto nell’ambito dell’élite postrisorgimentale, alla stregua degli uomini politici, dei pionieri della finanza privata, dei primi industriali protagonisti della nascente impresa capitalistica, dei grandi proprietari terrieri e agrari. L’osmosi sociale e culturale, cioè la sostanziale unità e circolarità di estrazione e di esperienze che fu tipica nel suo complesso di quella prima classe dirigente nazionale, garantì, almeno sino al penultimo decennio dell’Ottocento, un idem sentire assoluto, una comune adesione ai valori fondanti del nuovo Stato e della egemonia borghese che lo caratterizzava.
Borghesi (o aristocratico-borghesi), legati ai modi di vita della civiltà urbana (e dunque a una certa idea tipicamente ottocentesca della modernità), mediamente colti (anche se spesso nutriti di studi più letterari che giuridici), appassionatamente partecipi del mito patriottico-risorgimentale, i dirigenti dello Stato composero una galleria ricca di individualità prestigiose. Si distinsero, nei primi anni del regime unitario, alcune personalità di funzionari di grande spessore, prima ancora che amministrativo, politico. Come fu il conte Amedeo Nasalli Rocca, parmense, nato nel 1852, che, entrato per concorso nella carriera prefettizia nel 1874, ne avrebbe percorso tutti i gradini, attraverso successivi trasferimenti in sedici sedi diverse situate in ogni regione d’Italia; e che di quella inestimabile esperienza di «scoperta dell’Italia reale» avrebbe lasciato traccia nelle sue Memorie di un prefetto. O come Giacinto Scelsi, anch’egli prefetto (siciliano di Collegano, Cefalù, nato nel 1825), autore, per spirito di servizio e per diletto intellettuale, di una serie preziosa di statistiche compilate nel corso della sua movimentata carriera in giro per l’Italia. O come Giuseppe Gadda, prefetto (il primo prefetto di Roma capitale, tra l’altro), ma anche ministro dei Lavori pubblici, deputato e senatore, autore nel 1866 del saggio La burocrazia in Italia, pubblicato nella «Nuova Antologia», che avrebbe rappresentato una delle prime, acute analisi del fenomeno burocratico italiano.
Si potrebbe continuare a lungo, specialmente elencando i prefetti della prima generazione, tratti tutti, o quasi, dalle file del patriottismo risorgimentale. Personalità di rilievo, capaci di imprimere il più delle volte alla vita delle province loro affidate un impulso autonomo, sollecitando le istituzioni locali e, se del caso, supplendo alla loro inerzia, interpretando con duttilità e intelligenza il problematico rapporto tra un centro politico e amministrativo lontano e isolato e una periferia distante e spesso in scarsa sintonia con le direttive nazionali. A Bologna, a Venezia, a Reggio Calabria (per dire ai punti estremi della penisola), i «grandi prefetti dell’unificazione» come sono stati anche chiamati, parlarono linguaggi e adottarono politiche spesso profondamente diversificati gli uni dagli altri, interpretando però da vicino istanze e bisogni delle società locali loro affidate. A Palermo, nel 1866, un prefetto celebre che fu anche ministro della Destra, il patriota Luigi Torelli, reintrodusse la pratica borbonica di tenere udienza a palazzo nella fastosa sala viceregia di Palazzo dei Normanni, seduto – lui, funzionario dello Stato borghese e costituzionale – sul trono dorato utilizzato per decenni dai suoi predecessori, aristocratici rappresentanti dell’assolutismo regio.
Non dissimili dai prefetti, d’altra parte, i funzionari posti al vertice delle altre amministrazioni garantirono quasi sempre al giovane Stato le medesime virtù.
Agli Esteri si affermò subito dopo l’Unità una prima generazione di diplomatici, per lo più già formatisi nelle cancellerie europee negli anni del «capolavoro diplomatico» di Cavour, quando i rapporti internazionali avevano consentito al piccolo Regno di Sardegna di svolgere una politica estera autenticamente europea. Ne fecero parte 125 «preunitari» e 76 reclutati proprio nel decennio cavouriano, in prevalenza nobili, anche se piuttosto appartenenti alla cosiddetta «nobiltà di servizio» che non a quella di spada; in genere molto agiati, spesso figli di funzionari statali o di diplomatici, di magistrati, di alti ufficiali e dignitari di corte. Frequente nei loro curricula la qualifica di «possidente», forte il legame familiare con la terra. Studi classici alle spalle, per lo più; lauree (anche se non sempre) in giurisprudenza; prima lingua il francese; matrimoni altolocati; relazioni consone allo status; padronanza assoluta dei codici – innanzitutto quelli cavallereschi – di appartenenza alla grande koinè sovranazionale rappresentata all’epoca dall’aristocrazia europea.
Nelle amministrazioni finanziarie maturò l’esperienza di un nuovo ceto di specialisti nei conti pubblici. Originariamente marginale, la professionalità dei ragionieri si sarebbe affermata soprattutto dopo il 1869 (anno della già menzionata legge Cambray-Digny) per poi giungere a fine secolo a una piena conquista degli apparati da parte di funzionari dotati di studi e titoli specifici. Contò molto, negli anni dell’unificazione, la personalità e l’impronta personale di Giuseppe Cerboni, toscano, nato nel 1827, già in carriera nella burocrazia granducale, esperto e massimo cultore della partita doppia applicata alle pubbliche amministrazioni. Fu lui, divenuto nel 1876 ragioniere generale dello Stato (carica che mantenne sino al 1891), a imporre alla contabilità di Stato il metodo della logismografia, complicato sistema di tenuta dei conti pubblici che molto avrebbe concorso a rallentare le operazioni di finanziamento e in generale l’attività delle pubbliche amministrazioni ma che, al tempo stesso, avrebbe rafforzato quel plafond specialistico (quel sapere quasi iniziatico legato alla gestione dei numeri) che si tradusse in quegli anni nel potere dei ragionieri all’interno delle amministrazioni. Nacque allora (e sarebbe presto divenuto proverbiale) lo stereotipo del ragioniere dello Stato: il piccolo burocrate diligente e scrupoloso, preciso e ordinato sino a rasentare la pignoleria, cultore assiduo delle forme, astratto e mai benevolo giudice – dall’esterno – della spesa dell’amministrazione.
Negli altri ministeri (specie in quelli direttamente impegnati nelle attività correnti) la figura del ragioniere sarebbe divenuta ben presto impopolare, oggetto talvolta di esplicite polemiche, altre volte di caricaturali rappresentazioni.
Alla Pubblica istruzione (un ministero che a lungo si conservò diverso dagli altri, per la fortissima influenza che vi ebbero i tecnici della scuola) gli anni Sessanta e Settanta dell’Ottocento videro l’affermazione di un’élite nazionale concentrata specialmente in due settori chiave: il Consiglio superiore (ove sedettero gli uomini di scuola più esperti, spesso capaci di trasfondere nell’attività corrente una preziosa esperienza maturata sul campo) e il corpo degli ispettori scolastici (veri e propri clerici vagantes che percorsero l’Italia da cima a fondo, esaminando bilanci, controllando il funzionamento di istituti, intervenendo drasticamente sulle frequenti patologie del sistema): uomini come il filosofo napoletano Antonio Labriola, per citare solo il più noto, le cui relazioni – veri e propri saggi di analisi, ma anche di proposta didattica e pedagogica – costituirono parte decisiva dell’accumularsi, nel primo ventennio postunitario, di uno specifico sapere dell’amministrazione nel campo dell’educazione delle nuove generazioni.
