L’antico regime: tradizione e rinnovamento
Per chi non avesse familiarità con le periodizzazioni abitualmente impiegate dalla storiografia, l'espressione ‘antico regime’ potrebbe apparire bizzarra e oscura. In effetti, il senso di essa trae luce dalla cultura che l’ha generata: la cultura della Rivoluzione, che nella Francia di fine Settecento intendeva segnare una brusca cesura fra il ‘prima’ e il ‘dopo’, fra l’ordine nuovo, da essa instaurato, e il regime precedente, che essa etichettava (e condannava) come ancien.
Possiamo prendere per buona la periodizzazione suggerita dai protagonisti della Rivoluzione? La risposta può essere affermativa solo a patto di essere consapevoli del carattere approssimativo e indicativo di quella scansione cronologica, di lasciar cadere il giudizio di valore e di introdurre avvertenze che complichino una troppo facile dicotomia. La contrapposizione fra il ‘vecchio’ e il ‘nuovo’, fra l’Europa antecedente e l’Europa successiva alla Rivoluzione, non è così netta come Mirabeau sembrava credere: sarà Alexis de Tocqueville a mostrare magistralmente le continuità soggiacenti nonostante lo spartiacque del 1789. Se poi ci interroghiamo non sul momento terminale del regime ‘antico’, ma sul suo inizio, il quadro è ancora meno nitido: è infatti ragionevole riconoscere nella Rivoluzione, se non una cesura ‘assoluta’, almeno una frattura di indubbia rilevanza, ma è assai più problematico individuare l’atto di nascita del mondo travolto dalla Rivoluzione. Se per gli uomini della Rivoluzione il regime ancien era una realtà unitaria e omogenea, che premeva respingere in blocco, per l’odierna storiografia è essenziale soppesare e calibrare le persistenze e le trasformazioni intercorse in un così lungo arco di tempo.
È in questa prospettiva che può aver senso mantener ferma la distinzione fra due tranches storico-temporali, cui corrispondono due specifiche ‘sezioni’ del nostro volume: il Medioevo e l’antico regime. Conviene introdurre questa distinzione a patto di assegnare a essa non un valore ‘ontologico’ ma una funzione operativa: la funzione di richiamare l’attenzione sui mutamenti che investono l’Italia e l’Europa nel graduale avvicinamento (se vogliamo usare un’altra espressione tanto evocativa quanto problematica) alla ‘modernità’. L’antico regime si presenta appunto come un viluppo di persistenze e di innovazioni particolarmente difficile da districare e da risolvere in una caratterizzazione unitaria.
È peraltro evidente il carattere convenzionale e strumentale di qualsiasi periodizzazione, che assume valenze diverse a seconda dei fenomeni cui viene riferita: se guardiamo alla scoperta del Nuovo mondo e al trauma culturale provocato dal contatto con culture radicalmente ‘altre’ (oppure alla ‘rivoluzione scientifica’ del Seicento, oppure ancora alla frantumazione della respublica christiana sotto l’urto della Riforma), dobbiamo registrare fratture e mutamenti di portata epocale; se invece prendiamo in considerazione la dimensione giuridica dell’esperienza, le novità non mancano, ma è rilevante anche il peso delle persistenze; e diviene di conseguenza particolarmente intricato il viluppo (delle discontinuità e delle continuità) che lo storico è chiamato a districare.
