L'amministrazione
Rispetto al ventennio fascista, l’età repubblicana segnò una profonda cesura costituzionale, nel senso del passaggio dallo Stato autoritario allo Stato democratico. La Costituzione del 1948, d’altra parte, fu in buona parte plasmata per porre rimedio, da un lato, alla debolezza dello Statuto albertino e, dall’altro, alle distorsioni dell’età fascista.
Sul piano amministrativo, invece, la nascita dello Stato democratico non produsse cambiamenti repentini. Anzi, nei primi anni, sino almeno alla metà degli anni Cinquanta, vi fu un certo grado di continuità tra l’amministrazione fascista e quella repubblicana, sia dal punto di vista dell’apparato normativo, sia da quello del personale, sia da quello della lenta attuazione dei contenuti della carta costituzionale.
Sotto il profilo della cultura del diritto amministrativo, invece, si assistette a un quadro più mosso. Rimase per certi versi più strettamente ancorata alla tradizione del metodo giuridico la generazione più matura di giuspubblicisti (Guido Zanobini, Antonio Amorth, Enrico Guicciardi, Roberto Lucifredi, Giuseppe Alessi), legata agli insigni studiosi dell’età liberale (soltanto Federico Cammeo, tra i grandi fondatori, scomparve prima dello scoppio della guerra, nel 1939; Vittorio Emanuele Orlando, che fece parte dell’Assemblea costituente, morì nel 1952; Donato Donati nel 1946; Santi Romano nel 1947; Ugo Forti nel 1950; Oreste Ranelletti nel 1956; Umberto Borsi nel 1961; nel 1964, invece, scomparve Zanobini, che era stato il più noto amministrativista degli anni Trenta). Invece la generazione più giovane di studiosi del diritto amministrativo (Massimo Saverio Giannini, Giovanni Miele, Aldo M. Sandulli, Mario Nigro, Feliciano Benvenuti) prese le distanze con molta nettezza rispetto al metodo tradizionale (che aveva condotto al formalismo e al positivismo, nonché alla chiusura disciplinare), dando luogo a un vero e proprio processo di rinascita del diritto amministrativo in Italia.
In coincidenza con la fine della Seconda guerra mondiale, Giovanni Miele (1907-2000), studioso fiorentino allora non ancora quarantenne ma già autore negli anni Trenta di opere fondamentali, pubblicò un saggio intitolato Umanesimo giuridico («Rivista di diritto commerciale», 1945, 1, pp. 103 e segg.), che può essere considerato un vero e proprio manifesto metodologico, con il quale si sosteneva la necessità di un rinnovamento radicale degli studi di diritto pubblico. Miele sosteneva che
le scienze sociali, e quelle giuridiche in particolare, dovran perdere quel carattere astratto e formale che così bene ha favorito le varie tirannidi [evidente è la] discrepanza fra scienza giuridica e vita sociale, discrepanza che appare nella forma di un’inadeguatezza della prima a rappresentare e comprendere la seconda [una scienza] non tanto a servizio della società, quanto a servizio del ‘legislatore’, e quindi strumento di ogni e qualunque concezione che dai recessi di questo essere immateriale venisse a quando a quando espressa: strumento di bene o di male secondo che così fosse voluto dall’esigente padrone, e indifferente al bene e al male, perché essa non doveva parteggiare – quasi che il bene non sia la stessa vita, vita morale dell’uomo – ma mostrarsi obiettiva (pp. 445-46).
Quello di Miele era un lucido atto di denuncia nei confronti della generazione di studiosi del ventennio fascista che aveva colpevolmente contribuito alla conservazione di uno status quo sociale, attraverso un atteggiamento formalista di chiusura e di devozione strenua alla tradizione. La descrizione che egli forniva della scienza giuspubblicistica in epoca fascista era quella di
un naviglio in balia dei flutti [che,] per rimanere in qualche guisa a galla, è costretta a sbarazzarsi di tutte quelle idee sacrosante per cui il diritto tende a confondersi con la morale, a costituire una morale rafforzata dal potere sociale (pp. 449).
La soluzione da lui suggerita poggiava su tre capisaldi: salvezza della tecnica giuridica, perché il diritto richiede la padronanza di una fine tecnica; associazione alla tecnica dei valori universali che rinvengono la propria origine nella natura umana; conoscenza e utilizzo, da parte del giurista, dell’economia, della politica, della morale, perché, pur conservando la distinzione tra le discipline, esse riflettono tutte una realtà varia e unitaria.
Non sarebbe stato Miele, però, a dare attuazione a tale programma, poiché egli nel secondo dopoguerra avrebbe prodotto meno rispetto al periodo precedente, e per lo più opere di diritto costituzionale.
Sintomi di rinnovamento metodologico e di contenuti tematici, peraltro, si erano avvertiti già prima dell’entrata in guerra dell’Italia. Tra gli esempi di maggior rilievo vi fu la pubblicazione, nel 1940, della monografia Il procedimento amministrativo di Aldo M. Sandulli (1915-1984).
