L’amministrazione degli antichi Stati
‘Cultura giuridica’, ‘amministrazione’, ‘antichi Stati’. Nulla di più naturale, per il lettore che si veda proposta una triangolazione del genere, che attendersi di essere condotto alla scoperta di un sapere più o meno contiguo a quello del ‘diritto amministrativo’ o della ‘scienza dell’amministrazione’ di oggi – intendendo con ciò un ambito disciplinare che copra il governo interno dello Stato, e dunque le regole che sovrintendono alla cura concreta degli interessi collettivi da esso assunta, le procedure e le modalità mediante le quali quella attività viene espletata, l’insieme dei rimedi giuridici esperibili dai governati per ottenere giustizia dall’autorità pubblica.
Niente o poco del genere, invece, chi ci legge troverà nelle pagine che seguono. Il percorso che ci accingiamo a compiere, infatti, per quanto destinato ad attraversare un’area concettuale grosso modo corrispondente a quella dell’attività di amministrazione attuale, si segnala proprio per la mancanza di un’idea capace di fungere da collettore o da punto di raccordo di tutte quelle norme che in un modo o nell’altro noi chiamiamo ‘amministrative’, per distinguerle da tutte le altre (civili, penali, costituzionali e via dicendo). Tale idea aggregante, come vedremo, del tutto assente dall’impianto originario della cultura giuridica italiana protomoderna, rimarrà a esso estranea ancora per quasi tutta la durata dell’antico regime, entrando infine a far parte davvero del bagaglio condiviso dei ceti legali solo nel corso dell’età napoleonica.
Detto questo, se solo la grande svolta rivoluzionaria e il riassetto generale dei saperi che essa impose generò, nel nostro Paese, la nascita di un comparto disciplinare espressamente dedicato ad accogliere la funzione amministrativa, i vari Stati della penisola non aspettarono certo questo momento per cominciare ad ‘amministrare’, né i giuristi poterono permettersi di chiudere gli occhi di fronte a una dimensione fin dall’inizio evidentemente cruciale per l’affermazione dei nuovi poteri sovralocali. Falso è il luogo comune che nega all’Italia una sua tradizione amministrativa di lungo periodo; occorre però, quella tradizione, saperla cercare dove si trova, accettando di riconoscerla anche quando essa non assume la forma di un ‘discorso’ specifico, ma piuttosto quella di una ‘pratica’ che s’insinua tra le pieghe di saperi giuridici antichi, affidando i propri nuovi progetti e valori a lessici e costrutti concettuali da sempre esistenti. Per poter operare questo riconoscimento, d’altra parte, la precondizione essenziale è di accettare senza riserve la profonda diversità costituzionale intercorrente tra uno Stato ‘moderno’ e uno ‘antico’ – ovvero, tra un ordinamento politico soggettivato, istituzionalmente denso e deciso a cercare la sua legittimazione nella capacità di ridurre a propria misura l’ambiente circostante, e uno invece che si concepisce come un agglomerato di altri enti e che aspira a legittimarsi assicurando appunto la conservazione e l’ordinata convivenza di questi ultimi.
Prevalente in tutta Europa fino a un momento ben avanzato dell’età moderna, questa seconda declinazione della statualità marca in modo particolarmente pervasivo l’esperienza italiana, innervando a sua volta una rappresentazione colta dello spazio politico – quello dello Stato a base comunal-cittadina – destinata a caratterizzare profondamente, fino al pieno Ottocento, quasi tutta la cultura istituzionale del nostro Paese. È appunto da questa rappresentazione che occorre prendere le mosse se vogliamo comprendere che cosa fosse e quale posto occupasse l’attività amministrativa all'interno dell’organizzazione mentale di un nostro giurista d’antico regime.
In questa sede, è superfluo ricordare come tutta la cultura giuridica italiana sia figlia di una particolare civiltà urbana – quella del Comune medievale – e, insieme, di uno specifico sistema linguistico-concettuale – quello romanistico –, riflesso, a sua volta, della più grande esperienza istituzionale cittadina che ancor oggi l’Occidente ricordi. Nessuna sorpresa, allora, che da queste coordinate fosse già scaturita, molto prima dell’inizio dell’età moderna, un'immagine della territorialità giocata tutta su una specie di universalizzazione della forma organizzativa urbana. Quella immagine, nella sua intuizione elementare, faceva dello spazio politico un tessuto continuo di enti civico-corporativi, ognuno dei quali ritenuto capace di autogovernarsi tramite il concorso dei propri membri.
Diversissimi nei rispettivi attributi, e suscettibili di combinarsi tra loro e con i poteri superiori nelle geometrie più variegate, quegli enti (dalle grandi città ‘dominanti’ fino ai minori e minimi insediamenti rurali) erano però ascritti senza eccezione a un unico genere istituzionale, quello della communitas, di cui condividevano tutti gli elementi essenziali. Come scriverà più tardi il magistrato torinese Niccolò Losa (1564 ca.-1642), riassumendo il senso della precedente dottrina di Bartolo da Sassoferrato:
’Comunità’ è una denominazione di carattere generale per intendere ogni città, villaggio murato o aperto, o altro consimile insediamento dotato di personalità giuridica; e si chiama così in quanto è governata essenzialmente dalla stessa comunità degli uomini che vi abitano (Tractatus de iure universitatum, 1601, c. 33r)
Alla base di qualsiasi ordinamento stava quindi un tappeto ininterrotto di communitates, ciascuna delle quali dotata di quella piena capacità che le derivava dal suo porsi di diritto come persona giuridica autonoma (universitas) e che la abilitava non solo a possedere un patrimonio, a obbligarsi o a stare in giudizio, ma anche a vincolare i suoi membri tramite norme proprie (statuta) e a imporre loro prestazioni coattive di varia natura funzionali allo svolgimento della vita collettiva.
