L’anno delle neuroscienze
Dalla scoperta dell’esistenza di un sistema linfatico nel cervello all’avvio di un maxi progetto internazionale per lo studio della morfologia dei neuroni, fino ai brillanti risultati nel campo delle interfacce cervello-macchina.
«Pensavo che il corpo umano fosse stato mappato e queste scoperte si fossero esaurite intorno alla metà del secolo scorso. Evidentemente non è così». Con queste parole Jonathan Kipnis ha commentato la sorprendente osservazione pubblicata il 1° giugno su Nature insieme ad altri immunologi e neuroscienziati dell’Università della Virginia.
Finora il cervello dei mammiferi era apparso sprovvisto di un sistema linfatico, tanto da essere definito ‘immunologicamente privilegiato’ e da lasciarci nel dubbio su come potesse ripulirsi. Era come se la casa dei nostri pensieri fosse stata costruita senza un impianto idraulico capace di trasportare fluidi e cellule immunitarie. Questi canali invece esistono: sono stati evidenziati con dei traccianti nel topo e ci si aspetta che i risultati siano replicati nell’uomo. «Si dovranno riscrivere i libri di testo», hanno chiosato i giornali internazionali. I vasi linfatici scoperti da Kipnis e colleghi stanno nascosti nelle membrane che avvolgono il cervello, le meningi: per la precisione si trovano in corrispondenza della parte più esterna, la dura mater. Grazie a loro il fluido cerebrospinale viene trasportato dal cervello fino ai linfonodi cervicali profondi.
Nessuno li aveva notati, probabilmente perché una delle prime cose che si insegna agli studenti di medicina è come rimuovere le meningi per osservare l’architettura cerebrale. In pochi si soffermano a studiare la carta che avvolge un pacco, se dentro c’è uno degli oggetti più complessi e affascinanti dell’intero universo. I
ricercatori statunitensi se ne sono accorti grazie a una nuova tecnica che ha consentito di montare le meningi di topo su un singolo supporto e di esaminarle nella loro interezza. Le prime osservazioni al microscopio, quindi, sono state convalidate da una serie di test con marcatori. Questa scoperta di anatomia, probabilmente, aprirà la porta ad altre scoperte di fisiologia e, chissà, a una migliore comprensione delle malattie del sistema nervoso che hanno una componente immunitaria, come la sclerosi multipla. Le nuove conoscenze sul drenaggio del cervello potrebbero aiutare anche la ricerca sul morbo di Alzheimer, che è caratterizzato dall’accumulo di placche amiloidi nel tessuto cerebrale. È possibile che a questo processo neurodegenerativo contribuisca un sistema di vasi linfatici difettoso.
Nonostante gli straordinari progressi compiuti in anni recenti, resta molto lavoro da fare per mappare nei dettagli la struttura del cervello e comprenderne il funzionamento. Nel 2015, per esempio, si è aggiunto un altro tassello al mosaico che illustra come riusciamo a conoscere la nostra posizione nello spazio, una funzione cruciale per la sopravvivenza. Si tratta del filone di ricerca che l’anno precedente aveva portato il Nobel per la fisiologia o la medicina nelle mani dei coniugi Edvard e May-Britt Moser, per la scoperta del ‘sistema di navigazione’ contenuto nella corteccia entorinale, vicino all’ippocampo. La stessa coppia di ricercatori dell’Università di Trondheim, in Norvegia, ha completato il quadro identificando dei neuroni che si attivano più o meno intensamente a seconda della velocità di movimento dell’individuo. L’esperimento anche questa volta è stato eseguito sui topi, ma tutto lascia credere che questa sorta di velocimetro funzioni anche per le persone.
Nell’era dei grandi progetti internazionali (lo Human brain project europeo e la Brain Initiative americana) le neuroscienze si preparano ad affrontare le sfide più ambiziose: c’è chi cerca di simulare il cervello umano in un super-computer e chi spera di svelare come la collaborazione di reti neurali si traduca in pensieri e azioni.