L’opera spostava l’attenzione degli studi sull’attività amministrativa dalla fase della decisione al momento di formazione e di istruzione della stessa. Per Sandulli il procedimento era fattispecie: dunque, contava il profilo formale-strutturale della nozione. Il fenomeno procedimentale, pertanto, era caratterizzato dall’effetto giuridico, derivante dalla completezza della fattispecie, con la conseguenza che nel diritto amministrativo contava il procedimento amministrativo nella sua interezza e non soltanto (come nel diritto privato) l’atto finale della procedura, il contratto. Non vi era, dunque, una prevalenza dell’atto finale sugli altri atti che componevano la fattispecie, ma anzi il realizzarsi dell’effetto giuridico derivava dalla paritaria collaborazione tra i diversi atti.
Questa prospettiva consentiva di compiere un enorme passo in avanti alla scienza del diritto amministrativo, poiché sul tema si passava, improvvisamente, dal quasi nulla a una vera e propria, articolatissima, teorica del procedimento amministrativo.
La monografia di Sandulli aprì la strada a un diverso, assai fecondo, genere di studi sull’attività. Se, nel corso della prima metà del Novecento, ci si era fermati, in chiave pandettistica, alla costruzione della teoria dell’atto, nella seconda metà si costruì, in un'ottica specialistica, attorno alle modalità di formazione dell’attività procedimentale.
Ma la più significativa presa di distanza rispetto al metodo tradizionale si ebbe con tre saggi pubblicati in rapida sequenza, tra il 1939 e il 1940, da Massimo Severo Giannini (1915-2000): le monografie Il potere discrezionale della pubblica amministrazione (1939) e L’interpretazione dell'atto amministrativo (1939) e il lungo articolo Profili storici della scienza del diritto amministrativo («Studi sassaresi», 1940, 2-3, pp. 133 e segg.).
Il volume sul potere discrezionale possedeva un potenziale dirompente rispetto alle tesi invalse sino ad allora; in esso, prendendo le mosse dalle ricadute teoriche della giurisprudenza del giudice amministrativo, si dimostrava la pluralità degli interessi pubblici e la necessità di una bilanciata attività di ponderazione dei diversi interessi in gioco, al fine di pervenire alla decisione amministrativa.
Chiave di volta delle prime teorizzazioni gianniniane, tuttavia, fu lo studio sull’interpretazione, attraverso il quale si esaminava il rapporto tra regola e interpretazione giuridica, evidenziando il ruolo di primo piano dell’interprete e, dunque, svincolando l’esercizio del potere amministrativo dalla stretta avvolgente del primato della legge.
Nello studio storico, infine, Giannini, compiendo un articolato bilancio sul percorso delle idee nel primo secolo e mezzo di vita della scienza del diritto amministrativo, tirava le fila, sotto il profilo storico e metodologico, di quanto ricavato nei due precedenti studi, evidenziando il notevole rilievo storico rivestito, per l’avanzamento del diritto amministrativo, dal metodo giuridico e dalla scuola italiana di diritto pubblico, ma rimarcando la necessità di una modificazione di rotta rispetto al passato, sotto il profilo del modo di studiare il diritto amministrativo, in stretta aderenza alla realtà politico-sociale e in piena armonia con le dinamiche storiche.
Si disegnava, in tal modo, la rotta che avrebbe condotto dallo statalismo totalitario al pluralismo democratico.
Una serie di eventi, intervenuti nei primi anni Cinquanta, segnò il passaggio a un periodo di rinascita per la scienza del diritto amministrativo, attraverso un percorso di allontanamento dal concettualismo della prima metà del secolo.
Nel 1950, Giannini pubblicò le Lezioni di diritto amministrativo, che costituirono uno «straordinario esperimento didattico» (Grossi 2000, p. 299): un corso di lezioni in cui, partendo dal dato positivo, si inquadrava quest’ultimo nel contesto storico e sociologico, evidenziando l’articolazione del quadro interpretativo, la molteplicità dei soggetti e delle interazioni, la dialettica tra autorità e libertà.
Nello stesso anno, Feliciano Benvenuti (1916-1999) pubblicò il saggio Eccesso di potere amministrativo per vizio della funzione («Rassegna di diritto pubblico», 1950, 1, pp. 1 e segg.), in cui l’uso non corretto del potere discrezionale era ricondotto al vizio della funzione integralmente considerata, e la versione provvisoria della monografia L’istruzione nel processo amministrativo (la stesura definitiva vide la luce nel 1953), nella quale si disegnava il peculiare ruolo del giudice amministrativo in sede di istruttoria processuale e il collegamento stretto tra azione amministrativa e dinamica del processo amministrativo. Nel 1952 pubblicò Appunti di diritto amministrativo, un'elaborazione della materia con finalità principalmente ‘architettoniche’, mirante a delineare un disegno armonico e complessivo del diritto amministrativo, e lo stesso anno uscì il fondamentale saggio Funzione amministrativa, procedimento, processo («Rivista trimestrale di dirito pubblico», 1952, 1, pp. 118 e segg.), volto a qualificare il procedimento come forma della funzione amministrativa.