Valgano, a riprova, due riferimenti. Un tratto caratteristico delle società europee, in un lunghissimo arco di tempo (che dal più profondo Medioevo arriva alla Rivoluzione, in Francia, e addirittura lambisce l’Ottocento in altre zone dell’Europa continentale), è la loro struttura cetuale: i diritti e i doveri degli individui dipendono dal loro status e non esiste ancora quell’unitario ‘soggetto-di-diritti’ destinato a dominare lo scenario otto-novecentesco. Non senza ragione dunque si è parlato di un ‘lungo Medioevo’: di un Medioevo che (sul terreno dell’organizzazione socio-giuridica) coesiste con la prorompente ‘modernità’ delle scoperte scientifiche e delle filosofie giusnaturalistiche. Nel medesimo arco di tempo (compreso, approssimativamente, fra il 16° sec. e le rivoluzioni di fine Settecento), tuttavia, e proprio nell’ambito dell’esperienza politico-giuridica, si sviluppano anche processi destinati a sfociare, attraverso lente e progressive sedimentazioni, in una struttura organizzativa di rilevante novità: lo Stato; quello Stato che chiamiamo moderno per sottolineare l’originalità di quella forma istituzionale destinata a trionfare nell’Otto-Novecento.
È un siffatto intreccio di continuità e di innovazioni che lo storico dell’antico regime (lo storico – se preferiamo ricorrere a una formula diversa – dell’Italia e dell’Europa proto-moderna) è chiamato a decifrare. Non è casuale dunque, ma risponde a una precisa necessità euristica, il fatto che i saggi ospitati in questa sezione si impegnino – ciascuno a suo modo – nel farci intendere, al contempo, i tanti legami che la società e la cultura giuridica italiana intrattengono con il passato e le consistenti innovazioni che esse non mancano di presentare.
La geografia politica medievale può essere raffigurata come un complicato arcipelago di isole di svariatissime dimensioni e caratteristiche: un’impressionante molteplicità di ordinamenti, gelosi della loro autonomia, refrattari a essere ricondotti a centri di potere sovrastanti. Certo, le grandi monarchie – per es., la monarchia francese – si impegnano precocemente nel tentativo di affermare e rafforzare il potere eminente del sovrano. Siamo però di fronte a istanze che impiegheranno molto tempo, non dico per travolgere ogni resistenza, ma anche soltanto per tradursi in interventi mirati e consistenti e trovare sostegno ed espressione nella cultura del momento.
In Francia, già nella seconda metà del Cinquecento Jean Bodin mette a punto un’immagine dell’ordine politico-giuridico che trova il suo punto di equilibrio e la sua condizione di unità nel vertice sovrano: il distacco dalla tradizione è netto, anche se Bodin, per un verso, sviluppa la sua teoria appropriandosi creativamente del sapere giuridico medievale, mentre, per un altro verso, non tanto ‘fotografa’ una realtà già compiuta, quanto mette a fuoco una tendenza destinata a rafforzarsi nel futuro.
Nella penisola italiana i profili appaiono più confusi e incerti, tanto da rendere comprensibile l’impiego di uno schema ricostruttivo, per lungo tempo privilegiato dalla storiografia giuridica, incline a presentare lo ius commune (il frutto del lavoro interpretativo e creativo portato avanti dai giuristi in un arco di tempo che dalla ‘riscoperta’ del Corpus iuris arriva fino alle codificazioni sette-ottocentesche) come il vero e proprio tessuto connettivo della società, a fronte della debolezza strutturale degli ordinamenti (cosiddetti) ‘particolari’.
In realtà, basta scorrere i saggi presenti nel nostro volume per rendersi conto dell’eccesso di semplificazione imputabile a uno schema siffatto ed essere introdotti a una rappresentazione più complessa dell’Italia cinque-seicentesca. In essa, certo, il sapere giuridico di origine medievale continua a svolgere un ruolo importantissimo (nei tribunali, nelle università), ma, da un lato, va incontro a consistenti trasformazioni, mentre, dall’altro lato, viene sempre più attratto nell’orbita dei nuovi centri di potere, che agiscono, con crescente determinazione, in molteplici direzioni per rafforzare la loro struttura e incrementare la loro capacità di intervento e di governo.