Paradossalmente però non sappiamo ancora quante e quali classi di neuroni ci siano nel cervello e mettersi d’accordo non sarà facile. L’opera di catalogazione è iniziata nell’Ottocento e oggi sappiamo che i neuroni possono avere strutture molto diverse. Ci sono gli stellati e i piramidali, per esempio, ma è probabile che molte cellule nervose abbiano conformazioni che ancora non conosciamo. A rimediare ci penserà il catalogo BigNeuron, annunciato a marzo dall’Allen institute for brain science di Seattle. Servirà a produrre la descrizione minuziosa di decine di migliaia di singoli neuroni della nostra e di altre specie. Ma prima ancora metterà alla prova gli algoritmi sviluppati per ricavare la complicata geometria tridimensionale di queste cellule a partire dalle immagini bidimensionali al microscopio. Un’impresa più facile a dirsi che a farsi. L’arsenale tecnologico a disposizione dei ricercatori è in continua crescita. La microscopia a espansione, descritta nel 2015 su Science, consente di espandere il tessuto cerebrale di 5 volte lasciando le posizioni relative dei componenti sostanzialmente intatte, regalando una super-risoluzione anche ai microscopi convenzionali. Fino a poco tempo fa si poteva monitorare l’attività di pochi neuroni per volta, impiantando un elettrodo in corrispondenza di ciascuno. La risonanza magnetica ha spalancato la visuale sull’intero cervello, ma quello che mostra sono i livelli di ossigeno nel sangue, non l’attività elettrica. Le nuove tecniche si spingono oltre. Con l’optogenetica si possono accendere e spegnere in tempo reale i neuroni di animali che sono stati geneticamente modificati in modo tale da possedere cellule nervose sensibili alla lunghezza d’onda della luce: questo metodo, per esempio, è servito a marcare e manipolare le popolazioni neuronali che codificano i ricordi nel cervello di topo. Il calcium imaging, invece, colora i neuroni in cui i livelli di calcio aumentano in seguito agli impulsi nervosi, ed è stato utilizzato per visualizzare il cervello di pesce che ha la caratteristica di essere completamente trasparente nei primi giorni di vita. All’University college London si è già provveduto a combinare i 2 approcci nel topo, fotoattivando specifici gruppi di neuroni e osservando la loro reazione alle stimolazioni grazie a molecole fluorescenti sensibili alla concentrazione di calcio.
Il 2015 delle neuroscienze, insomma, è trascorso tra il richiamo all’umiltà della tassonomia neuronale e l’alto indice di spettacolarità della registrazione di interi cervelli in funzione (whole-brain recording).
Abbiamo brindato alla concretezza dei risultati nel campo delle interfacce cervello-macchina con Erik G. Sorto, il primo tetraplegico che è riuscito a bere da un bicchiere muovendo un arto robotico con la forza del pensiero.
Ma siamo anche rimasti spiazzati da risultati fantascientifici e forse un po’ distopici. Si pensi ai cervelli di cavie messi in rete tra loro (brainet) da Miguel Nicolelis della Duke University, per aumentarne il potenziale computazionale ed elaborare dati per la previsione del tempo. Oppure si considerino le memorie felici impiantate in topi depressi da Susumu Tonegawa del Massachusetts institute of technology. Dove vadano le ambizioni della ricerca e quanto impiegheranno per essere realizzate ha provato a metterlo nero su bianco Ralph Adolphs in un articolo per Trends in cognitive sciences: sulla scia dei famosi 23 problemi irrisolti della matematica, il ricercatore del California institute of technology ha stilato una lista dei 23 problemi irrisolti delle neuroscienze. La mappa completa dei circuiti neurali del topo (70 milioni di neuroni) potremmo averla nei prossimi 50 anni, azzarda. Quella del cervello umano (80 miliardi di neuroni) chissà quando. Perché siamo ciò che siamo, forse, non lo capiremo mai.
Neuroni della velocità scoperti dai coniugi Moser
I coniugi norvegesi Edvard e May-Britt Moser hanno ricevuto nel 2014 il Nobel per la fisiologia o la medicina per aver indagato il sofisticato sistema di posizionamento presente nel nostro cervello che ci permette di orientarci nello spazio e di memorizzare i nostri percorsi.