Nel 1951, Zanobini fondò la «Rivista trimestrale di diritto pubblico», destinata a superare il sessantennio di vita e a raccogliere il meglio della produzione giuspubblicistica non monografica. Zanobini diresse la rivista nel corso dei primi anni, per poi lasciare la direzione agli allievi, Giannini e Miele.
Nel 1952, Sandulli pubblicò la prima edizione del Manuale di diritto amministrativo, un’opera che ebbe uno straordinario successo e che sostituì, nell’uso comune e nella didattica universitaria, il monumentale Corso di diritto amministrativo (1936, 6 voll., 8 tt.) di Zanobini. Quello di Sandulli fu l’ultimo riuscito tentativo di racchiudere in un’unica opera, con intento sistematico, il quadro complessivo della disciplina amministrativa.
Nel 1955, si svolse il primo convegno di Varenna sulla scienza dell’amministrazione (con relazioni, tra gli altri, di Giannini, Benvenuti e Gianfranco Miglio), che ripropose all’attenzione il problema della scienza dell’amministrazione e del suo ruolo. La scienza dell’amministrazione si impose quale scienza autonoma, di natura politologica, nel corso degli anni Sessanta, sotto l’egida accademica, in particolare, di Giannini e Benvenuti.
Nel 1956, infine, iniziò a svolgere la sua attività la Corte costituzionale, che avrebbe rivestito un ruolo di crescente rilevanza, nella seconda metà del secolo, per l’avanzamento del diritto amministrativo italiano.
Gli studiosi del diritto amministrativo di maggior rilievo dell’immediato secondo dopoguerra furono principalmente quattro: Giannini, Benvenuti, Sandulli e Nigro.
Giannini diede grande impulso agli studi di diritto amministrativo dell’epoca. Egli elaborò molte nuove fondamentali nozioni, quali quelle di Stato pluriclasse e di ordinamento sezionale e, soprattutto, contribuì all’abbandono dell’ottica zanobiniana del sistema, con l’emersione, in chiave ‘realistica’, dell’architettura della complessità. Con Giannini il diritto amministrativo diviene diritto plurale e corale, oggetto di scomposizione e irriducibile a sistema, potendo al massimo individuarsi una serie di ‘invarianti’. Giannini, come rilevato da Sabino Cassese (1971), «ha portato al massimo grado di sviluppo una tecnica ‘cubista’ che mira a fornire di una istituzione ‘l’image totale’».
Benvenuti fu il principale esponente del realismo ‘riformatore’. Le linee di fondo del suo pensiero erano tre: la necessità di superamento del centralismo statalista, la valorizzazione degli enti locali e dei corpi intermedi, la necessità di partire dal basso, in una visione sussidiaria del rapporto tra livelli di governo; la centralità delle funzioni amministrative nella costruzione dell’edificio amministrativo; la ‘democratizzazione’ del rapporto tra pubblica amministrazione e cittadino e, di più, la posizione di assoluta centralità del cittadino in seno all’ordinamento giuridico. Per Benvenuti, lo Stato nazionale rappresenta una soluzione contingente, rispondente alle esigenze di un’epoca e di una società storicamente determinate.
Il percorso di Sandulli si allontanò dagli studi diritto amministrativo a partire dalla fine degli anni Cinquanta, quando egli fu nominato giudice della Corte costituzionale, della quale divenne anche presidente. Sandulli improntò i suoi scritti a una ferrea logica e a uno stile diretto ed efficace, ma anche a una lettura liberale dei principi e istituti del diritto pubblico, mirante, innanzitutto, alla salvaguardia dei diritti individuali.
Il contributo di Mario Nigro (1912-1989) all’avanzamento del diritto amministrativo è legato in particolare agli studi di giustizia amministrativa e agli apporti in tema di attività amministrativa, in particolare per ciò che concerne la nozione sostanzialistica del procedimento e la necessità di garanzie procedimentali di tipo partecipativo. Il suo nome è legato alla presidenza della commissione ministeriale che elaborò negli anni Ottanta il progetto di legge sul procedimento amministrativo, divenuto poi la l. 7 ag. 1990 nr. 241.
Gli studiosi del secondo dopoguerra, pur avendo introdotto significativi elementi di novità sul piano dei contenuti e del metodo, non ruppero, per lo meno sul piano formale, il legame con la dogmatica giuridica.
Le trasformazioni si inscrivevano entro un quadro stabile: supremazia del potere pubblico, specialità del diritto amministrativo, giurisdizione amministrativa separata, sostanziale centralismo amministrativo costituirono la base su cui sedimentare il mutamento. Non vi fu, inoltre, un rivolgimento di metodo, ma la coniugazione del metodo giuridico con la consapevolezza storica.
Tuttavia, sul piano sostanziale la cesura ci fu, e significativa. Nozioni quali quella gianniniana di Stato pluriclasse e quella benvenutiana del procedimento come forma della funzione amministrativa non rappresentarono mere sintesi verbali, ma costituirono il grimaldello per scardinare dall’interno, spazzandole in via definitiva, le mitologie della prima metà del Novecento.