Nel ministero dei Lavori pubblici, che a partire dagli anni Ottanta dell’Ottocento sarebbe stato il principale canale della spesa civile dello Stato, un ministro-tecnico, Alfredo Baccarini, impresse dal 1878 una forte spinta alla specializzazione, ispirandosi al modello francese dei grandi corpi tecnici. Nel 1882 fu riordinato il Genio civile, unificando sotto l’egida dei suoi provetti ingegneri l’intera materia delle opere pubbliche, ivi comprese le ferrovie. Nello stesso anno una nuova, provvida legge attribuì allo Stato l’esecuzione diretta delle bonifiche di prima categoria, rimediando con la supplenza dell’azione pubblica all’assenteismo della grande proprietà latifondista. Ne derivarono, anche in questo caso, il potenziamento dell’intervento dell’amministrazione e l’affinamento, al suo interno, di competenze professionali di eccezionale valenza. Una nuova cultura delle opere pubbliche trovò nel ministero terreno fertile per espandersi. Dal 1863 usciva il «Giornale del Genio Civile», inizialmente diretto da Aronne De Gaetani (un funzionario dell’ex Regno di Sardegna, genovese, con qualche esperienza giornalistica alle spalle). Strutturato in due parti, una «ufficiale» (leggi, decreti, circolari, atti amministrativi in genere), l’altra dedicata alle «memorie, studi e pareri che abbiano ottenuto l’approvazione del Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici», avrebbe rappresentato, per oltre quarant’anni il laboratorio nel quale affinare, in articoli frutto della collaborazione assidua del personale del ministero, corredati rigorosamente di disegni e progetti, i principali problemi tecnici connessi alla pionieristica stagione della «costruzione della nuova Italia».
Altrettanto importante fu, sotto un profilo assimilabile, l’opera via via più incisiva e assidua della statistica di Stato. Istituita nel 1861 presso il ministero dell’Agricoltura, industria e commercio (un apparato all’epoca di ridottissime dimensioni, ma che avrebbe conosciuto ben altro sviluppo a partire dagli anni Ottanta dell’Ottocento), la divisione di statistica generale, collegata alla giunta centrale di statistica e alle giunte o commissioni locali poste nelle province presso le prefetture, divenne rapidamente uno dei centri pensanti della nuova amministrazione. Diretta dapprima da Pietro Maestri, poi (dal 1872) da Luigi Bodio (il vero fondatore della statistica in Italia), la piccola cellula originaria divenne col tempo una direzione generale (nel 1870, ma la vera espansione si ebbe dopo il 1885), costituendosi come una straordinaria équipe di giovani funzionari-studiosi capaci di imporsi, per perizia e intelligenza operativa, non solo in Italia, ma nella scala esterna degli studi statistici internazionali. Nacque allora qualcosa di irripetibile: il modello di un piccolo ma coeso apparato di specialisti, formato e gestito con criteri non burocratici, guidato con mano sicura da un direttore (Bodio) che fu al tempo stesso eminente studioso e maestro premuroso per i suoi allievi, fondato su ritmi, consuetudini di lavoro, scambi intellettuali più simili alla prassi accademica che non al cliché degli impieghi pubblici. Bodio, Carlo Francesco Ferraris, Vittorio Ellena, Nicola Miraglia, Vittorio Stringher, Carlo De Negri, Luigi De Marchi, Alessandro Aschieri, Luigi Perozzo, Rodolfo Benini, più tardi Alberto Bosco di Ruffino, rappresentarono almeno sino alla fine del secolo (poi la statistica fu «normalizzata» e l’eccezionalità dell’esperienza si smarrì) l’esempio virtuoso di un’amministrazione pubblica capace di organizzarsi e di lavorare al di fuori delle pastoie dei regolamenti, al di là delle supreme esigenze burocratiche del servizio e dell’assillante condizionamento della legge di contabilità. Un’isola felice nella quale maturò una pattuglia di giovani funzionari-ricercatori destinata tra l’altro a occupare nei successivi decenni le prime prestigiose cattedre di statistica istituite negli atenei italiani (Marucco 1996).
Due tipologie di funzionari, insomma, andavano profilandosi in quei primi anni postunitari. Da una parte quella, più eterodossa, dei tecnici, degli esperti nelle attività sul campo (i costruttori di strade, ponti e ferrovie; i prefetti impegnati sul fronte delle province più lontane dalla capitale; gli statistici, e anche – non se ne è ancora parlato, ma furono attivissimi – gli archeologi della direzione generale per le antichità, gli storici dell’arte delle Belle Arti e gli ispettori scolastici impegnati nella edificazione in periferia del sistema nazionale dell’istruzione); dall’altra, la tipologia dei funzionari del controllo, dediti a garantire la certezza e l’uniformità delle prestazioni amministrative, a tutelare con rigore il pubblico bilancio: i ragionieri delle Finanze (poi del Tesoro), le migliaia di impiegati dell’Interno, i compilatori e scrupolosi esecutori dei regolamenti, gli archivisti, i gelosi custodi dei protocolli e dei registri, i sacerdoti insomma dello Stato produttore di atti, erogatore di stipendi e di finanziamenti, certificatore di diritti, elargitore di attestati, garante delle relazioni economiche e sociali.
Due funzioni, due modi diversi di amministrare, forse persino due culture. Ne costituisce l’esempio più calzante (uno dei tanti possibili esempi, s’intende) il semplice raffronto tra due personalità, l’una anagraficamente più matura (appartenne alla generazione del Risorgimento), l’altra della leva immediatamente successiva; l’una negli anni della piena maturità, l’altra in quelli della prima formazione; entrambe comunque attive in quel primo decennio postunitario.
Romagnolo, nel 1860 poco più che trentenne, il prefetto Achille Serpieri appare, nella fotografia che correda il suo fascicolo personale, il tipico uomo del Risorgimento. All’epoca vantava a suo merito le campagne del 1848-49 e quella del 1859, ma si era soprattutto segnalato – giovanissimo funzionario – per aver «ridotto all’impotenza una congrega di facinorosi nel circondario di Cesena» (catino di insofferenti spiriti repubblicaneggianti). Volitivo, forse anche egocentrico, certamente incline all’azione, avrebbe compiuto la sua carriera in varie province, suscitando per i suoi metodi sbrigativi e autoritari vivaci reazioni locali. La foto che campeggia nel suo prospetto biografico (la scheda del funzionario conservata nel fascicolo personale) lo raffigura secondo il cliché romantico del patriota ottocentesco: sguardo perduto all’orizzonte, capigliatura brizzolata ma fluente e mossa, baffi folti, pizzo importante. Al collo – un paradosso – il fiocco nero, quasi da rivoluzionario romagnolo (Melis 2000, pp. 7-8).
Se esisteva però una fisiognomica dell’impiegato pubblico della nuova Italia, essa, già al volgere degli anni Sessanta verso il successivo decennio, non avrebbe più corrisposto al ritratto – «eroico» ma già all’epoca alquanto anacronistico – di Achille Serpieri. Dopo l’epica del Risorgimento, la stagione della prosa amministrativa si esprimeva anche, condizionandole, nell’attitudine degli uomini, nelle fogge più sobrie del loro vestire.