Anche se nella realtà italiana la formazione dei cosiddetti Stati regionali procede con tempi e modalità diverse rispetto al modello francese, non per questo viene meno l’attivazione di strategie volte a valorizzare l’autonomia e la compiutezza dell’ordinamento. Viene comunque al pettine il nodo della sovranità e si moltiplicano di conseguenza gli interventi che mirano a rafforzare (sul piano sia strutturale sia simbolico) il ruolo e il potere del ‘centro’. Il sovrano tenta di incrementare la quantità e l’incisività dei suoi interventi legislativi e si fa promotore del coordinamento e della razionalizzazione delle fonti normative: lo ius municipale o patrium diviene una base normativa di crescente rilevanza e aumenta di conseguenza la differenziazione fra i diversi ordinamenti politici.
La cultura politico-giuridica italiana non manca di registrare questo fenomeno e anzi concorre alla sua comprensione e alla sua evoluzione con contributi che, lungi dal restare condannati a una circolazione ‘locale’, godono di una fama europea, proprio perché esprimono efficacemente una tendenza caratteristica dello ‘spirito del tempo’. Si pensi alla teorizzazione della ‘ragion di Stato’ e alla fortuna del suo maggiore corifeo (non a caso buon conoscitore della situazione francese), Giovanni Botero.
La posta in gioco non è la celebrazione retorica del potere sovrano. Viene piuttosto compiuto il tentativo di individuare principi e regole di comportamento capaci di razionalizzare, e rendere più efficace, l’azione ‘governante’ del sovrano. In questa prospettiva, il diritto si propone come strumento di un disciplinamento che, per un verso, si sprigiona ‘dal basso’, è immanente alla dinamica stessa degli attori sociali, ma, per un altro verso, si intreccia con le strategie di governo del sovrano.
Certo, i teorici della ragion di Stato (come peraltro aveva fatto Bodin) colgono e sottolineano alcuni profili (forse i profili più nuovi e originali) di una realtà che, in Italia, mantiene rilevanti collegamenti con il passato; una realtà che conosce un’evoluzione non difforme, quanto alla sua ultima direzione di senso, da analoghi fenomeni transalpini (e segnatamente francesi), ma conserva al suo interno la durevole impronta di quella ‘forma-città’ che, secondo l’illuminante espressione usata da Carlo Cattaneo nel titolo di un suo celebre saggio, costituisce il «principio ideale delle istorie italiane».
È sullo sfondo di un pluralismo accentuato (di una fitta rete di comunità, territori, poteri signorili, in difficile equilibrio e in perpetua tensione) che occorre collocare il lento formarsi di una ‘statualità’ che, se per un verso si vuole capace di governare e disciplinare i soggetti e si adopera per disporre di un insieme il più possibile coerente di strumenti giuridici adeguati a questo scopo, per un altro verso continua a muoversi nell’alveo determinato dall’idea ancora schiettamente medievale di iurisdictio: che evoca non già una specializzata e autonoma funzione giurisdizionale, ma l’immagine onnicomprensiva di un ‘potere’ che trova nel dicere ius la sua più rilevante (ma certo non unica) espressione.
L’amministrazione, dunque, stenta a emergere come l’espressione inequivocabile di una ormai ‘moderna’ statualità. E tuttavia nel corso del 17° sec., pur fra le maglie della persistente rete di iurisdictiones (e con i vincoli che questo bagaglio ‘tradizionalista’ comportava), gli Stati regionali italiani perseguono l’obiettivo di un più diretto e capillare controllo dei soggetti. La ragion di Stato è un eloquente indizio di un progressivo mutamento di clima. Un’altra, fondamentale, riprova è offerta dall’evoluzione del diritto penale e processuale.
Il fenomeno che occorre tener presente sullo sfondo è il passaggio – messo a fuoco da Mario Sbriccoli in scritti di capitale importanza – da una giustizia ‘negoziale’ a una giustizia ‘egemonica’. Nella fase del nascente Comune cittadino è ancora dominante una logica dove i conflitti fra famiglie e gruppi sociali, che danno luogo a una lunga serie di duelli e vendette incrociate, trovano una loro provvisoria composizione non tanto nell’intervento autoritativo del magistrato, quanto in forme consensuali, ‘negoziate’, di risarcimento delle offese. È solo gradualmente che aumentano l’importanza e il ruolo del potere pubblico, investito del compito di tutelare l’ordine e di assicurare l’obbedienza al principe, individuando e colpendo i comportamenti (potenzialmente o apertamente) trasgressivi.