Mutavano in modo significativo, inoltre, gli oggetti dello studio del diritto amministrativo: l’economia pubblica e la programmazione economica, la finanza pubblica, i servizi pubblici, la questione meridionale, la questione regionale, l’organizzazione e i modelli organizzativi, il pubblico impiego.
Un profilo di continuità rispetto al passato fu rappresentato, invece, dal rapporto tra accademici e operatori del diritto (amministratori, avvocati, giudici).
In primo luogo, resistette una sorta di barriera tra il mondo dell'elaborazione teorica, di marca accademica, e quello della pratica forense e della prassi amministrativa. Il metodo giuridico non costituì un efficace ponte di collegamento con l’universo dei pratici.
In secondo luogo, anche in virtù dell’autorevolezza e della forte personalità dei maggiori giuspubblicisti dell’epoca, si conservò un rapporto di ‘soggezione’ della giurisprudenza nei confronti della cultura accademica, depositaria del ‘verbo’ scientifico. E ciò nonostante il Consiglio di Stato continuasse a rivestire fondamentale rilievo per l’ontogenesi del diritto amministrativo, attraverso la forza creativa della giurisprudenza pretoria. La funzione di produzione del diritto amministrativo per via giurisprudenziale, peraltro, mutò in modo significativo, nel secondo dopoguerra, poiché si passò da una ‘creazione fondante’ a una funzione creatrice ‘ordinatrice’, volta cioè a dare ordine all'ipertrofia del legislatore.
Tra la seconda metà degli anni Cinquanta e gli anni Sessanta, si verificarono tre tipi di trasformazione.
In primo luogo, iniziarono a mutare i parametri comparativi di riferimento. La maggior parte degli studiosi avvertiva ancora la forte influenza tedesca o, in alternativa, francese, ma si iniziava anche a guardare oltremanica. Significativa, per es., la prefazione di Giannini alla traduzione italiana (1969) dell’Administrative law (1961) di sir William Wade, senza dimenticare che il dibattito sulla scienza dell’amministrazione si era sviluppato, in particolare negli anni Sessanta, richiamandosi al processo di sviluppo intervenuto, nella prima metà del secolo, negli Stati Uniti. Dunque, all’ascendenza tedesca e francese, ancora prevalente, si andava affiancando, timidamente, quella di origine anglosassone.
In secondo luogo, dopo la chiusura tematica del ventennio fascista, con gli studi monografici concentrati sull’atto e sulla giustizia si dava nuovamenterespiro alla materia, esplorando nuovi territori, tornando a occuparsi di temi dimenticati, studiando temi classici da una prospettiva diversa rispetto a quella tradizionale.
Si pensi, per es., al rinnovato grande interesse per l’organizzazione amministrativa che, stabilita la centralità delle funzioni nel nuovo assetto del diritto amministrativo, acquisiva una fondamentale rilevanza strumentale. È significativo che il convegno di Varenna del 1958 avesse a oggetto proprio l’organizzazione amministrativa, e soprattutto che negli anni Sessanta venissero pubblicate fondamentali monografie sul tema. In particolare, oltre a quella di Nigro, Studi sulla funzione organizzatrice della pubblica amministrazione (1965), furono significative quelle di due allievi di Benvenuti: il saggio di Giorgio Berti La pubblica amministrazione come organizzazione (1968) e quello di Giorgio Pastori La burocrazia (1967).
I temi organizzativi uniti all’angolazione pluralista consentirono lo studio di nuove aree tematiche, come quella del coordinamento amministrativo, su cui resta importante lo studio monografico di Vittorio Bachelet, L’attività di coordinamento nell’amministrazione pubblica economica (1957).
In quegli anni, poi, fiorirono gli studi sui modi di intervento pubblico in economia, relativi alla programmazione economica, alle partecipazioni statali, alla tutela del credito. Su questi temi furono importanti gli studi monografici di Cassese (Partecipazioni pubbliche ed enti di gestione, 1962), Giuseppe Guarino (Scritti di diritto pubblico dell’economia e di diritto dell’energia, 1962), Vincenzo Spagnuolo Vigorita (Attività economica privata e potere amministrativo, 1962), Fabio Merusi (Le direttive governative nei confronti degli enti di gestione, 1964), Fabio Roversi Monaco (Gli enti di gestione, 1967). Sui servizi pubblici, poi, furono significative le riflessioni di Umberto Pototschnig (I pubblici servizi, 1964), che teorizzò la nozione oggettiva di servizio pubblico.
In tema di attività amministrativa, accanto agli studi tradizionali, si andarono sviluppando le primigenie riflessioni sugli accordi amministrativi e sull’attività di diritto privato dell’amministrazione, per es., con gli studi di Franco Ledda (Il problema del contratto nel diritto amministrativo, 1965).
Insomma, il quindicennio tra la metà degli anni Cinquanta e la fine degli anni Sessanta fu un periodo di sperimentazione e di annessione di nuove aree al diritto amministrativo.
In terzo luogo, e soprattutto, sviluppando le intuizioni di Romano, Giannini e Benvenuti, il diritto amministrativo era divenuto plurale, non più ridotto al semplicistico rapporto tra potere pubblico e libertà privata. La sua scienza si era liberata dell’impaccio formalista, per approdare al metodo realista.
