Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
L’antropologia culturale è la disciplina che studia la diversità dei modi di vita e di pensare nelle differenti società umane. Essa si consolida nei primi decenni del Novecento sulla base di una precisa direzione metodologica incentrata sull’osservazione partecipante compiuta durante lunghe permanenze sul campo. Gli antropologi, oltre a concorrere alla conoscenza di ciò che è comune e ciò che è differente nelle varie culture, contribuiscono ad affinare uno sguardo critico nei confronti delle nostre categorie di pensiero che, lungi dall’essere universali, sono anch’esse elaborate in specifici ambiti culturali.
Claude Lévi-Strauss
La struttura
Il principio fondamentale è che il concetto di struttura sociale non si riferisca alla realtà empirica, ma ai modelli costruiti in base ad essa. Risulta quindi chiara la differenza fra due concetti tanto vicini da essere stati spesso confusi, quelli cioè di struttura sociale e di relazioni sociali. Le relazioni sociali sono la materia prima impiegata per la costruzione dei modelli che rendono manifesta la struttura sociale. In nessun caso, quindi, quest’ultima può essere identificata come l’insieme delle relazioni sociali osservabili in una data società. Le ricerche di struttura non rivendicano una sfera propria, tra i fatti di società; costituiscono piuttosto un metodo suscettibile di essere applicato a diversi problemi etnologici, e assomigliano a forme di analisi strutturale in uso in campi differenti. [...] In primo luogo, una struttura presenta il carattere di un sistema. Essa consiste in elementi tali che una qualsiasi modificazione di uno di essi comporti una modificazione di tutti gli altri.
C. Lévi-Strauss, Antropologia strutturale, Milano, Il Saggiatore, 1966
L’antropologia culturale è la disciplina che si occupa dello studio delle società umane a partire dalla diversità dei modi di vita e dalla varietà culturale dei modi di pensare. L’antropologia culturale nasce nella seconda metà dell’Ottocento negli Stati Uniti e in Gran Bretagna, le due nazioni che, per motivi differenti, si trovarono a dover riflettere maggiormente sulla diversità culturale.
La società statunitense si è trovata, da subito, a considerare le varie “forme di umanità” esistenti sul territorio americano. La nascente antropologia culturale statunitense – Lewis Henry Morgan (1818-1881), Henry Schoolcraft (1793-1864) – orientò inizialmente lo studio sulla diversità culturale verso la “questione interna” degli Indiani. In Gran Bretagna, il consolidamento dell’impero attraverso una poderosa politica coloniale, determinò l’interesse di molti uomini di scienza – Edward Tylor (1832-1917), James Frazer (1854-1941) – nei confronti delle società “altre” (africane, polinesiane, orientali); inoltre, la particolare forma di gestione e amministrazione delle colonie britanniche (Indirect rule) favorì lo studio dei modelli di organizzazione sociale, politica e giuridica delle popolazioni indigene.
In entrambi i contesti (Stati Uniti e Gran Bretagna) il paradigma dominante dell’evoluzionismo fornì gli strumenti teorici per le indagini etnologiche e antropologiche basate su ampie comparazioni, determinando la costruzione di tipologie e classificazioni delle società e dei tratti culturali rinvenuti nei differenti “angoli di mondo”. Gli antropologi evoluzionisti di fine Ottocento sostenevano che tutte le culture umane dovessero seguire necessariamente una e una sola sequenza di sviluppo, tale sequenza va dallo stadio selvaggio a quello della civiltà. Alcune società si sarebbero “sviluppate” prima, altre sarebbero rimaste attardate su livelli evolutivi inferiori. Gli evoluzionisti, sulla base di questa idea semplicistica e convinti che il livello di sviluppo massimo fosse rappresentato dalla civiltà europea, contribuirono a giustificare la posizione dominante di quest’ultima sulle popolazioni colonizzate. Pur collocando le differenti “forme di umanità” su una univoca e discutibile scala evolutiva, i primi antropologi contribuirono in modo determinante a riconoscere fra coloro che all’epoca venivano denominati “selvaggi” e “primitivi”, forme culturali significative e degne di essere studiate. La cultura non era più un segno distintivo delle civiltà fornite di scrittura e di tecnologie avanzate, ma era rintracciabile in qualunque gruppo umano, dai pigmei della foresta del Congo agli aborigeni australiani, dagli indios amazzonici agli inuit (eschimesi) dell’Artico.