La formazione degli Stati territoriali, intervenuta per lo più tra 14° e 15° sec., non solo non scalzò in alcun modo i fondamenti di questa rappresentazione del territorio, ma semmai ne rafforzò l’effettività. L’esistenza, infatti, di una forte maglia di poteri comunitari di base, capaci di ordinare efficacemente la convivenza civile e di controbilanciare il peso della nobiltà feudale, non poteva che risultare funzionale alle esigenze di uno Stato ancora quasi del tutto sprovvisto di apparati propri e appunto perciò alla disperata ricerca di alleati istituzionali a cui appoggiarsi per svolgere le funzioni per lui più essenziali, a cominciare dalla raccolta fiscale.
Fin dal tardo Medioevo, quindi, l’esperimento statale si segnala, in Italia, per una collaborazione particolarmente intensa tra poteri centrali e comunità periferiche. L’idea centrale proposta dai giuristi medievali era che ogni corpo comunitario potesse esercitare liberamente tutte le facoltà che gli derivavano dalla sua titolarità di una personalità giuridica propria e che si basavano sul consenso dei suoi membri, ma dovesse riconoscere al principe ogni attribuzione potestativa legata alla sua superiorità politica e in primo luogo, quindi, al suo ruolo fondamentale di erogatore della giustizia e di garante della pace territoriale. Più precisamente, nel linguaggio della dottrina questo dualismo si esprimeva contrapponendo la sfera della administratio a quella della iurisdictio: ovvero distinguendo l’ambito dell’auto-amministrazione corporativa, consistente nel gestire i beni, i redditi e gli interessi collettivi della comunità e dei singuli che la componevano, dal compito invece di dichiarare il diritto della terra e di costringere i sudditi al suo rispetto – compito che, travalicando del tutto la sfera dei diritti consensualmente disponibili, non poteva che spettare al dominus territoriale e ai suoi delegati.
Questo è il tipo di assetto che possiamo definire come ‘Stato giurisdizionale italiano’. Molto diversi tra loro per origini, forme di governo ed equilibri politici interni, i vari Stati della penisola sembrano però condividere una stessa immagine fondamentale dell’ordinamento: concepito ovunque come una grande trama di autonomie comunitarie, tendenzialmente in grado di soddisfare tutti quanti i bisogni sociali salvo quelli legati alla domanda di giustizia e all’osservanza del diritto, che per loro natura ricadevano nella competenza esclusiva del sovrano come fons iurisdictionis. Caratteristica di questo disegno è l’assenza di ogni spazio atto ad accogliere qualcosa di simile a un'amministrazione di livello ‘statale’. Qualsiasi tipo di ‘servizio’ da assicurare ai consociati (si trattasse di gestire risorse collettive, organizzare mercati, strutturare la produzione artigianale e manifatturiera, predisporre strutture di supporto all’agricoltura, garantire l’assistenza a malati e indigenti, curare la viabilità o così via) rientrava per definizione nell’ambito attribuzionale della società di corpi: mentre il compito proprio del principe consisteva semplicemente nel garantire la conservazione di quest’ordine, esercitando la potestà coattiva di cui era investito appunto per far osservare i diritti scaturenti da esso.
Nato, almeno nel Centro-Nord, più dal bisogno di assicurare la sopravvivenza della grande civiltà cittadina medievale, vaccinandola contro le sue debolezze interne, che dal progetto di assicurarne un effettivo superamento, lo Stato regionale italiano presenta un profilo ancor più nettamente giustiziale di quanto non accada in altre parti d’Europa. Comporre i conflitti tra città e città, tra città e contadi, tra feudatari e comunità e tra i tanti segmenti diversi del mondo urbano stesso: questo lo scopo essenziale di un potere statuale che trovava la sua ragion d’essere nel mantenere l’equilibrio interno di uno spazio affollatissimo e ricco di attriti, senza proporsi però in alcun modo l’obiettivo di mutarne la natura.
Comunque, lo Stato regionale aveva sviluppato di buon’ora anche in Italia una vocazione a suo modo ‘amministrativa’. Impegnato a difendere, munire e pacificare un territorio certamente fuori scala rispetto ai modesti contadi che avevano per lo più formato l’oggetto dei governi medievali, quello Stato tende fin dal Cinquecento a diversificare i propri apparati centrali, creando, a latere dei ‘grandi tribunali’, sistemi di uffici addetti a raccogliere tributi, a organizzare eserciti, a occuparsi di annona, di strade, di ospedali e di regimazioni fluviali.
Il profilo di queste organizzazioni, tuttavia, resta sempre quello di un «governo per magistrature», per usare un’espressione di Cesare Mozzarelli: una raggiera, cioè, di organi giudiziari specializzati, che amministrano giudicando e giudicano amministrando, secondo procedure e habitus mentali del tutto in linea con la tradizione medievale del sovrano-giudice e del potere-iurisdictio. E ancora più in linea con il profilo ordinamentale dell’età precedente è il paesaggio istituzionale delle nostre periferie: caratterizzato ovunque da una presenza statale molto debole, di regola ridotta a un tenue reticolo di giusdicenti la cui funzione è sostanzialmente limitata a garantire la pace territoriale e ad amministrare la giustizia tra privati.