Il suo primo obiettivo, nei primi due decenni del dopoguerra, fu quello di scomporre, sezionare, sottoporre a vaglio critico gli istituti dell’epoca precedente, ridefinirne i contenuti. Così, dalla pubblica amministrazione si passò alle pubbliche amministrazioni, dall’interesse pubblico agli interessi pubblici, dalla funzione amministrativa alle funzioni amministrative, e via dicendo.
Tuttavia, com'è stato rilevato, una volta operata la scomposizione non era più possibile procedere a ricomposizione, e questo comportava la perdita di orientamento del giurista. Con la pubblicazione dei due volumi del Diritto amministrativo di Giannini, nel 1970, l’obiettivo della scomposizione poteva dirsi conseguito. Occorreva volgere lo sguardo verso altri scopi e verso altri strumenti.
L’avvio degli anni Settanta costituì la prima significativa cesura dell’età repubblicana, connotata da due grandi fenomeni.
Da un lato, il fenomeno del decentramento, con l'istituzione delle regioni ordinarie, l’introduzione dei tribunali amministrativi regionali quali giudici amministrativi di primo grado, i primi tentativi di decentramento funzionale. Si accentuava, pertanto, il processo di graduale perdita, da parte dello Stato, della posizione di centralità rivestita nell’Ottocento e nella prima metà del Novecento.
Dall’altro lato il fenomeno dell’inflazione legislativa, per cui il legislatore continuava ad attribuire nuovi compiti alle pubbliche amministrazioni, con crescente complessità e articolazione dell’apparato e difficoltà di orientarsi nella miriade di norme amministrative.
Proprio in apertura di questo periodo venne pubblicato un corrosivo manifesto di trasformazione metodologica degli studi amministrativi, Cultura e politica del diritto amministrativo (1971) di Cassese, allievo di Giannini.
Questo libro, attraverso una ricostruzione storica della cultura giuspubblicistica italiana, denunciava le patologie del diritto amministrativo italiano e della sua scienza, indicando un nuovo percorso di ricerca per gli studi amministrativi: un ‘manifesto’ fondato sulla proposta di reintegrare il diritto amministrativo nelle scienze sociali e nella storiografia, di attenuarne la portata prescrittiva, di mettere il consenso al posto del comando; di aprire gli studi giuridici alle scienze sociali; di aprire alla cultura amministrativa dei Paesi anglosassoni; di applicare un vero metodo realista, attraverso la concreta ricognizione sul campo; di utilizzare nuovi strumenti d’indagine, non limitando l’analisi al mero dato normativo, ma valorizzando il ruolo della giurisprudenza, della soft law, delle analisi statistiche e di archivio; di utilizzare nuove tecniche di ricerca, sviluppando, per es., le ricerche di gruppo; di un impegno ideologico riformatore del giurista, sotto il profilo della politica del diritto; di produzione del diritto da parte di un giuspubblicista consapevole, in funzione di un chiaro progetto di sviluppo e di trasformazione della società.
L’intento era di decisa rottura metodologica rispetto al passato, e l’opera si collocava in posizione dialettica non soltanto rispetto alle generazioni di giuristi della prima metà del Novecento, ma anche rispetto alla generazione della rinascita degli studi, quella del secondo dopoguerra. Sotto il profilo della storia dell’amministrazione, poi, si affermava una nuova interpretazione, fondata sul ruolo svolto da alcuni grandi burocrati, sulla ‘scoperta’ delle amministrazioni parallele, sulla ricostruzione della continuità dello Stato amministrativo prima e dopo il fascismo, sul ruolo delle ‘voci di dentro’, sul posto occupato dalla ‘burocrazia della cifra’ (quella finanziaria e contabile) e dal governo della finanza pubblica.
Il cambiamento, peraltro, non avvenne in modo traumatico e repentino, come auspicato programmaticamente, ma, come sempre accade, si realizzò con dinamiche lente e graduali e con quella forte componente di attaccamento alla tradizione che sempre accompagna i processi di trasformazione. In realtà, come si è visto in precedenza, rispetto alla situazione di partenza la precedente generazione di studiosi aveva consentito alla scienza del diritto amministrativo di compiere significativi passi in avanti. Il giurista continuava a restare avulso rispetto al dibattito culturale nazionale, in posizione di sostanziale isolamento.
Nel periodo in esame, peraltro, si assistette a un passaggio deciso nella direzione della ricognizione accurata del campo di indagine. Nel ventennio che va dagli anni Settanta alla fine degli anni Ottanta, l’obiettivo fu quello di rinnovare l’oggetto degli studi e le tecniche d’indagine, attraverso un’analisi pluridimensionale delle istituzioni amministrative, al fine di comprendere, nella realtà concreta dei fatti, quale fosse l’effettiva estensione dei territori del diritto amministrativo e se non vi fosse, come poi effettivamente si rilevò, una sottovalutazione della rilevanza di taluni fenomeni amministrativi in evidente espansione e, viceversa, l’eccessiva concentrazione delle analisi su ambiti di materia recessivi.
