L’antisemitismo
1. Nel 19° sec. il termine «semita» riguardava la linguistica e distingueva il ceppo dell’ebraico, dell’arabo o del maltese da quello «indo-europeo». Ma «antisemitismo» non designa un’ostilità contro i «semiti» in genere, bensì un odio specifico per gli ebrei. Oggi il termine «antisemitismo» ne richiama l’esito estremo: lo sterminio di sei milioni di ebrei sotto il dominio nazista in Europa (in ebraico Shoah, «catastrofe»).
A partire dalla fine del Settecento, con la Rivoluzione francese, i codici di Napoleone e l’affermarsi delle idee illuministiche sulla libertà e sui diritti civili, cambia la condizione degli ebrei dopo secoli di discriminazione e segregazione nell’Europa cristiana. Cadono le mura dei ghetti, ma le riforme democratico-borghesi e la Rivoluzione industriale non sono solo la fortuna, ma anche la condanna moderna degli ebrei che in quel contesto si emancipano. Quei rivolgimenti dissolvono il vecchio ordine sociale e agli occhi della massa sradicata e atomizzata gli ebrei appaiono, o sono indicati, quali profittatori di quella dissoluzione. In quanto capitalisti (come i Rothschild) o in quanto rivoluzionari (come K. Marx), essi appaiono operare dall’alto e dal basso per lo sradicamento delle strutture sociali e delle identità tradizionali e confessionali. E poiché gli ebrei come figura emblematica dell’emancipazione civile e religiosa sembrano trarre il più grande vantaggio dal cambiamento, ciò sembra dimostrare che ne sono i promotori e gli artefici; e se possono cambiare il mondo a loro vantaggio, ciò dimostrerebbe che il loro potere è immenso, e tanto più pauroso quanto più indimostrabile: è la leggenda del «complotto mondiale ebraico». La diaspora, ossia la dispersione degli ebrei in ogni Paese, il loro «mondialismo apolide», ha acceso l’immaginazione antisemita secondo cui la sofferta diffusione planetaria degli ebrei sarebbe spinta da una volontà di potenza dello stesso ordine di quella che ha animato gli espansionismi delle religioni e degli imperi: essa vi ha visto l’immagine speculare della propria volontà di espansione e se ne è sentita vittima potenziale.
L’antigiudaismo cristiano si secolarizza nell’antisemitismo laico: nell’immaginario, la straordinaria potenza teologica negativa che la tradizione cristiana attribuiva agli ebrei, in quanto «deicidi», cioè capaci di uccidere Dio nel Cristo, si secolarizza nella loro presunta potenza storica. L’accusa teologica si trasfigura in accusa politica: l’antisemita si proclama perseguitato dalla minoranza ebraica immaginata ultrapotente, e per «legittima difesa» la perseguita. Qui poggia l’aggressiva autocommiserazione del nazismo, del fascismo e infine dello stalinismo: «gli ebrei complottano contro di noi, contro i nostri valori e i nostri popoli». L’autocommiserazione della massa si rispecchia nell’autocommiserazione del potere, animando il cortocircuito demagogico tra massa e potere.