Il passaggio dalla giustizia ‘negoziata’ alla giustizia ‘egemonica’ non è una trasformazione lineare e continua; né mancano importanti sopravvivenze di logiche ‘negoziali’ anche quando la formula opposta ha preso il sopravvento. Certo è però che l’affermazione della giustizia ‘egemonica’ si presenta come un effetto e, al contempo, come un acceleratore del processo di costruzione di una nuova sovranità: l’attribuzione al principe di un potere eminente e ‘assoluto’ trova infatti uno dei suoi principali fondamenti di legittimazione nella funzione ‘protettiva’ che esso si impegna a svolgere nei confronti dei sudditi. L’obbedienza dei soggetti al principe ha come controprestazione la protezione offerta loro dal sovrano contro i nemici esterni e interni: diviene quindi vitale per il sovrano, sul piano dei simboli come sul piano della prassi, mostrarsi capace di scoprire e neutralizzare i ‘nemici interni’, i trasgressori, i criminali.
L’obiettivo prioritario è la tutela dell’ordine e lo strumento indispensabile è l’individuazione dei colpevoli che ne minacciano la sussistenza. Si rivela prezioso a questo scopo un modello processuale già da tempo messo a punto e sperimentato dalla Chiesa per affrontare e vincere la sfida dell’eresia: il modello ‘inquisitoriale’, dove il giudice gode di un’assoluta preminenza nella conduzione del processo e dispone di ampi poteri discrezionali che devono permettergli di scoprire la verità. È a questo modello che la prassi e la cultura giuridica cinque-seicentesca guardano per fare del processo criminale una delle nervature principali dei nuovi assetti politico-giuridici.
Certo, nemmeno su questo fronte mancano sopravvivenze del passato e tentativi di resistenza ai mutamenti: tentativi riconducibili (con una qualche semplificazione) all’auto-difesa delle ‘periferie’ nei confronti delle istanze centralizzatrici e razionalizzatrici del sovrano. E tuttavia la nuova criminalistica si afferma avvalendosi degli apporti di giuristi che non esitano a valorizzare la dimensione squisitamente ‘politica’, l’importanza strategica, del loro sapere: sono emblematiche in questo senso la personalità e l’opera di giuristi come Prospero Farinacci e Tiberio Deciani.
La criminalistica svolge dunque una doppia funzione nel processo di costruzione di una nuova sovranità: da un lato, sostiene il principe offrendogli preziosi strumenti di governo (dal controllo e dalla repressione dei conflitti alla denuncia dei complotti, dei tradimenti, delle sedizioni), dall’altro lato, collabora attivamente a quel processo di accentramento dei poteri e di razionalizzazione dei meccanismi giuridici così fondamentale da costituire la principale sfida che i nascenti Stati devono tentare di vincere.
Di questa complicata vicenda i giuristi sono non già spettatori ma attori, impegnati in ruoli molteplici e rilevanti: come consiglieri del principe, come giudici, come docenti nelle università. Il giurista gioca su tavoli diversi, ma collegati fra loro, e una delle sue principali carte vincenti è l’attitudine a costruire categorie, elaborare principi, introdurre distinzioni, insomma fornire alla politica del principe un’intelaiatura capace di sostenerla e di razionalizzarla. L’azione di governo, grazie all’intervento del giurista, diviene quindi, per un verso, più mirata ed efficace (è il sapere giuridico che promuove, per es., l’elaborazione della categoria del crimen laesae maiestatis e il suo impiego come formidabile strumento di repressione di qualsiasi, anche embrionale, forma di dissenso, civile o religioso), ma anche, per un altro verso, più ‘regolata’, ‘normata’, in qualche misura prevedibile (pur restando sempre aperta la valvola di sicurezza della ‘discrezionalità’, dell’‘eccezione’ resa possibile dall’infinita varietà delle contingenze).