Dato questo sfondo istituzionale, non stupisce che la cultura giuridica italiana abbia continuato per lunghi secoli a ignorare del tutto l’esistenza di una dimensione propriamente ‘amministrativa’, lasciando per lo più fluttuare i materiali che oggi raccogliamo sotto una tale intitolazione nel mare magnum della casistica di diritto comune o tutt’al più organizzandoli attorno ad ambiti tematici assolutamente slegati tra loro, in quanto riferiti a una molteplicità di vari soggetti pubblici o privati – pensiamo per es. allo ius fisci, relativo ai diritti e ai privilegi spettanti allo Stato come ‘grande privato’; oppure ai vari trattati De magistratibus, sia generali sia riferiti alla realtà dei singoli Stati; o ancora a quelli De muneribus, dedicati a ciò che oggi chiamiamo diritto tributario; alla letteratura sulle 'regalie', cioè ai beni e diritti pertinenti ex iure communi al sovrano; o a quella in tema di acque, e dunque di regimazioni idriche; e via enumerando.
Per quanto conforme a un impianto di carattere medievistico, e impastata tutta di materiali tratti dalla tradizione, questa letteratura non mancava del tutto di un suo valore aggiunto: consistente proprio nell’attribuire una specifica visibilità a materie che per la cultura tardo-medievale restavano diluite nel grande crogiuolo del diritto comune.
Un esempio per tutti può essere offerto dallo ius universitatum, cioè dal diritto delle persone giuridiche, riorganizzato per la prima volta sistematicamente nel 1601 dal già citato fortunatissimo Tractatus de iure universitatum di Losa. Classificando i vari tipi di enti e illustrando le loro diverse capacità e i modi della loro rappresentanza, questo autore offre in sostanza una griglia di pronto impiego per ordinare l’accidentatissimo universo comunitario costituente l’ubiquo sostrato degli ordinamenti italiani d’antico regime, e apre la strada a una serie di trattazioni successive che, come vedremo, elaboreranno ulteriormente l’immagine dello Stato corporativo.
Questo, dunque, l’aspetto che i nostri ordinamenti presentano grosso modo nel corso del 16° secolo. Per molti di essi, si tratta di un'immagine estremamente longeva, destinata a incrinarsi davvero soltanto con le riforme settecentesche o addirittura col primo decennio dell’Ottocento. Senz’altro superficiale sarebbe però il giudizio di chi volesse estrarre da questa continuità d’impianto la conclusione di uno Stato d’antico regime pietrificato in un suo insuperabile profilo tardo-medievale. Proprio di una vecchia tradizione, che faceva del Seicento il secolo della ‘decadenza’ dell'Italia, dopo gli splendori da essa attinti nel Medioevo e le vette culturali segnate dal Rinascimento, questo giudizio è stato quantomeno attenuato nel corso degli ultimi decenni da una storiografia che ha segnalato vari tratti comuni tra la vicenda istituzionale italiana e quella delle altre esperienze europee.
Anche in Italia il 17° sec. segna il progredire di quella tendenza al ‘disciplinamento’ che costituisce ovunque il tratto tipico dell’assolutismo maturo. Pur lasciando intatta, cioè, l’impalcatura dello ‘Stato di giustizia’ che abbiamo illustrato più sopra, i poteri centrali si rendono via via più presenti nella vita sociale attraverso il progressivo sviluppo di una loro vocazione regolatrice, che si manifesta nella produzione di una quantità di norme dirette a ordinare i più vari ambiti della vita sociale – dai comportamenti religiosi all’economia, dal ricorso alla violenza privata all’utilizzo delle risorse ambientali.
Certo, si tratta di un crescendo non facile da quantificare, ancor più difficile da apprezzare sul piano del suo effettivo impatto sociale e che soprattutto non si accompagna a quella nuova centralità politica che il potere sovrano si aggiudica nell’ambito di un’Europa nordoccidentale investita dalla Riforma e dai conflitti religiosi a essa conseguenti. Sia pur in modo più silenzioso, però, anche in Italia lo Stato-giudice comincia a scoprire in sé l’embrione di nuove dimensioni funzionali, soprattutto sul piano delle relazioni centro-periferia. In questo ambito, in effetti, la vicenda secentesca rivela chiaramente lo sforzo dei poteri centrali d’imbrigliare i corpi territoriali locali in una rete di nuove prescrizioni, fino a mettere insieme una specie di diritto comunitario statale, alluvionale quanto si vuole, ma la cui sostanziale coesione non sfugge ai pratici, che ne promuovono raccolte e commenti in varie parti della penisola.
Al di là del diverso rilievo che questa normazione assume nei singoli contesti regionali, essa presenta una serie di caratteri manifestamente comuni. Da un lato, essa punta ovunque a rafforzare la personalità degli enti comunitari nei confronti dei terzi (per es. emancipandoli dai poteri signorili o attribuendo loro gli stessi privilegi del fisco centrale), ma dall’altro limita drasticamente la loro libertà, sia stringendo gli amministratori locali in una foresta di divieti (di donare e di prendere a cambio, di contrarre e di spendere fuori dai casi consentiti, di concedere dilazioni ai debitori dell’ente, di intentare cause temerarie e via dicendo), sia sottoponendoli a un nugolo di nuovi obblighi positivi (di tenere una determinata contabilità, di impiegare le risorse collettive solo secondo certe priorità, di 'collettare' con prontezza i concives non appena il bilancio sia in rosso, di predisporre e aggiornare strumenti estimali conformi a certi standard, di conservare in buone condizioni particolari beni di uso pubblico, quali strade, argini e canali).