2. Nell’epoca dei nazionalismi e della formazione degli Stati moderni, l’antisemitismo è una funzione della «nazionalizzazione delle masse». La differenza ebraica, interna da secoli alle società europee, è immaginata come un ostacolo all’unificazione della nazione in un corpo omogeneo. Ricorre contro gli ebrei l’accusa di «doppia fedeltà», alla propria nazione senza Stato e allo Stato che bene o male li tollera. La denuncia dell’ebreo come straniero interno, alieno infiltrato e pericoloso, cosmopolita dissolutore dello spirito nazionale, catalizza la coesione nazionalistica, così come l’ostilità verso gli ebrei in quanto avversari teologici ha favorito la coesione confessionale nella cristianità. In questa logica, la coalizione tra integralismi cattolici, protestanti e ortodossi e integralismo nazionalistico è sistematica, dall’affare Dreyfus nella Francia di fine Ottocento alle stragi populistico-religiose (pogrom), fino al nazifascismo. Ne Das Unbehagen in der Kultur (1930, Il disagio della civiltà), S. Freud esponeva sinteticamente questo punto: «È sempre possibile – scriveva – riunire un numero anche rilevante di uomini che si amino l’un l’altro, fin tanto che ne restino altri su cui indirizzare l’aggressività». E proseguiva con ironia: «Il popolo ebraico, disperso per ogni dove, si è acquistato in questo modo meriti altissimi nei confronti dei popoli che lo hanno ospitato». Con ciò Freud pone tutta la complessità del problema: la persecuzione di un gruppo umano non è solo manifestazione dell’odio, ma è anche funzione dell’amore «fraterno» che i fomentatori dell’odio aspirano a instaurare reciprocamente. È questo doppio registro, di odio per l’altro per amare di più sé stessi, a rendere ogni forma di ostilità persecutoria particolarmente tenace. È la logica del branco in senso lato, che si coalizza grazie a una vittima sacrificale; è la funzione socializzante del «capro espiatorio», figura antropomorfa del negativo, su cui si scarica l’accusa e la punizione sociale, così da alimentare col suo sangue la fratellanza tra i persecutori e il loro pubblico.
3. Nelle società tradizionali gli ebrei erano generalmente costretti in ambiti territoriali e professionali limitati (il ghetto; il prestito di denaro e il riciclaggio dell’usato, funzioni esecrate eppure necessarie). Con la fine della segregazione, gli ebrei si diffondono in altri spazi e altre attività. L’antisemitismo demonizza l’irruzione concorrenziale degli ebrei in tutti gli ambiti lavorativi e nell’uso del territorio come un’invadenza aliena. L’antisemitismo è una reazione all’emancipazione e all’assimilazione ebraica. L’ebreo assimilato suscita l’ossessione dell’ebreo assimilante: che non si assimila al mondo, ma assimila il mondo a sé. Per l’antisemita l’assimilazione è un travestimento subdolo, volto a nascondere un’essenza immutabile. Se nell’immaginazione dell’epoca prende forma teorica l’idea di una «razza ebraica», è perché si cerca di delineare con criterio «scientifico», «zoologico», quanto stava svanendo della riconoscibilità esterna dell’ebreo.
Il razzismo europeo del 19° e del 20° sec. svolgeva due funzioni ideologiche: verso i popoli colonizzati il razzismo giustificava l’invadere territori altrui per «civilizzarli», mentre l’antisemitismo esprimeva la paura di essere invasi dagli ebrei, che, rotto l’involucro dei ghetti e acquisiti i diritti di cittadinanza, si espandevano «come per metastasi» nella società civile.
Tuttavia, il luogo comune che definisce l’antisemitismo come «ostilità al diverso» ne coglie sì l’aspetto generico che lo accomuna alla xenofobia e al razzismo, ma non la peculiarità. Se il razzismo è ostilità al diverso, l’antisemitismo è più propriamente ostilità al simile, o meglio alla contiguità deviante: deviante dalla norma comune, sociale e religiosa. E la devianza, percepita come somiglianza corrotta, è della pura diversità tanto più conturbante, specie se contigua: contiguità fisica; contiguità e concorrenza nell’eredità biblica dal punto di vista religioso; contiguità e concorrenza nella sfera economica e culturale, nella vita sociale e politica. L’accumulo simbolico proiettato nel corso dei secoli sull’ebreo come figura di una contiguità deviante e corruttrice conferisce all’antisemitismo il doppio registro del disprezzo e del timore. Soprattutto del timore: rispetto al razzismo in genere, animato dal disprezzo, specifica dell’antisemitismo è l’idea dell’ebreo come figura dotata di un’oscura e immane potenza. Solo se immaginato così potente, all’ebreo si possono ascrivere le più tremende responsabilità. Le fortune dell’antisemitismo stanno nella sua vocazione a «spiegare». La superpotenza è attribuita agli ebrei come causa che spiega il male sociale e storico.