Nel 1862, a Torino, entrava nel ministero di Grazia e giustizia un giovane «aspirante volontario» che si sarebbe fatto molto valere: alto, squadrato, vestito di nero, timido e impacciato nella sua andatura da montanaro, taciturno e quasi brusco nei modi, nemico giurato della mondanità. Si chiamava Giovanni Giolitti e avrebbe impersonato, non solo da funzionario, un mondo di virtù sommesse tipicamente provinciali, che nella scala della retorica civile postunitaria si sarebbe collocato all’estremo opposto rispetto al cliché rappresentato da Serpieri: ordine, regolarità, riservatezza, scrupolosa osservanza degli orari, custodia sacerdotale del segreto d’ufficio, indiscussa onestà personale, parsimonia quasi maniacale nell’uso del denaro pubblico, incrollabile fedeltà nelle istituzioni, senso saldo della tradizione. Era, per molti versi, il modello piemontese dell’«ordinaria amministrazione», cui sarebbe corrisposta una specifica antropologia del funzionario pubblico, una sua immagine quasi emblematica: «sano, nessuna imperfezione, alto, snello, simpatico», si legge nelle note caratteristiche del giovane funzionario di prefettura Onorato Germonio, uno dei cosiddetti «prefetti dell’unificazione» (Acs, Ministero dell’Interno, Fascicoli personali, ad nomen); «giovane d’anni ma vecchio di senno, di contegno, di tatto», è descritto il futuro prefetto Pietro Bertarelli nel 1879 (ibid.); e di un sottosegretario all’Interno, a delineare per contrasto quel che l’impiegato non avrebbe mai dovuto essere, si annota puntigliosamente: «si è dovuto richiamarlo qualche volta pel suo carattere invadente e perché troppo ciarliero» (ibid.).
L’immagine fisica del burocrate di Stato era già fissata, almeno nei suoi tratti essenziali, dopo il primo periodo costituente del nuovo Stato. La tipologia di base non differiva troppo da quella borghese del giovanissimo Giolitti. Caratteristiche (e in certo senso anche più caricaturali: le vignette umoristiche sulla stampa politica sono la prima «fotografia» disponibile del burocrate ministeriale) appaiono invece certe deformazioni per così dire professionali del dipendente pubblico di quegli anni: l’attitudine da forzato dello scrittoio (la postura ingobbita, la miopia corretta dalle lenti spesse, la calvizie incipiente, il fisico precocemente appesantito), l’abbigliamento modesto e un po’ liso completato dalle fatidiche mezze maniche, simbolo inequivocabile del mestiere di burocrate. Anche il contesto concorre alla messa in scena: tutt’intorno scaffali ingombri di faldoni straripanti di carte, scrivanie perennemente invase da pratiche arretrate, calamai, tamponi assorbenti, timbri; più tardi (solo agli inizi del Novecento, però) le prime monumentali macchine da scrivere, seggiole con ciambelle salva-natiche, predellini poggiapiedi, étagères di modesta fattura, scaldini e stufe primordiali. L’arredamento, spesso d’occasione, rifletteva il più delle volte il mediocre gusto piccolo-borghese dei capi degli uffici: il giovanissimo futuro prefetto Amedeo Nasalli Rocca, nel 1874, non avrebbe potuto fare a meno di notare con qualche lieve disgusto – lui che veniva pur sempre da una famiglia di piccola nobiltà parmense, per quanto decaduta, e che in circostanze più fortunate sarebbe stato certamente un ufficiale di cavalleria – «gli specchi, ninnoli e fronzoli del borioso salottino borghese» del suo futuro capo divisione Binda; né avrebbe potuto frenare l’istintivo moto di raccapriccio per l’abbigliamento «da casa» del commendatore: «un paio di ‘inesprimibili’, una camicia aperta sul petto villoso e pantofole» (Nasalli Rocca 1946, p. 1).
Nel ventennio «unitario» (all’incirca tra il 1861 e i primi anni Ottanta) l’amministrazione conobbe una serie di mutamenti rilevanti, sebbene ancora lontani da quel «decollo amministrativo» (la administrative revolution in government, come è stata anche definita mutuando una terminologia coniata dalla storiografia inglese sull’epoca vittoriana) che sarebbe intervenuto solo molto più tardi, con gli esordi dell’età giolittiana. Una serie di riforme (o per meglio dire di tentate riforme: si profilava sin da quei primi tentativi la difficoltà che sarebbe rimasta tipica di affrontare organicamente la questione amministrativa) si susseguì a partire da quegli stessi anni Sessanta dell’Ottocento, intensificandosi nell’ultimo periodo di governo della Destra. La cosiddetta «rivoluzione parlamentare» della Sinistra non ebbe riflessi immediati sugli apparati pubblici, sebbene Agostino Depretis, più dei suoi immediati predecessori, avesse intuito l’esigenza di dare ordine ai ruoli organici, disordinatamente cresciuti nel decennio costituente, e di rafforzare il corpo delle regole sui diritti e doveri degli impiegati, anche allo scopo di introdurre nell’universo autoritario degli uffici qualche primo, semplice elemento di garantismo liberale.
Del resto, che la Sinistra si preoccupasse degli impiegati era nell’ordine delle cose: la composizione piccolo-boghese del suo elettorato di riferimento, resa più evidente dalla riforma elettorale del 1882, induceva Depretis e i suoi sodali a guardare con nuovo interesse al mondo degli uffici pubblici. A Stradella, nel celebre discorso prammatico del 1876, il leader della Sinistra aveva infatti espressamente preso impegno in favore del miglioramento delle condizioni economiche della burocrazia di Stato e promesso di adottare, se vittorioso, una specifica legge sullo «stato degli impiegati». Ne sarebbe poi derivato, infatti, un progetto di legge di stampo formalmente garantista (distinzione tra le categorie di impiegati, prove di idoneità separate, limiti all’azione dei ministri sia pure senza intaccarne le responsabilità, norme certe su anzianità e avanzamenti, selezione in base al merito, pene disciplinari rigorosamente prefissate nella legge) che però, sopraggiunta la chiusura della sessione parlamentare, sarebbe decaduto senza essere approvato. Sarebbero seguiti poi altri sfortunati tentativi: un nuovo progetto nel 1881, approvato dal solo Senato e poi decaduto; un terzo nel 1883, pure transitato nella camera alta, ma rimasto poi negli uffici dell’altro ramo del Parlamento.
L’emergere comunque del tema dello stato giuridico era significativo di un obiettivo proporsi della questione degli impiegati anche come parte della più vasta questione sociale. La conquista di Roma, nel 1870, e l’imponente operazione del trasferimento nella nuova capitale del Regno degli uffici amministrativi aveva aperto un capitolo del tutto nuovo: centinaia di famiglie «burocratiche», provenienti da Firenze avevano vissuto il trauma del trasferimento (su cui si sbizzarrirono in quei mesi i vignettisti satirici, mettendo in pagina comiche comitive di impiegati carichi di mogli, pargoli, servette, faldoni di carte d’ufficio e le più improbabili masserizie domestiche), affrontato le traversie delle case in affitto nella nuova sede, misurato con preoccupazione crescente l’inadeguatezza dello stipendio rispetto all’accresciuto costo della vita. Alla fine degli anni Settanta il tema dei «miseri», cioè degli stipendi troppo bassi (uno zoccolo che neppure l’apposita legge del 7 luglio 1876 era valsa a ridurre), divenne uno di quelli più urgenti, inducendo a formare un’apposita commissione (aprile 1878) dalla quale sarebbe scaturita la legge del 24 dicembre 1880 sugli organici, primo, esile palliativo ai gravi squilibri retributivi esistenti tra l’alta e la bassa burocrazia.