Come in altre esperienze europee, la ragione originaria di tanta sollecitudine va ricercata anzitutto in una necessità di ordine fiscale. Anche in Italia, infatti, la strategia preferenzialmente seguita dai poteri centrali per raccogliere le proprie tasse consiste fin dall’inizio nel rivolgersi alle comunità locali, delegando a esse il compito di mettere a contribuzione i loro membri per conto dello Stato. Mantenere in buona salute finanziaria un mondo comunitario attraverso i cui bilanci passano gran parte degli introiti erariali diviene quindi abbastanza presto un'esigenza diffusamente avvertita; dalla quale si sviluppa poi del tutto naturalmente la tendenza a sottoporre tutta quanta l’amministrazione periferica a una regolazione sempre più pervasiva, dal momento che ogni comparto di essa risulta intimamente correlato con gli altri e variamente funzionale al soddisfacimenti di altre esigenze statali.
Questo sforzo, inoltre, si accompagna al tentativo, avviato già tra Cinque e Seicento in alcuni Stati della penisola, di affiancare la tradizionale modalità giudiziaria di applicazione delle norme con una tecnica diversa, basata piuttosto sul principio di assicurarsi in via preventiva della loro osservanza da parte delle comunità. I progressi di questo nuovo approccio al problema del governo territoriale sono segnalati da vari indicatori, tra i quali soprattutto l’istituzione di certe nuove magistrature i cui compiti non sono più limitati a risolvere litigi o a irrogare sanzioni, ma consistono piuttosto nel sottoporre a controllo tutta quanta l’'economica amministrazione' delle comunità territoriali, autorizzandole volta a volta a compiere tutta una serie di atti che in base alla nuova normazione statale esse non sono più abilitate ad assumere autonomamente.
Il primo Stato in cui viene avviata una sperimentazione del genere è il Granducato di Toscana, ove già nel 1559 è introdotto un apposito magistrato – quello dei Nove conservatori del dominio fiorentino – incaricato appunto di sovrintendere alla attività interna dei corpi collettivi; segue, nel 1592, lo Stato della Chiesa, con la mise en place di una congregazione cardinalizia intitolata al 'buon governo' territoriale (De bono regimine), che costituirà fino a fine Settecento il pilastro dell’amministrazione interna dello Stato. Nel 1632 è la volta della Repubblica di Genova, che istituisce un analogo Magistrato delle comunità per sovrintendere alle amministrazioni periferiche del suo piccolo territorio; e nel 1661 quella del Ducato sabaudo, che dopo vari tentativi riesce finalmente a mettere in funzione una delegazione sopra il Buon governo delle comunità che sarà all’origine di un importante processo accentratore nel corso dei decenni successivi. Infine, negli anni Settanta, la serie è chiusa dalla istituzione delle congregazioni sui Comuni nei due Ducati di Parma e Piacenza. E qualcosa si muove, nel frattempo, anche negli Stati il cui profilo istituzionale pur rimane, dal nostro punto di vista, esteriormente invariato – come nel Regno di Napoli, ove tra gli anni Venti e Trenta del Seicento viene messa in cantiere una complessa operazione di censimento e di certificazione di tutti i bilanci comunali, finalizzata a redigere per ogni comunità uno schema fisso di entrate e di uscite (il cosiddetto stato discusso) non derogabile da parte degli amministratori locali senza una specifica autorizzazione centrale.
Si tratta di esperimenti, beninteso, di per sé insufficienti a marcare un preciso decalage rispetto al tradizionale modello dello Stato giurisdizionale. Finalizzati come sono non a realizzare un qualche progetto di trasformazione della realtà sociale, ma semmai a garantire meglio la conservazione degli equilibri di sempre – e in particolare a difendere i diritti tradizionali dei corpi collettivi contro le continue aggressioni a cui sono sottoposti da parte di vecchi e nuovi maggiorenti locali – essi costituiscono semplicemente uno strumento complementare per assicurare la tenuta di un ordine corporativo che resta affidato, ancora e anzitutto, alla bilancia del giudice. E proprio questo spiega il carattere sempre parziale, e spesso episodico e discontinuo, con cui i nostri governi fecero ricorso alle nuove tecniche di cui parliamo: trovando in esse un’integrazione, e non certo un’alternativa rispetto ai loro più antichi modi di gestione del potere.
Resta il fatto che queste pratiche, pur incardinandosi su un'immagine affatto tradizionale dell’ordinamento, tendevano a ridefinire il rapporto tra centro e periferia, sovrano e corpi, non più richiamandosi al binomio giudice-giudicato, ma piuttosto a quello padre-figlio o tutore-pupillo; binomio costituente anch’esso, ovviamente, un topos antichissimo appartenente alla cultura giuspolitica occidentale, abituata fin da Aristotele a trovare nell’analogia governo dello Stato/governo della casa uno dei più efficaci strumenti di legittimazione teorica dell’autorità; ma binomio che, nel contesto cui ora ci riferiamo, tende ad assumere un significato diverso e molto più stringente anche sul piano giuridico. Come ci viene testimoniato da tutto un nuovo ‘discorso’ circa gli obblighi del potere che prende forma poco alla volta nel corso del Seicento.