Che il giurista metta il suo sapere e il suo saper fare a disposizione degli esistenti assetti di potere non è peraltro una novità: basti pensare al frequente coinvolgimento dei grandi giuristi medievali nelle istituzioni del Comune cittadino. Ciò che semmai si accentua gradualmente nella cornice degli ordinamenti politici cinque-seicenteschi è la gravitazione del giurista nella sfera del principe, anche se la molteplicità dei suoi ruoli (di docente, di teorico, di ‘pratico’) e l’orgoglio e l’interesse di ceto non mancarono di indurlo a una persistente valorizzazione dell’autonomia del ‘giuridico’.
Il giurista offre servigi preziosi al sovrano, intervenendo sui punti nodali della sua azione di governo. Il suo ruolo però non coincide con quello di consigliere del principe. Se infatti la dimensione politica o pubblica del sapere giuridico sollecita il giurista a stabilire un rapporto stretto e collaborativo con gli apparati di potere, il tratto specialistico o ‘tecnico’ di quel sapere gli garantisce comunque uno spazio di manovra specifico e inconfondibile. L’ambito di esperienza cui egli estende le sue competenze va molto al di là dei settori che la nascente centralizzazione del potere considera ‘strategici’. Il giurista interviene sulle più diverse aree della vita collettiva ed è al contempo capace di prestazioni professionali molto diversificate: può muoversi sul terreno della teoria, delineare una tavola di sofisticate definizioni e distinzioni, offrire una rappresentazione (che si vuole ‘vera’) dell’ordine e della sua intrinseca ‘razionalità’, oppure piegare il suo sapere alle esigenze della prassi (redigere consilia, offrire pareri a sostegno dell’uno o dell’altro interesse in conflitto), oppure ancora impegnarsi nel difficile lavoro di interpretazione e applicazione giudiziale del diritto.
Certo, la continua osmosi fra sapere e saper fare, fra ‘teoria’ e ‘pratica’, è un tratto ricorrente, in qualche modo costitutivo, del ‘giuridico’, ma ha una rilevanza peculiare nelle società di antico regime, dove i poteri pubblici non hanno la capacità (e in sostanza nemmeno l’intenzione) di regolare normativamente, ‘dall’alto’, ogni aspetto della vita collettiva. Il diritto, nell’Italia cinque-seicentesca, è ancora largamente improntato al modello del ‘diritto giurisprudenziale’. È il giudice la leva principale di cui l’ordinamento può disporre per ricondurre a unità una molteplicità di fonti eterogenee e settoriali; è nella sempre variabile e flessibile disciplina dei singoli ‘casi’ (affidata alla creatività dell’interpretatio giudiziale) che la dinamica sociale trova un suo assetto normativo.
Anche su questo fronte, dunque, il Medioevo è ‘lungo’, proprio perché il momento giurisprudenziale continua a presentarsi come lo snodo principale dell’esperienza giuridica. Ancora una volta, però, dobbiamo cogliere unitariamente la coesistenza di fenomeni diversi: la persistenza di un elemento strutturale – il ruolo centrale della giurisprudenza – ma anche le trasformazioni che investono l’attività giusdicente e la sua collocazione nel panorama politico-istituzionale complessivo.
Sono di notevole interesse, in questa prospettiva, la formazione e l’attività dei 'grandi tribunali'. È difficile pensare al diritto nell’Italia di antico regime senza fare riferimento al ruolo dei nuovi organi giudicanti che, nel corso del Cinquecento, vedono mutare la loro composizione rispetto ai ‘precedenti’ medievali, si ‘professionalizzano’ grazie al crescente, decisivo apporto del sapere giuridico e divengono istituzioni di primaria importanza (in Italia come fuori d’Italia).