Per non dire poi del tema dell’abitazione: nel bilancio di un piccolo impiegato (ma anche in quello meno gramo di un funzionario di concetto) la pigione gravava in modo così incisivo da indurre le classi dirigenti di fine secolo a porsi seriamente il tema della costruzione di alloggi «popolari» per i dipendenti dei ministeri, sino a dar luogo (ma solo nel 1907) al primo organico intervento in favore delle cooperative di impiegati.
Andava frattanto crescendo in quantità e ritmo il lavoro burocratico. Lo segnalavano le molte statistiche sulle pratiche correnti che le varie amministrazioni tenevano puntualmente aggiornate. La nuova legislazione successiva al 1876, superata la stretta imposta dal pareggio del bilancio e dalla politica della lésina, apriva campi inesplorati all’attività di promozione e regolazione dello Stato: il che si traduceva quasi automaticamente in un impegno maggiore degli uffici. La legislazione stessa andava complicandosi, con sempre nuovi adempimenti affidati alla struttura dello Stato, nuovi obblighi di certificazione, inediti compiti di regolazione sociale. I protocolli, gli archivi stessi dell’amministrazione moltiplicavano le registrazioni, aprivano nuove categorie di pratiche, articolavano più nel dettaglio la classificazione dei documenti: segno inequivocabile del complicarsi dell’attività amministrativa, del nuovo ruolo che lo Stato andava assumendo in campi e settori precedentemente preclusi.
L’effetto principale della nuova fase fu l’estensione delle piante organiche dei ministeri. La spinta dal basso di coloro che, in regime di «ruoli chiusi» (nessuna promozione né aumento di stipendio se prima non si liberava il gradino della scala gerarchica immediatamente superiore), si esprimeva come una continua richiesta di allargamento degli organici, finiva per agire nel senso di una moltiplicazione dei posti, unica via d’uscita per l’escalation in carriera. Ma vi fu anche un effetto secondario, collegato strettamente al primo, e consistette nell’attenuarsi di quell’impianto esasperatamente unitario e uniforme che era stato tipico dell’ordinamento Cavour e nella sperimentazione di un insieme di variazioni.
Se si guarda alla mappa dei ministeri nei due decenni postunificazione ci si avvede a colpo d’occhio dell’intenso dinamismo interno che dovette attraversare l’amministrazione centrale. Al ministero dell’Interno, dove un provvido ordinamento Ricasoli aveva nel 1861 distinto con limpida geometria i settori fondamentali dell’attività (amministrazione civile, carceri, polizia, organizzazione interna), una pioggia di decreti parziali travolse e modificò senza tregua gli uffici negli anni successivi, alterandone quasi subito la pianta originaria. Emerse allora, ma senza che se ne giustificasse la funzione alla luce di un ordinamento complessivo, il ruolo cruciale del segretariato generale, al quale dopo il 1868 furono attribuite le competenze della vecchia direzione generale dell’amministrazione comunale, provinciale e delle opere pie e sanità continentale, nonché quelle della pubblica sicurezza e altre, residue. Una sorta di potere a sé stante, nell’ambito del ministero, ben lontano da quello che avrebbe dovuto essere – stando alla vecchia legge del 1853 – il ruolo coordinato delle direzioni generali.
Naturalmente tutto ciò non accadeva per caso. Nel segretariato dell’Interno si esprimeva la volontà della politica di gestire direttamente l’apparato, trasmettendogli senza mediazioni l’ispirazione del ministro. Ciò che accadeva, a ben considerare, anche nel ministero degli Affari esteri, dove all’intervento di Ricasoli dell’ottobre 1866 avevano fatto seguito nel successivo biennio ben tre riorganizzazioni, nel segno di una dialettica evidente (talvolta persino conflittuale) tra segreteria generale e gabinetto (nel cui protagonismo, ancora una volta, si concentrava l’iniziativa della politica).
Ugualmente distante dal modello canonico (ma qui qualche scarto l’aveva già concesso lo stesso regolamento Cavour) fu l’organizzazione del ministero dei Lavori pubblici, imperniata su un segretariato generale forte di due divisioni, su tre direzioni generali (delle strade ferrate, delle acque e strade, delle poste) e su una amministrazione dei telegrafi elettrici dello Stato e un corpo del Genio civile dotati entrambi, in modo diverso, di un elevato grado di autonomia gestionale. La specificità delle funzioni, specie di quelle tecniche, suggeriva dunque l’allontanamento dalla uniformità assoluta del modello per ministeri e l’adozione, per servizi così particolari, di moduli specifici. A differenza di quanto accadeva all’Interno, però, qui non era tanto la politica a spingere per l’adozione delle variazioni, quanto piuttosto le forti componenti tecniche del ministero, in nome di competenze specialistiche e di funzioni peculiari a loro volta legate a modelli di organizzazione più consoni agli interventi da attuare.
Alle Finanze, dove dopo l’unità si era confermata una struttura di matrice sardo-piemontese ancora relativamente agile (un segretariato generale fiancheggiato dalle cinque direzioni generali delle contribuzioni dirette, del demanio e tasse, delle gabelle, del tesoro e del debito pubblico), la politica finanziaria degli anni Sessanta dell’Ottocento e le riforme nella contabilità di Stato imposero quasi subito una maggiore complessità: accanto al segretariato (che nel 1871 si strutturava in un ufficio degli affari generali e in tre divisioni) prese corpo un autonomo ufficio del macinato (preposto alla omonima tassa, punto cruciale nella politica fiscale della Destra), mentre crebbero in numero i dipendenti e in materie la direzione generale del tesoro (sei divisioni e una ragioneria speciale), quella delle gabelle (un gabinetto, un ufficio del personale, sette divisioni e una ragioneria), quella del demanio e tasse sugli affari (sette divisioni, delle quali una di ragioneria), quella delle imposte dirette, catasto e pesi e misure (tre divisioni, una ragioneria, una commissione centrale), quella del debito pubblico (cinque divisioni e una commissione di vigilanza). Era una proliferazione di uffici (e di funzionari) che non ebbe l’eguale in nessun altro ministero, sintomo evidente della centralità che la politica del prelievo finanziario assumeva nei governi della Destra storica. La Ragioneria, istituita come si è visto nel 1869, assunse ben presto un rilievo autonomo, strutturandosi nel 1871 in quattro uffici e assumendo la direzione di fatto, attraverso il coordinamento dei conti, della rete delle ragionerie centrali esistenti nei vari ministeri. Nacquero anche un ispettorato per i tabacchi e – seppure provvisoriamente – una direzione del contenzioso finanziario con sede a Firenze. La Cassa depositi e prestiti, istituita con una legge del 1863 inizialmente con sedi in ciascuna delle città ove si trovava una direzione del debito pubblico, si sviluppò progressivamente in forma e secondo un modello di organizzazione autonoma.
Tanto divenne mastodontico l’apparato finanziario quanto fu evanescente (almeno sino agli anni Ottanta) quello del piccolo ministero economico, l’Agricoltura, industria e commercio. Dal 1860 al 1870 si concentrarono su questo organismo ben 18 decreti, nell’intento di definirne (o, più spesso, di contenerne) l’espansione. L’ordinamento interno, strutturato su tre divisioni (agricoltura, industria, commercio) con l’aggiunta nel 1867 della direzione di statistica, corrispose nel tempo a funzioni mutevoli, dapprima molto ridotte (sino alla soppressione, per furore liberista, subìta nel 1877, ma con pronta ricostituzione l’anno successivo), poi via via più rilevanti (sino alla crescita e consolidamento negli anni Ottanta come ministero di riferimento dei ceti produttivi del paese).