Si prenda per es. il solenne esordio con cui Clemente VII introduceva, nel 1592, l’atto istitutivo di quella congregazione De bono regimine di cui si diceva più sopra:
Pro commissa nobis a Domino […] etiam in temporalibus subiectarum civitatum et populorum tutela, paternaque erga nostros subditos charitate, praecipuo studio tenemur providere, ut ad eos pertinentia bona, ea, quae decet fide, et cura, utiliter et provide administrentur; praesertim vero tollantur pravi abusus, qui in publicum et commune damnum paulatim irrepunt.
In virtù di quella tutela dei popoli e delle città soggette che ci è stata attribuita da Dio anche nell’ambito temporale, nonché della paterna carità che dobbiamo usare nei confronti dei nostri sudditi, siamo tenuti a provvedere col massimo impegno affinché i beni ad essi appartenenti siano amministrati utilmente ed opportunamente con quella fedeltà e quella cura che si conviene, e siano tolti quei perversi abusi che poco alla volta s’introducono a danno del pubblico e comune interesse (cit. in apertura di G. Coelli, Commentaria in Bullam X Clementis P. VIII De bono regimine ad dictae universitates spectantium, 1656).
Il mondo corporativo, sulla cui autosufficienza istituzionale la cultura medievale non sembrava aver nutrito dubbi particolari, inizia ora a presentare un aspetto intimamente fragile. Assediato da una folla di profittatori e di malintenzionati, incistati in primo luogo nel suo stesso seno, esso non riesce più a garantire da solo ai propri membri quei servizi che pure sono indispensabili al buon ordine della vita associata: e perciò si appella al centro affinché esso intervenga a garantire la sua stessa sopravvivenza non più in veste di giudice ma in quella di tutore e di padre. Il che, a sua volta, implica di ammettere che le comunità, pur conservando intatta la loro soggettività giuridica, non sono più in grado di esercitare autonomamente i diritti da essa derivanti e si trovano quindi in una condizione vicina a quella dei minori o delle persone naturalmente incapaci.
A questo proposito, leggiamo cosa scrive a fine Seicento Pier Licinio Serrati (cancelliere dei Nove Conservatori di Firenze), in uno di quei prontuari di cancelleria che costituivano l’indispensabile corredo di ogni dicastero centrale addetto al governo del territorio:
Le comunità di questi felicissimi Stati, come corpi distinti da quelli delli particolari che le compongono, sono governate e rappresentate dalli loro officiali; i quali nelle loro deliberazioni procedendo collegialmente hanno quella autorità che non puole esercitarsi da tutto il popolo fuori dalla legittima e collegiale adunanza [e che consiste] nell’amministrazione delli effetti comunali e lor rendite, e nell’obbligazioni dell’istesse comunità et imposizioni delle gravezze sopra i particolari. [Tuttavia,] sebbene di ragion comune competerebbe particolarmente ai Consigli generali l’arbitrio di disporre delle cose del pubblico, tanto per via di contratto che di pubblica deliberazione o statuto, nondimeno, remosso ogni loro arbitrio, tutti li suddetti ufficiali restano in modo soggetti all’autorità del Magistrato de’ Nove che è nullo ogni loro partito nel quale non sia reservata, e reservata non sia ottenuta, l’approvazione dell’istesso magistrato (zibaldone di cancelleria conservato in Archivio di Stato di Firenze, fondo Nove Conservatori del Dominio e della Giurisdizione, filza 3596).
Di contro, quindi, a una dottrina precedente che aveva sempre considerato le persone giuridiche corporative perfettamente capaci di compiere, per mezzo dei loro rappresentanti, tutti gli atti e negozi accessibili a qualsiasi privato, la cultura istituzionale di cui stiamo parlando introduce un principio inverso, giustificato da una strutturale diffidenza verso élites locali ora presentate come oligarchie egoiste e spregiudicate, ben poco sollecite dell’interesse collettivo e di quello soprattutto delle fasce marginali escluse dalle cariche pubbliche.
Prevenire le «fraudi, che dai cattivi amministratori si vanno macchinando, per appropriarsi, o prevalersi del denaro, e effetti delle università» – così recita un testo normativo toscano del 1636 (Istruzione ai Cancellieri de’ Comuni, e università del Dominio fiorentino raccolta dalle leggi e ordini del Magistrato de’ Signori Nove dell’anno MDCXXXVI, cc. non num., cit. in Leggi di Toscana riguardanti affari di Economia civica, classe III, 1571-1747, a cura di A. Tavanti, s.l., s.d.) –; «difendere e proteggere i poveri, vedove, pupilli, ed altri miserabili, acciò non restino dalla potenza de’ benestanti soffocati e oppressi»; «far osservare a tutti inviolabilmente gli statuti municipali» che i più potenti tendono continuamente a calpestare: queste le nuove frontiere di uno Stato-padre che tende ad affermare una specie di generale diritto di controllo su tutta quanta la vita corporata.