Si trattò, dunque, principalmente di esplorare e di dissodare, senza la pretesa di compiutezza, ma anzi ponendo quale premessa metodologica l’incompiutezza. Se, nell’epoca precedente, erano cadute le mitologie, in quest'età erano poste in dubbio e, talvolta, venivano meno anche le invarianti.
Tali nuove modalità di studio implicavano due tipi di rischi.
Il primo, già presente per il precedente periodo, ma accentuatosi in questo, era quello del descrittivismo: in taluni studi, il realismo finiva per scadere nell’esegetica e nella mera descrizione della situazione normativa e, in caso di ricerche più approfondite, di documenti e dati, ma senza fornire un effettivo contributo interpretativo o propositivo all’avanzamento degli studi o comparare con gli elementi di contesto.
Il secondo, data l’asserita impossibilità di riduzione a sistema delle analisi, era quello della perdita di orientamento, della mancanza di una barra direzionale, che in passato era costituito proprio da una serie di invarianti di sistema. Una perdita di orientamento che sarà alla base dello straniamento e delle incertezze della successiva età.
Sotto il profilo dei modelli di ispirazione, sul piano comparato, si apriva più decisamente la strada alla comparazione con i Paesi anglosassoni (affacciatasi timidamente nell’epoca precedente), e in particolare con gli Stati Uniti.
Per quanto riguarda le aree di studio, l’orizzonte si ampliava ulteriormente rispetto al precedente periodo: soltanto per segnalare qualche esempio, si pensi a regioni, autonomie locali, programmazione, dirigenza, sanità, scuola, protezione sociale, finanza pubblica, contrattazione collettiva nel pubblico impiego, nonché ai modelli di organizzazione amministrativa, per non parlare degli strumenti del diritto pubblico dell’economia, in ordine ai quali fiorì un ricchissimo filone di studi. In generale, si acquisì consapevolezza che l’amministrazione di prestazione e di erogazione rappresentava una parte molto più consistente, sotto il profilo dimensionale, rispetto a quella d’ordine e autoritativa.
Temi classici erano esaminati sotto una nuova lente, quella del rapporto pubblico-privato e del ruolo attivo del privato nei rapporti con l’amministrazione: così accadde per beni pubblici, procedimento e processo amministrativo.
Si inaugurarono, inoltre, nuove aree di studio: per es., nel 1973, Giannini, con la consueta capacità di intuire i temi nuovi, pubblicava il primo saggio italiano in materia di tutela dell’ambiente (Ambiente: saggio sui diversi suoi aspetti giuridici, «Rivista trimestrale di dirito pubblico», 1973, 1, pp. 15 e segg.), cui seguirono altri scritti del medesimo autore e significativi saggi di Enzo Capaccioli (1919-1983). Quest'area di studi vivrà un’espansione inarrestabile soprattutto a partire dagli anni Novanta, conquistando una posizione di autonomia anche sotto il profilo dell’insegnamento universitario.
Proprio sotto quest’ultimo aspetto, la scienza dell’amministrazione acquisì piena autonomia, venendo riconosciuta quale branca di studi di area politologica.
Il diritto amministrativo italiano dell’età contemporanea è caratterizzato da due elementi principali.
In primo luogo, gli anni Novanta sono stati il decennio delle riforme amministrative. Il volto dell’amministrazione, che in passato aveva subito periodi di trasformazione molto lenta e graduale, è cambiato totalmente nel giro di una manciata di anni, sotto la spinta, da un lato, dell’integrazione europea e, dall’altro, della debolezza dei partiti politici nel corso della prima metà degli anni Novanta.
In secondo luogo, dopo il trattato di Maastricht (1992), il processo di integrazione europea ha subito una forte accelerazione, e le istituzioni europee sono divenute il motore della trasformazione del diritto pubblico in Europa. La crescente globalizzazione economica, inoltre, ha reso sempre più ‘liquido’ e instabile il quadro delle relazioni tra ordinamenti, istituzioni e società. Il diritto amministrativo è divenuto ormai, in gran parte, extrastatuale.
Conviene prendere le mosse dal contesto sovranazionale, che in fondo è alla base anche del processo di riforma amministrativa e istituzionale. L’europeizzazione degli studi di diritto amministrativo è oramai un fattore consolidato, non più posto in discussione (neppure dalle posizioni più tradizionaliste e conservatrici). Eppure il fenomeno dell’integrazione europea è stato colto con notevole ritardo dalla scienza del diritto pubblico italiano. Si pensi, per fare un esempio, che l’ultima pubblicazione di grande rilievo di Giannini, il volumetto Il pubblico potere (1986), ignorava completamente l’influenza del diritto comunitario. Dunque, anche un giuspubblicista raffinato come Giannini, che aveva sempre avuto un intuito felice nell’individuare i nuovi territori, non colse le enormi ricadute dell’integrazione funzionalista che all’epoca era già pienamente avviata (si era alle porte dell’Atto unico europeo del 1987, e la giurisprudenza della Corte di giustizia aveva già elaborato i principi fondanti del diritto europeo).