L’antropologia culturale moderna inizia a costituirsi a cavallo tra Otto e Novecento attraverso una decisa critica all’impianto teorico evoluzionista e, ancor più, per mezzo di una decisiva revisione metodologica. La connessione tra il viaggiare fra le varie forme di umanità e lo studio dell’uomo (anthropos-logos) si fa sempre più stretta. Gli antropologi non si limitano a riflettere sulla diversità culturale nel chiuso delle loro biblioteche supportati da resoconti di viaggio (atteggiamento diffuso fra gli antropologi evoluzionisti), ma optano decisamente per l’osservazione diretta del proprio oggetto di studio. Tra il 1897 e il 1900, nel quadro della North Jesup Expedition, Franz Boas iniziò una intensa ricerca presso i Kwakiutl della costa del Nord-Ovest. Boas, etnografo di origine tedesca, rifondò la disciplina diventando il maestro di almeno due generazioni di antropologi americani. Particolarmente critico nei confronti del metodo comparativo caro agli evoluzionisti, Franz Boas riteneva scientificamente infondate le generalizzazioni inerenti lo sviluppo delle culture umane e, sempre per una estrema aderenza al rigore scientifico, concepiva il lavoro dell’antropologo come basato soltanto sulla raccolta empirica dei dati nell’ambito di specifici gruppi umani. L’obiettivo dell’antropologia di Boas non era quello di rintracciare leggi universali, ma compiere scavi etnografici mirati e rigorosi che permettessero di delineare le particolari conformazioni culturali e rintracciare le cause storiche dei singoli tratti culturali registrati in specifiche popolazioni.
Franz Boas oltre a promuovere, con la collaborazione di molti suoi allievi (fra i più importanti: Alfred Kroeber, Robert Lowie, Edward Sapir, Ruth Benedict), molteplici ricerche etnografiche presso i vari gruppi di Indiani d’America, aprì l’antropologia americana a dialoghi proficui con discipline affini (la psicologia e lo studio delle lingue indigene). Inoltre spronò alcuni allievi a indagare contesti etnografici collocati al di fuori del Nord America; si pensi alle ricerche giovanili di Margaret Mead (1901-1978) a Samoa e agli studi africanistici condotti da Melville Herskovits (1895-1963).
Il passaggio dai viaggi “virtuali” (le grandi rassegne comparative degli evoluzionisti) ai viaggi reali è ancora più evidente nell’antropologia britannica. Anche in questo contesto, il varco al nuovo secolo (il Novecento) e alle nuove metodologie di ricerca antropologica è segnato da una importante spedizione scientifica: la spedizione allo Stretto di Torres (1898-1899) organizzata dall’Università di Cambridge. La spedizione permise l’esperienza diretta a contatto con i nativi e la raccolta di una preziosa collezione di oggetti di interesse etnografico. A questa spedizione ne seguirono altre che aumentarono la consapevolezza nei ricercatori dell’importanza del soggiorno sul campo e dell’osservazione diretta al fine di comprendere la cultura dei nativi. In questo clima di consapevolezza metodologica, viene pubblicato nel 1922 una delle opere più influenti della storia dell’antropologia: Argonauti nel Pacifico Occidentale, scritto da Bronislaw Malinowski , antropologo polacco formatosi a Londra. Il volume, incentrato sull’analisi dello scambio cerimoniale kula effettuato dai nativi delle Isole Trobriand (Melanesia occidentale) si basa sui dati raccolti da Malinowski durante una prolungata ricerca sul campo. Il rigore del metodo (l’osservazione partecipante su un lungo periodo), la brillantezza nella scrittura, il fascino dei mari del Sud, garantiranno al volume e al suo autore un notevole successo e la stima dei colleghi. L’antropologo polacco, interpretando lo scambio cerimoniale kula come un’istituzione che permette ai trobriandesi di mantenere le relazioni sociali fra le diverse isole dell’arcipelago, garantendo la coesione del tutto, prefigura l’approccio funzionalista allo studio delle società. Tale prospettiva, secondo la quale ogni elemento culturale è funzionale al mantenimento della coesione sociale, dominerà l’antropologia britannica per gran parte del Novecento.