Infine la Pubblica istruzione. Dalla struttura del 1860 (sei divisioni, oltre al gabinetto del ministro e ad un corposo ufficio dell’ispettorato) alla riduzione apparente del 1871 (tre sole divisioni), cui corrispose però l’accorpamento della maggior parte delle materie inerenti il governo della scuola (istruzione secondaria classica e tecnica, convitti nazionali, istruzione normale e magistrale, istruzione elementare e popolare, educazione femminile ecc.) sotto due provveditorati centrali, l’uno per l’istruzione secondaria, l’altro per quella primaria e popolare, poi affiancati da un terzo provveditorato per l’istruzione artistica. Guidati da due funzionari di grande esperienza, Giuseppe Barberis e Girolamo Buonazia, i due provveditorati furono sino al 1878 i pilastri dell’organizzazione centrale; fermo restando che il ministero si resse specialmente su due fattori che ne costituirono la peculiarità: l’ampiezza e il protagonismo della periferia (la grande rete delle scuole e delle università) e la centralità del Consiglio superiore, nel quale – con compiti in pratica di co-governo – agirono le più eminenti personalità del mondo scientifico e accademico dell’epoca.
Insomma, già alla fine del primo decennio postunitario, un intenso dinamismo organizzativo, frutto a sua volta della oggettiva crescita delle politiche pubbliche, aveva inquinato in tutta l’amministrazione la limpida geografia delle strutture disegnata nel 1853 per il piccolo Regno di Sardegna. Le direzioni generali, concepite allora come lo scheletro portante di tutti i ministeri, esistevano, ma sotto forme e con competenze le più varie, e spesso fiancheggiate da altre strutture. In molti casi segretariati, ispettorati, uffici speciali agivano al di sopra e al di là delle canoniche direzioni. Talvolta (come accadde alle Poste dopo le riforme interne del 1869 e del 1870-75) restò il nome di direzione generale, ma si modificarono sostanzialmente le funzioni. Ovunque, una burocrazia alle sue prime prove cercava (e spesso trovava con successo) forme nuove di organizzazione degli uffici, sperimentate sul campo.
Cooptata inizialmente a discrezione del potere politico, quella burocrazia fu presto espressa dai concorsi, cioè da selezioni meritocratiche gestite direttamente dai vertici ministeriali su programmi di studio predisposti ad hoc dalle singole amministrazioni. Il merit system (come si è convenuto di definirlo, ragionando qualche anno fa sul suo avvento pressoché simultaneo su scala europea: Cassese, Pellew 1987), si affermò in Italia gradualmente, in assenza di una legislazione generale, attraverso atti dei singoli ministri (decreti ministeriali, per lo più), contraddetto spesso (e molto a lungo) dalla prassi serpeggiante delle assunzioni «fuori sacco» e per chiamata diretta. Tuttavia, alla fine degli anni Sessanta e specialmente con i primi anni Settanta dell’Ottocento il merit system cominciò a farsi largo anche nell’amministrazione italiana: nel 1871 fu pubblicato un decreto per dividere gli impiegati del ministero dell’Interno in tre categorie, con distinzione tra affari di concetto, operazioni di ragioneria e registrazione, conservazione e spedizione degli atti; nel 1873 analogo provvedimento assunse il ministero della Pubblica istruzione, che dal 1874 richiese ai candidati dei propri concorsi certificazione del titolo di studio. Al ministero degli Affari esteri il principio del concorso pubblico si affermò (con eccezioni) a partire dalla seconda metà degli anni Sessanta (sebbene fosse stato introdotto formalmente in Piemonte già all’indomani dello Statuto), ma fu specialmente nel 1869 che il modello si consolidò, con chiaro riconoscimento del requisito della laurea, definizione puntuale dei programmi, introduzione di regole tassative per la valutazione degli esami e l’attribuzione dei punteggi. L’applicazione del sistema (come dimostrano le relazioni finali e i documenti di quei concorsi, oggi conservati nell’Archivio storico-diplomatico del ministero) richiese puntigliose messe a punto, graduali precisazioni di criteri e una volontà politica di selezionare i migliori che conobbe poi, con l’avvento di Francesco Crispi e le nuove necessità connesse alla politica di potenza degli ultimi anni Ottanta, un ulteriore rafforzamento.
Progressivamente il concorso divenne comunque la via normale per accedere ai pubblici impieghi. Nelle commissioni anziani dirigenti ministeriali e membri «laici» (per lo più inizialmente esponenti del ceto politico, più tardi soprattutto professori universitari di discipline giuridiche) garantirono insieme l’equità del giudizio e la sensibile partecipazione alle esigenze dell’amministrazione promotrice del bando. Quest’ultima istanza contò molto, forse più di quanto non accadesse in altri paesi. In Italia, sin dall’inizio, l’amministrazione rivendicò con forza il diritto-dovere di selezionare i propri quadri, non solo non accontentandosi mai soltanto della qualità attestata dal titolo universitario o scolastico, ma espletando e governando le prove con propri programmi e propri esaminatori, stabilendo i criteri, formulando le graduatorie.
Un’analisi anche sommaria dei programmi concorsuali consente di definire i profili culturali di quella burocrazia: di impianto prettamente giuridico, certo, ma con larghe aree tecniche dotate di riconosciuto prestigio; formata sulla conoscenza teorica, ma al tempo stesso non necessariamente priva di un sapere pratico (o piuttosto pragmatico). Nel secondo decennio postunitario l’attività prettamente burocratica (cioè quella svolta alla scrivania, nel chiuso degli uffici) assunse un ritmo e un contenuto fedelmente testimoniato dai regolamenti, dagli ordini di servizio e dalle circolari: estrema puntualità negli orari (normalmente 8-12, con pausa per il pranzo, e poi 15-18, ma con molte varianti), minore controllo sulla intensità della giornata lavorativa. Amedeo Nasalli Rocca, prefetto di spicco nell’età della Destra, ha lasciato nelle sue memorie un quadro eloquente del suo apprendistato di giovane funzionario appena assunto nel ministero dell’Interno:
Ogni giorno s’accumulavano nuove pratiche in arrivo e in partenza sul tavolo del capo divisione; quando i monti erano divenuti troppo alti, egli si decideva a dare il via agli incarti partenti e a distribuire quelli in arrivo fra noi subalterni, che li sbrigavamo in un momento, passando la maggior parte del tempo a fumare la pipa, a raccontare barzellette e a dormire. Vi era chi teneva due cappelli; uno da mettere bene in vista, per far credere ad una momentanea assenza dall’ufficio, e l’altro da adoperare per andare a giocare a bigliardo in un caffè di piazza Navona (Nasalli Rocca 1946, p. 7).