Una novità – e un elemento di complicazione – nella configurazione dei grandi tribunali consiste proprio nel rapporto che viene instaurandosi fra questi corpi (specializzati e professionalizzati), investiti del compito di dicere ius, e il centro sovrano. Si tenga presente infatti che la grande scommessa che i nascenti Stati trovano di fronte è la riconduzione al vertice di una molteplicità di poteri tradizionalmente dispersi e autonomi: mira a questo scopo l’incremento degli interventi normativi del sovrano, ma ancora più importante (data la persistente impronta giurisprudenziale dell’ordinamento) è vincere sul fronte della giurisdizione la battaglia per l’accentramento. Se poi teniamo presente che l’immagine del principe come custode dell’ordine e della giustizia è uno dei simboli indispensabili per la legittimazione del suo potere, sarà facile intendere come le istituzioni impegnate nell’esercizio della funzione giurisdizionale siano valorizzate e, possibilmente, controllate dal sovrano.
Sono infatti frequenti e importanti gli esempi di organi giurisdizionali (come il Senato di Milano) dove i giuristi, pur chiamati a impiegare tutte le loro competenze ‘tecniche’, agiscono come membri di un’istituzione che si presenta come una diretta emanazione del potere sovrano (e svolge funzioni, al contempo, giurisdizionali e amministrative, in coerenza con l’antico, ma ancora vivo, significato di iurisdictio). Nemmeno in questi casi, tuttavia, il giurista-giudice è il passivo esecutore di ordini che provengono dall’alto: la padronanza di un complesso sapere specialistico, così come il senso di una forte identità di ceto, sollecitavano i giuristi a manifestazioni di autonomia che, latenti o implicite, erano comunque la radice di possibili tensioni nei rapporti con il centro sovrano. Non sempre e necessariamente, però, il grande tribunale è una diretta emanazione del potere del principe. Se ciò è vero per il Senato di Milano (e per altre istituzioni a esso analoghe), in altri casi l’indipendenza dell’organo giudicante è assai più netta: è quanto avviene con la creazione di tribunali che, sul modello della Rota fiorentina, svolgono un compito più strettamente giurisdizionale, nel quadro di una forte valorizzazione della competenza ‘tecnica’ dei loro membri.
Il funzionamento dell’ordinamento è condizionato da fattori – la presenza sempre più incisiva del potere politico, la rilevanza della dimensione giurisprudenziale, l’importanza ‘stategica’ del sapere giuridico – che fanno del giurista un personaggio socialmente e politicamente indispensabile, ma, al contempo, lo costringono a un delicato gioco di equilibrio fra la rivendicazione della propria autonomia e il coinvolgimento nella macchina del governo. In ogni caso, il sapere giuridico, lungi dall’essere l’esercizio di una ragione ‘contemplativa’, appare impegnato in una continua mediazione fra il tentativo di individuare i principi portanti dell’ordine e l’esigenza di offrire alla prassi, nei suoi risvolti più minuti, strumenti regolativi e schemi funzionali alla composizione dei conflitti.
Su entrambi i fronti (sul fronte della teoria come delle pratiche) il sapere giuridico cinque-seicentesco rivela notevoli capacità costruttive e innovative. Sul primo fronte, è attribuibile a un giurista marchigiano, Alberico Gentili – operante a lungo in Inghilterra e docente a Cambridge – un doppio merito: non soltanto di aver sostenuto tesi originali all’interno di una disciplina già costituita, ma addirittura di aver messo a fuoco un aspetto recente e trascurato di una realtà decisiva, contribuendo all’inizio di un nuovo ambito di sapere: Gentili è uno dei primi autori (insieme a Francisco de Vitoria e a Ugo Grozio) a tematizzare la sovranità ‘moderna’ studiandone le proiezioni ‘esterne’, candidandosi quindi a una posizione di rilievo fra i fondatori del ‘moderno’ diritto internazionale.