Quest’anno hanno approfondito la loro ricerca identificando nell’ippocampo alcuni neuroni che si attivano più o meno intensamente a seconda della velocità di movimento dell’individuo. Gli esperimenti condotti hanno dimostrato che questi neuroni sono caratterizzati da una risposta proporzionale alla velocità di marcia e non sono influenzati dalle informazioni visive sullo spazio in cui ci si trova e dalla direzione in cui ci si muove. Il prossimo obiettivo dei 2 studiosi sarà quello di individuare precisamente l’area cerebrale nella quale avviene l’integrazione fra le informazioni di movimento fornite da questi neuroni e quelle relative alla localizzazione spaziale fornite dagli altri neuroni.
BigNeuron: l’enciclopedia dei neuroni
BigNeuron è il progetto annunciato a marzo 2015 dall’Allen institute for brain science di Seattle, che mira a produrre un primo, provvisorio, database delle varie morfologie dei neuroni umani non trascurando però quelli relativi alle altre specie animali: insetti, pesci o topi. Si tratta inizialmente di individuare i migliori algoritmi che, partendo dalle immagini microscopiche bidimensionali, siano in grado di ricostruire la complessa struttura ramificata tridimensionale che caratterizza queste cellule e che è responsabile del modo in cui l’informazione viene in esse processata e trasmessa nella loro attività elettrochimica.
Il catalogo, in continua evoluzione, sarà di fatto una ‘enciclopedia’ open access e già a partire dal 2016 saranno disponibili i primi suoi ‘volumi’. Che il lavoro sia imponente e sconfinato lo affermano gli stessi studiosi che partecipano all’iniziativa, i quali si dicono convinti che in realtà esistano molti tipi di neuroni che non sono ancora mai stati descritti e che le stesse classificazioni fatte in precedenza potrebbero essere letteralmente spazzate via grazie alle nuove conoscenze sviluppate per mezzo di BigNeuron.
La parola
- Optogenetica
L’idea di base delle ricerche optogenetiche è quella di studiare la funzione dei singoli geni in soggetti nei quali quei geni stessi siano stati preventivamente modificati in modo tale da poterli attivare o inibire con la luce.
Microscopi più potenti grazie ai pannolini
L’acrilato, il materiale contenuto nei pannolini da neonato per renderli più assorbenti, viene utilizzato in questa innovativa tecnologia per espandere i tessuti da esaminare. Normalmente sono i sistemi ottici dei microscopi a ingrandire il campione da esaminare sfruttando le leggi fisiche, ma stavolta la logica viene ribaltata, ed è un processo chimico a ingrandire il campione, migliorando fino a 5 volte la risoluzione. Con l'aggiunta d'acqua infatti l'acrilato si gonfia, e con esso i tessuti trattati. Le proteine evidenziate da molecole fluorescenti si distanziano diventando più facilmente osservabili, ma senza cambiare orientamento o tipo di connessione con le strutture vicine. Nelle immagini in basso, a sinistra, il tessuto cerebrale di topo osservato attraverso un microscopio tradizionale e, a destra, attraverso uno a espansione: in questo caso è stato possibile visualizzare le singole sinapsi (riquadro bianco) determinando la distanza tra 2 proteine che si trovavano alle opposte estremità, con la stessa accuratezza di un microscopio a super risoluzione. La ricerca, coordinata da Edward Boyden del Massachusetts institute of technology, è descritta su Science (per cortesia Ed Boyden, Fei Chen, Paul Tillberg/MIT).
La neuroprotesi che permette di comandare con il pensiero un braccio robotico
Erik G. Sorto, oggi 34enne, rimase paralizzato dal collo in giù all’età di 21 anni a causa di un colpo di pistola che gli provocò un irreversibile danno al sistema nervoso centrale. Nel 2013 ha ricevuto l’impianto di 200 microelettrodi nella corteccia parietale posteriore, un’area deputata alla formulazione dell'intenzione di effettuare un movimento. Una novità rispetto ad altri pazienti tetraplegici che in precedenza avevano invece ricevuto l’impianto dei microelettrodi direttamente nell’area cerebrale che controlla il movimento, la corteccia motoria.
Il team di medici della Caltech, del Keck Medicine della USC e del Rancho Los Amigos national rehabilitation center (USA) che ha effettuato l’innovativa sperimentazione ha riscontrato il fatto che i gesti di Erik trasmessi al braccio robotico sono risultati più naturali e fluidi rispetto agli altri pazienti con impianti nella corteccia motoria, nei quali si sono sempre evidenziati movimenti rallentati e a scatti.