Non era forse sempre così. Gaspare Finali (figura tipica, per essere stato – nel corso della lunga carriera di civil servant – prefetto, deputato, segretario generale in più ministeri, presidente della Corte dei conti) ha viceversa consegnato alle sue memorie il ricordo di un’amministrazione senza orari («erano tutte le ore del giorno e della notte, meno quelle date al ristoro del sonno e del cibo»), fatta di pochi impiegati operosi, dove all’assenza dell’incentivo economico si suppliva con quello morale, magari rappresentato dalla croce di cavaliere (ai livelli alti) o dal semplice encomio scritto (ai più bassi) (Finali 1995). Del resto basterebbero pochi dati: nel 1866, dunque tre anni prima che la riforma contabile del 1869 rendesse ancor più complesse le operazioni, i mandati di pagamento «lavorati» nel solo ministero dell’Interno furono 15.292; l’anno successivo, 19.153; e nel 1868 furono 24.203, per un valore pari ad oltre 36 milioni di lire: «e a questo numero di atti che importano parecchie operazioni – segnalava una relazione al ministro del gennaio 1870 – deve aggiungersi il lavoro non piccolo del pagamento delle spese fisse», all’incirca nell’ordine di 10.000 all’anno. A dieci anni dall’unificazione nazionale, gli atti di contabilità trattati dalla sola amministrazione dell’Interno erano circa 50.000 all’anno, su un organico di 38 impiegati. Per i lavori di segreteria nello stesso ministero si registravano 372 affari giornalieri, su un organico di 143 impiegati. In archivio e nel servizio del protocollo 28 dipendenti realizzavano 720 registrazioni al giorno di documenti in arrivo e in partenza. Nei lavori di copia, 33 copisti producevano all’incirca 700 pagine al giorno.
Il centralismo «all’italiana» fu organizzato, almeno in superficie, secondo il modello francese. La legge comunale e provinciale del 1865, che a sua volta riprodusse largamente lo schema della precedente sardo-piemontese del 1859 (la legge Rattazzi) suddivideva il nuovo Regno in una sequenza discendente di livelli amministrativi, concepiti secondo una scala sostanzialmente gerarchica: le province, i circondari, i mandamenti, i comuni. I vari livelli della filiera furono organizzati ognuno secondo moduli rigorosamente uniformi, assolutamente impermeabili rispetto alla diversità di condizioni che invece li caratterizzava (diversità geografica, di dimensione territoriale e demografica, di esperienze storiche). Tutti i comuni (7.700, prima dell’annessione del Veneto nel 1866) ebbero un consiglio comunale, eletto proporzionalmente alla dimensione dai cittadini almeno ventunenni in pieno possesso dei diritti civili e paganti le «contribuzioni dirette» nel comune. Tutti ebbero a capo un sindaco, non elettivo ma nominato per decreto regio (quindi dal governo) fra i consiglieri comunali, insieme «capo dell’amministrazione e uffiziale del Governo». Tutti ebbero una solo relativa autonomia finanziaria e godettero in proprio dell’autonomia impositiva. I bilanci comunali, però, accanto alle spese dette «facoltative» dovettero includere la lista preponderante di quelle «obbligatorie». Un severo sistema di controlli, facente capo al prefetto e alla deputazione provinciale, limitò sin dall’inizio fortemente l’autonomia comunale.
Anche la provincia (che la legge definiva «corpo morale») si articolava nel medesimo schema a cerchi concentrici: uno più largo (il consiglio provinciale, elettivo secondo criteri di censo), uno più ristretto (la deputazione provinciale, presieduta dal prefetto e composta di membri eletti dal consiglio provinciale a maggioranza assoluta di voti).
Centrale – nel sistema così disegnato – risultava il ruolo del prefetto, che rappresentava il potere esecutivo nella provincia, vigilava sulle pubbliche amministrazioni, sovrintendeva alla sicurezza (con diritto di disporre della forza pubblica e di richiedere l’intervento della forza armata), presiedeva, come si è appena detto, la deputazione e controllava di conseguenza i comuni.
L’autonomia comunale e provinciale (si sarebbe poi piuttosto utilizzata in dottrina la parola «autarchia», a significare la derivazione dal potere soprastante dello Stato) era dunque teoricamente garantita, ma al tempo stesso limitata da una serie di controlli, oltreché dalla non elettività delle due figure centrali del sistema, il sindaco e il presidente della deputazione. L’assetto della finanza locale, inoltre, e lo stretto controllo sul potere di borsa esercitato dallo Stato, lasciava intravedere il forte condizionamento che il centro esercitava comunque sull’intero sistema periferico.
Per altro, la geometrica simmetria di questo schema apparirebbe subito meno stringente quando ci si addentrasse, attraverso l’analisi del funzionamento concreto delle istituzioni, nella dinamica concreta della vita comunale e provinciale postunitaria. La stessa mappa variegata degli enti locali, così diversi tra di loro a seconda della dimensione e della latitudine; la diversa distanza dal centro; la capacità maggiore o minore delle classi dirigenti locali di farsi sentire a Torino (e poi a Firenze e infine a Roma); il modo talvolta molto personale con il quale i singoli prefetti interpretarono la missione loro affidata di mediazione tra centro e periferia; tutto ciò agì, sin dall’inizio, come un potente diversificatore, determinando un sistema di relazioni non necessariamente uniforme. Lo testimoniarono, tra l’altro, le stesse circolari del ministero dell’Interno, preoccupate di assicurare per lo meno i livelli minimi di osservanza della legge, nella tacita ammissione che un certo grado di disapplicazione delle norme doveva darsi per scontato. Ma ancor più lo documentarono le politiche locali, agli antipodi talvolta le une dalle altre: fortemente consapevoli e inclini al protagonismo istituzionale quelle messe in campo dagli enti locali nel Nord e nel Centro del paese; passive e sostanzialmente immobilistiche quelle sperimentate nel Sud e nelle isole. Accadde, sin dall’inizio, che i rapporti tra le province e il centro, lungi dall’incanalarsi (come avveniva, ad esempio, nella Francia di Napoleone III e poi in quella della Terza Repubblica) nella filiera istituzionale comune-prefetto-ministero dell’Interno, si avvalsero della scorciatoia rappresentata dai deputati locali, ai quali la periferia spesso affidò le proprie istanze perché le rappresentassero al governo, senza più la mediazione del prefetto (secondo la sequenza personale sindaco-deputato-ministro). Sicché, un circuito improprio (nel senso di essere fondamentalmente estraneo a quello disegnato nella legge comunale e provinciale) si attivò quasi subito parallelamente a quello prescritto dalle norme. E in quel circuito, propriamente politico più che amministrativo, transitarono interessi, alleanze tra il ristretto ceto dirigente nazionale e gli esponenti locali del notabilato, e persino (di fronte ai provvedimenti più determinati del nuovo Stato) una certa inclinazione a temperare l’effetto più rigoroso delle nuove leggi all’atto della loro applicazione in provincia, così da modularne l’efficacia a seconda delle regioni, dei contesti economici-sociali, delle istanze dei gruppi di potere locali. Insomma, la vocazione astrattamente centralistica dell’ordinamento contrastava con le condizioni di fatto, con le ragioni impellenti della geografia, di un mercato economico non ancora unificato, con i condizionamenti dell’embrionale sistema delle comunicazioni, con il persistere di forti divaricazioni culturali a loro volta radicate nella lunga durata delle divisioni della penisola. L’ipotesi razionalistica dell’uniformità (il grande mito borghese derivato in Europa dalla stagione napoleonica) si scontrava con l’insopprimibile emergere della diversità.