4. Sullo sfondo scientistico dell’epoca in cui si è affermato, l’antisemitismo «laico» teorizzava un’essenza ebraica immodificabile perché «razziale», «biologica». Oggi, per ciò che ancora resta del tabù conseguente alla Seconda guerra mondiale sul razzismo conclamato, il criterio più diffuso per definire le differenze tra gruppi umani si è spostato dalla «natura» alla «cultura». In questo senso la giudeofobia postmoderna ha maggiori affinità con quella premoderna di stampo religioso che non con quella dell’antisemitismo moderno. La differenza culturale presenta infatti caratteri più affini alla differenza religiosa che non a quella «naturalistica» del razzismo classico.
Dopo lo sterminio nazifascista, nasce lo Stato di Israele nel 1948: le tragedie che lo precedono spiegano la solidarietà verso di esso radicata tra gli ebrei del mondo, ma non esimono moralmente lo Stato e la sua politica dalla critica, al pari di qualunque altro Stato o entità politica.
Nei fatti e nell’immaginario, lo Stato di Israele rappresenta in forma esplicita uno slittamento nella sfera politica dell’ebraismo in quanto tale.
Ora, l’antisemitismo ha sempre fantasticato di un preminente carattere politico dell’ebraismo (l’idea paranoica del «complotto ebraico per il dominio sul mondo»). E come l’emancipazione ebraica e la conquista politica dei diritti di cittadinanza si trovò di fronte alla reazione antisemita fino allo sterminio, così la conquista politica dell’autodeterminazione nazionale degli ebrei si trova ad affrontare oggi una reazione antisemita di nuovo crescente. Ciò ancor prima dei torti verso i palestinesi e delle ragioni di esistere di Israele, ma per il fatto stesso di percepire l’ebraismo in quanto tale come entità politica. Cosa che un tempo non era, se non nell’immaginario antisemita, e che ora in gran parte lo è di fatto per via di Israele in quanto entità politica. Ma se un tempo dall’antisemitismo scendevano sugli ebrei improprie imputazioni politiche, ora dalla legittima critica politica a Israele spesso risalgono improprie imputazioni antisemite verso gli ebrei in quanto tali.
Da molti decenni, la propaganda contro Israele nei Paesi islamici trascende appunto i criteri politici per diventare agitazione antiebraica. Si diffondono a larga tiratura testi classici dell’antisemitismo europeo, tra cui I protocolli dei saggi anziani di Sion, libello antisemita zarista, caro poi al nazifascismo e all’integralismo cattolico (di G. Preziosi, o di padre A. Gemelli, o dei regimi cattolici e filonazisti croati e slovacchi). Nell’attuale agitazione «islamista» si incrociano la condanna della prevaricazione di Israele sui palestinesi, la reazione antidemocratica e il vittimismo demagogico di regimi che sollecitano il consenso con l’indicare un nemico comune a masse e potere: l’antigiudaismo nei Paesi islamici sembra svolgere una funzione di nazionalizzazione e islamizzazione delle masse, analoga a quella svolta nei secoli scorsi nell’Europa cristiana.
5. Consideriamo due «complessi» che fanno da sfondo alla riflessione dell’Occidente su sé stesso e polarizzano il confronto tra destra e sinistra: l’uno è la responsabilità del colonialismo e dell’imperialismo, l’altro è Auschwitz e il razzismo teorizzato. Sono gli esiti barbarici della civiltà occidentale verso l’«altro» esterno e l’«altro» interno (gli ebrei o gli zingari). Ora, Israele si trova, di fatto e simbolicamente, all’incrocio di questi due complessi. Da un lato rappresenta il riscatto da Auschwitz, dall’altro il punto di impatto tra Occidente ricco e popoli già coloniali, sulla linea di faglia tra civiltà «biblica» e civiltà «coranica». Tramite gli ebrei e la loro storia tragica, Israele è percepito nell’ambito simbolico delle vittime; tramite Israele e la questione palestinese gli ebrei sono percepiti nell’ambito simbolico dei vincitori e del retaggio colonialistico. Così, la configurazione diaspora/Israele è presa nel vortice tra la commiserazione simpatetica dovuta ai deboli e ai perseguitati, e la severità e il risentimento dovuti ai forti e ai prevaricatori. E in questo groviglio destra e sinistra, e gli ebrei stessi, si inviluppano.
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