Come scriveva il giurista orvietano Giacomo Coelli in un trattato sul governo comunitativo (Commentaria in Bullam X Clementis P. VIII De bono regimine ad dictae universitates spectantium, 1656, cap. IV), se certamente l’istinto della socialità spinge gli uomini a mettere in comune una buona parte delle loro sostanze, è ben vero però che «quod multorum commune est, in eo minime adhibetur diligentia»: e proprio per questo il principe deve intervenire non solo «ad dirimendas lites» tra i suoi sudditi, ma anche «ad obviandum fraudibus» attraverso una strategia di carattere preventivo.
Una strategia come quella, ancora esemplificando, a cui si richiama esplicitamente il duca Vittorio Amedeo II di Savoia, nell’introdurre in Piemonte, a fine secolo, la figura di un Intendente provinciale destinato ad arginare il «mal maneggio delle comunità», a tagliare una «moltitudine di spese» dal bilancio comunitativo, a revocare tutti i «pagamenti di partite non dovute» e a combattere in tutti i modi la «negligenza e connivenza degli uffiziali» comunali (cit. in E. Genta, Intendenti e comunità nel Piemonte settecentesco, in Comunità e poteri centrali negli antichi Stati italiani, a cura di L. Mannori, 1997, pp 43-57).
Si tratta, certo, di una cultura di governo iscritta in una dimensione eminentemente ‘pratica’, e non solo incapace di conquistarsi una autonomia disciplinare sul tipo del coevo Polizeirecht germanico, ma neanche di attingere una sua fisionomia teorica ben definita. Nel caso italiano, un'evoluzione in questo senso si presentava difficile anzitutto a causa di un contesto come quello della Controriforma, che negava in radice ogni autosufficienza al potere secolare rispetto alla sfera religiosa.
Fino al pieno Settecento lo Stato, in Italia, non venne mai riconosciuto come il possibile principio generatore di un ordine ‘altro’ rispetto a quello naturale, o anche soltanto complementare rispetto a esso; e l’idea di un diritto ‘pubblico’, come strumento a base convenzionale, formato da norme non ‘ontiche’, ma di semplice regolazione sociale, e dunque destinate ad essere applicate secondo modalità differenziate rispetto a tutte le altre, non riuscì a trovare alcun punto d’appoggio culturale per affermarsi (a provarlo basta la scarsa fortuna di una categoria lessicale come polizia, che nel resto d’Europa funge da principale veicolo semantico delle nuove vocazioni regolative proprie dei pubblici poteri e che da noi deve invece cedere il passo ad espressioni assai più tradizionali, come buon governo o potestà economica).
Ciò non toglie che la produzione giuridico-letteraria in un modo o nell’altro connessa ai temi del ‘governo’ appaia in netta espansione dal primo Seicento in avanti: come testimonia la trattatistica in tema di comunità (oltre al già citato Coelli si pensi per es. ad altri commentatori della legislazione locale, come Andrea De Vecchis per lo Stato della Chiesa o Lorenzo Cervellini per il Regno di Napoli) ma anche quella, per es., sugli editti dei magistrati (a cui Camillo Borrelli dedica nel 1620 un’opera celebre, De magistratuum edictis tractatus [...]), sulle loro prerogative generali (esplorate da scrittori come Leandro Galganetti o Francesco Rocco), sulle opere pubbliche (sulle quali Alessandro Brugiotti pubblica nel 1669 una monografia molto citata, Epitome iuris viarum et fluminum, praxim rei aedilis compraehendens [...]) o sui vari generi d’imposizioni, ampiamente indagate dai pratici.
Rispetto a questo scenario – quello, in sostanza, di uno Stato di giustizia variamente supportato dal ricorso integrativo a una pratica ‘tutoria’ di governo –, il Settecento segna un'indubbia discontinuità. A incrinarsi progressivamente è infatti la stessa costituzione corporativa su cui fin dalle origini si è basato questo modello di Stato. Poco alla volta, i poteri centrali devono prendere atto, anche in Italia, che la conservazione dell’antico tessuto comunitario sta divenendo sempre meno compatibile con le loro stesse esigenze di sviluppo – e in primo luogo con quelle di una raccolta fiscale fattasi via via più esigente e di cui i vecchi corpi intermedi non riescono più a gestire gli snodi in modo efficiente e insieme socialmente tollerabile. Di qui, la messa in cantiere di ambiziosi programmi di riforma strutturale, volti a rimodellare i fondamenti stessi della società corporata, ma anche l’emergere contestuale di un nuovo tipo di Stato, non più impegnato a difendere un ordine storicamente dato, bensì ad assicurare ai propri sudditi una serie di benefici che nessuna formazione sociale di base è più in grado di garantire loro autonomamente.
D’altra parte, questo itinerario grosso modo comune viene percorso dai nostri ‘antichi Stati’ secondo modalità e con tempistiche diverse, determinate sia dalle loro differenti morfologie originarie sia dalla forza delle sollecitazioni a cui essi si trovarono a rispondere. Talvolta, il passaggio che stiamo descrivendo si svolge in continuità rispetto alle vocazioni regolative maturate già nel corso del Seicento, e quindi stringendo il mondo corporativo in una rete di controlli e di tutele sempre più pervasiva, le cui basi erano state gettate parecchio tempo avanti.
Tale è tipicamente il modello evolutivo piemontese, in cui le comunità persero poco a poco la loro autonomia originaria grazie agli sforzi di una robusta burocrazia, fino a essere assorbite, nel 1775, in un 'pariforme sistema' legislativo che ne omologò lo statuto giuridico su base statale.