A partire dagli anni Venti, l’antropologia culturale contribuisce alla conoscenza delle differenti culture attraverso la stesura di accurate monografie basate sul rigore metodologico di prolungate ricerche sul campo. I modi di vita e le società “primitive” vengono presentate come sistemi coerenti dotati di una logica interna e di una complessità organizzativa che, lungi dall’essere prerogative dell’Europa, caratterizzano il vivere in società in qualunque gruppo umano. Gli antropologi del Novecento contribuiscono a mostrare come la “semplicità”, la “primitività” e “l’irrazionalità” delle altre culture esistono più nei giudizi etnocentrici di noi occidentali che nella realtà. La conoscenza delle culture e delle organizzazioni sociali differenti da quella occidentale permette inoltre di affinare uno sguardo critico nei confronti delle nostre categorie di pensiero che, lungi dall’essere universali, sono anch’esse elaborate in specifici ambiti culturali. Le forme di umanità alternative alla nostra appaiono spesso come residuali e periferiche rispetto alla “via maestra” segnata dalla modernità eurocentrica. L’antropologia culturale contribuisce a smontare questa visione mostrando la pari dignità culturale di percorsi eterogenei e spesso interconnessi. Molti antropologi hanno indagato i sistemi di pensiero “altri” sottolineando come, al di là dell’unità psichica del genere umano, esistono differenti modi di percepire il mondo, costruire categorie cognitive ed elaborare sistemi cosmogonici e religiosi. Questi ambiti di ricerca sono stati particolarmente indagati dagli etnologi francesi sulla scia delle riflessioni di Émile Durkheim (1858-1917), Marcel Mauss e Lucien Lévy-Bruhl . Presso l’Istitut d’ethnologie dell’Università di Parigi (fondato nel 1925) e all’École pratique des hautes études, molti etnologi francesi acquisirono le competenze necessarie per svolgere le proprie ricerche sul campo. Anche in Francia, fu una spedizione (la Dakar-Gibuti del 1930-1931) a inaugurare una stagione particolarmente proficua di ricerche etnologiche. Emblematico è lo studio condotto dal direttore della missione, Marcel Griaule (1898-1956) presso i Dogon dell’Africa occidentale. Griaule ha mostrato come il pensiero cosmogonico dei Dogon, raccontatogli da un anziano cacciatore cieco, è altrettanto complesso, elaborato e profondo delle riflessioni filosofiche occidentali.
Il diffondersi nelle scienze sociali della metafora architettonica (la società descritta “come se” fosse un edificio) ha contribuito a fare in modo che il concetto di struttura diventasse uno dei concetti chiave delle teorie antropologiche del Novecento. Nell’antropologia britannica, la propensione a descrivere le società umane come insiemi organici e coerenti caratterizzati da un accentuato equilibrio interno garantito dall’impianto normativo, istituzionale e rituale, è stato teorizzato nell’ambito dello struttural-funzionalismo di Alfred Radcliffe-Brown (1881-1955), secondo il quale la struttura sociale non è altro che la trama dei rapporti realmente esistenti all’interno di un gruppo. Ancor più orientato a cogliere gli elementi invarianti delle culture, il noto antropologo francese Claude Lévi-Strauss svincola il concetto di struttura dalla sua forma fenomenica, optando per una definizione di struttura intesa come categoria astratta dello spirito umano.
I diversi usi in antropologia del concetto di struttura favoriscono il diffondersi di prospettive di ricerca e di analisi teorica particolarmente statiche e sincroniche. A partire dagli anni Cinquanta del Novecento, molte scuole antropologiche si allontaneranno da tali prospettive ricollocando al centro della riflessione tematiche quali il conflitto, le strategie individuali, la lotta e le contraddizioni interne ai sistemi sociali (Max Gluckman, Victor Turner); altri antropologi recupereranno il rapporto con la dimensione storica (Georges Balandier, Marshall Sahlins) e favoriranno un rinnovato dialogo con il marxismo (Claude Meillassoux, Maurice Godelier).
Nella seconda metà del Novecento, uno dei percorsi più interessanti e innovativi dell’antropologia culturale è la propensione allo studio delle culture in base a un approccio interpretativo secondo il quale l’antropologia non può assumersi il compito di spiegare fatti puri, fare emergere strutture inconsce o rintracciare leggi generali. Questa prospettiva, che è possibile far risalire al rifiuto di Edward Evan Evans-Pritchard (1902-1973) di considerare l’antropologia una scienza, definisce come oggetto di studio le pratiche sociali e i significati indigeni. In questa prospettiva, Clifford Geertz , sottolineando l’importanza degli aspetti simbolici dell’agire sociale, ritiene che l’antropologia debba contribuire a tradurre le altre culture come fossero “testi agiti” affidandosi non tanto a un apparato concettuale analitico, formale e tipologico, quanto ai significati indigeni. Negli ultimi decenni del Novecento, la maggiore consapevolezza del rapporto problematico che si crea sul campo fra osservatore e osservato ha fatto emergere, da un lato, considerazioni teoriche inerenti alla circolarità ermeneutica, dall’altro, riflessioni e dibattiti sulla natura del lavoro etnografico anche in relazione alle questioni di genere e di politica coloniale e postcoloniale.