Era una contraddizione che avrebbe a lungo condizionato il faticoso processo della formazione della nazione. Dal punto di vista politico produceva il primo e più vistoso paradosso per cui una classe dirigente di idee e di cultura autenticamente liberali, e dunque autonomista e antistatalista, doveva poi scegliere giocoforza il modello di uno Stato tendenzialmente centralista se voleva (come voleva) risolvere le molte contraddizioni interne del paese. Al tempo stesso, però, quel «comando» dall’alto, che si voleva fortissimamente realizzare, si dimostrava – per utilizzare qui l’espressione sintetica di Raffaele Romanelli (1988) – concretamente «impossibile», dando luogo a una ambiguità di fondo tipica del centralismo «all’italiana». Ciò che emergeva, alla fine, e si affermava come il reale stato del rapporto centro-periferia, era la circolazione degli interessi, il compromesso tra bisogni della nazione in fieri e antiche rivendicazioni dei tanti mondi locali, la contrattazione continua tra la capitale e la provincia.
A uno sguardo che oltrepassasse il livello strettamente politico-amministrativo dello Stato e degli enti locali, poi, la vita provinciale appariva, sin dal primo decennio postunitario, popolata (e talvolta anche animata) di soggetti variegati, talvolta avamposti dello Stato in periferia (tutta la serie degli uffici ministeriali sul territorio, certo gerarchicamente subordinati al centro ma non per questo privi di una loro propria iniziativa locale), talvolta snodi della sequenza degli uffici giudiziari. Soggetti pubblici in senso stretto, ma anche (come capitò quasi subito, quasi a segnare l’inizio di un percorso che avrebbe conosciuto svolgimenti significativi nel seguito degli anni) soggetti nati dall’iniziativa dei privati grazie all’appoggio o alla tutela della mano pubblica. Nei capoluoghi di provincia, dunque, sotto l’egida delle prefetture, si annoveravano in quei primi anni i distretti militari in tutte le loro articolazioni, i tribunali, nei centri maggiori le corti d’appello e d’assise, più in basso le preture (un reticolo cruciale che qui può solo essere accennato fu quello delle circoscrizioni giudiziarie, per lo più modellate, però, secondo la geografia non sempre coerentemente uniforme delle antiche province), le sedi provinciali degli uffici finanziari dello Stato (dal 1869 le intendenze di finanza), quelle della Pubblica istruzione (dal 1867 i provveditorati agli studi), le università, le camere di commercio (queste ultime tipiche, nel loro ermafroditismo istituzionale, di un certo modo di concepire le rappresentanze economiche, come centri di imputazione degli interessi locali ma al tempo stesso delegati dallo Stato a svolgere funzioni pubbliche). Le quattro corti di Cassazione disposte secondo una collocazione su scala territoriale che riproduceva le capitali degli Stati preunitari (a Torino, Firenze, Napoli e Palermo, poi dal 1875 anche a Roma) sarebbero state tardivamente unificate (ma solo per la materia penale) nel 1888, mentre per la Cassazione civile si sarebbe dovuto attendere il 1923. E sino alla legge Giolitti del 1894 (istituzione della Banca d’Italia) il sistema bancario nazionale si sarebbe articolato in ben sei istituti di emissione del tutto autonomi (Banca nazionale del Regno d’Italia, Banca nazionale toscana, Banca toscana di credito, Banca romana, Banco di Napoli, Banco di Sicilia), a dispetto dell’originario disegno cavouriano di unificarli in un’unica banca nazionale.
Con i primi anni Ottanta dell’Ottocento la burocrazia del nuovo Stato cominciò a cambiar pelle. Tre furono le dinamiche essenziali del mutamento. In primo luogo i numeri: si innescò al volgere del decennio Settanta-Ottanta una crescita progressiva degli organici che avrebbe portato, intorno alla fine del secolo e dopo l’intensa parentesi segnata dai governi di Crispi, a raggiungere e superare i 90.000 impiegati. In secondo luogo, causa prima dell’aumento numerico, l’ampliamento delle funzioni: lo Stato, sotto la guida di Depretis prima, poi dello stesso Crispi, andò gradualmente occupandosi di materie nuove, in ragione di una legislazione via via più attenta alla regolazione sociale, più vicina agli interessi economici, meno timida nei confronti dei pur sempre rispettatissimi diritti dei privati. In terzo luogo le competenze: si richiesero adesso al personale statale nuove culture, più specifici talenti legati alle funzioni. E si irrobustirono specialmente i corpi tecnici, a cominciare da quelli organizzati nel ministero dei Lavori pubblici (ma in generale i tecnici crebbero ovunque). La nuova legislazione degli anni Ottanta, sempre più distante dal modello originario della legge universale e astratta, diede uno spazio inedito al ruolo delle burocrazie di settore. Accadde, per i Lavori pubblici, con alcune leggi cruciali di quei primi anni del decennio. La legge Baccarini sulla derivazione delle acque (legge 10 agosto 1884, n. 2644), ad esempio, primo decisivo intervento in un campo strategico per la futura produzione di energia elettrica, con la quale la pubblica amministrazione si vide attribuire il delicatissimo compito di identificare e classificare le acque pubbliche. La legge infatti, nel rendere più facile la concessione, decentrava ai prefetti la competenza sulle piccole derivazioni (da sole l’80% del totale), investiva gli uffici del ministero del compito di compilare e tenere aggiornati gli elenchi (una sorta di ambizioso progetto, a ragione definito «catasto delle acque»), ma soprattutto faceva dell’amministrazione il giudice ultimo – con propri atti, quali le circolari interpretative – dell’applicazione in concreto delle norme. Era come se, di fronte all’emergere di nuovi interessi (grandi e piccoli, distribuiti per lo più sul territorio), l’amministrazione venisse chiamata, in virtù delle proprie competenze tecniche, a un ruolo arbitrale. Il regolamento attuativo della Baccarini (approvato nel 1910) avrebbe posto in chiaro che, in concorrenza di più domande di concessione, si sarebbe potuto disapplicare il criterio della priorità temporale in nome delle «ragioni di prevalente interesse pubblico»; e che queste ragioni sarebbero state identificate grazie all’expertise della pubblica amministrazione di settore.
Più in generale le nuove leggi (successe nel campo delle bonifiche idrauliche, un settore strettamente collegato alle derivazioni di acque) previdero più complessi e articolati processi di interazione tra più soggetti amministrativi (prefetture, corpi tecnici dello Stato, amministrazioni locali), delineando quella che a buon diritto potrebbe chiamarsi una procedimentalizzazione delle decisioni amministrative. Si articolava, spesso nelle norme della legge, o in quelle del regolamento attuativo (fu questa un’altra novità del periodo: la moltiplicazione delle fonti regolamentari, in genere molto corpose per numero di articoli e altrettanto dettagliate per prescrizioni agli uffici), un percorso attuativo della legge lungo e cadenzato per tappe: quasi che la nuova responsabilità dell’amministrazione dovesse suddividersi in più livelli e gradi di partecipazione di uffici diversi alla decisione finale. Preoccupazione, quest’ultima, forse anche di natura garantistica, volta a dividere il nuovo potere delle burocrazie: se non fosse che poi, in quella inedita trama di passaggi in sequenza (di autorizzazioni, controlli, ispezioni, pareri tecnici), ebbero spazio di inserirsi gli interessi privati, via via insediati nei consigli e corpi consultivi che – anch’essi – crebbero in molti ministeri come prodotto di un nuovo rapporto tra pubblico e privato.