Altrove, invece, il medesimo processo si realizzò più bruscamente, senza innestarsi su alcuna solida tradizione accentratrice di lungo periodo: come nella Lombardia austriaca, che ancora nei primi decenni del secolo presentava l’aspetto di uno Stato di città, estremamente disarticolato, il cui vigoroso addensamento istituzionale fu avviato soltanto con la messa in cantiere di un catasto fondiario generale a partire dal 1718.
Ancora diverso il caso toscano: dove la transizione si compì rompendo di netto con l’ 'indiscreto dispotismo' di un governo mediceo la cui pur lunga esperienza accentratrice venne percepita molto più come un ingombrante residuo medievale che come una base utile per poggiarvi l’edificio di un'amministrazione moderna.
Certo è che, quali siano le modalità della trasformazione, già alla metà del secolo si è fatta strada una nuova percezione del potere, che ha voltato le spalle all’immagine ieratica del sovrano-giudice per indicare invece nello Stato il responsabile promotore di un benessere dai contenuti tutti empirici e secolari – ovvero, secondo il titolo di un famoso trattato di Ludovico Antonio Muratori, di una «pubblica felicità» definita come «quella pace e tranquillità che un saggio ed amorevol principe, o ministro, si studia di far godere, per quanto si può, al popol suo, con prevenire e allontanare i disordini temuti e rimediare ai già succeduti» (Della pubblica felicità, oggetto de' buoni principi, 1749; rist. a cura di C. Mozzarelli, 1996, p. 12).
Il potere, così, se da un lato si banalizza, perdendo la sua antica natura di strumento di manifestazione della ‘verità’ e offrendosi perciò sempre più come oggetto di critica, da un altro dilata enormemente il suo spettro funzionale, caricandosi di una somma di responsabilità che non possono più essere assolte tramite un ‘governo per magistrature’, ma che reclamano ormai il ricorso a un'amministrazione esecutiva, a un ‘governo’ in senso proprio, autonomo rispetto alla giustizia e volto a modificare lo spazio politico secondo un proprio programma.
Scopo di ogni sovrano, infatti – afferma Muratori – dev’essere ora un «miglioramento del mondo» misurabile in termini di «beni, comodi e vantaggi» concreti procurati ai propri sudditi; e appunto per questo «non dee bastare» ai ministri del principe «d’impedire che […] la gran macchina del principato vada in rovina, né l’impiegare cotanto i loro talenti in cause civili e criminali, perché ciascuno abbia il suo, e sieno puniti i misfatti»; la vera scienza che si richiede ai nuovi collaboratori del sovrano essendo quella del «governo economico» dello Stato, «per renderlo più fiorito, […] più ricco, più ben composto ne’ costumi, più esente da vizi, più politico e civile, più popolato e così discorrendo» (p. 26).
La dimensione giustiziale rivela insomma tutta la sua insufficienza di fronte ai nuovi orizzonti di una attività di governo che ha invertito la sua stessa direzione vettoriale, trasformando il centro da snodo a cui indirizzare richieste e suppliche in luogo di produzione di progetti politici destinati a risagomare il profilo del territorio. Come scrive Pompeo Neri in un passo famoso della sua Relazione dello stato in cui si trova l’opera del censimento universale del ducato di Milano nel mese di maggio dell’anno 1750, divisa in tre parti (1750), commentando il vecchio assetto istituzionale:
Il Governo, il Senato, il Magistrato ordinario rispetto agl’interessi delle comunità esercitano in questo paese l’autorità giudiziale, e punitiva in caso di ricorso contenzioso, o di delitto: ma quella parte di autorità, che è direttiva, e che tende a prevenire il male innanzi che segua, e che procede da quel diritto di tutore, e di padre, che il Principe ha sopra il patrimonio delle comunità sue suddite, non è raccomandata a verun dicasterio, e non vi sarebbero in ogni caso stabilimenti opportuni per poterla esercitare, essendo troppo mancante questo paese di ministri subalterni locali, che possino invigilare opportunamente alla condotta dell’economia pubblica (rist. anast. a cura di F. Saba, 1985, p. 79).
Duplice, dunque, è il problema istituzionale che gli Stati italiani si trovano di fronte nella seconda metà del Settecento. Da un lato, si tratta di rompere l’antica osmosi tra giustizia e amministrazione, costruendo nuovi apparati centralizzati esclusivamente deputati all'attuazione della volontà sovrana e operanti secondo uno statuto funzionale del tutto distinto rispetto a quello processuale; e dall’altro si tratta di ridefinire il profilo dei corpi locali, trasformandoli da gruppi chiusi, unicamente intenti a difendere i privilegi dei propri membri, in società aperte di contribuenti capaci di collaborare efficacemente alla realizzazione delle nuove politiche statali come centri periferici di raccolta e di spesa.
Troppo complesso sarebbe, in questa sede, tracciare un bilancio dei risultati conseguiti su questi due piani dai vari Stati della penisola. Diciamo comunque che all’arrivo delle armate rivoluzionarie, nel 1796, solo pochi tra essi esibivano il profilo di uno Stato in qualche misura davvero ‘moderno’, i più presentandosi invece con l’aspetto di cantieri aperti, ove vecchie strutture di origine tardomedievale convivevano in precario equilibrio con abbozzi di nuovi edifici e con una progettualità a getto continuo dai caratteri spesso confusi e velleitari. Questo stato di cose, determinato anzitutto dalle strenue resistenze opposte al disegno riformatore a opera della società tradizionale, va però ascritto in qualche misura anche a un’incertezza di fondo presente nell’ambito delle stesse élites riformatrici circa il ruolo che il nuovo ordinamento pubblico avrebbe dovuto assegnare all’amministrazione (termine, questo, che comincia appunto ora a essere usato senza aggettivi o complementi per indicare l’apparato esecutivo fondamentale dello Stato).