La gran parte della scienza giuspubblicistica è stata a lungo scettica nei confronti di tale sviluppo degli studi pubblicistici: i costituzionalisti hanno accumulato su questi temi un grave ritardo (condizionati anche dalle resistenze della Corte costituzionale alla spinta integrativa della Corte di giustizia europea); nel settore degli studi amministrativi vi è stata una maggiore capacità di cogliere le dinamiche del cambiamento, anche se, all'inizio, la via fu aperta da un piccolo gruppo di studiosi che si incamminò con decisione nell’esplorazione di questa nuova area di studi.
Oggi il diritto europeo permea praticamente tutti i settori del diritto amministrativo e, ormai, nessun tema di diritto amministrativo può essere affrontato dalla sua scienza senza prendere le mosse dal quadro comunitario.
Gli anni Novanta hanno costituito anche il periodo in cui si sono iniziate ad avvertire a pieno, in virtù dell’enorme sviluppo tecnologico, le conseguenze della globalizzazione economica e culturale, che hanno reso sempre più incerti e instabili i confini e i rapporti tra ordinamenti.
Si è sviluppato, a partire dall’ultimo decennio, un settore degli studi amministrativi, quello del diritto globale, che vede attualmente l’Italia in posizione di avanguardia. Si tratta, però, di evoluzioni troppo recenti e troppo poco consolidate perché si possano esprimere sul tema considerazioni più approfondite.
Nel periodo in oggetto, inoltre, hanno subito una notevole accentuazione anche gli studi di diritto amministrativo comparato, che hanno consentito una positiva circolazione delle idee e un processo di ibridazione e di cross fertilization.
Tra l’altro, l’emersione di studi europei e globali e l’incremento delle analisi comparative hanno posto il problema, importante e non più rinviabile, del rapporto tra la scienza giuridica italiana (in particolare quella del diritto amministrativo) e la comunità europea e internazionale degli studiosi di diritto pubblico.
Questa rappresenta, ormai, una comunità collegata e ramificata, a livello europeo e mondiale. Gli studiosi della materia dei principali Paesi europei pubblicano con continuità nelle maggiori riviste americane ed europee. Gli studi e gli studiosi italiani di settore sono, tranne alcune eccezioni, praticamente ignorati fuori dei confini nazionali, in virtù della tradizionale chiusura, dell’approccio provinciale e, soprattutto, del gap linguistico. Si tratta di un problema con il quale la scienza italiana del diritto amministrativo è chiamata a fare i conti.
Sotto il profilo della produzione scientifica più propriamente dedicata all’evoluzione in campo nazionale (con il caveat innanzi posto, ovviamente, circa l’impossibilità di affrontare qualsiasi tema nazionale senza occuparsi anche della dimensione europea), gli studi monografici si sono concentrati soprattutto nell’analisi dei processi di riforma intervenuti negli anni Novanta che, sostanzialmente, hanno finito tutti per investire la trasformazione del rapporto tra diritto pubblico e diritto privato.
Non vi è dubbio che il confronto tra pubblico e privato abbia costituito e costituisca tuttora il centro del dibattito scientifico. Questo tema pone, al fondo, la questione del tipo di amministrazione che si intende realizzare e del tipo di rapporto che si ritiene intessere tra cittadino, corpi intermedi, società e amministrazione: di qui gli studi sul passaggio dall’amministrazione fondata sul potere e soggetta al controllo di legittimità a quella fondata sulla prestazione e soggetta al controllo di risultato.
Sul tema, probabilmente, finisce per incidere, nel periodo in oggetto, anche una visione, per così dire, apologetica del privato, per cui si ritiene che basti procedere a privatizzazioni e liberalizzazioni per ottenere strutture più efficienti e per fornire attività e servizi migliori: il che non è, di per sé, scontato, in quanto gli strumenti e i modelli richiedono di essere adattati alle variabili storico-sociali ed economiche e al contesto ambientale e culturale.
Inoltre, è mitologia quella per cui il diritto dei privati sia sempre garanzia di parità e quello pubblico implichi prevaricazione: esistono posizioni di potere anche nei rapporti tra privati, così come, in taluni casi, possono esservi adeguate garanzie in seno al rapporto pubblicistico.
Va anche considerato, infine, che l’applicazione di istituti privatistici in ambiente pubblicistico ha prodotto fenomeni di ibridazione, per cui il contesto ha finito per determinare mutamenti sull’istituto originario, dando luogo al sorgere di una sorta di diritto comune, di diritto misto o di diritto privato speciale.
Ma anche in relazione a questi profili, il dibattito è ancora pienamente in corso, per cui occorrerà verificare gli sviluppi futuri.
La spinta riformatrice degli anni Novanta, che si è accompagnata all'ulteriore frammentazione e instabilità della disciplina normativa, ha acuito il clima di incertezza e di straniamento che aveva già investito la scienza giuridica nel periodo precedente, inducendola addirittura a prospettare la questione se la materia possieda ancora l’afflato vitale per conservare vita autonoma. Sembra poter prospettare la perdita di identità, per es., l’idea per cui non si possa più parlare di diritto amministrativo, ma si debba far riferimento semmai al diritto delle pubbliche amministrazioni.