Tipico fu il caso della nuova legislazione per il Mezzogiorno, primo embrione di un indirizzo che sarebbe poi culminato, con i primi del Novecento, in un coerente intervento a favore di quell’area depressa. Si succedettero, tra il 1880 e il 1887 (data nella quale, con il primo governo Crispi, l’intera politica italiana cambiò decisamente di passo) provvedimenti dedicati alle regioni e ai problemi del Sud: la legge n. 198 del 1881 sull’unificazione e conversione dei debiti redimibili del comune di Napoli; la legge n. 869 del 1882 sulle bonifiche dei terreni paludosi (intervento di taglio generale ma che trovò in alcune regioni del Centro-Sud le sue più cospicue ricadute); la n. 872 del 1882 sul porto di Bari; la n. 1353 del 1883 sulla Cassa di soccorso per le opere pubbliche in Sicilia; la n. 1791 del 1883 sulla sistemazione e costruzione della piazza del municipio di Napoli; la n. 1985 del 1884 a favore dei danneggiati dal terremoto dell’Isola d’Ischia; soprattutto la legge n. 2892 del 15 gennaio 1885, per il risanamento della città di Napoli, cui fecero seguito – ancora – il decreto n. 3618 del 1886 sull’ampliamento e risanamento e la fognatura napoletana, la legge n. 3958 del 1886 a favore dei danneggiati dall’eruzione dell’Etna e il decreto n. 4041 del 1886 sulla concessione della costruzione e dell’esercizio delle strade ferrate secondarie in Sardegna.
Di tutti questi provvedimenti, ognuno dei quali inserito in una sua particolare visuale (mancava ancora un approccio sovraregionale alla questione meridionale), non è tuttavia difficile ravvisare alcuni tratti in comune, particolarmente in risalto nel provvedimento per il risanamento di Napoli del 1885. Qui, già all’art. 1, si dichiaravano di pubblica utilità tutte le opere necessarie allo scopo del risanamento, identificate secondo un piano del municipio approvato dal governo; si prevedeva inoltre di coprire la spesa dell’intervento con l’emissione di titoli speciali di rendita ammortizzabili, garantiti ed emessi dallo Stato; si introducevano particolari esenzioni d’imposta; si autorizzavano gli istituti di credito fondiario a concedere prestiti a particolari condizioni; si delegavano al sindaco di Napoli poteri a dir poco eccezionali; si istituiva una speciale giunta di sanità.
Nel complesso, insomma, venivano in evidenza nella legge alcuni caratteri tipici del nuovo corso: poteri speciali circoscritti all’intervento, forte alleanza tra autorità statale e amministrazioni locali (chiamate in prima linea a esercitare un ruolo di amministrazione concreta dell’intervento), uso della leva fiscale (nella forma dell’esenzione d’imposta), utilizzazione degli strumenti del credito (con anticipazione di quello che poi sarebbe divenuto il credito speciale per il Sud). Naturalmente tutto ciò corredato, seppure la legge non lo prevedesse ancora esplicitamente, da una specializzazione degli uffici. L’amministrazione fronteggiò la nuova fase dotandosi di un complesso di regole interne, spesso di dettaglio, volte a predefinire con sempre maggior precisione la gamma dei comportamenti degli uffici e dei dipendenti, e soprattutto a prevederne gli esiti pratici, a dettare tassativamente modalità e tempi del lavoro burocratico, a rafforzare poteri ispettivi e verifiche formali. Il fascicolo divenne il luogo ove depositare, attraverso la successione dei carteggi tra uffici, i visti, l’acquisizione delle certificazioni, la citazione dei precedenti. L’archivio – luogo sempre più centrale – fu il deposito della memoria recente, al quale attingere per orientarsi nell’esaudire la nuova pratica. Corrispose a questa ulteriore burocratizzazione la crescita della normativa minore (si moltiplicarono i regolamenti interni), come al ministero dell’Interno, ad esempio, ove nel solo primo triennio degli anni Ottanta si succedette una impressionante sequenza di regolamenti: per il corpo delle guardie di sicurezza a piedi (628 articoli), per la polizia stradale, per gli ispettori di circolo dell’amministrazione carceraria, per le guardie di pubblica sicurezza a cavallo, per l’esecuzione della legge sulla pesca, per le guardie di sicurezza a piedi e a cavallo (806 articoli).
Vennero anche introdotti nuovi strumenti pratici di comunicazione tra uffici. La direzione generale delle gabelle, nel giugno 1886, istituì il cosiddetto «Foglio d’ordine», spedito ogni giorno alle intendenze di finanza, alle direzioni del lotto e delle saline, alle manifatture tabacchi, alle agenzie per la coltivazione indigena dei tabacchi: «un metodo – si leggeva nella circolare illustrativa – o una forma di corrispondenza speciale diretta ad evitare all’Amministrazione centrale la necessità di un vasto lavoro di redazione e copiatura di lettere». Nel ministero di Grazia e giustizia, i tagli di organico furono compensati da un programma serrato di recupero della produttività individuale degli impiegati, con nuovi orari e diverse modalità di assegnazione alle funzioni. Alla Pubblica istruzione si diede luogo a vasti programmi di revisione e ristrutturazione degli archivi. Tipico il caso della divisione dell’istruzione superiore, dove un dinamico dirigente, Giovanni Ferrando – poi destinato a divenire prefetto con Crispi –, avviò nel 1883 un vasto progetto di ristrutturazione, riordinando le materie, ridistribuendo e specializzando il personale, accrescendo i ritmi di produttività col ricorso massiccio al lavoro straordinario, uniformando metodi di lavoro e comportamenti burocratici.
Vennero anche in evidenza – e furono i primi sintomi di una vera e propria «rivoluzione culturale» destinata a manifestarsi con più incisività nel decennio di Giolitti – i limiti di quella formazione sul campo che aveva caratterizzato la burocrazia postunitaria. Da più parti (e talvolta anche in sedi autorevoli) si invocò una formazione degli impiegati, specie di quelli di vertice, più mirata e razionale, non meramente affidata all’evolversi naturale della carriera e all’esperienza acquisita sul lavoro. Con l’avvento di Crispi in almeno due ministeri chiave, l’Interno e gli Esteri, la cultura degli operatori dell’amministrazione sarebbe apparsa invecchiata, giustificando (in modi diversi) ambiziosi progetti di riforma. E in effetti, esauritasi o quasi la generazione dei prefetti dell’unificazione amministrativa, gli epigoni entrati in carriera negli anni Sessanta apparivano obiettivamente meno dotati di quello spirito individuale e della consapevolezza alta dei propri compiti che aveva spesso consentito ai predecessori di supplire con le proprie virtù personali alle lacune della guida amministrativa. Quanto ai diplomatici, poi, la tradizione sabauda, per quanto prestigiosa essa ancora apparisse, non sempre poteva offrire le chiavi per interpretare al meglio la missione di ambasciatori e consoli di un giovane Stato alla ricerca di una sua politica estera in un quadro europeo segnato da profondi, recenti mutamenti. L’osmosi profonda che aveva sino ad allora caratterizzato i rapporti tra vertici amministrativi ed élite politica alla guida del paese (un’osmosi, come si è visto, che affondava le sue radici nel Risorgimento) andava via via scomparendo. Inconsapevolmente forse, confusamente, l’amministrazione sentiva di non far più parte dell’identico continuum con la politica che aveva retto unitariamente le sorti dell’Italia immediatamente postrisorgimentale.
Alla metà degli anni Ottanta dell’Ottocento, dunque, era come se la burocrazia protagonista sino ad allora della costruzione del paese sentisse d’avere esaurito il suo compito storico. Altrettanto avvertiva la politica più conscia dei tempi nuovi. Una nuova epoca, quella delle grandi trasformazioni economiche del primo Novecento e del futuro «decollo amministrativo» che le avrebbe accompagnate, era infatti alle porte.
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