Se per un verso, infatti, la stessa magnitudine delle trasformazioni di cui quelle élites erano state testimoni alimentava in esse una fiducia spesso sproporzionata nelle capacità realizzatrici dell’amministrazione, per un altro la nuova cultura individualista di cui erano portatrici le spingeva a diffidare di una crescita dello Stato che rischiava di stringere la società in una morsa ancora più dura e ottusa di quella di cui ci si voleva liberare rompendo le catene dell’ordine corporativo. Così scriveva Gaetano Filangieri nella Scienza della legislazione (8 voll., 1780-1791):
L’amministrazione, che dovrebbe essere il sostegno della prosperità de’ popoli, e dell’opulenza delle nazioni; l’amministrazione, che non dovrebbe in altro mostrare la sua influenza che nello spianare la strada, per la quale gli uomini dovrebbero correre verso la loro felicità; l’amministrazione, che dovrebbe adottare per regola generale della sua condotta quel gran principio: INGERIRSI QUANTO MENO SI PUÒ, LASCIAR FARE QUANTO PIÙ SI PUÒ; l’amministrazione, io dico, per essersi allontanata da questi salutari principii, è divenuta nella più gran parte delle nazioni la causa della loro miseria (rist. a cura di D. Tomassi, 1° vol., 1826, p. 262).
Ma più ancora, il sorgere di un primato dell’amministrazione dalle macerie della vecchia società corporata, per quanto salutato inizialmente con entusiasmo, nel giro di alcuni anni cominciò ad apparire come una soluzione dalle basi incerte e dagli esiti inquietanti, suscettibile com’era di condurre verso un «dispotismo» ancor più «smascherato» di quello caratteristiche delle élites privilegiate d’un tempo. Intendenti governativi che «signoreggiano» i Consigli cittadini senza più permettere «di opinare o impetrare, se non per bocca di rappresentanti scelti» dall’alto; «monache scacciate da' loro ritiri”» e divenute «oggetto di derisione» generale; «case della città numerizzate»; «guardie della Police venute […] dalla Germania […] armate da principio di bastone, che a loro talento esercitavano sulla pazienza degli avviliti cittadini»; «uomini benemeriti […] scartati e dimessi» dagli impieghi a favore di legioni di «favoriti»; uno Stato intero abbandonato infine al capriccio di un unico, bilioso «Ospodar»: questa l’immagine del governo di Milano durante il decennio giuseppino offerta in una pagina famosa (Pensieri sullo stato politico del Milanese nel 1790, in Scritti inediti del Conte Pietro Verri, 1825, pp. 26-27) da quel Pietro Verri che pure, fino a pochi anni prima, era stato uno dei più fervidi sostenitori del riformismo asburgico. La soluzione dunque verso cui molti dei vecchi riformatori cominciarono ad orientarsi fu che, «per uscire dallo stato d’abiezione sotto cui si geme e da schiavi malcontenti diventare sudditi ragionevoli e fedeli» non vi fosse altra strada se non quella del governo rappresentativo. Scrive ancora Verri:
Una costituzione finalmente convien cercare , cioè una legge inviolabile anche nei tempi avvenire, la quale assicuri ai successori la fedeltà nostra da buoni e leali sudditi, ed assicuri ai nostri cittadini un inviolabile proprietà, essendo questo il fine unico di ogni governo (Pensieri sullo stato politico del Milanese nel 1790, cit., pp. 38-39).
Raccordare tra loro costituzione e amministrazione, individuando un punto d’equilibrio accettabile tra la nuova unicità della catena di comando e il necessario consenso collettivo: questo sarà appunto il grande compito che l’età delle riforme lascerà in legato al secolo successivo.
N. Losa, Tractatus de iure universitatum, Torino 1601.
G. Coelli, Commentaria in Bullam X Clementis P. VIII De bono regimine ad dictae universitates spectantium, Roma 1656.
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P. Neri, Relazione dello stato in cui si trova l’opera del censimento universale del ducato di Milano nel mese di maggio dell’anno 1750, divisa in tre parti, Milano 1750; rist. anast. a cura di F. Saba, Milano 1985.
G. Filangieri, La scienza della legislazione, 8 voll., Napoli 1780-1791; rist. a cura di D. Tomassi, 5 voll., Livorno 1826-1827.
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L. Mannori, Per una ‘preistoria’ della funzione amministrativa. Cultura giuridica e attività dei pubblici apparati nell’età del tardo diritto comune, «Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno», 1990, pp. 323-504.
S. Tabacchi, Il controllo sulle finanze delle comunità negli antichi Stati italiani, «Storia, amministrazione, costituzione. Annali dell'Istituto per le scienze dell'amministrazione pubblica», 1996, 4, pp. 81-116.
Comunità e poteri centrali negli antichi Stati italiani. Alle origini dei controlli amministrativi, a cura di L. Mannori, (in partic. E. Genta, Comunità e poteri centrali negli antichi Stati italiani, pp. 43-57), Napoli 1997.
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