Pienamente consapevole dei profili della nuova organizzazione dei poteri che si veniva formando (sia pure in modi e tempi diversi) in Europa, Gentili affronta il problema della ‘guerra giusta’ in un’ottica che si lascia alle spalle la tradizione medievale e inclina a una visione ‘secolarizzata’ dello Stato e della guerra, il cui fondamento di legittimità non è più ricercato in una qualche valenza etico-religiosa, ma viene fatto coincidere con la decisione sovrana (è di Gentili il famoso monito «silete theologi in munere alieno», che rivendica l’autonomia, al contempo, della sovranità e del discorso politico-giuridico).
Se Gentili si occupa dell’ordinamento (e degli ordinamenti) in apicibus, interrogandosi sulle caratteristiche della nuova sovranità, altri giuristi si concentrano su pratiche apparentemente minute e ‘private’ (e tuttavia anch’esse di importanza decisiva), apportando contributi notevoli alla loro razionalizzazione e regolamentazione: è il caso del cosiddetto ius mercatorum. In questo caso, i giuristi cinque-seicenteschi hanno alle spalle una tradizione di indubbio rilievo, e tuttavia i loro interventi, lungi dal ripetere formule consolidate, sono consapevoli della nuova cornice politico-istituzionale e attenti a coniugare la razionalizzazione delle pratiche commerciali con la fisionomia che l’ordinamento sta gradualmente assumendo (a partire dal ruolo strategico rivestito dai grandi tribunali). È in questo quadro che occorre collocare il contributo di Benvenuto Stracca e di Giuseppe Lorenzo Maria Casaregi.
Casaregi, avvocato e giudice, impegnato ad armonizzare gli apporti della teoria con le esigenze della pratica, è sensibile alle istanze di una ‘secolarizzazione’ o ‘autonomizzazione’ dello ius mercatorum da risalenti presupposti etico-religiosi e si muove in sintonia con gli orientamenti di una cultura giuridica che, lungi dall’essere meramente ‘regionale’, ha un respiro e una circolazione europea. Siamo ormai molto lontani dagli interdetti medievali sugli interessi usurari. È un mondo nuovo, che sorge non tanto perché il giurista spezza bruscamente le maglie della tradizione, quanto perché le allenta e le dilata con interventi mirati e consapevoli. Ne è un indizio, tutt’altro che secondario, anche la scelta della lingua: la lingua largamente impiegata dal giurista è ancora il latino, ma ormai anche l’italiano fa la sua comparsa. Le ultime due opere di Casaregi (pubblicate nel 1720 e nel 1723) sono in italiano; e già cinquant'anni prima, nel 1673, aveva visto la luce la prima opera giuridica in volgare: il Dottor Volgare, di Giovanni Battista De Luca.
L’opera di De Luca ha goduto di una lunga e motivata fama: vi ha contribuito certamente la scelta linguistica (il cui rilievo ‘simbolico’ non deve essere sottovalutato), ma altrettanto importante è il messaggio che il giurista ha voluto indirizzare non soltanto agli ‘specialisti’, ma a un insieme più vasto ed eterogeneo di destinatari. È un messaggio che percorre la sua intera riflessione e reclama l’esigenza di mantenere un difficile, ma indispensabile equilibrio fra il richiamo della tradizione e il riconoscimento dei tempi nuovi. E a offrirsi come punto di equilibrio fra continuità e innovazione è proprio il diritto: il diritto come intelaiatura dell’ordinamento, la cui unità non può essere il mero prodotto della volontà sovrana; il diritto come strumento intrinsecamente razionale e come tale sorretto da una logica tendenzialmente autonoma. Consapevole della sua funzione di mediatore (fra la tradizione e l’innovazione, fra la logica potestativa del sovrano e la persistenza delle autonomie e delle ‘periferie’), il giurista di antico regime si propone come il detentore di un sapere e di un saper fare capaci di combinare la rappresentazione e la legittimazione di un assetto rigidamente gerarchico con la cauta apertura a forme ‘modernizzate’ e razionalizzate di governo dei soggetti.