Sicché, si può dire che la scienza italiana del diritto amministrativo riscontri l’esigenza, nell’età contemporanea, di ricomposizione del disegno complessivo del diritto amministrativo, al fine di riuscire a percepire quale sia il quadro d’insieme e di fissare una nuova rotta.
Si tratta, peraltro, di un’aspirazione alla ricomposizione di tipo diverso rispetto al passato, per la quale, com'è stato rilevato, non si può non tener conto del quadro prismatico, cangiante, polimorfo assunto dal diritto amministrativo. Come ha notato Luisa Torchia,
il punto di partenza del nuovo percorso sembra individuabile nell’abbandono del ragionar per modelli a favore della ricerca di principi e delle condizioni di applicabilità dei principi stessi. […] Ragionare per principi generali consente, infatti, di condurre il ragionamento in termini di compatibilità, piuttosto che in termini di supremazia e consente un temperamento tra i principi, e i valori che essi riflettono, senza imporre sempre e comunque un (predeterminato) ordine di priorità e gerarchia (2001, pp. 1129-30).
Negli anni Novanta è andato cambiando anche il ruolo del giudice amministrativo e si è affermata una funzione creativa di ordine ‘interstiziale’. Il mutamento di ruolo del legislatore nazionale, da produttore di leggi di dettaglio a produttore di leggi di principi, ha provocato un conseguente mutamento del ruolo del giudice. Tale legislazione di principi è spesso difficilmente comprensibile, se non la si guarda attraverso il prisma dell’interpretazione giurisprudenziale. L’abbondanza normativa consente ‘rilanci’ continui tra Consiglio di Stato e legislatore ufficiale, dal momento che schiere di consiglieri di Stato scrivono norme di legge, approvate dal Parlamento, le quali vengono poi sottoposte al vaglio giurisprudenziale, dando spesso l’avvio a un nuovo movimento circolare.
In epoca contemporanea è profondamente cambiato anche il rapporto tra giudice-scienziato e accademia. La moltiplicazione del numero dei professori ordinari e l’accresciuta autorevolezza del Consiglio di Stato nel ruolo di fucina di grands commis ha fatto sì che i giudici amministrativi si siano svincolati dalla condizione di soggezione nei confronti della produzione scientifica accademica, trasformandosi essi stessi in soggetti attivi nell’impegno di costruzione teorica. Vi sono, oggi, molti manuali scritti da giudici amministrativi, finalizzati soprattutto alla preparazione ai concorsi, e molti studi monografici da essi elaborati, per la maggior parte di taglio pratico, ma alcuni anche con ambizione scientifica; vi sono scuole di formazione per la preparazione ai concorsi pubblici dirette da magistrati e perfino case editrici da essi create e dirette (questi ultimi due fenomeni, invero, sono assai discutibili).
In questo periodo di incertezza e di rapida trasformazione, si è notevolmente ravvivato il dibattito sul metodo.
Vi è chi – ispirandosi a studi neopandettistici, nuovamente in auge in Germania, soprattutto in campo privatistico – invoca il ritorno a uno stretto metodo giuridico.
Al tale proposito, è stato però evidenziato che gli steccati disciplinari e i confini tra materie e tra scienze sono separazione artificiali, e che la questione di metodo è una falsa questione; non esiste un solo metodo, ma una pluralità di metodi, nessuno valido o invalido a priori. Esistono soltanto problemi da risolvere, e il metodo si adatta al tipo di problema. Ovviamente, il giurista si occupa di problemi connessi al diritto, ma per affrontare questi, a seconda delle necessità, deve far uso del più vario strumentario e, talvolta, saper vestire panni diversi dai propri.
Nell’arco degli ultimi due secoli, e in particolare nel corso dell’età della democrazia costituzionale, il diritto amministrativo italiano ha compiuto un lungo percorso. Nato come diritto dello Stato, è ormai, in gran parte, diritto extrastatuale. Identificato con l’esercizio del potere pubblico, è divenuto, per lo più, attività di prestazione e di erogazione. Caratterizzato dalla specialità, opera sempre più spesso con strumenti privatistici e dà vita, in molti casi, a un diritto comune o misto, pubblico-privato.
Vi è chi individua in questi cambiamenti genetici il rischio di una possibile implosione del diritto amministrativo e della sua cultura.
Ma nel corso di questo tragitto, il diritto amministrativo ha dimostrato di possedere anticorpi per poter sopravvivere alle più intense trasformazioni e, anzi, per diffondersi anche in ambiti soltanto pochi anni orsono non contemplabili. Esso era inteso come un tutt’uno con la nozione di Stato moderno (essendo nato con questo) e non pensabile al di fuori. Oggi, vi è un diritto amministrativo europeo, attivo e dotato di capacità diffusiva, e si sta espandendo con rapidità l’area di azione del diritto amministrativo globale.
Sicché, sembra di poter prevedere che il diritto amministrativo e la sua cultura giuridica abbiano ancora molta strada da percorrere.
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